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Notizie 16-30 settembre 2017



"... affinché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre"

Gesù ad alta voce esclamò: «Chi crede in me, crede non in me, ma in colui che mi ha mandato; e chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io sono venuto come luce nel mondo, affinché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se uno ode le mie parole e non le osserva, io non lo giudico; perché io non sono venuto a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. Chi mi respinge e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho annunciata è quella che lo giudicherà nell'ultimo giorno. Perché io non ho parlato di mio; ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha comandato lui quello che devo dire e di cui devo parlare; e so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me».
Dal Vangelo di Giovanni, cap. 12

 


Turchia: striscioni antisemiti contro l’alleanza Kurdistan-Israele

Striscioni anti-israeliani in tutta la Turchia attaccano il Presidente curdo, Masoud Barzani, accusandolo di lavorare per creare il "grande Israele"

In Turchia non devono aver digerito tanto bene né il referendum per l'indipendenza del Kurdistan né l'appoggio dato da Israele alle legittime pretese di libertà del popolo curdo.
Nelle scorse ora in diverse parti della Turchia sono apparsi striscioni che incitano all'odio anti-ebraico e attaccano il Presidente del Kurdistan, Masoud Barzani, accusandolo di essere ebreo e di voler costruire un "grande Israele"...

(Right Reporters, 30 settembre 2017)


Jonas Fricker si è dimesso

Il consigliere nazionale dei Verdi di Argovia è stato travolto dalla polemica per aver paragonato il trasporto dei maiali alla deportazione degli ebrei.

 
Jonas Fricker
Jonas Fricker si è dimesso. Giovedì, durante il dibattito sull'iniziativa popolare "Per alimenti equi", l'argoviese aveva affermato in aula che il trasporto in massa di maiali era come la deportazione degli ebrei ad Auschwitz.
L'esponente ecologista, poco dopo, si era scusato "in tutti i modi" con la Camera e la Comunità ebraica svizzera per l'incauto paragone (lui aveva parlato di "confronto irragionevole"), ma le sue parole non hanno fermato le critiche. I suoi compagni di partito lo hanno condannato e sui social media i commenti negativi si sono moltiplicati.
Dopo due giorni di riflessione il 42enne di Baden eletto nel 2015 ha deciso di lasciare la carica. Lo ha annunciato lui stesso pubblicando su twitter la lettera di dimissioni inviata al presidente dei Verdi di Argovia nella quale si assume la responsabilità del suo errore e rinnova le sue scuse.
La lettera di dimissioni

(RSI.ch, 30 settembre 2017)



Traduciamo la lettera perché può essere di esempio. I commenti aggiunti su twitter sono tutti positivi.

Baden, 30 settembre 2017
Dimissioni dal Consiglio Nazionale

Signor Presidente, caro Dani,
nella sessione invernale che inizia il 27 novembre darò le dimissioni dal Consiglio Nazionale.
Il paragone che ho fatto giovedì scorso durante il dibattito nel Consiglio nazionale è stato offensivo e inappropriato. Con cuore triste chiedo scusa per la mia dichiarazione. L'Olocausto è stato un crimine terribile, non sono possibili confronti. Ringrazio Jonathan Kreutner della Federazione ebraica svizzera e Josef Bollag della Comunità ebraica del Baden, che hanno accettato le mie scuse.
Ho deciso di dimettermi dal Consiglio Nazionale. Questo è il segno più forte che posso dare. Credo che ci sia bisogno di questa chiarezza in un momento in cui la politica di disprezzo delle persone diventa sempre più diffusa. La mia affermazione può essere interpretata come antisemita o come forma di disprezzo degli altri, e così è accaduto. Non volevo dire questo, ma l'errore è esclusivamente mio. Mi dissocio con tutta la forza dalla mia dichiarazione.
Le mie dimissioni sono anche un segno per il mio partito, il cui valore umano condivido pienamente. Ho svolto il mio compito come membro del Consiglio Nazionale con molto impegno personale e passione e sono grato per questo tempo intenso e istruttivo. Vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno eletto per questo ufficio o mi hanno sostenuto nel cammino. La politica verde è e resta importante!
Ti saluto cordialmente,
Jonas


Si ispira al Bauhaus la prima opera in Israele di Richard Meier

di Michela Pesenti

La "torre d'avorio" di Richard Meier nel cuore di Tel Aviv
A 82 anni l'archistar Richard Meier continua a pieno ritmo la sua attività di progettazione, come dimostra la recente conclusione dei lavori per il suo primo progetto in Israele, una torre residenziale "d'avorio" nel cuore di Tel Aviv, tra Rothschild Boulevard e Allenby Street, in linea con il fascino degli oltre 4mila edifici in stile Bauhaus della Città Bianca, la più alta concentrazione mondiale che ha fatto sì che la città fosse proclamata patrimonio mondiale dell'Unesco.
Una torre di 42 piani caratterizzata da una facciata a doppio strato composta da vetro trasparente e un delicato schermo in lamiera bianca, ispirato al tradizionale abbigliamento mediorientale, a cui si aggiungono balconi angolari: un mix di elementi che crea un reticolo di luci e finestre che garantiscono un'abbondante illuminazione naturale e una splendida vista verso il mar Mediterraneo per gli appartamenti dei piani più alti. Ispirata ai principi di funzionalità ed essenzialità delle forme del Bauhaus, la struttura prevede alla sua base uno spazio commerciale e una piazza per i cittadini collocata all'ombra dei grandi sbalzi di vetro, creando così un rapporto con il tessuto urbano esistente e le volumetrie di Rothschild Boulevard.
«Il design degli edifici della Città Bianca - ha commentato Richard Meier - mi ha fatto un'impressione profonda quando ho visitato Israele molti anni fa, per cui lavorare in questo contesto è stata una mia aspirazione per molto tempo. La mia speranza è di riuscire, attirando e catturando la luce e le vedute senza tempo di questa città in un nuovo layout residenziale, caratterizzato da un design non molto diffuso in questo territorio, a riunire tutti gli elementi esistenti, in una nuova prospettiva. Forma, spazio e luce sono riuniti in un edificio che guarda sì al futuro ma è consapevole del suo passato e incarna valori di permanenza e continuità».

(habiMat, 29 settembre 2017)


Tennis - Dudi Sela si ritira a match in corso per motivi religiosi

Curioso ritiro di Dudi Sela. Il numero 77 del mondo ha alzato bandiera bianca a inizio terzo set nel match di quarti di finale contro Alexandr Dolgopolov all'ATP 250 di Shenzhen. Il motivo non era legato a un infortunio fisico, ma a questioni religiose.
L'israeliano ha infatti abbandonato il campo prima dell'inizio dello Yom Kippur, letteralmente "giorno dell'espiazione", il giorno più santo e solenne per la religione ebraica.
Gli ebrei praticanti in quel giorno devono avere astinenza totale dal tramonto del giorno precedente fino al tramonto del giorno dello Yom Kippur (che quest'anno cade il 30 settembre). Proprio quando il tramonto si stava avvicinando, e non è un caso, Sela si è ritirato dopo - tra l'altro - aver vinto il secondo set, rinunciando quindi alla possibilità di giocarsi un posto in semifinale che gli avrebbe consentito di mettere in cascina 90 punti ATP e 33.925 dollari di montepremi.
Sela era consapevole di questo importante evento religioso già prima della partita e infatti aveva chiesto agli organizzatori di cominciare come primo match alle 14:00 ora locale in modo da poter terminare con certezza prima del tramonto che ieri a Shenzhen era previsto per le 18:12, ma è stato selezionato come secondo incontro del giorno.
Durante lo Yom Kippur, gli ebrei devono entrare in un'intensa preghiera e non devono indossare scarpe di pelle, utilizzare apparecchi elettronici e sono vietati perfino i pantaloncini per il mare.

(Tennis World, 30 settembre 2017)


Amos Genish: lo stratega della telefonia con il debole per la fibra

di Gianluca Martucci

 
                                Flavio Cattaneo                                                                         Amos Genish
C'è stato bisogno di attendere più di due mesi per ufficializzare la nomina dell'amministratore delegato israeliano Amos Genish, il cui nome era stato percepito già prima che la poltrona di CEO diventasse vacante. Il 21 luglio 2017 Flavio Cattaneo rassegnava le proprie dimissioni al resto del Consiglio di Amministrazione di Telecom Italia, concludendo definitivamente la sua esperienza il 28 luglio con la presentazione dei dati semestrali di cui gli si rende merito. Fatto sta che il nome di Amos Genish, in quel mese ancora Chief Convergence Officer di Vivendi, trapelava in forza delle ipotesi che lo vedevano in Telecom Italia per affiancare Flavio Cattaneo e cercare di attenuare le frizioni tra quest'ultimo, i francesi e il governo italiano.
  L'ingresso di Amos Genish nel colosso francese sarebbe assimilabile a quello di una promessa del calcio sudamericana rapito dagli occhi del talent scout di una grande squadra europea in trasferta. Il manager israeliano ha iniziato la sua carriera lavorativa da capitano nell'esercito israeliano nella guerra del Libano del 1982. Laureato in Economia e Contabilità all'università di Tel Aviv, dal 1986 al 1989 diventa dipendente della Somekh-Chaikin, che in futuro rientrerà nel circuito di KPMG International, società che si occupa di fornire servizi professionali, compresi quelli della verifica della correttezza dei dati di bilancio e delle procedure d'azienda (audit) e della contabilità, mansioni di cui si occupava Genish. La successiva esperienza di manager in Edunetics Ltd, la start-up israeliana che sviluppava sistemi curricolari multimediali, prevalentemente per il mercato scolastico negli USA, gli permette di atterrare a Washington dopo la quotazione della società al Nasdaq e di diventarne CEO nel 1995.
  È il soggiorno nella capitale degli Stati Uniti d'America a offrirgli l'opportunità per il futuro: Edunetics viene venduta nel 1997 alla Steck Vaughn e Genish decide di accettare la proposta fatta dall'israeliano Joshua Levinberg conosciuto proprio a Washington. Levinberg, cofondatore della Gilat Satellite Networks che produceva sistemi di comunicazione satellitari VSAT. Nel 1998 Levinberg e Genish decisero di esportare i sistemi satellitari nelle aree remote del Brasile, sfruttando le licenze della vecchia compagnia telefonica nazionale Telebras, messe in vendita dal governo. Nasce in questo modo Global Village Telecom, il villaggio globale che avrebbe dovuto mettere a disposizione la rete telefonica a 38 milioni di persone. Da un progetto improvvisato, con solo l'equivalente di 30.000 euro investiti all'inizio, Genish avrebbe rivenduto la società a Vivendi nel 2009 per 4,8 miliardi di dollari. Da una scommessa di due israeliani che decisero di resistere alla bolla speculativa di Internet e alla disastrosa svalutazione del Real brasiliano, negoziando con i numerosi creditori, nacque un'offerta vastissima tra telefonia mobile, rete fissa, banda larga e servizi pay TV.
  La cessione di GVT a Vivendi segnò l'ingresso di Genish nel vertice collegiale della società francese nel 2011. L'affare in assoluto più grande fu rivendere GTV agli spagnoli di Telefónica nel 2014 quasi al doppio del valore per il quale era stata venduta a Vivendi. Se parte del riscatto dell'operazione fu la cessione ai francesi dell'8,3% di Telecom Italia posseduto dagli spagnoli, la strategia vincente per questi ultimi sarà la fusione tra Vivo Telefónica e GVT, importante per la fornitura dei servizi pay TV e dei chilometri di banda ultralarga. In questo affare tra colossi industriali Genish ricoprirà il ruolo di amministratore delegato di Telefónica Brasil da giugno 2015 a dicembre 2016.
  Il suo rientro in Vivendi da Chief Convergence Officer dal 4 gennaio 2017 ha spianato la strada per l'ingresso in Telecom Italia, segnando una cesura nella sua carriera nelle telecomunicazioni in America Latina, non potendo esercitare concorrenza nel mercato in virtù delle condizioni della risoluzione contrattuale con Telefónica. In compenso Genish può vantare di far parte della direzione di Itaò Unibanco Holding S.A., la più grande banca brasiliana e del consiglio di rappresentanza di Vevo, l'azienda leader mondiale in video hosting musicale.
  L'affidamento ad Amos Genish da parte del vertice di Telecom Italia pare essere in linea con la necessità di definire il piano industriale 2018-20 e la joint venture di Tim con Canal+, che rappresentano due priorità nella tabella di marcia di Tim. Non indifferente è anche la vitalità che l'israeliano conserva dalla diffusione della banda larga nelle aree remote in Brasile, argomento nel quale Telecom Italia deve scontare gli attriti con il governo per i bandi Infratel.
  In queste strategie le prime parole di Genish da amministratore delegato di Telecom Italia presagiscono una totale sintonia con gli obiettivi da realizzare:
    "Il nostro obiettivo è trasformare TIM in una vera Digital Telco. Il nostro programma DigiTIM si basa su alcuni principi fondamentali che si concentrano sull'offerta di una customer experience superiore, facendo leva sulla digitalizzazione per migliorare l'interfaccia con i nostri clienti; smart analytics ottenute attraverso big data per personalizzare i nostri prodotti e servizi; e l'aggiunta di video e contenuti multimediali oltre alla nostra connettività che è la best-in-class per garantire un'offerta sempre più convergente, continuando comunque a investire nella nostra copertura ultra-broadband per supportare l'evoluzione della società Gigabit"
Ad Amos Genish spetteranno, oltre alle funzioni di rappresentanza legale, anche i poteri pertinenti all'attività sociale (eccetto quelli relativi agli altri organi del CdA), la funzione di proporre al Consiglio di Amministrazione i piani strategici, industriali e finanziari, attuandoli e sviluppandoli, e la responsabilità di definire gli assetti e tutte le responsabilità organizzative per garantire la gestione e lo sviluppo del business in Italia e Sud America.

(Mondo Mobile Web, 30 settembre 2017)


Quel fioraio egiziano di Trastevere che augura "Shanà Tovà" agli ebrei

Lettera al direttore di La Stampa

Caro Direttore, l'altro giorno, passando davanti al mio fioraio a viale Trastevere ho visto che aveva ornato il tendone verde scuro con due grandi striscioni verticali bianchi con la scritta «Shanà Tovà» stampata a fianco di una mela. Mi sono avvicinata, ho chiesto di cosa si trattasse e mi ha risposto che erano gli auguri di Buon Anno per il capodanno ebraico, che cade in questi giorni. Poiché il fioraio è egiziano, gli ho chiesto perché un arabo musulmano fa gli auguri agli ebrei per il nuovo anno e lui mi ha risposto: «Perché sono clienti come tutti gli altri». E dunque a capodanno acquistano fiori. È una storia che mi ha colpito, per questo l'ho voluta condividere con lei.
Luisa Monti Roma


Cara Luisa, l'episodio che descrive suggerisce cosa può avvenire in una società multiculturale. La sovrapposizione fra identità ed etnie porta ad una coesistenza di fatto che genera conoscenza reciproca e dunque interazione fra individui differenti. Non c'è alcun dubbio che il proliferare di piccole attività commerciali a Roma, gestite da maghrebini, porta i proprietari ad interagire con la clientela cittadina composta da cattolici, protestanti, atei e anche da ebrei. Perché gli ebrei vivono lungo il Tevere dal tempo di Cesare ovvero da oltre duemila anni e fanno parte del tessuto cittadino sin da prima ancora della nascita del Cristianesimo.
A tale riguardo ciò che colpisce del suo racconto è come fotografi un angolo di Trastevere, ovvero il quartiere dove la città è nata ed anche il luogo dove i primi ebrei, provenienti dall'Antica Giudea, approdarono risalendo il corso del Tevere. È come se vi fosse una continuità ideale fra ciò che avvenne allora ciò che avviene oggi. Se allora furono gli ebrei i primi migranti a insediarsi a Roma, oggi gli arabi del Maghreb sono gli ultimi a varcare il Mediterraneo per creare attività commerciali e realtà famigliari. E Roma è ospitale oggi come lo fu oltre duemila anni fa. Confermandosi uno dei crocevia dell'evoluzione del Mediterraneo.
Ecco perché quel fioraio egiziano e i suoi clienti ebrei, accomunati dall'inizio dell'anno 5778, testimoniano una delle qualità più antiche della Città Eterna e a ben vedere dell'Italia intera: la capacità di far convivere identità lontanissime fra loro.
Maurizio Molinari


(La Stampa, 30 settembre 2017)


Prima di Israele
      Articolo OTTIMO!


Cento anni fa la Dichiarazione di Lord Balfour a favore del movimento sionista. Le accuse postume e antistoriche dell'Autorità palestinese.

di Antonio Donno
    "Ma ora che sono giunto a conoscere l'ambiente viennese in cui egli crebbe, rimango stupito della grandezza di Herzl, della profondità della sua intuizione, che lo rendeva capace di comprendere tanta parte del nostro mondo" (Chaim Weizmann, "La mia vita per Israele")
Che la Dichiarazione di Lord Balfour, ministro degli Esteri del governo britannico di Lloyd George, rilasciata in forma di una lettera a Lord Rothschild, massimo esponente dell'ebraismo britannico, il 2 novembre 1917, nella fase finale della Grande guerra, sia un atto di consolidato valore diplomatico a favore del movimento sionista, diretto da Chaim Weizmann, è incontestabile. E lo è per il fatto che tutto ciò che è scaturito nei decenni successivi, fino alla nascita dello stato di Israele, il 14 maggio 1948, è un dato di fatto radicato nella storia. Che, oggi, il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, sostenga: "Gli inglesi non avevano alcun diritto di garantire agli ebrei ciò che essi hanno avuto, e gli ebrei non avevano alcun diritto di accettare", è un'affermazione antistorica, fondata sull'illusione di cambiare i fatti a un secolo di distanza da quegli avvenimenti.
 
Chaim Weizmann (a destra) con il giornalista ebreo americano Meyer Weisgal e il fisico Benjamin M. Bloch
  Innanzitutto, al momento della Dichiarazione Balfour, non esisteva alcun organismo internazionale deputato a risolvere le questioni generali, come sarà successivamente con la Società delle Nazioni e con l'Organizzazione delle Nazioni Unite. La Gran Bretagna ricopriva un ruolo egemone nel sistema politico internazionale, incontestato e nel pieno della sua supremazia. Cosi, la Dichiarazione Balfour provenne da una nazione che occupava un posto centrale sulla disputa di gran parte delle questioni internazionali, soprattutto in quelle mediorientali, dove Londra godeva di una superiorità consolidata in decenni di controllo della regione. In secondo luogo, nella Conferenza di San Remo del 1920, la nata Società delle Nazioni, il primo organismo internazionale il cui fine era quello di risolvere le crisi dopo gli orrori della Grande Guerra, attribuì alla Gran Bretagna il mandato fiduciario sulla Palestina, con il compito di favorire l'immigrazione ebraica e l'insediamento di una national home ebraica. Anche ammettendo che il vizio della Dichiarazione Balfour consistesse nel fatto che la Gran Bretagna avesse effettuato un atto unilaterale, il successivo conferimento del mandato fiduciario fu una soluzione voluta da un organismo internazionale, non più da una sola nazione, per quanto la più grande potenza globale. Infine, nel 1922, la Società delle Nazioni inserì integralmente la Dichiarazione Balfour all'interno del documento che conferiva a Londra il mandato sulla Palestina. Furono atti che posero il sigillo internazionale a una decisione storica.
  I fatti della storia sono indiscutibili, né si può pensare che quei fatti possano essere cancellati con un colpo di spugna per volontà di Mahmoud Abbas. Né, tantomeno, ha valore l'affermazione palestinese che la Dichiarazione Balfour fosse contraria al principio dell'autodeterminazione dei popoli, cioè in questo caso dei palestinesi. E' un fatto ben strano che i capi palestinesi si appoggino ora al principio wilsoniano sull'autodeterminazione dei popoli, inserito nei principi fondamentali della Società delle Nazioni, e nello stesso tempo contestino l'atto della stessa Società delle Nazioni in cui è inserita la Dichiarazione Balfour.
Dopo la pubblicizzazione della Dichiarazione Balfour, i capi arabi non si fecero avanti per richiedere l'autodeterminazione per i palestinesi, per il semplice fatto che per loro non esisteva un popolo palestinese.
In sostanza, una cosa è buona quando conviene, cattiva quando non conviene. Inoltre, v'è un altro aspetto di primaria importanza, sempre a proposito del principio dell'autodeterminazione. Dopo la pubblicizzazione della Dichiarazione, e, ancor più, dopo l'attribuzione del mandato fiduciario a Londra, mentre i sionisti esultavano per aver ottenuto un documento fondamentale per il raggiungimento del loro scopo e un mandato che li soddisfaceva pienamente, i capi arabi non si fecero avanti per richiedere l'applicazione dell'autodeterminazione per i palestinesi; e questo, per il semplice fatto che nella mentalità araba non esisteva un popolo palestinese. Ciò che essi richiedevano era che il mandato riguardasse il giovane regno di Siria, con a capo Feisal, che si era autoproclamato re di quello stato. Quindi, la Palestina avrebbe dovuto essere parte di una "Grande Siria", dalla quale, però, nel 1920, Feisal sarebbe stato estromesso dai francesi. In sostanza,
  l'atto della Società delle Nazioni metteva l'accento sulla situazione eccezionale del popolo ebraico, ma soprattutto enfatizzava il significato dello speciale diritto degli ebrei di fare ritorno in Eretz lsrael, la Terra di Israele, dove la civiltà ebraica era nata ed era fiorita, molti secoli prima dell'islamizzazione della regione.
  Quali furono i motivi che spinsero il governo inglese a promulgare la Dichiarazione di Balfour? Non certo soltanto i particolari meriti di Chaim Weizmann, grande chimico che, con la sua scoperta, (la cordite) aiutò non poco i britannici sul campo di battaglia, relativamente al potenziamento degli esplosivi. Le vere motivazioni erano di carattere politico e strategico: Londra mirava a consolidare la propria egemonia sul medio oriente e sul Mediterraneo orientale, dando la possibilità ai sionisti di fondare uno stato ebraico sotto la propria tutela. Più precisamente, l'eccezionale opera diplomatica di Weizmann si rivolse non solo al governo britannico, ma anche allo stesso movimento sionista - principalmente britannico - affinché si convincesse di come le sorti dell'ebraismo fossero intimamente legate a quelle dell'Intesa nella guerra contro gli Imperi centrali. Fu un'opera estremamente difficile, perché molti esponenti di spicco dell'ebraismo di quel paese erano contrari alla politica sionista, ritenendo che potesse incrinare i rapporti consolidati tra l'ebraismo (soprattutto le consorterie ebraiche più ricche e più legate al potere, capeggiate da Edwin Montagu, acceso antisionista) e il governo inglese. Al contrario, si venne a creare uno stretto legame tra gli interessi sionisti e quelli del War Cabinet inglese: i sionisti volevano l'estromissione degli Ottomani dalla Palestina ed esattamente la stessa cosa volevano i britannici (e i francesi), per porre un altro punto fermo alla propria egemonia sul medio oriente. Ancora: i sionisti desideravano che un eventuale protettorato sulla Palestina fosse affidato a Londra, soprattutto dopo la Dichiarazione di Balfour, e gli inglesi erano perfettamente d'accordo, ovviamente.
  Se si esaminano più in profondità i passi della politica diplomatica di Weizmann, gli aspetti della vicenda appaiono ancor più chiari. Weizmann e i suoi collaboratori, forti ormai di una buona considerazione anche nel continente europeo, frutto di una capacità diplomatica di grande livello, circolarono in Europa, e soprattutto in Gran Bretagna, Francia e Italia, sostenendo che l'appoggio al sionismo avrebbe grandemente favorito la vittoria dell'Intesa e prodotto grandi benefici al tavolo delle trattative. Si trattava evidentemente di esagerazioni messe in campo al fine di creare un sostegno generale all'atto britannico con il quale Londra si impegnava a favorire una vasta immigrazione ebraica in Palestina e, come conseguenza, la creazione di una national home per gli ebrei che si erano stanziati o che si sarebbero stanziati nella regione. Tuttavia, al di là di queste dichiarazioni che avevano scarsa base nei fatti, tutto contribuì a creare un clima di favore nei confronti del movimento sionista.
  Un ruolo particolare svolsero gli Stati Uniti di Woodrow Wilson nella vicenda. Wilson dette la sua approvazione alla Dichiarazione di Balfour solo alla fine dell'agosto del 1918, con una lettera inviata al rabbino Stephen Wise, esponente di spicco del sionismo americano, in occasione di Rosh haShana, il capodanno ebraico. Perché tanto ritardo? Il primo dato fondamentale consiste nella situazione tutta particolare degli ebrei presenti negli Stati Uniti, la cui condizione non era paragonabile a quella dei milioni
Quando Louis Brandeis, giudice della Corte suprema americano, dette vita a un movimento sionista negli Stati Uniti, esso si pose in stretta connessione con i valori liberali americani, in quel tempo esaltati dal clima di progressismo.
di ebrei dell'Europa orientale e della Russia zarista: essi godevano dei diritti politici e civili degli americani e l'antisemitismo era un fattore del tutto marginale nella società americana. Quando Louis Brandeis, giudice della Corte suprema americano e amico di Wilson, dette vita a un movimento sionista negli Stati Uniti, esso si pose in stretta connessione con i valori liberali americani, in quel tempo esaltati dal clima di progressismo. L'"americanizzazione del sionismo" fu il fattore che contraddistinse il movimento di Brandeis: il sionismo era perfettamente compatibile con l'americanismo. Molti ebrei, tuttavia, temevano che l'adesione al sionismo producesse l'accusa di "doppia lealtà" da parte degli americani, con le gravi conseguenze di ordine politico ed economico che potevano derivare da un'eventuale separatezza rispetto al contesto liberale americano che aveva accolto milioni di ebrei tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento. Fu allora che Brandeis elaborò e diffuse una nuova, originale visione del liberalismo americano. Il suo "nuovo liberalismo" tracciava una netta distinzione tra il concetto di "nazione" e quello di "nazionalità". Estendendo a quest'ultima le garanzie e i diritti di libertà, il liberalismo stesso si rendeva disponibile a un maggiore arricchimento sul piano culturale e a un rafforzamento delle strutture democratiche della nazione. Veniva a cadere, di conseguenza, la contraddizione insita nel concetto di "doppia lealtà", nel momento in cui si poteva essere leali sia agli Stati Uniti in quanto "nazione", sia al "nazionalismo" ebraico, cioè al sionismo. Il sionismo, dunque, era perfettamente compatibile con l'americanismo. Un arricchimento del liberalismo che convinse molti ebrei riluttanti e che permise la nascita dell'American Federation of Zionists, finendo per convincere Wilson.
  Ma la vera svolta nella decisione del presidente americano di accettare la Dichiarazione di Balfour scaturì dagli esiti della guerra. Quando Wilson lanciò l'idea di un "nuovo ordine mondiale", aveva in mente un mondo fondato sulla cooperazione politica e sulla liberalizzazione dell'economia. Ciò escludeva, di fatto, l'egoismo delle grandi potenze. Al contrario, quando l'Impero ottomano entrò in guerra al fianco degli Imperi centrali, fu del tutto evidente che il crollo ottomano avrebbe innescato un processo spartitorio tra Gran Bretagna, Francia e Russia, esattamente l'opposto della "dottrina Wilson". Wilson tentò vanamente di persuadere la Turchia a uscire dall'alleanza con gli Imperi centrali, firmando una pace separata, la qual cosa avrebbe garantito la sussistenza dell'Impero e impedito la spartizione delle sue spoglie. Dal canto suo, Weizmann, avendo compreso quali sarebbero stati gli esiti della guerra sulla sopravvivenza dell'Impero ottomano, operò intelligenti pressioni sul War Cabinet britannico perché si giungesse finalmente a una dichiarazione a sostegno di una national home ebraica in Palestina nella forma di un protettorato britannico. In sostanza, Weizmann e i leader sionisti non erano contrari alla filosofia wilsoniana sul "nuovo ordine mondiale", ma il loro obiettivo era ben preciso: auspicavano con forza che la Turchia crollasse e che il suo impero si sgretolasse, che le grandi potenze si insediassero nella regione e, in modo particolare, che la Gran Bretagna controllasse la Palestina a tutto favore dell'obiettivo sionista. Un realismo di straordinaria efficacia.
  Solo quando l'Impero ottomano crollò e si disgregò, come era prevedibile, Wilson prese atto della realtà. Pochi mesi dopo la fine della guerra, il presidente americano accettò la Dichiarazione di Balfour: il movimento sionista aveva concluso la sua prima battaglia con un successo clamoroso, preludio indispensabile per la nascita dello Stato di Israele il 14 maggio 1948. Chaim Weizmann era stato l'artefice di questo successo. Lloyd George, parlando a un membro del suo Gabinetto, disse: "Quando noi due saremo dimenticati, a quest'uomo verrà eretto un monumento in Palestina".

(Il Foglio, 30 settembre 2017)


Israele-Italia: l'intervista a Ofra Farhi

di Domenico Letizia

 
Ofra Farhi
Novità in corso per la diplomazia israeliana in Italia. Da qualche giorno l'Ambasciata di Israele in Italia ha dato il benvenuto alla nuova vice capo missione, ministro plenipotenziario Ofra Farhi che succede al vice ambasciatore Dan Haezrachy, più volte ospite delle nostre pagine. Con Ofra Farhi tentiamo di approfondire l'attualità dei rapporti diplomatici tra Italia e Israele e uno sguardo alle politiche di genere nel Paese.

- Può presentarsi ai nostri lettori descrivendoci le sensazioni iniziali in questi primi giorni di mandato?
  In primis, mi permetta di ringraziarla per quest'opportunità e per l'amicizia che porta verso lo Stato d'Israele. Ho l'onore di essere la vice capo missione diplomatica di Israele a Roma. Per quanto mi riguarda, si tratta di un ritorno, visto che ho già servito, in questo importante Paese come addetta culturale. Ritornata in Israele, quindi, ho ricoperto l'incarico di direttrice del Dipartimento Economico per l'Eurasia, un ruolo che mi ha permesso di visitare numerosi paesi di quella regione, geopoliticamente strategica. Per quanto concerne le mie sensazioni, ovviamente sono molto emozionata, ma anche molto onorata. Sono sentimenti che, in queste prime settimane di lavoro, non riesco a godermi pienamente, perché davvero gli impegni sono numerosi.

- Quali proposte e quali prospettive intende intraprendere e rafforzare nel corso del suo mandato?
  Arrivo in una realtà dove le relazioni diplomatiche sono già ottime. Italia e Israele sono due paesi alleati, che condividono accordi in ogni settore possibile, dal turismo alla sicurezza. Inoltre, proprio in questo Paese esiste la più folta delegazione di parlamentari membri dell'associazione interparlamentare di amicizia Italia-Israele, presieduta dall'onorevole Maurizio Bernardo (che ringrazio). I miei obiettivi sono quelli di contribuire al rafforzamento di queste relazioni bilaterali, apportando il mio personale contributo, in base alla mia esperienza politica e culturale. Quest'anno, ci tengo a ricordarlo, festeggeremo i settant'anni delle relazioni diplomatiche tra Israele e Italia. Per l'occasione, saremo impegnati in numerosi eventi di celebrazione di quest'anniversario, che riteniamo davvero importante.

- Lei, ha già avuto modo di partecipare a degli eventi nel nostro Paese, come, ad esempio, l'inaugurazione del Festival Internazionale di Letteratura e Cultura Ebraica, svoltosi al Palazzo della Cultura a Roma. Può descriverci il perché e l'importanza di tali incontri?
  La cultura è un veicolo fondamentale delle relazioni, sia interpersonali che intergovernative. Attraverso gli scambi culturali, infatti, si possono davvero conoscere le ricchezze umane di un Paese, permettendo spesso anche il superamento di barriere derivate dalla non conoscenza dell'altro. Israele, in questo senso, offre davvero tantissimo, non solo nel settore della letteratura, da lei menzionato, ma anche in numerose altre discipline umanistiche. Penso alla musica, all'arte contemporanea e alla danza. L'Italia è uno dei paesi ove Israele ha deciso di investire di più a livello culturale, proprio per il legame che il popolo israeliano sente con quello italiano. In questo senso, mi permetta di ringraziare il nostro attuale addetto culturale Eldad Golan, per il prezioso lavoro di questi anni e per gli importanti risultati raggiunti.

- Il Giro d'Italia 2018 partirà da Gerusalemme. L'hanno reso noto gli organizzatori locali. Il giro attraverserà la città vecchia di Gerusalemme, mentre altre due frazioni dovrebbero disputarsi nel sud del Paese e a Tel Aviv. Come leggere tale rapporto tra Italia e Israele attraverso una delle competizioni sportive più amate?
  Penso che sia un grandissimo successo. Gerusalemme è una città unica, capace di racchiudere le grandi tradizioni delle tre religioni monoteistiche. Ritengo che i grandi ciclisti che avranno il piacere di prendere parte a questo nuovo Giro d'Italia, potranno sicuramente vivere emozioni fortissime. Non solo ovviamente per Gerusalemme, ma anche per le altre due importanti tappe previste in Israele: quella tra Haifa e Tel Aviv, sulla costa Mediterranea e quella tra Beer Sheva ed Eilat, attraversando il deserto. Credo davvero e ritengo che questa decisione presa dagli organizzatori del Giro d'Italia - una competizione di massimo livello internazionale - rappresenti per Israele un riconoscimento prestigioso, soprattutto per gli sviluppi che il Paese è stato in grado di raggiungere negli ultimi anni. Mi piace pensare di aver in qualche modo contribuito a questo successo, considerando che dieci anni fa sono stata la direttrice generale dell'Unione del ciclismo israeliano e il nostro sogno è sempre stato quello di portare una grande competizione ciclistica in Israele. Diciamo che possiamo dire di aver realizzato questo sogno!

- Nello stato di Israele le donne hanno avuto un ruolo fondamentale all'interno delle famiglie e nella vita pubblica. L'hanno avuto nella politica ma anche nell'esercito, un vero e proprio pilastro del Paese. Oggi vi sono generali donne e lo stesso capo del Sistema penitenziario israeliano è una donna. Anche la diplomazia israeliana vede una consistente presenza femminile. Da donna, può descriverci l'attualità delle politiche di genere nel suo Paese?
  Israele è un miracolo e la sua storia lo dimostra chiaramente. Questo miracolo è stato l'opera di una società capace di restare unita in ogni momento, soprattutto in quelli più difficili. In questo senso, il ruolo della donna è stato fondamentale, non solo come moglie e madre, ma anche come lavoratrice e soldatessa. Posizioni che hanno contribuito, immediatamente, a rendere la donna emancipata e consapevole dei suoi diritti e delle sue potenzialità. Per me, come donna, è un onore poter rappresentare il mio Paese diplomaticamente, contribuendo attivamente alla conoscenza di Israele e alle relazioni con importanti Paesi del mondo. Sottolineo anche che, negli ultimi anni, la presenza di donne nei corsi per i giovani diplomatici appena entrati al ministero, è numericamente uguale a quella degli uomini. Colgo questa occasione anche per dare il benvenuto ad altre due diplomatiche che sono arrivante in questi mesi nella nostra Ambasciata: Michal Gur-Aryeh, la nuova portavoce e Sharon Kabalo, nuova ministro consigliere per gli Affari Economici. Mi permetta di usare quest'occasione per un augurio: noi ebrei abbiamo festeggiato in questi giorni l'anno nuovo. Quindi, come d'uso, mi auguro davvero che l'anno che verrà, sarà per tutti un anno speciale, ricco di successi e di soddisfazioni. Shana' Tova!

(l'Opinione, 30 settembre 2017)


Israele è il solo Stato democratico del Medio Oriente

L'unico in cui gli arabi palestinesi godono di diritti civili e non vivono in regime di terrore

di Diego Gabutti

«Qualunque sia la spiegazione, si può essere sicuri che ogni movimento religioso o sociale che rappresenti l'anti-intellettualismo più aggressivo troverà l'entusiastico sostegno d'un certo numero d'intellettuali cresciuti nella civiltà borghese occidentale, i cui valori essi scartano ostentatamente per umiliarsi di fronte allo splendore di un'inequivocabile barbarie».
   A scriverlo è Leszek Kolakowski, autore di Intellectuals against Intellect, un breve saggio citato da Niram Ferretti in epigrafe al quinto capitolo del suo Il sabba intorno a Israele, un inquietante pamphlet sul «deragliamento» e anzi sullo «sprofondamento della ragione» progressista, sul «palestinismo», sulle nuove forme dell'antisemitismo e sulla quinta colonna jihadista ( e «islamofila», dunque assai peggio che «islamofoba») che occupa dagli anni Settanta dello scorso secolo le nostre università, i nostri giornali, le nostre televisioni e case editrici. Trasformata in un racconto gotico, come nei feuilleton che ispirarono I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il tarocco antisemita dell'Okhrana, la polizia segreta zarista, la verità storica si trasforma nel suo contrario esatto: disinformazia, propaganda e invenzione.
   Alimentata, all'inizio, dagli specialisti del Kgb, poi dalle pompose tirate pro arabe del generale De Gaulle, antimperialista col kepì, la leggenda nera d'Israele è stata perfezionata dai jihadisti arabi (prima dall'Olp di Yasser Arafat, poi dai kamikaze «palestinesi», dagli ayatollah iraniani, da al Qaeda e dall'Isis). Ma è stata l'intellighenzia europea a fare d'Israele il paria delle nazioni, un'«entità» da estirpare, e degli israeliani un popolo demoniaco, che vuole l'annientamento dei pacifici musulmani (come, secondo Hitler, voleva l'annientamento dell'umanità intera, razza padrona in testa). Ferretti racconta la storia di questa «sinistra» neo e post hitleriana, del suo amore per i tiranni, della sua grottesca e spaventevole patologia antisemita e antioccidentale (infatti, «se Israele è il nemico, è perché il nemico è l'Occidente»).
   «Patologia che viene da lontano, affonda nei disastri della mente provocati da idee distorte, da allucinazioni a occhi aperti», scrive Ferretti. «Improvvisamente appaiono altre immagini, si riascoltano altre voci. Giungono da un passato non lontano. Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir a Cuba seduti davanti a Che Guevara, assassino a sangue freddo in nome delle magnifiche sorti e progressive che egli riteneva di incarnare, ed elogiato dal filosofo francese come immagine dell'«uomo perfetto»; Alberto Moravia che loda la virtù della miseria cinese durante il regno del terrore di Mao, poiché «l'uomo nasce sfiorito di tutto, ignudo come le fiere delle foreste» o Michel Foucault elettrizzato dalla rivoluzione khomeinista definita «la forma più moderna di rivolta», e di nuovo il vecchio Sartre in partenza per Teheran a omaggiare un altro modello se non di perfezione umana, tuttavia d'affrancamento rivoluzionario».
   E ancora: «Nel 2009, il caudillo sudamericano Hugo Chévez riceve in Venezuela Mahmud Ahmadinejad, il più accanito negazionista tra i leader musulmani dell'epoca, e abbracciandolo lo chiama un «compagno rivoluzionario», definendo invece Israele «il braccio armato omicida dell'impero americano». Anche l'Italia ha fatto la sua parte. Sono dell'estate del 2014, durante l'ultimo conflitto a Gaza, le dichiarazioni di Gianni Vattimo, ex filosofo del pensiero debole ed ex parlamentare di sinistra, a favore di Hamas. Durante un programma radiofonico invitò volontari europei a partire per Gaza per unirsi al movimento islamico contro Israele. [. .. ] Recensendo Towards a new Cold War, un'opera di Noam Chomsky del 1982, Walter Laqueur [. .. ] descrive il libro come «un trattato così squallido, un pezzo di propaganda così malfatto, una montatura così risibile, intellettualmente inutile e moralmente grottesca, una parodia di erudizione che ricorda i peggiori eccessi dell'hitlerismo e dello stalinismo».
   Chomsky, Sartre, Vattimo (nel suo piccolo) e gli altri sanno benissimo che quel che dicono è peggio che sbagliato: è insensato e ridicolo. Solo degli imbecilli (e non tutti loro lo sono, ma soltanto alcuni) possono credere realmente che le satrapie islamiche, i regimi assassini mediorientali e le bande armate di fanatici tagliagole jihadisti, tutti questi nemici conclamati della democrazia e del diritto in ogni sua forma, si stiano battendo «per la libertà», e per di più contro il solo Stato democratico della regione, l'unico in cui gli arabi cosiddetti «palestinesi» godano di diritti civili e non vivano in un regime di terrore. Eppure, scrive Ferretti, «è difficile sbarazzarsi della vulgata che costoro propongono. La narrativa anti-israeliana e anti-occidentale è tenace, resistente, seducente perché è propagata nel nome della «giustizia», dei «diritti umani», delle «vittime». E una narrativa del riscatto, redentiva, palingenetica, solo che si tratta d'una truffa, d'un gigantesco inganno».
- Niram Ferretti, Il sabba intorno a Israele. Fenomenologia di una demonizzazione, pp. 228, Lindau 2017, 19,00 euro, eBook 12,99 euro.

(ItaliaOggi, 30 settembre 2017)


Riecco la cortina di ferro

L'ovest è liberaldemocratico, multiculturale e post religioso. L'est è democratico-illiberale, nazionalista e cristiano. ''Una diversità che nasce dallo choc del passato comunista'' .

di Giulio Meotti

"L'est è cinquant'anni indietro rispetto all' Europa occidentale nel rapporto con gli acidi della post mo- dernità", dice Weigel "l paesi con la più forte identità cristiana si trovano tutti nella ex sfera di infiuenza sovietica", dice Filip Mazurczak "L'opposizione dell'est al multiculturalismo e alla immigrazione nasce da quanto hanno visto succedere a ovest" "L'internazionalismo di sinistra non ha mai attecchito a est e I'identità li ha aiutati a sopravvivere ai sovietici", dice Ukielksi

Immaginate l'Europa come un paio di polmoni", ha detto Reiner Haseloff, il primo ministro dello stato della Sassonia-Anhalt, "L'Elba è dove si incontrano i due polmoni". Questo, almeno, è quello che doveva essere sulla carta, ideale e non soltanto geografica. Il 25 aprile 1945, su un ponte gettato sull'Elba, soldati americani da una parte e sovietici dall'altra si strinsero la mano. Poi, per mezzo secolo, il fiume è rimasto un confine politico e ideologico sigillato, che attraverso l'Assia, la Turingia e la Sassonia portava nell 'estremo oriente tedesco, oltre l'Oder, verso le pianure polacche.
La divisione non è più marcata da reticolati, ma da due opposte visioni della società. Complice il fatto che l'ovest è da 70 anni in pace, mentre l'est è reduce da un lungo periodo di totalitarismo
Il fiume Elba è di nuovo una faglia. Demografica, culturale, religiosa, sociale e politica. Le elezioni tedesche del 24 settembre ce lo hanno ricordato. E' nella ex Ddr, la terra di Bach, Cranach, Goethe, Haendel, Hegel, Humboldt, Lutero, Schiller e Schumann, che l'estrema destra antisistema di Alternative fur Deutschland è arrivata prima. Ma è come se tutta l'Europa centro-orientale avesse abbracciato l"'alternativa", dagli ungheresi di Viktor Orbàn agli slovacchi di Robert Fico e i polacchi di Diritto e Giustizia, i tre di Visegrad. Questa nuova cortina di ferro non è come la fascia di sicurezza desertificata e sulla quale si sono infrante vite e tentativi di evasione, fatta di torri di avvistamento, cavalli di frisia e reparti di frontiera, cui un reticolo di controlli elettronici segnalava le intrusioni.
  Là dove una volta c'erano filo spinato, stelle rosse e kalashnikov, oggi ci sono le idee a separare le due Europe. L'ovest europeo è lìberaldemocratico, multiculturale, post-cristiano ed evoluto socialmente. L'est è democratico-illiberale, culturalmente omogeneo, tradizionalista e ancora molto cristiano. L'ondata populista in Ungheria, in Polonia, nella ex Ddr, in Slovacchia e altrove riflette uno choc identitario e culturale, figlio di mezzo secolo di comunismo.
  "Mi pare che le differenze diventeranno sempre meno evidenti più ci allontaneremo dal 1989", dice al Foglio George Weigel, uno dei maggiori intellettuali cattolici americani nonché biografo di Giovanni Paolo II e Joseph Ratzinger. "L'Europa orientale e centrale è meno plasmata dal 'multiculturalismo'. Questo ha a che fare con l'ìmmigrazìone e con il fatto che paesi come la Polonia sono cinquant'anni indietro rispetto all'Europa occidentale nel rapporto con gli acidi culturali e ideologici della tarda modernità e della post-modernità. Il 'gap' fornisce a paesi come Polonia e Lituania l'opportunità di prendere il meglio della modernità senza arrendersi al cinismo e al relativismo postmoderni. Spero che colgano questa opportunità, perché il loro successo nel navigare attraverso i cambiamenti culturali può avere un effetto positivo su una Europa occidentale confusa e decadente".
  La rivista cattolica americana First Things ha parlato di "risveglio cristiano dell'Europa centro-orientale". Weigel non è d'accordo. "L'occidente è post-cristiano, ma non penso possiamo parlare di risveglio a Est. Il ritorno del nazionalismo in quei paesi non va confuso con il risveglio cristiano". Altri hanno parlato dell'onda lunga dello choc generato da mezzo secolo di comunismo, da qui l'attaccamento all'identità nazionale, culturale e religiosa, "La rapidità con cui alcuni dirigenti dell'Europa centrale e orientale hanno adottato lo scetticismo e il relativismo post-moderni suggerisce che il comunismo ha profondamente eroso le radici culturali cristiane dei paesi un tempo occupati", conclude Weigel al Foglio. "Questo è meno vero in Polonia che altrove, a causa del forte ruolo della chiesa cattolica come depositaria della memoria culturale polacca e dell'identità sotto il comunismo".
  Non è d'accordo Filip Mazurczak, studioso polacco, editor del quadrimestrale New Eastern Europe e corrispondente del National Catholic Register. "Nel XIX secolo pensatori atei come Marx, Feuerbach, Comte, e più tardi Freud, credevano che la società sarebbe diventata meno religiosa in quanto sarebbe diventata più ricca", dice Mazurczak al Foglio. L'ultima copertina della sua rivista è dedicata all"'homo post sovieticus", l'europeo centro-orientale.
  "Per me, un confronto tra la Slovacchia e l'Irlanda è interessante. Alla fine degli anni Ottanta, l'Irlanda era uno dei paesi più poveri dell'Europa occidentale. Ed era anche uno dei più religiosi. Negli anni Novanta, tuttavia, il paese ha raggiunto livelli di crescita economica simili a quelli delle tigri dell'Asia orientale. Nell'arco di un decennio, l'Irlanda è passata da essere uno dei paesi più poveri dell'Europa occidentale a uno dei più ricchi, da paese di emigrati a uno di immigrati. Allo stesso tempo, l'Irlanda ha messo da parte rapidamente l'identità cattolica. Il fatto che la maggior parte degli irlandesi si curi ormai poco della propria religione si è capito nel 2015, quando una grande maggioranza ha votato per legalizzare le nozze gay in un referendum. Negli anni Duemila, prima della recessione globale, la Slovacchia era la 'tigre di Tatra'. La sua economia stava crescendo molto rapidamente e molti stranieri hanno investito nel paese. In particolare, la Slovacchia è diventata la Detroit d'Europa con le sue numerose fabbriche automobilistiche. Tuttavia, malgrado questo aumento della ricchezza, i livelli di religiosità in Slovacchia sono ancora alti rispetto alle norme europee e il paese attira molte vocazioni al sacerdozio. Allo stesso modo, la partecipazione alla messa in Polonia è al 40 per cento. Dato l'enorme cambiamento sociale, economico e politico in Polonia dopo il 1989, è un miracolo che il declino della religiosità del paese sia stato cosi lento, in calo di circa il tre per cento in un decennio. Le chiese sono ancora piene di domenica in Polonia e in Slovacchia, e vedete molti giovani e famiglie, non solo vecchie signore. Quindi non penso necessariamente che i cambiamenti nella religiosità di una società siano strettamente correlati al suo progresso economico. Penso quindi che la cultura e la storia svolgano un ruolo importante. Nell'Europa occidentale la transizione verso la democrazia è stata spesso legata alla lotta contro la chiesa, ma questo non è stato necessariamente il caso dell'Europa orientale. Infatti, in paesi come la Polonia, la chiesa era all'avanguardia della lotta per l'indipendenza nazionale".
  Sul multiculturalismo, la situazione è meno semplice. "La Slovacchia ha grandi comunità ungheresi e rom" continua al Foglio Mazurczak, "L'Ungheria ha molti rom. L'Ucraina, la Bielorussia e la Lituania hanno grandi minoranze polacche e russe. Tutto ciò si riferisce ai cambiamenti delle frontiere tra i paesi. E' vero che i paesi dell'ex sfera di influenza sovietica hanno meno immigrati. Le ragioni sono semplici. In primo luogo, gli standard di vita sono più alti nell'Europa occidentale. Durante la Guerra fredda, le differenze erano drammatiche. Inoltre, i paesi dell'Europa occidentale, a differenza di quelli a est dell'Elba, avevano abbondanza di ex colonie in Africa e in Asia da cui gli immigrati sono venuti in grandi quantità". Tuttavia, questo sta cambiando. "Ci sono almeno 1,2 milioni di ucraini che lavorano legalmente in Polonia. Un numero crescente di bielorussi sta arrivando in Polonia, così come l'economia della Polonia sta crescendo. Inoltre, lo slavo bielorusso e ucraino impara il polacco e si assimila piuttosto rapidamente. Così ora la Polonia sta diventando un paese di immigrati. L'Europa centro-orientale non è omogenea per quanto riguarda la religiosità. Ad esempio, il paese più secolarizzato in Europa è la Repubblica ceca. Nel censimento più recente, solo il 15 per cento della popolazione ha professato una affiliazione religiosa. L'Estonia è probabilmente il secondo paese meno religioso d'Europa. Tuttavia, in generale, è vero che la maggior parte dei paesi più religiosi d'Europa si trova nell'ex sfera d'influenza sovietica. Un livello simile di religiosità può essere osservato nella metà occidentale dell'Ucraina (l'est è secolarizzato, con bassi tassi di frequentazione della chiesa), dove la popolazione è divisa tra cristiani ortodossi e cattolici greci, con alcuni cattolici romani. La maggioranza ortodossa della Romania è abbastanza religiosa. L'opinione pubblica mostra che anche gli armeni, primo popolo ad adottare il cristianesimo (nel 301 d. C., dodici anni prima dell'editto di Milano), sono molto religiosi. L'anno scorso 51 sacerdoti sono stati ordinati in Slovacchia. A paragone, in Germania, con 24 milioni di cattolici (rispetto a solo 3-4 milioni in Slovacchia), soltanto in 58 sono stati ordinati nel 2016. In generale, l'Europa occidentale è piuttosto secolarizzata".
  L'est si differenzia dall'ovest anche sui terni sociali. "Le leggi abortive istituite dai governi comunisti sono rimaste intatte in tutti i paesi dell 'Europa dell'est, tranne la Polonia. Tutti i sondaggi pubblici mostrano che il sostegno polacco all'aborto è scemato notevolmente negli ultimi 24 anni. Ora, la maggior parte dei polacchi crede che l'aborto sia moralmente sbagliato e appoggia l'attuale legislazione. Questo è in larga misura il frutto delle opere della chiesa. Il più alto livello di opposizione all'aborto è tra i giovani polacchi (18-24 anni). La costituzione dell'Ungheria del 2011 dichiara che i non nati hanno il diritto alla vita. In Russia, la chiesa ortodossa ha assunto la guida nella raccolta di firme per iniziative civiche che vietano l'aborto. In Romania e in Moldavia, il movimento pro-vita è in crescita. La maggioranza delle persone dell'Europa centro-orientale si oppone all'ideologia Lgbt. Il sostegno popolare per il matrimonio gay è basso. Nel dicembre 2015 quasi due terzi degli sloveni hanno votato contro la legalizzazione in un referendum. In Croazia nel 2013, una percentuale simile ha votato contro in un altro referendum. In generale, le società dell'Europa centro-orientale sono immuni dall'ideologia Lgbt".
  Sotto il comunismo, i paesi dell'est hanno lottato per preservare la propria cultura. "La chiesa cattolica ha svolto un ruolo importante nel preservare la cultura. Durante i momenti difficili nella storia, la chiesa era al fianco del popolo. Durante l'occupazione tedesca della Polonia, metà del clero cattolico fu deportato a Dachau e in altri campi. Dopo la guerra, il ruolo della chiesa nel combattere l'indipendenza polacca è cresciuto, in gran parte grazie al cardinale Stefan Wyszyski (1981), che ri-evangelizzò la nazione polacca per la celebrazione del millesimo anniversario del battesimo della Polonia nel 1966. L'elezione di un Papa polacco nel 1978 ha rafforzato il ruolo della chiesa come difensore della nazione polacca. Negli anni Ottanta, la chiesa cattolica ha svolto un ruolo enorme nel sostegno a Solidarnosc. Nella Germania orientale e nelle terre ceche della Boemia e della Moravia in Cecoslovacchia, il comunismo è riuscito quasi a sradicare la religione. In Ungheria, il cardinale Jozsef Mindszenty era un avversario coraggioso del dominio comunista. Tuttavia, nella sua miopica politica di Ostpolitik, Papa Paolo VI ha licenziato Mindszenty e nominato sacerdoti sottomessi al regime. Di conseguenza, la chiesa ha perso il sostegno molto popolare tra gli ungheresi. In Romania, la chiesa ortodossa in larga misura ha collaborato con il regime comunista, anche se i pastori protestanti e i vescovi come Laszlo Tokes si sono coraggiosamente opposti al regime. In generale, direi che poiché i popoli dell'Europa dell'est sono stati negati nel diritto alla libertà religiosa per mezzo secolo, oggi rispettano di più quella libertà".
  C'è anche chi ritiene che la memoria del passato ottomano contribuisca all'opposizione di quei paesi alle quote di migranti che vorrebbe imporre loro Bruxelles. "Non tutti i paesi dell'Europa dell'est erano sotto il dominio turco", continua al Foglio Filip Mazurczak. "Nel 1683 il re polacco Giovanni III Sobieski ha portato le forze cristiane alla vittoria sui turchi a Vienna. La maggior parte dei polacchi associa la Turchia a un luogo dove si va in vacanze. Per secoli, gli ungheresi, i rumeni, i greci e altri erano sotto il dominio turco. La battaglia del Kosovo (1389) è un evento importante nell'identità dei serbi. Gli europei centro-orientali sono ingiustamente etichettati come razzisti bigotti dai principali media liberal. I polacchi, gli ungheresi, i cechi e altri non hanno paura dell'immigrazione di massa dai paesi musulmani perché sono razzisti, ma perché vedono ciò che accade in Germania, Francia, Belgio. In questi paesi l'assimilazione e l'immigrazione degli immigrati musulmani ha fallito, e c'è stata una lunga serie di attacchi terroristici. Gli europei dell'Europa centro-orientale hanno semplicemente paura che lo stesso possa accadere a loro e non possiamo biasimarli. Non c'è dibattito sul destino tragico dei cristiani in medio oriente, che stanno affrontando un olocausto. Si dice troppo poco su questo; dunque, i rifugiati e gli immigrati cristiani dovrebbero essere privilegiati".
  Non dissimile la posizione di Pawel Ukielski, vicepresidente dell'Istituto polacco della memoria nazionale, oltre che storico all'Accademia polacca delle scienze. "L'Europa centrale e orientale durante la Guerra fredda è stata separata dall'occidente con la cortina di ferro contro la sua volontà, quindi ovviamente il suo sviluppo, anche sociale, è stato completamente diverso", dice Ukielski al Foglio. "Le idee di sinistra che erano molto popolari in occidente dagli anni Sessanta non avevano accesso nell'Europa centrale, in quanto ideologicamente subordinata all'Unione sovietica. Dopo la caduta del comunismo, una parte dell'Europa centro-orientale si è impegnata a raggiungere i valori occidentali e a tornare a far parte della civiltà euro-atlantica. Milan Kundera lo chiamò 'l'occidente sequestrato'. Dall'altro lato era più scettica nei confronti delle idee di sinistra, che erano e sono percepite come utopistiche e pericolose. Gli europei del centro-est vedono che l'esperimento occidentale con il multiculturalismo non ha avuto successo: le culture diverse nei paesi occidentali non coesistono pacificamente, ma spesso sono causa di disordini e tensioni con persone di altre culture che non accettano i valori europei. Pertanto molte delle società dell'Europa centrale non vedono la ragione di seguire questo cammino, percepito come sbagliato. Vogliono preservare la propria cultura, che prima era soppressa dal potere esterno. L'esperienza con l'internazionalismo comunista sovietico ha reso più scettiche le società dell'Europa centrale verso le idee internazionaliste interculturali. L'identità e il patrimonio culturale li hanno aiutati a sopravvivere alla sovietizzazione e a rimanere se stessi, a non diventare parte del popolo sovietico, quindi valorizzano l'integrità della propria cultura e del loro patrimonio".
  Come far sì allora che l'Elba torni, come dopo il 1991, a essere il punto dove i due polmoni si incontrano e respirano assieme? "L'identità europea comune non può essere definita solo come l'identità dell'Europa occidentale" conclude Ukielski. "A mio parere, questo atteggiamento è uno dei pericoli più importanti per il progetto europeo: se l'esperienza dell'Europa centrale non è inserita nella identità comune, l'occidente e l'oriente non si capiranno a vicenda e questo rischierà di mettere in pericolo l'esistenza dell'unione".

(Il Foglio, 30 settembre 2017)


La costiera amalfitana isola felice per gli ebrei maestri di ceramica

Una coppia fuggita dalla Germania fondò a Vietri un marchio celeberrimo

Tra i loro clienti anche Mussolini: 100 mila piastrelle per i pavimenti di Palazzo Venezia Poi la favola artistica e imprenditoriale fu spezzata dalle persecuzioni e dal Lager

di Flavia Amabile

C'è una terra dove «sembrava che gli ebrei non fossero mai esistiti», un'isola felice dove anche negli anni più difficili delle persecuzioni razziali chi decideva di fuggire dalla Germania poteva essere certo di essere accolto. Lì gli ebrei venivano considerati dei forestieri come tanti o, al massimo, dei tedeschi. Quella terra si trovava in Italia, era la Costiera Amalfitana dove non si aveva traccia di una comunità ebraica nel raggio di molti chilometri e dove le informazioni su quello che accadeva nel resto del mondo non sempre arrivavano. E, anche quando arrivavano, non sempre erano considerate poi così interessanti da una popolazione alle prese con la mancanza di cibo e una miseria che sembrava impossibile da sconfiggere.
   Fu così che tra gli anni Venti e gli anni Trenta si creò tra Vietri sul Mare e Positano una comunità di intellettuali e artisti in fuga dall'Europa centrale. Max e Flora Melamerson furono tra i primi, trovarono casa a Vietri rivoluzionando la vita del piccolo borgo con le loro intuizioni e scrivendo una pagina totalmente nuova nella storia dell'arte della ceramica mondiale. Nulla di quello che accadde è stato finora raccontato in modo completo. Non esiste una pagina Wikipedia dedicata a loro e digitando i loro nomi sui motori di ricerca in rete, si trovano poco più di diecimila risultati, quasi tutti di poche righe, spesso ripetute di sito in sito. Nessuno finora era andato a scavare nella vita di questa coppia di ebrei tedeschi, artisti, persone di cultura, dotate di un ottimo fiuto imprenditoriale ma anche di una buona dose di intuito che li portò a allontanarsi dalla Germania quando la minaccia delle persecuzioni razziali era ancora lontana e inventare una vita totalmente nuova a Vietri sul Mare.
   A farli riemergere dalle pieghe della storia è stato Antonio Forcellino, uno dei migliori restauratori di Michelangelo esistenti al mondo e un attento studioso della storia dell'arte rinascimentale. Stavolta ha scelto di affrontare un mondo e un'epoca diversi di cui però conosce con altrettanta profondità ogni dettaglio: Forcellino è originario di Vietri sul Mare, è cresciuto nei luoghi scelti da Max e Flora come rifugio e i racconti della loro impresa hanno popolato la sua vita fin da quando era bambino.
   Il risultato della sua ricerca è raccontato in un libro (La ceramica sugli scogli), che si sviluppa su tre registri narrativi: saggio, autobiografia e romanzo. Leggendolo si segue l'evoluzione delle idee di Max e Flora ispirate dal Bauhaus e quindi orientate a valorizzare le capacità degli artisti locali senza protagonismi, lasciando che a prevalere alla fine fossero il marchio e lo stile. Una vera e propria rivoluzione che portò la ceramica di Vietri a conquistare il mondo e a diventare un oggetto di desiderio per le classi più agiate già negli anni Trenta. A rendere unico il loro prodotto furono le tinte pastello e la qualità della ceramica ottenute attraverso gli studi di Max ma anche i disegni che ancora oggi appaiono sui prodotti realizzati dalle maestranze, usciti dalla fervida mente artistica di Flora.
   Attraverso le pagine del libro si scopre che lo stesso Benito Mussolini decise di servirsi delle pregiate creazioni della Ics, l'impresa messa su dalla coppia. Furono centomila le piastrelle utilizzate per i pavimenti di palazzo Venezia e il lavoro fu portato a termine nel 1935, a dispetto di un tentativo di truffa e di un clima sempre più ostile. Non mancarono sgambetti e ingiustizie come quelli di Giò Ponti direttore della rivista «Domus» che provò a attribuire ufficialmente tutti i meriti dell'innovazione della ceramica vietrese a Richard Dolker, artista dalle origini totalmente tedesche che permetteva di evitare imbarazzi agli occhi del Duce e del Führer.
   Eppure il successo della Ics sembrava inarrestabile. Mentre in Germania si susseguivano i pogrom nazisti, Max e Flora allargarono la loro attività: acquistarono un'industria fiorentina e le loro ceramiche furono richieste anche dal principe Umberto di Savoia per decorare il suo appartamento privato.
   Soltanto l'approvazione delle leggi razziali nel 1938 riuscì a fermare la loro ascesa. Anche ora che gli ebrei erano al bando pure in Italia la Costiera Amalfitana provò a svolgere ancora il suo ruolo di isola felice. Il podestà aiutò Max e Flora a mettere in salvo l'impresa e la coppia si illuse di essere al sicuro: invece di fuggire altrove decise di restare a Vietri. Ma il regime premeva, le leggi andavano fatte rispettare anche nella terra dove nessuno sapeva davvero chi fossero gli ebrei e perché venissero perseguitati. Arrivò il decreto di espulsione, quindi i campi di concentramento e le pagine più tristi di una delle industrie italiane più conosciute nel mondo in quegli anni. La coppia andò incontro al suo destino senza smettere mai di pensare all'impresa che avevano dovuto abbandonare. Max e Flora sopravvissero alla persecuzione ma la guerra distrusse il loro progetto, finendo per cancellarne anche la memoria. Che soltanto questo libro è riuscito a riportare in vita.

(Stampa ttL, 30 settembre 2017)


Ancelotti torna subito in campo: allenerà i bambini di Gerusalemme

Lunedì, a poche ore dall'esonero nel Bayern Monaco, il tecnico italiano parteciperà a un evento di beneficenza nella parte vecchia della città abitata da musulmani, cristiani ed ebrei

 
ROMA - A poche ore dall'esonero dal Bayern Monaco, arrivato dopo il ko in Champions League a Parigi contro il Psg, Carlo Ancelotti ha già trovato un nuovo "ingaggio": lunedì infatti l'ex tecnico di Juventus e Milan dirigerà uno speciale allenamento tra le mura della città vecchia di Gerusalemme - popolata da musulmani, cristiani ed ebrei - che vedrà decine di bambini giocare insieme sul campo del 'Jerusalem sports playground' realizzato dal progetto 'Assist for peace' nel quartiere armeno grazie alla disponibilità del locale Patriarcato.
  Ancelotti esonerato dal Bayern Monaco. E i tifosi del Milan sognano.
  La struttura, inaugurata nel settembre 2016, ha visto il sostegno di diversi campioni internazionali, e sin dal primo momento l'adesione di Ancelotti (tra gli altri testimonial del progetto: Novak Djokovic, Sebastian Vettel, Kimi Raikkonen, Vincenzo Nibali, Giovanni Soldini, Javier Zanetti, Gianluigi Buffon, Federica Pellegrini, Yakhouba Diawara, Roberto Donadoni, Danilo Gallinari, Valentino Rossi, Muhammad Ali, Luca Toni, Simone Pianigiani e altre personalità quali Antonello Venditti, Guido Barilla ed Ennio Morricone).

 Testimonial
  Quella di Ancelotti sarà la testimonianza di chi crede che l'educazione ai valori dello sport possa portare al rispetto dell'avversario e alla mediazione dei conflitti verso un cammino di pace. E Ancelotti - che ha guidato prevalentemente squadre con giocatori di provenienza internazionale - ben conosce come trasformare queste differenze in un valore in più, avendo conquistato titoli di massima divisione in quattro diverse nazioni (oltre a tre Champions League).
  «Il calcio - spiega Ancelotti, a pochi giorni dal viaggio in Terra santa sotto gli auspici del Consolato Generale d'Italia a Gerusalemme - può essere una grande occasione di crescita personale poiché ci si deve mettere al servizio di una squadra. In questo modo le diversità di idee, di opinioni, di credo o di cultura, devono confrontarsi con il rispetto reciproco, con la fiducia nel voler raggiungere insieme un obiettivo. E la vittoria per i bambini di Gerusalemme sarà poter crescere in una città in pace. Perciò sarò felice di essere con loro a portare i valori dello sport con un messaggio di speranza».

(Corriere dello Sport, 29 settembre 2017)


Israele si ferma per Kippur. "Rispettiamo le idee di tutti"

Gerusalemme, Israele e tutto l'ebraismo internazionale si preparano in queste ore alla celebrazione dello Yom Kippur, il giorno considerato più sacro e solenne del calendario ebraico. Ieri sono stati migliaia i fedeli che si sono recati al Kotel (il Muro Occidentale a Gerusalemme) per recitare le Selichot, le poesie penitenziali. Tra i tanti messaggi pubblici legati a Kippur, molto apprezzato quello del Presidente d'Israele Reuven Rivlin: "Qui a volte è difficile. Molto difficile. Ma non è una scusa per i peccati che commettiamo usando la nostra lingua, le nostre parole contro settori della società o interi gruppi, contro persone che non la pensano come noi - afferma Rivlin - Dal punto di vista del Paese, ciascuno di noi dovrebbe chiedere perdono per ciò che ha fatto e detto del suo prossimo".
   Sul fronte della sicurezza, l'esercito israeliano ha annunciato la chiusura dei passaggi tra Cisgiordania e Israele e Gaza e Israele: un blocco che le autorità adottano sempre in concomitanza con le festività ebraiche e da cui sono escluse le emergenze umanitarie e altri casi considerati sensibili. Il provvedimento dovrebbe durare fino a sabato sera, fino al termine della festa. Speciali misure di sicurezza sono state applicate inoltre all'area dell'insediamento di Har Adar, teatro di un attacco terroristico palestinese in cui sono morti tre israeliani. "L'inchiesta sull'attentato continua e la polizia non sta lasciando nulla al caso", ha dichiarato il portavoce della polizia Micky Rosenfeld, aggiungendo che ai lavoratori palestinesi - quelli dotati di licenza - è per il momento vietato entrare nell'insediamento. "Har Adar - ha dichiarato Rosenfeld - sarà nuovamente aperto ai lavoratori palestinesi non appena la polizia effettuerà le valutazioni di sicurezza adeguate e dichiarerà che l'area è sicura".
   Ieri intanto è tornato dal Messico il team dell'esercito israeliano, impegnato a portare soccorso alla popolazione messicana colpita da un terremoto il 19 settembre scorso. Oltre trecento le vittime del sisma che si è concentrato nell'area di Mexico City, dove hanno operato i 71 membri della delegazione israeliana, impegnati nelle ricerche dei sopravvissuti e nel primo soccorso. "Quando ci sono disastri naturali, le nazioni, almeno le nazioni illuminate, lavorano insieme. A questo proposito, lo Stato di Israele e il suo esercito hanno più volte agito con successo", ha affermato il Primo ministro d'Israele Benjamin Netanyahu accogliendo il team di Tsahal di ritorno dal Messico.

(moked, 29 settembre 2017)


La Corte suprema israeliana consente la causa legale contro le società del gas naturale

GERUSALEMME - La Corte suprema di giustizia israeliana ha stabilito oggi che si potrà procedere legalmente contro il gruppo di imprese che producono gas naturale liquefatto (Gnl) nel giacimento offshore Tamar e che hanno sostanzialmente il monopolio sull'andamento dei prezzi del Gnl nel mercato energetico israeliano. Il caso verrà inoltre affidato alla Corte distrettuale per motivi di antitrust. Lo riferisce oggi la stampa israeliana. Il consorzio di società per l'estrazione del gas formato dalla Noble Energy, dalla Delek Drilling, dalla Avner Oil Exploration, dalla Isramco Negev 2 e dalla Dor Gas Search aveva presentato ricorso nel 2016 contro la decisione di un tribunale distrettuale in quanto il piano contestato, sulla base del quale si decideva il prezzo del gas, era stato precedentemente approvato dal governo israeliano. Infatti, proprio a causa dei controlli antitrust, i contratti erano stati approvati da una serie di autorità.

(Agenzia Nova, 29 settembre 2017)


L'ambasciatore Usa a Tel Aviv: gli insediamenti fanno parte di Israele

Friedman smentisce la posizione americana. Da sempre sostenitore delle colonie, ha definito la soluzione dei due Stati come una ''truffa''.

David Friedman
Gli insediamenti ''fanno parte di Israele'': a dirlo non è qualche esponente del governo di Gerusalemme, ma l'ambasciatore americano a Tel Aviv, David Friedman, che, in una intervista, ha sostenuto che "i coloni si considerano israeliani", e che "Israele vede i coloni come israeliani".
Dichiarazioni assolutamente inattese, perché è la prima volta che un diplomatico americano si esprime in questi termini sulla delicata questione degli insediamenti, di fatto in aperto contrasto con quella che è la posizione assunta dagli Usa sulla questione.
David Friedman, in una intervista a Walla! News, difende gli insediamenti, contro i quali per ultimo il 23 dicembre dello scorso anno, con la risoluzione 2334 il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha espresso la sua opposizione.
"L'idea di un'espansione in Cisgiordania è sempre esistita, ma - ha argomentato Friedman - non necessariamente in tutta la Cisgiordania. E questo è esattamente quello che ha fatto Israele. Voglio dire, occupano solo il 2% della Cisgiordania. Queste posizioni hanno una importante significato storico e religioso nazionale, e penso che i coloni si vedono come gli israeliani e che Israele vede i coloni come israeliani''.
Friedman è noto per le sue posizioni pro-insediamenti e la sua ostilità alla nascita di uno Stato palestinese. Prima di essere scelto da Trump per assumere il delicato incarico, ha definito la soluzione dei due Stati come una "truffa"
Nell'audizione davanti al Senato, aveva assicurato che i suoi pareri personali sarebbero stati ormai "totalmente subordinati a quelli del presidente e del segretario di Stato".
Tuttavia, in un'intervista al Jerusalem Post il primo settembre, l'ambasciatore ha usato la frase "Occupazione presunta" per descrivere la presenza israeliana in Cisgiordania, inducendo il Dipartimento di Stato a prendere le distanze da questa affermazione.

(globalist, 29 settembre 2017)


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Il dipartimento di Stato Usa prende le distanze dalle dichiarazioni del suo ambasciatore

GERUSALEMME - Per la seconda volta nell'arco di un mese, il dipartimento di Stato Usa ha preso ufficialmente le distanze dalle dichiarazioni del suo ambasciatore in Israele, David Friedman; questi ha dichiarato, in contrasto con la posizione ufficiale degli Stati Uniti sulla questione, che gli insediamenti costruiti da Israele in Cisgiordania dopo la Guerra dei sei giorni (1967) sono a tutti gli effetti parte dello Stato ebraico. "Credo ci sia sempre stata la nozione, quando venne approvata la risoluzione 242 nel 1967, che Israele avrebbe avuto il diritto di mettere in sicurezza i propri confini. I confini esistenti, quelli del 1967, erano ritenuti non sicuri da tutti, perciò Israele avrebbe mantenuto una porzione della Cisgiordania, e non avrebbe restituito quanto fosse stato necessario a garantire la propria pace e sicurezza", ha dichiarato l'ambasciatore nel corso di una intervista a "Walla news". La portavoce del dipartimento di Stato Usa, Heather Nauert, ha prontamente diffuso un comunicato puntualizzando che le parole dell'ambasciatore "non rappresentano in alcun modo un cambio di politica da parte degli Usa". Friedman aveva costretto il dipartimento di Stato a una rettifica anche lo scorso primo settembre, quando si era riferito all'occupazione israeliana della Cisgiordania come alla "cosiddetta occupazione".

(Agenzia Nova, 29 settembre 2017)


Il bastimento che portò in Israele quasi 800 ebrei

FIRENZE - Settant'anni fa dall'isola veneziana di Pellestrina salparono tre navi di ebrei sopravvissuti alla Shoah. La destinazione era il nascente stato di Israele, lo scopo era lasciarsi alle spalle l'orrore e la paura per ripartire ricostruendosi una nuova vita. La Sinagoga e il museo ebraico di Firenze ospitano Kadima-Avanti da Pellestrina alla terra promessa', esposizione fotografico-documentaria che ripercorre il viaggio di una di queste navi, e propongono per domenica alle 11 una visita guidata alla mostra. Un racconto per immagini che narra le avventure del bastimento Kadima-Avanti, partito il 5 novembre 1947 da Pellestrina con 794 ebrei sopravvissuti alla Shoah.

(La Nazione, 29 settembre 2017)


Il nuovo antisemitismo in Francia e la triste dimenticanza di una certa sinistra

Poiché la maggior parte delle violenze contro gli ebrei sono commesse da aggressori islamisti, la sinistra teme la stigmatizzazione e sceglie di tapparsi la bocca, per non "gettare olio sul fuoco". Un'inchiesta del settimanale Express.

di Mauro Zanon

PARIGI - "Siete ebrei, avete i soldi! Lo prendiamo a voi per darlo ai poveri!". Con queste parole, qualche settimana fa, Mireille e suo figlio sono stati aggrediti e sequestrati per più di tre ore nella loro casa di Livry-Gargan, nel dipartimento Seine-Saint-Denis, lì dove le famiglie di confessione ebraica si contano oramai sulle dita di una mano. Un fatto di cronaca che non poteva passare inosservato, perché consumatosi a pochi mesi di distanza dall'assassinio di Sarah Halimi, ebrea francese di 65 anni, accoltellata e scaraventata dalla finestra, al grido di Allah Akbar, dal suo vicino di casa musulmano, Kobili Traoré. Dalla strage di ebrei commessa dal jihadista Mohamed Merah, nel 2012, al sequestro di Livry-Gargan, le manifestazioni di un nuovo antisemitismo riempiono le pagine dei "fait divers" dei giornali francesi, e piombano la comunità ebraica nella paura di un abbandono.
  È il "nuovo malessere degli ebrei francesi", come scrive il settimanale Express nel suo ultimo numero, il malessere di una comunità che si sente minacciata dall'antisemitismo dilagante e vittima dell'indifferenza generale dei media. "Perché così tanto imbarazzo da parte di alcune persone a parlare di razzismo antiebraico? Perché tanta precauzione nel trattare questo problema mediaticamente?", si chiede l'Express. Quest'anno, a Noisy-le-Grand (Seine-Saint-Denis), una famiglia di confessione ebraica ha trovato nella sua cassetta delle lettere una pallottola di kalashnikov accompagnata da insulti antisemiti, mentre ad Anet, nel dipartimento Eure-et-Loir, è la scritta "Hitler aveva ragione, bisognava mettere tutti gli ebrei nei forni", che una coppia ha trovato sulla porta di casa. In Francia, i cittadini di religione ebraica rappresentano meno dell'uno per cento della popolazione, ma secondo i dati del ministero dell'Interno sono vittima della metà degli atti razzisti commessi in Francia.
  Stando a quanto riportato dall'Express nella sua inchiesta, negli ultimi cinque anni, il 40 per cento degli episodi razzisti è stato a danno degli ebrei. E gli autori, ben lontani dal profilo dello skinhead affiliato all'estrema destra, come una certa sinistra continua a sostenere, sono per la maggior parte di cultura islamica. Il silenzio della gauche dinanzi all'aumento esponenziale degli episodi di antisemitismo, che costringono ogni anno migliaia di ebrei all'aliyah, ossia al ritorno in Israele, è stato denunciato sulle pagine dell'Express dall'intellettuale laica Elisabeth Badinter.
  "Ciò che mi ha spinto a scrivere, è ciò che è accaduto a Sarah Halimi. Il silenzio mediatico e politico attorno al martirio di questa donna mi ha perturbato enormemente. Non mi capacito di come sia stato possibile, in Francia, tenere nascosto questo atto atroce per più due mesi", ha scritto la Badinter. Poiché la maggior parte delle violenze contro gli ebrei sono commesse da aggressori islamisti, la sinistra teme la stigmatizzazione, l'accusa di "islamofobia", e dunque sceglie di tapparsi la bocca, per non "gettare olio sul fuoco", come scrive il settimanale parigino. E si dimentica. "Non capisco come mai l'uccisione da parte di Mohamed Merah di tre bambini nel cortile di una scuola ebraica non si imprima nella memoria. Non capisco perché questo atto di natura nazista, dove una bambina di sette anni è stata presa per i capelli per essere colpita con una pallottola in testa, non sia entrato nella memoria collettiva", commenta Badinter, che denuncia il "malheureux oubli", la triste dimenticanza di una certa sinistra francese. Prima di concludere: "Non lasciate gli ebrei combattere da soli".

(Il Foglio, 29 settembre 2017)


I Primi d'Italia, taglio del nastro con l'ambasciatore d'Israele

Foligno - Al via ieri sera la kermesse de "I Primi d'Italia" nel segno dell'internazionalità. Stasera ore 21 c'è Gianfranco Vissani.

Il taglio del nastro
Si è aperta ieri sera a Foligno nel segno dell'internazionalità la XIX edizione dei Primi d'Italia, la manifestazione di successo promossa da Epta Confcommercio che ha visto accanto al patron Aldo Amoni l'ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs a cui è andato l'onore di inaugurare il villlaggio israelieno presso la taverna del rione Contrastanga. Questo perché i Primi d'Italia, la kermesse dedicata alle mille sfumature della pasta, si candida ad essere ambasciatrice non solo del bel e buon mangiare italiano, ma anche veicolo di promozione turistica per l'intero territorio umbro. Non a caso, proprio nella giornata odierna, i dirigenti dell'Ufficio israeliano del turismo hanno incontrato gli operatori turistici regionali con il fine di costruire un rapporto più consolidato tra Israele e Umbria che potrebbe diventare meta privilegiata dei visitatori israeliani. Amoni, nel momento inaugurale, non ha parlato solo dell'internazionalità dei Primi d'Italia, ma anche di solidarietà. Non a caso è dedicato all'area marinara del Piceno, colpito da sisma, il villaggio del pesce che ospita otto ristoratori di Porto Sant'Elpidio, mentre questa sera in Piazza della Repubblica i Primi d'Italia incontrano il Comitato per la vita Daniele Chianelli promotore del libro "Con un poco di zucchero la pillola va giù" scritto dai bambini ricoverati all'ospedale di Perugia .
  Primi d'Italia è anche però grandi star della cucina: si inizia oggi con gli chef premiati dalla guida Michelin nell''appuntamento "A tavola con le stelle". Alle 21 all'auditorium Santa Caterina arriva Gianfranco Vissani per un menù degustazione di primi piatti. Seguono sabato 30 settembre Daniele Usai alle 13 e i Fratelli Serva alle 21. Domenica 1 ottobre Michael Toscano. Tutti i giorni, sempre al Santa Caterina in orari mattutini o pomeridiani, Food Experience, ovvero il buon cibo alla portata di tutti con curiosità e consigli di apprezzati chef. Per gli spettacoli, sul palco di Piazza della Repubblica ieri è salita Francesca Reggiani con la sua comicità, mentre stasera alle 22 è la volta di Gianluca Fubelli da Colorado Cafè. Al via ieri al chiostro di San Domenico anche Junior Primi d'Italia, in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno, uno spazio "formato baby" dove partecipare ad attività ludiche e di animazione per apprendere, tra gioco e didattica, informazioni utili a sviluppare sane abitudini alimentari. Tutto il programma è scaricabile dal sito www.iprimiditalia.it ...ce n'è per tutti i gusti, a patto che vi piaccia la pasta.

(TrgMedia, 29 settembre 2017)


Cinque capi della sicurezza Anp attesi nella Striscia di Gaza

GERUSALEMME - Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha incaricato alcuni capi della sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) di recarsi nella Striscia di Gaza la prossima settimana per incontrare alcuni funzionari di Hamas, per discutere di questioni di sicurezza. Lo hanno rivelato al quotidiano israeliano "Jerusalem Post" due fonti della sicurezza palestinese. La scorsa settimana i vertici di Hamas avevano annunciato lo scioglimento dell'organo di governo della Striscia e la volontà di consegnare la gestione di Gaza all'Anp.

(Agenzia Nova, 29 settembre 2017)


Giro d'Italia: così il movimento Bds ha definitivamente gettato la maschera

di Alessandro Matta (*)

Giunge in queste ore sul tavolo del direttore del Giro d'Italia, del direttore di Rcs Sport e del presidente di Rcs telecomunicazioni una lettera che ha a dir poco dell'incredibile, ma che dimostra definitivamente la vera natura del movimento Bds.
Non è un movimento pacifista, non è un movimento che promuoverebbe, seppure con azioni forti come il pretendere un disinvestimento e delle sanzioni per presunte politiche criminose del governo di Israele nei confronti dei Palestinesi, un dialogo o una volontà di pace. Ma soprattutto, non è un movimento che combatte, come cianciano i suoi appartenenti e i suoi responsabili, ogni forma di antisemitismo o di islamofobia o di razzismo.
E' esattamente l'opposto, e la maschera da parte sua viene perfettamente gettata con la vergognosa missiva inviata ai direttori appena citati.
Anzitutto, è falso, come sostiene il Bds in questa missiva, che "la comunità internazionale non riconosce alcuna parte di Gerusalemme quale capitale di Israele", e tutto questo dimostra non solo una perfetta ignoranza della storia, ma anche un malcelato tentativo di negare a Gerusalemme uno status di capitale dello stato di Israele.
Inoltre, considerando che il Giro d'Italia del 2018 partirà da Gerusalemme proprio perché si vuole in questo modo anche ricordare Gino Bartali - il campione di ciclismo Italiano nominato dalla commissione dei giusti di Yad Vashem "Giusto tra le Nazioni" per avere salvato, nell'Italia tra il 1943 ed il 1945, numerose famiglie di ebrei da una morte certa nel genocidio nazifascista - e si vuol ricordare che a Gerusalemme, proprio nel giardino dei Giusti tra le Nazioni all'interno del complesso di Yad Vashem viene ricordato anche il nome di Bartali, questo tentativo di boicottare un giro d'Italia che vuole essere svolto nel nome di un Giusto che ha salvato vite umane da un genocidio vero nasconde un malcelato tentativo negazionista della Shoah stessa. Il tentativo di boicottaggio, invece, è fatto nel nome di una presunta pulizia etnica della popolazione palestinese, in realtà del tutto inventata in quanto la popolazione palestinese è perfino raddoppiata in questi 70 anni,
Ma non solo. Nella lettera si parla di Israele come di uno stato dove si praticherebbe apartheid, accomunandolo al Sudafrica di Nelson Mandela. Ma Israele ha nel suo stesso parlamento deputati musulmani! Perfino uno dei capi della polizia di Gerusalemme succedutisi negli oltre 70 anni di storia di Israele è stato un musulmano! Israele consente addirittura una applicazione della Sharìa in certi contesti e in certe situazioni gestite interamente da cittadini di fede Islamica! Dove sta l'apartheid in tutto questo, cari signori del Bds?
E ancora: nella vostra lettera si legge: "Nel sud di Israele, dove è prevista un'altra tappa della corsa, dozzine di città beduine palestinesi si vedono rifiutati riconoscimento e servizi di base da parte di Israele e sono state sottoposte a ripetute demolizioni, nel caso di Al-Araqib oltre 100 volte." Peccato che quelle demolizioni fossero di abitazioni di terroristi o di loro complici. Voi quindi siete dalla parte del terrorismo? Non volete la pace, evidentemente, ma la distruzione di Israele. Non cercate dialogo, ma evidentemente vi fa comodo vedere gli ebrei saltare in aria in qualche attentato o venire accoltellati per la strada. Avete gettato la maschera con la vostra lettera. Il vostro è un movimento antisemita, filoterrorista e anche negazionista della storia e dei diritti del popolo ebraico. La cosa vergognosa è che anche nelle nostre università c'è chi vi finanzia.
(*) Direttore Associazione Memoriale Sardo della Shoah

(L'informale, 29 settembre 2017)


Midrash ossia la libertà di interpretare

di Massimo Giuliani

Anni fa lessi un saggio di Henri Slonimski (1884-1970), negli anni Cinquanta preside dell'Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion a New York, dal titolo "The Philosophy Implicit in the Midrash" e rimasi colpito dalla convinzione di questo grande, ora dimenticato, studioso secondo il quale il metodo e i contenuti del pensare ebraicamente, ossia della filosofia ebraica, coincidono con il metodo e le intuizioni del midrash. Chi vuole capire cosa sia filosofia ebraica non ha che da immergersi nella letteratura midrashica, e ai suoi occhi si dipaneranno le concezioni ebraiche dell'uomo e di Dio, del tempo e della storia, del lavoro e della festa, della vita e della morte. Tutti sanno che i midrashim sono una miniera di sapienza rabbinica, ma chi sa davvero leggerli? E come trovarli e evidenziarli quando si nascondono in un commento biblico o nei fogli del Talmud? O nelle straordinarie agiografie dei chassididim, a partire da quella del Ba'al Shem Tov? Certo, esistono da sempre antologie midrashiche - come le Leggende degli ebrei di Louis Ginzberg, tradotti da Elena Loewenthal - ma come affrontarli appunto non alla stregua di mere 'leggende' o 'miti' o 'storielle edificanti', quanto piuttosto come 'filosofia ebraica', come pensiero del giudaismo e come trama di una sua 'filosofia implicita'? Se è implicita, va esplicitata.
   Questo lavoro di interpretazione sull'interpretazione è il cuore di ogni esercizio filosofico che si autocomprenda come ebraico e che muova dai testi della tradizione rabbinica per arrivare alla vita. Anche il rabbino-filosofo Emil Fackenheim (1916-2003) ne era convinto e fece largo uso dei midrashim nelle sue opere. Scrive nel volume da poco tradotto in italiano Cos'è l'ebraismo? Un'interpretazione per il presente: "Il midrash è la teologia più profonda, più intrinsecamente ebraica e, dunque, più autorevole mai emersa all'interno dell'ebraismo. A renderlo profondo e intrinsecamente ebraico è la sua forma, costruita non da proposizioni e sistemi presentati (o forse anche 'dimostrati') come veri, ma piuttosto da storie e parabole: queste non pretendono mai di avere tutte le risposte… Se ciononostante il mondo del midrash è autorevole, è perché ci sono dei limiti alla libertà del narratore midrashico". Vi sono, dice Fackenheim, limiti alla libertà di interpretazione: o meglio, alla libertà di interpretare non ci sono limiti, ma se si vuol restare dentro la tradizione midrashica, dentro i confini del pensare ebraicamente, allora quei limiti ermeneutici esistono, sono chiari e vincolanti. Basta poco che trasformare un termine ebraico in un concetto non ebraico. Credo sia per questo che esistono midrashim a scopi aggadici, ossia che sollecitano l'immaginazione, e midrashim a scopi halakhici, che mirano a chiarire e instillare l'osservanza dei precetti. Nel non separare mai, persino nell'interpretazione midrashica, aggadà e halakhà sta il "limite", il criterio ermeneutico che distingue un pensiero ebraico da un pensiero che ebraico non è.

(moked, 28 settembre 2017)


Il romanzo criminale su Israele

Esce oggi tramite le edizioni Lindau "Il Sabba intorno a Israele: Fenomenologia di una demonizzazione" di Niram Ferretti, vicedirettore de L'Informale e nostro collaboratore abituale. Il testo, che si avvale delle prefazioni autorevoli di Federico Steinhaus, anch'egli nostro collaboratore, e di Giulio Meotti è, come già enuncia il titolo, una ricognizione sulle modalità attraverso le quali lo Stato ebraico è diventato oggetto, nelle parole dell'autore, di "un vero e proprio romanzo criminale", costituitosi nell'arco di cinquanta anni, ovvero dalla vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967.
E' questo, infatti, l'episodio che ha avviato la macchina del fango della propaganda araba, la quale, all'epoca, poteva contare sul formidabile supporto del più capillare e pervasivo laboratorio di demonizzazione antioccidentale in attività, l'Unione Sovietica.
Da stato neonato che lotta per la propria sopravvivenza contro l'offensiva araba nella guerra del 1948, godendo allora a forni crematori appena spenti, della benevolenza della maggioranza dell'opinione pubblica occidentale, dopo il 1967 Israele verrà sempre meno tollerato, perché troppo forte, troppo sicuro di sé, troppo vincitore.
Oggi, siamo abituati a sentire accostati al nome di Israele termini infamanti come "colonialista", "razzista", "genocida", "nazista", ed è appunto questa assuefazione alla menzogna, al discredito capillarmente organizzato, uno dei segni peggiori dei tempi che viviamo.
Non è un caso che l'unico stato al mondo che gode di questo sinistro privilegio sia quello degli ebrei.

(L'informale, 28 settembre 2017)


«L'ultra destra tedesca? Il vero fascismo oggi arriva dall'islam politico»

Intervista a Ugo Volli

L'immigrazione è il nodo su cui gli elettori hanno punito i vecchi partiti. Ormai chiunque dice cose che non piacciono è nazista Molti dirigenti del partito Afd sono arrivati dalle file della Cdu

di Alberto Giannoni

MILANO - «Sì, l'essenza vera del fascismo oggi sta nell'islam politico». Grande semiologo (è considerato l'erede di Umberto Eco), critico letterario per importanti giornali di sinistra, ebreo, Ugo Volli dà una lettura davvero fuori dal coro, di questa Europa alle prese col fenomeno migranti e con la minaccia del terrorismo.

- Professore, cos'è successo in Germania?

  «Il Paese ha una situazione economica ottima, non vive problemi politici particolari, ma Cdu e Spd hanno perso un quarto dei voti. È una sconfitta grave. Ma cosa è in gioco? Per me è molto chiaro che il punto è l'immigrazione ed è confermato dalla vittoria dell'Afd. Ma protagonisti non sono i partiti, sono gli elettori che hanno punito le forze di governo, come altrove».

- Un voto di protesta?

  «Non sono diventati tutti neo nazisti e non lo sono i quadri dell'Afd, che in parte arrivano dalla Cdu. È un voto di preoccupazione su un'agenda che i partiti non vogliono discutere. Come quelli che dicono: "Votiamo ora lo ius soli". Strana concezione della democrazia, per cui le scelte decisive non si devono lasciare agli elettori».

- Malafede o ideologia?

 
Ugo Volli
  «C'è speculazione politica. Chi si oppone all'immigrazione è populista e i populisti sono neonazisti. È la "reductio ad Hitlerum" di Leo Strauss: chi dice cose che non ci piacciono è nazista. Ma in Italia il sistema politico si è rafforzato quando con Berlusconi sono stati integrati e sdoganati coloro che erano emarginati. Ho dato un'occhiata al manifesto elettorale dell'Afd, hanno una piattaforma liberale, oltre a ostentare una simpatia per Israele che per me è importante. Non bastano uscite folcloristiche o parole mal tradotte».

- Lei si definirebbe di sinistra oggi?

  «Io ho fatto il '68, nel Movimento studentesco, prima ero iscritto alla Fgci, poi non ho più fatto politica, la mia ultima tessera è del '72, a 23 anni. Ho avuto una progressiva presa di coscienza, come tanti, sul fatto che dicevamo assurdità, sciocchezze, non capivamo niente. Poi ho sviluppato convinzioni progressiste, a lungo ho votato Pci, poi Pd. Oggi non mi identifico».

- Nelle comunità ebraiche il timore per le forze neofasciste è molto comprensibile.

  «Io sono un ebreo, molto attaccato alla sua identità. Difendo Israele come sola democrazia del Medio oriente, unico posto in cui donne, omosessuali e minoranze sono libere e in cui c'è spazio per i musulmani che vogliono pregare. La libertà dell'Europa si difende davvero sotto le mura di Gerusalemme. Mio padre fu cacciato da scuola nel '38, mio nonno messo al confino, familiari vittime della shoah, mi sono sempre considerato antifascista e non ho alcuna simpatia per il negazionismo. Ma bisogna conoscere i nemici per guardarsene. Chi uccide gli ebrei oggi sono musulmani. E chi difende questo terrorismo sta soprattutto a sinistra».

- L'islam politico è il nuovo fascismo?

  «Sì, credo di sì. Organizzazione paramilitare, società organica e non aperta e liberale, odio per la democrazia. Sono caratteristiche che porta in modo sanguinoso quell'islam, ma anche certe organizzazioni di sinistra, che tappano la bocca a chi non la pensa come loro».

(il Giornale, 28 settembre 2017)


Di Kippur niente scavi per la metropolitana di Tel Aviv

Le squadre cinesi avanzano presso il sobborgo degli ortodossi

TEL AVIV - Il sobborgo ortodosso di Bene' Braq e' in subbuglio avendo appreso che la squadre di manovali cinesi impegnate nei lavori di scavo della prima linea metropolitana di Tel Aviv saranno impiegate all'ingresso di quel quartiere anche durante il digiuno espiatorio ebraico del Kippur. In quella solennità, che inizierà all'imbrunire di domani e terminerà 25 ore dopo, tutte le attività in Israele si bloccheranno, inclusi i trasporti pubblici di ogni genere e le trasmissioni radio-televisive.
Il municipio di Bene' Braq ha fatto un accorato appello alla società pubblica Neta che gestisce i lavori della metropolitana affinché fermi i macchinari per non offendere i sentimenti degli ortodossi. Neta ha replicato che per il Kippur farà un'eccezione e che quel giorno il gigantesco macchinario che scava nelle viscere della terra non avanzerà; ma squadre di operai dovranno essere egualmente impegnate per la manutenzione. Da parte sua la stampa ortodossa ha invocato un intervento urgente dei partiti confessionali che in passato si sono già mobilitati per bloccare lo svolgimento di lavori pubblici di sabato.

(ANSAmed, 28 settembre 2017)


La Palestina nuovo Stato membro Interpol malgrado il no di Stati Uniti e Israele

La Palestina entra come Stato membro nell'organizzazione di polizia internazionale di 190 Paesi, l'Interpol. Una vittoria diplomatica per l'Autorità nazionale palestinese (Anp) di Abu Mazen e una sconfitta per Israele di Benyamin Netanyahu, che fino all'ultimo, insieme agli Usa, ha cercato di evitare il voto.
Il ministro degli Esteri palestinese Ryad al Maliki ha subito definito il successo «una vittoria del popolo» palestinese. Il premier Benyamin Netanyahu ha replicato che la mossa dell'Anp «viola gli accordi presi in passato con Israele». Riunita a Pechino, l'assemblea generale dell'istituzione ha accettato a grande maggioranza la candidatura palestinese, la stessa che aveva respinto appena un anno fa e che non aveva neppure ammesso al voto nel 2015. Ieri invece è passata a grande maggioranza: a favore sono stati 75 Paesi su 133 ammessi al voto, 24 quelli contrari - tra i quali, secondo quanto si apprende, anche l'Italia - e 34 gli astenuti. Lo scrutinio è stato segreto. Su twitter, l'Interpol ha annunciato che con il voto gli Stati membri sono passati da 190 a 192, con l'ingresso sia della Palestina sia delle Isole Salomone.
Se in Israele il risultato di Pechino è stato perlopiù visto come uno «schiaffo diplomatico», a Ramallah, capitale amministrativa dell'Anp, l'entusiasmo è alle stelle con l'Olp che ha twittato annunciando la vittoria. Al Maliki, citato dalla Wafa, ha affermato che il voto «dà fiducia alle capacità della Palestina nell'applicazione delle leggi e nell'adesione ai valori centrali dell'organizzazione». «Lo Stato di Palestina - ha aggiunto - considera questo sua partecipazione e le responsabilità che comporta parte integrante di quelle verso il popolo palestinese».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 28 settembre 2017)


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Come l'Olp si appresta a festeggiare l'avvenimento

Andrea's Version

La Palestina, rappresentata dall'Autorità nazionale palestinese, è stata ammessa come stato membro nell'Interpol nonostante l'opposizione di Israele e Stati Uniti. Il ministero degli Esteri israeliano, secondo cui la Palestina, non essendo uno stato, non ha qualifiche per diventare membro dell'Interpol, non le ha per ora commentate>. Grande soddisfazione invece presso l'Olp, "In questa lieta occasione - ha scritto il ministro degli Esteri palestinese Riad al Maliki - lo stato palestinese ribadisce l'impegno a sostenere i propri obblighi contribuendo alla lotta alla criminalità e alla promozione dello stato di diritto". L'intenzione è festeggiare l'avvenimento con decine di camion lanciati in pittoresco zig zag sui marciapiedi di Tel Aviv cui seguiranno collaborative indagini.

(Il Foglio, 28 settembre 2017)


Intel apre un nuovo impianto in Israele

 
Intel apre nuovo impianto in Israele. Intel consolida ulteriormente il suo forte legame con Israele con l'annuncio di aprire un nuovo impianto di produzione di chip a Kiryat Gat.
Questo annuncio segue l'acquisizione da parte di Intel della società israeliana Mobileye, la scorsa primavera, per 15 miliardi di dollari.
L'acquisizione di Intel dei produttori di chip per macchine fotografiche e tecnologie di assistenza ai guidatori, hanno posto la base per l'apertura di un nuovo impianto che renderà più conveniente la produzione dei chip. La realizzazione dell'impianto dovrebbe iniziare entro il 2018.
Il nuovo impianto di Kiryat Gat segue il trend di Intel di espandere le sue operazioni in Israele. Il più grande sviluppatore di chip del mondo ha già un impianto a Kiryat Gat, costruito nel 2005. Nel 2015, Intel ha rinnovato questa centrale per prepararla alla produzione di chip di nuova generazione.

Intel in Israele
  • Haifa: Intel's Development Center Israel (IDC) è stato fondato nel 1974 come primo progetto e sviluppo al di fuori degli Stati Uniti;
  • Gerusalemme: il Centro di Sviluppo di Israele si è ampliato geograficamente in diverse località di Israele, tra cui Gerusalemme, dove si concentra l'attenzione per la rete e i componenti di comunicazione;
  • Petach Tikva: il centro di Petach Tikva sviluppa componenti e software per il mercato delle comunicazioni cellulari;
  • Kiryat Gat: il primo centro rappresenta il più grande investimento singolo mai realizzato in Israele da parte del settore privato, a cui poi si aggiungerà il secondo entro il 2018;
  • Yakum: il centro fornisce chipset (l'insieme di circuiti integrati di una scheda madre ) per piattaforme mobili.
Il colosso è attualmente il più grande datore di lavoro in Israele; la Startup Nation ha creato oltre un miliardo di chip per Intel e la nuova fabbrica continuerà ad occuparsi di produzione.

(SiliconWadi, 28 settembre 2017)


Sventato attentato sul Monte del Tempio

GERUSALEMME - Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, afferma di aver sventato dieci giorni fa un attentato armato che due arabi cittadini di Israele progettavano di compiere sul Monte del Tempio di Gerusalemme, emulando cosi' quello del 14 luglio scorso in cui tre agenti di polizia furono uccisi da altri attentatori arabi. In un comunicato lo Shin Bet precisa di aver compiuto i nuovi arresti nella localita' araba di Um el-Fahem (nel nord di Israele) e di aver trovato in loro possesso due pistole e munizioni. Si tratta, secondo lo Shin Bet, di fiancheggiatori dello Stato islamico. Con loro e' stato arrestato un terzo abitante di Um el-Fahem, pure sostenitore dello Stato islamico, che era in possesso di un fucile Carl Gustav. ''Il sostegno allo Stato islamico che giunge da arabi cittadini di Israele - afferma lo Shin Bet - costituisce una grave minaccia''.

(Fonte: ANSAmed, 28 settembre 2017)


Lupi non tanto solitari

L'Autorità Palestinese non ha nulla a che fare con l'ultimo attentato, ma continua a fomentare il terrorismo con istigazione, glorificazione e finanziamenti

Il mortale attentato terroristico di martedì scorso non lontano da Gerusalemme corrisponde a un modello ormai familiare, nell'ondata di terrorismo scoppiata con l'autunno 2015: un singolo terrorista tipo "lupo solitario", caratterizzato da una serie di problemi personali che lo spingono a uccidere israeliani come scorciatoia per entrare nel pantheon dell'"eroismo" palestinese.
Finora le indagini dei servizi di sicurezza israeliani hanno rivelato che il terrorista, un 37enne originario del vicino villaggio palestinese di Beit Surik, non era molto diverso dalle centinaia che l'hanno preceduto. Messo di fronte a una problematica situazione domestica - la moglie, che lui picchiava, si era rifugiata nella propria famiglia in Giordania lasciandolo ad occuparsi dei quattro figli - ha deciso di uccidersi. Ma invece di porre fine alla sua vita come un qualsiasi signor nessuno, ha scelto la strada che lo avrebbe trasformato in un eroe palestinese e che avrebbe procurato significativi vantaggi economici alla vedova e ai figli che gli sarebbero sopravvissuti....

(israele.net, 28 settembre 2017)


E l'israeliano Genish si prepara a guidare Tim

Oggi il consiglio del gruppo per la nomina. Il ruolo di «garanzia» di Recchi.

di Federico De Rosa

 
Amos Genish con la moglie
ROMA - Il comitato nomine di Tim avrebbe sciolto la riserva sul nome del nuovo amministratore delegato. Sul tavolo ieri è arrivata una lista composta da quattro nomi e tra questi la scelta sarebbe caduta su Amos Genish, il manager israeliano che Vincent Bolloré ha inviato a luglio a Roma dopo l'uscita di Flavio Cattaneo. Una scelta annunciata, ma non scontata.
   La nomina dovrà essere ufficializzata oggi dal consiglio di amministrazione, che si riunirà nel pomeriggio in contemporanea al comitato per il «golden power» di Palazzo Chigi. La riunione del comitato è decisiva per il futuro assetto di Tim e questo lascia ancora qualche residuo margine di incertezza sulla nomina di Genish, che tuttavia appare ormai decisa. Per la prima volta il gruppo telefonico si troverebbe ad avere una guida tutta straniera. Il manager israeliano affiancherebbe infatti Arnaud de Puyfontaine, presidente operativo di Tim e ceo di Vivendi. Una soluzione che potrebbe anche non incontrare il favore del governo, con cui è in corso un braccio di ferro, il quale ha però tutte le armi per evitare che i francesi mettano le mani sugli asset strategici per la sicurezza nazionale.
   Certo, per Vivendi diventerebbe difficile a questo punto continuare a sostenere che non controlla Tim, come ha accertato invece la Consob contro il parere del gruppo francese e della stessa società telefonica che ha promosso ricorso contro la decisione della Commissione. Questo potrebbe spalancare la porta a una sanzione per omessa notifica e creare anche le premesse per l'esercizio del «golden power» su Sparkle, la società che controlla la rete internazionale di Tim. Con la nomina di Genish, oltre alla conferma di De Puyfontaine alla presidenza verrebbe confermato anche il ruolo di vicepresidente di Giuseppe Recchi, che manterrebbe le deleghe su Sparkle e security, che per motivi di sicurezza non possono andare a Genish.
   Oltre ad attendere la conferma da parte del consiglio, sarà importante capire quale strategia ha in mente Genish per Tim. Il manager, che ha fatto fortuna in Brasile fondando la compagnia telefonica Gvt - finita sotto le insegne di Vivendi, che a sua volta l'ha rivenduta a Telefonica ottenendo in cambio azioni Tim - è un esperto di reti ultraveloci e dunque è su questo fronte che si dovrebbe vedere il cambio di passo. Non ha invece molta esperienza nei contenuti media, core business di Vivendi che vuole trasformare Tim in una media company europea. In pista c'è una joint venture tra Tim e Canal+, di cui sono state poste le basi concrete con la firma del «term sheet» che stabilisce quote e investimenti nella nuova società.
   E c'è ovviamente il dossier Mediaset, che a Parigi non hanno ancora riposto, nonostante i paletti fissati dall'AgCom, le cause e le richieste miliardarie di danni da parte del gruppo del Biscione. Alcune voci riferiscono di advisor al lavoro su entrambi i fronti per tentare un accordo. Che potrebbe anche partire da un coinvolgimento di Mediaset nella joint-venture Tim-Canal+.

(Corriere della Sera, 28 settembre 2017)


Il mondo ha cinquanta muri, ma solo quelli di Israele sono condannati.

La strage di ieri fuori Gerusalemme ci ricorda a cosa servono

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche giorno fa il governo spagnolo ha annunciato di voler investire altri dodici milioni di euro nel muro che sigilla le sue due enclave, Ceuta e Melilla, contro le infiltrazioni di migranti. La barriera è stata costruita coi soldi dell'Unione europea. "Il muro che chiude l'Europa", hanno scandito le ong, dopo gli scontri nelle enclave fra migranti e polizia spagnola. Intanto, l'Agenzia per la protezione dei confini degli Stati Uniti diffondeva i prototipi del muro avviato da Bill Clinton e che Donald Trump vorrebbe continuare al confine con il Messico. Nel frattempo, il trentottesimo parallelo, dove c'è il confine fortificato fra la Corea del nord e quella del sud, diventava il posto più caldo della terra. Tutte queste tre barriere sono state costruite per impedire il passaggio di popolazioni, per tenere fuori qualcuno. Lo stesso vale per il muro al confine fra India e Kashmir, il "muro della vergogna" del Marocco nel Sahara o quello che i ricchi sceicchi degli Emirati arabi hanno fatto costruire al confine con il più povero Oman, per citare altri tre fra i cinquanta muri sparsi nel mondo. Poi ci sono le barriere di Israele, dove ieri si è consumato un nuovo terribile attentato.
   Era mattina, quando un palestinese di nome Nimer Jamal, che su Facebook aveva appena scritto di "temere solo Allah", con il suo permesso di lavoro si stava avvicinando alla barriera posta a protezione dell'insediamento di Har Adar, poco fuori Gerusalemme, nella cosiddetta "seam zone" a ridosso del fence antiterrorismo. Al checkpoint, i soldati israeliani lo hanno fermato. Jamal ha tirato fuori la pistola e ha ucciso tre israeliani. A Gaza, i palestinesi per strada hanno subito distribuito dolci ai passanti, mentre Hamas salutava "la nuova fase dell'Intifada al Aqsa". "Questo attentato è il risultato del sistematico incitamento all'odio da parte dell'Autorità palestinese", ha detto il premier Benjamin Netanyahu. L'attacco ha dimostrato l'importanza del sistema di checkpoint e fence che Israele negli anni ha eretto a protezione di Gerusalemme. "La barriera ha fatto il suo lavoro", ha detto ieri Nitzan Nuriel, l'ex direttore del bureau antiterrorismo del primo ministro. 60 israeliani sono stati uccisi in attacchi terroristici dall'inizio dell'ultima ondata di violenze, nel settembre 2015. Due settimane fa lo Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, ha reso noto che soltanto nel 2017 Israele ha sventato 200 attacchi terroristici. Eppure, solo le barriere israeliane sono condannate dalla Corte internazionale di giustizia, solo "i muri" di Israele sono trasformati nella mecca degli attivisti della "pace" e solo le sue recinzioni sono condannate dall'opinione pubblica e dai media occidentali.
   Eppure, nessuno dei paesi recintati e citati sopra vengono infiltrati con il "sacro" scopo di uccidere persone innocenti. Tijuana, la città-simbolo del muro che divide Usa e Messico, non è Qalqilya, la città palestinese a quindici chilometri da Tel Aviv, nota come "Hotel Paradiso", perché utilizzata da tanti terroristi come punto di passaggio in Israele. E' vero che chiunque passa da un punto di controllo israeliano viene potenzialmente trattato come ostile. E' vero che i controlli sono spesso un insulto alla vita quotidiana palestinese. Ma senza i checkpoint, le recinzioni, i blocchi stradali e le barriere, Israele non sarebbe in grado di esistere. E' questo che ci ricordano i tre morti israeliani di ieri.

(Il Foglio, 27 settembre 2017)


Il Parlamento israeliano ordina la revisione sul futuro acquisto di F-35

 
F-35
In coincidenza con l'idea del Pentagono se si debbano ritirare 100 F-35 dal servizio piuttosto che aggiornarne in modo costoso il software obsoleto, il Parlamento israeliano esaminerà se ci siano alternative migliori ai costosi aviogetti della Lockheed Martin.
   Il parlamento israeliano ha sostenuto che i piani per procurarsi 50 aerei da combattimento F-35 Adir, nomenclatura ufficiale israeliana del jet, impressionante in ebraico moderno, indicando la necessità di analizzare alternative prima di acquistare altri 25-50 F-35 richiesti dall'Aeronautica israeliana. L'IAF considera l'impiego di 75-100 F-35 in totale. Israele è stato il primo Paese a scegliere l'F-35 col programma di vendite militari estere del governo statunitense, ed è l'unico partner che il Pentagono autorizza a modificare l'aviogetto secondo le specifiche dell'IAF e con tecnici israeliani (al contrario degli equipaggi di manutenzione della Lockheed Martin). Alcuni dei primi F-35 usciti dalle linee di produzione verrebbero relegati solo all'addestramento viste le costose misure necessarie per adeguarne i software dal Block 2B al Block 3F per l'operatività, secondo Sputnik del 25 settembre. "Con tutte la limitazioni esistentfi che l'F-35 presenta, come incendio del motore, piloti privati dell'ossigeno e caschi potenzialmente pericolosi, "non possiamo ignorare la necessità di valutarne minuziosamente il futuro, specialmente riguardo le piattaforma da combattimento aereo, data la tecnologia cosi costose; cruciale a soggetta a rapida evoluzione", scrivevano i parlamentari in un documento pubblicato il 25 settembre. L'Aeronautica israeliana dovrebbe esaminare velivoli senza equipaggio e altre fonti di tiro di precisione per sostituire l'F-35 Adir, afferma la relazione del comitato per gli affari esteri e la difesa della Knesset.
   L'IDF ha accettato due nuovi F-35 il 16 settembre, secondo Sputnik, portando a 7 il numero totale di Adir nell'aviazione del Paese. Israele ha completato il processo di acquisizione di 19 F-35 al prezzo di 125 milioni di dollari ciascuno, conclusa la seconda fase di pagamento alla Lockheed Martin di 112 milioni dollari ad unità per 14 aviogetti, ed ha recentemente firmato un terzo accordo per altri 17 F-35, il 27 agosto. Tutti gli aerei dovrebbero essere consegnati entro il 2024, a quel punto l'IAF avrà due squadriglie di F-35.

(Aurora, 27 settembre 2017 - trad. Alessandro Lattanzio)


Idee concrete per far funzionare l'asse cyber tra Italia e Israele

Il modello Netanyahu può essere applicato nel nostro paese. Lo spunto di Cybertech e un progetto per un grande incubatore

di Michele Pierri

ROMA. Che cosa vuol dire seguire il modello Israele quando si parla di sicurezza? Per alcuni giorni Roma è stata, e sarà fino a oggi, una delle capitali della sicurezza cibernetica e nel corso di una delle più importanti manifestazioni mondiali di settore - la Cybertech Europa - i più grandi operatori del settore hanno avuto la possibilità di mettere insieme idee per riflettere su una delle minacce del nuovo millennio: le offensive cyber, Le stime di mercato valutano che l'80 per cento delle imprese europee sono state colpite almeno una volta da attacchi cyber e stimano in 8mila miliardi di dollari l'impatto su scala mondiale del pericolo cibernetico nei prossimi 5 anni. Gli eventi registrati rappresentano però solo una parte del problema. Da un lato sono in costante crescita i tentativi-anche da parte di stati sovrani- di interferire nei processi decisionali di altre nazioni attraverso campagne di disinformazione e disseminazione di fake news attraverso la rete. Dall'altro lato il web rappresenta ormai lo strumento privilegiato dai jihadisti per comunicare, fare propaganda e proselitismo, "formarsi". Che soluzioni possono esistere per affrontare queste sfide?
   Qui si torna a Israele. La collaborazione tra le due nazioni in ambito cyber va oltre questo evento. Grazie a un accordo bilaterale di cooperazione scientifica e industriale, i due paesi hanno dato vita a un laboratorio congiunto sulla cyber-security realizzato dall'università di Tel Aviv e da quella di Modena e Reggio Emilia. E' iniziata così un'attività che ha consentito di sviluppare in Italia un polo che si avvale delle esperienze israeliane ai livelli più alti e che, sottolinea Colajanni a Cyber Affairs, "sta portando a nuove collaborazioni nel campo della sicurezza dell'automotive e dei cyber-physical system". Replicabile o meno, dunque, quanto fatto da Israele (e, per altri versi, dagli Stati Uniti) resta un 'benchmark' dal quale trarre spunto e ispirazione. Non è un segreto che il governo israeliano abbia investito da tempo una grossa parte della sua attenzione istituzionale sulle questioni relative alla sicurezza cibernetica, sia sotto il profilo militare e d'intelligence (per la salvaguardia dei propri interessi strategici), sia come volano e veicolo dello sviluppo economico.
   Uno degli elementi che sta spingendo il successo di Israele in questo frangente è stata la decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu di creare un cluster di sicurezza informatica in una città nel deserto, Beher-Sheva. CyberSpark industry iniziative, questo il nome dell'insediamento, altro non è che un progetto nazionale lanciato nel 2014 con l'obiettivo di riunire in un solo posto le aziende locali, le multinazionali globali, tutti i livelli di governo, i militari e il mondo accademico, e sostenere così lo sviluppo di un ecosistema informatico fiorente. Israele, anche grazie a questa iniziativa, ha visto nascere nel suo CyberSpark circa 350 aziende nazionali che hanno come core business proprio la cyber security e che esportano annualmente e in tutto il mondo, secondo le stime più recenti, servizi e tecnologie per circa 6 miliardi di dollari. In quest'ambito l'Italia non è all'anno zero, ma sta anzi compiendo passi in avanti che si muovono nel solco di quanto fatto finora da Israele.
   Dopo l'arrivo del nuovo Piano nazionale per la protezione cibernetica, varato il 31 maggio, uno degli elementi di evidente novità risiede nella volontà del governo di dare avvio alla creazione di un fondo di venture capital per il finanziamento di start up e la partecipazione al capitale societario di realtà imprenditoriali d'interesse (progetto messo in atto di recente dal Mossad). Una novità che va legata all'ulteriore obiettivo di istituire un Centro nazionale di ricerca in cyber security, uno di crittografia e di valutazione e certificazione per la verifica delle condizioni di sicurezza e dell'assenza di vulnerabilità delle tecnologie cyber.

(Il Foglio, 27 settembre 2017)


«Libera Chiesa in libero Stato»: così vennero regolati i rapporti tra cattolici e comunisti

Lo stato italiano, se da un lato afferma la propria sovranità sul piano dei principi giuspolitici, dall'altro è costretto a negarla, accettando che nel proprio territorio esista un altro ente, o meglio, un altro Stato, la Chiesa cattolico-romana, avente pari sovranità. La seconda puntata della serie che ripercorre la storia degli articoli più controversi della Costituzione in vigore dal primo gennaio 1948.

di Dino Messina

 Le tre ipotesi di Costituzione
  L'accoglimento dei Patti lateranensi nella nostra Costituzione fu la pietra dello scandalo non soltanto negli ambienti della sinistra ma anche nel fronte moderato. Con l'approvazione dell'articolo 5 (futuro articolo 7) con 350 voti a favore e 149 contrari nella seduta della Costituente la notte fra il 25 e il 26 marzo 1947, il Vaticano riportò una clamorosa vittoria e vennero poste le basi di quel compromesso fra cattolici e comunisti la cui eco si riverbera sino ai nostri giorni. Il tema della libertà religiosa e dei rapporti con la Santa Sede si era imposto all'attenzione dei Costituenti già dal novembre 1946.
  Trascurata negli anni della Resistenza, a parte l'opuscolo di Arturo Carlo Jemolo del 1943, «Per la pace religiosa in Italia», la questione si era fatta incandescente nei primi mesi del 1947. Papa Pio XII seguiva con grande attenzione la discussione e aveva chiesto a padre Giacomo Martegani, il gesuita direttore della «Civiltà cattolica», di elaborare tre ipotesi di Costituzione: una desiderabile, che prevedeva oltre al riconoscimento del cattolicesimo quale religione di Stato anche un'ipoteca sulla confessione di futuri Capi di Stato, i quali non avrebbero potuto fare dichiarazioni di agnosticismo o peggio di laicismo; una accettabile; e una non accettabile. Naturalmente il testo elaborato dal think-tank gesuitico rimase a lungo segreto, mentre si svolgeva quasi alla luce del sole il via-vai tra i vari rappresentanti dei partiti e il Vaticano.

Art. 7.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.



 La crescente rilevanza diplomatica del Vaticano
  Il capo dei comunisti, Palmiro Togliatti, soprattutto nei giorni precedenti la votazione, aveva trovato il mediatore di fiducia in don Giuseppe De Luca, che riferiva a monsignor Giovanni Battista Montini. Giuseppe Dossetti, uno dei «professorini» cattolici che tanta parta ebbe nella redazione della Costituzione e che alla fine riuscì a imporre l'inserimento nella Carta fondamentale dell'articolo 7, per dialogare con la segreteria di Stato si affidava a monsignor Angelo Dell'Acqua. C'era, insomma, un via vai continuo tra le due sponde del Tevere. Un traffico dovuto anche alla crescente rilevanza diplomatica che il Vaticano aveva assunto in quella fase storica che vedeva l'Italia, sconfitta in guerra e isolata, debolissima al tavolo delle trattative di pace. Mentre la Santa Sede tesseva soprattutto con gli Stati Uniti relazioni favorevoli all'Italia. Vale la pena ricordare che anche all'interno della Democrazia cristiana non c'era accordo. Alcide De Gasperi e Mario Scelba, il cui cattolicesimo non faceva velo al loro fermo antifascismo, non credevano per esempio che inserire i Patti lateranensi in Costituzione fosse la soluzione migliore. Era troppo per chi come De Gasperi aveva subito due volte la galera e nel ventennio si era dovuto accontentare di un anonimo posto di bibliotecario in Vaticano, vedere riconosciuto in Costituzione uno dei successi e degli atti firmati personalmente da Benito Mussolini.

 La contraddizione tra gli articoli 3 e 7
 
Giuseppe Dossetti, uno dei «professorini» cattolici che tanta parta ebbe nella redazione della Costituzione e che alla fine riuscì a imporre l'inserimento nella Carta fondamentale dell'articolo 7
  Alla fine il leader della Dc si adeguò alla scelta della Prima commissione dei 75, dopo che erano abortite anche le proposte di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, e di Palmiro Togliatti. Quest'ultimo aveva proposto la seguente formula: «I rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari», mentre De Nicola aveva fatto un passo ulteriore, proponendo «I rapporti tra Stato e Chiesa continueranno a essere regolati in termini concordatari» e fissando una continuità con il 1929. Ma nessuna delle due formule piacquero alla segreteria di Stato vaticana, invece favorevole alla formula proposta da Dossetti approvata in quella fatidica notte del 25 marzo, all'1.30: «Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Cosicché sino al 1984, quando Bettino Craxi promosse la revisione del Concordato, abbiamo avuto una Costituzione che aveva una enorme contraddizione al suo interno: all'articolo 3 diceva che i cittadini sono uguali davanti alla legge a prescindere dal credo religioso, mentre all'articolo 7, con il rimando al Patti lateranensi, riconosceva il cattolicesimo quale religione di Stato.

 I comunisti contrari alla formula di Dossetti
 
18 febbraio 1984 - Il Segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Agostino Casaroli, e Bettino Craxi alla firma della revisione del Concordato tra Vaticano e Stato Italiano
  Una contraddizione evidenziata subito il 20 marzo dal fine giurista Piero Calamandrei, relatore tecnico sulla questione assieme a Giuseppe Dossetti. «Si introducono di soppiatto — disse Calamandrei — norme che sono in urto con altri articoli della Costituzione stessa». Il riferimento era anche all'articolo 8, che al primo comma recita: «Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge». Da una dichiarazione di Giancarlo Pajetta in quella stessa seduta («la formula di Cavour, libera Chiesa in libero Stato, non è superata») sembrava che anche i comunisti fossero contrari alla formula proposta da Dossetti, invece il 25 marzo, tra la costernazione di molti, Palmiro Togliatti dichiarò che in nome della pace religiosa avrebbe votato come De Gasperi. Il capo comunista non voleva lasciare ai democristiani la palma di difensori della pace religiosa. Togliatti, da quel grande stratega che era, aveva in mente il rapporto con le masse cattoliche. Il socialista Pietro Nenni, che come tutti i suoi votò contro, come del resto gli azionisti, i demolaburisti, i repubblicani, parte dei liberali, il giorno dopo annotò con arguzia e lucidità nel suo diario: «E' cinismo applicato alla politica. Non è il cinismo degli scettici ma di chi ha un obiettivo. E' la svolta di Salerno che continua, applicata questa volta alla Chiesta e ai cattolici» .

 Il credo liberale di Croce
 
La firma dei Patti lateranensi l'11 febbraio del 1929, tra Benito Mussolini e il segretario di Stato vaticano Pietro Gasparri
  Anche tra i comunisti ci fu chi, come il latinista Concetto Marchesi e Teresa Noce, disobbedì agli ordini del capo e votò contro. La cultura laica uscì sconfitta sull'articolo 7. E ciò è testimoniato anche dalle dichiarazioni di alcune grandi personalità del mondo prefascista, come quella resa da Francesco Saverio Nitti, che in nome dei vantaggi politici dell'accordo, dichiarò: «Io, contrario, voterò a favore». Il Partito liberale aveva lasciato libertà di coscienza ai propri deputati, ma Benedetto Croce, portabandiera e più alto rappresentante del pensiero liberale italiano, coraggioso estensore nel 1925 del «Manifesto degli intellettuali antifascisti», tenne a chiarire la sua posizione in una lettera al Corriere della sera del 29 marzo. Il filosofo, che non aveva potuto partecipare alla votazione per un malessere fisico, volle ricordare agli italiani la sua posizione. Il suo credo laico non aveva mai tentennato, come invece accadde a Nitti. Scrisse Croce: «Io parlai alla Costituente nel modo più chiaro contro l'inserzione dei Patti lateranensi in Costituzione, che stimo una mostruosità giuridica».

(Corriere della Sera, 27 settembre 2017)


Un vero governo liberale che ha a cuore la libertà e la sua propria indipendenza, e desidera il trionfo della Verità, deve iniziare il grande rinnovamento morale d'un popolo con questo atto: ABOLIZIONE DELLA RELIGIONE DI STATO.
Ciò che ora chiamasi Religione di Stato, è invenzione del principato assoluto - non è Dio nello Stato, ma una casta di uomini che costituiscono quella religione e che s'identificano collo Stato, - è il pretume che detta la legge a Dio ed ai re.
"Della Religion di Stato", di Teodorico Pietrocola Rossetti, 1847


Da Italia e Israele primi segnali di cooperazione cyber nel settore privato

di Francesco Bussoletti

L'ambasciatore Ofer Sachs: Bisogna incrementare la cyber cooperazione tra Italia e Israele sul settore privato, con iniziative come Cybertech

"Vediamo oggi i primi segnali di cooperazione tra Italia e Israele sul versante del settore privato". Lo ha spiegato a Difesa & Sicurezza l'ambasciatore del paese ebraico a Roma, Ofer Sachs, a margine di Cybertech Europe. "Mettiamo da parte quella governativa, che esiste ad alto livello ed è cruciale - ha sottolineato il diplomatico -, e spostiamoci su un nuovo livello. Che è coinvolgere il settore privato nella partita. Ecco perché abbiamo fatto sforzi come questo, mettendo insieme attori, delegazioni e realtà delle due nazioni. Siamo stati molto felici che Intesa San Paolo ed Enel abbiano deciso di aprire attività nel nostro paese a Tel Aviv. Hanno vinto un tender per creare e gestire un laboratorio di innovazione, che sarà uno strumento forte di cooperazione. Servono, comunque, più iniziative di questo tipo - ha aggiunto -. Sia qui in Italia sia in Israele. L'unico modo affinché ciò avvenga, però, è mettere insieme i rispettivi imprenditori".
A Roma sono arrivate 13 startup del paese ebraico, ognuna con le sue idee sulla cybersecurity. Ma tutte interessate a dialogare con partner italiani.
A conferma delle parole dell'ambasciatore Sachs, la delegazione israeliana a Cybertech è composta da una serie di soggetti istituzionali, ma anche da molte aziende. Sul primo versante ci sono - tra gli altri -, la cybersecurity unit dello Israel Export & International Cooperation Institute's (IEICI); l'amministrazione del Commercio estero del ministero dell'Economia del Paese ebraico; il National Cyber Directorate dell'ufficio del primo ministro. Sul secondo, 13 aziende e startup di diverso tipo. BitDam, Commugen, Crusoe Security, CybInt, GuardiCore, Idefend, Minerva, NsKnox technologies, SecBI, SecuPi, SIGA- SCADA Cyber Alert Systems, Reblaze technologies e Votiro. Tutte si occupano di cybersecurity e di protezione dalle cyber minacce. Ognuna, però, ha idee e metodologie diverse. Per le aziende italiane si tratta di un'ottima opportunità, non solo di cooperazione. Ma anche per capire in che direzione si sta muovendo il panorama.

(Difesa e Sicurezza, 26 settembre 2017)


Start Jerusalem Competition 2017

La competizione organizzata dal ministero degli Esteri israeliano e dall'Autorità per lo sviluppo di Gerusalemme darà l'opportunità alle giovani startup di 35 paesi differenti di trascorrere un soggiorno pagato nella cosiddetta startup nation, Israele

Gerusalemme si apre agli startupper offrendo loro l'ispirazione di uno dei paesi più attivi nel campo dell'innovazione, Israele. Start Jerusalem è un evento di cinque giorni che vedrà approdare in Medio Oriente startup provenienti da 35 nazioni differenti. L'organizzazione della manifestazione è del ministero degli Esteri israeliano e dell'Autorità per lo sviluppo di Gerusalemme.

 Precedenza ai founder giovani
  I destinatari dell'iniziativa sono i progetti di impresa nel settore informatico, dal mobile all'internet of things, passando per il web. Particolare attenzione anche alle startup che si interessano di proporre soluzioni per migliorare la qualità della vita e l'innovazione sociale e urbana. La competizione è aperta alle startup che si trovino in fase seed o early stage e che siano in grado di dimostrare il loro valore, anche senza un prototipo. Nella selezione avranno priorità i founder più giovani, con un'età compresa tra i 23 e i 35 anni.

 Cinque giorni nell'ecosistema israeliano
  In palio per i vincitori c'è un soggiorno pagato in Israele con la possibilità di partecipare a un programma esclusivo che metterà gli imprenditori in comunicazione con le figure di rilievo dell'ecosistema israeliano, tra cui investitori ed esperti. Per iscriversi e partecipare alla selezione c'è tempo fino al 4 ottobre. Candidarsi è semplice: basta inviare un'email all'indirizzo startjerusalem@roma.mfa.gov.il. Il messaggio dovrà contenere un video di circa 5 minuti in lingua inglese in cui si presenta ciascun progetto, una descrizione scritta di massimo 500 parole e il curriculum in inglese del ceo o del founder della startup. In aggiunte si può scegliere di inviare anche una demo del prodotto.

(StartupItalia!, 26 settembre 2017)


Anp e la riconciliazione con Hamas nel segno del terrore

Guardie di frontiera israeliane sotto attacco: segnali di guerra da Gaza

I deliranti comunicati di giubilo emanati da Hamas dopo il sanguinoso attacco perpetrato questa mattina contro le guardie di frontiera israeliane di Har Hadar, a nord ovest di Gerusalemme, rappresentano senza dubbio una delle conseguenze più immediate e nefaste dell'accordo tra Anp, l'Autorità nazionale palestinese, e i terroristi di Hamas concluso solo da pochi giorni.

 Da Gaza segnali di guerra
  Sui maggiori social network si sono susseguite espressioni di giubilo e di preghiera per "il martire" caduto in combattimento contro gli oppressori. Nella Striscia di Gaza sarebbero stati addirittura distribuiti viveri e dolciumi per festeggiare l'evento e, conformandosi a questo quadro stucchevole, il portavoce di Hamas per la striscia di Gaza, Hazzam Qassam, ha ribadito che l'attentato rappresenta la prosecuzione dell'intifada per Gerusalemme, sottolineando che ogni tentativo di "giudaizzare" la città sarà vano. Da Gaza, quindi, solo segnali di guerra.
  A fronte delle reazioni di Hamas all'attentato di oggi, perfettamente in conformità alla linea jihadista contro Israele seguita da sempre dal movimento islamista, l'Anp non si è ancora espressa, ribadendo il suo sostanziale pragmatismo nell'approccio alla questione dei territori in mano ad Hamas.
  Gli accordi intercorsi tra Abu Mazen e Ismail Haniyeh, sanciti con la mediazione dell'Egitto, sembrano aver segnato la fine delle divisioni tra i due grandi schieramenti e potrebbero rappresentare un'occasione propizia per restituire stabilità politica ad una regione che, attenendosi ai pur flebili accordi di Oslo del 1993, potrebbe trarre giovamento sia in termini di sviluppo economico che, soprattutto, in segno distensivo nei confronti di Israele.
  Ma questo sembra non interessare Hamas né tantomeno i suoi emuli o seguaci, come l'attentatore di questa mattina che non ha esitato a colpire ed uccidere 3 guardie di frontiera israeliane, ferendone una quarta e rimanendo a sua volta ucciso nel conseguente conflitto a fuoco. Il gesto, se ad un primo esame potrebbe sembrare isolato, per gli analisti di settore rappresenta, invece, una volontà di dare continuità agli attacchi contro l'esercito di Netanyahu e, soprattutto, un segnale forte a chi valutava gli accordi intercorsi con l'Anp in chiave distensiva contro il nemico di sempre: Israele.
  A poco sembrano valere le parole che il presidente Abu Mazen, aveva pronunciato successivamente alla stipula degli accordi con Hamas, per le quali la riconciliazione tra Anp e Hamas non smentirebbe i propositi di pace con Israele né quelli della soluzione dei "due Stati".

(OFCSreport, 26 settembre 2017)


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Unione Europea: "riprovevoli" i tentativi di Hamas di glorificare l'attacco in Cisgiordania

BRUXELLES - I tentativi di Hamas di glorificare l'attacco di oggi in Cisgiordania, all'ingresso dell'insediamento di Har Adar, "sono riprovevoli": lo sottolinea una nota del Servizio europeo per l'azione esterna (Seae), dopo l'attacco di stamattina che ha causato la morte di un poliziotto e di due guardie di frontiera israeliane, con un'altra guardia che è rimasta gravemente ferita. "Non ci può essere giustificazione per un tale crimine - sottolinea la nota - e i tentativi di Hamas di glorificare l'attacco sono riprovevoli. La violenza e il terrore otterranno solo maggiori perdite e dolore, e devono essere fermate. L'Unione europea - conclude la nota - porge le sue più profonde condoglianze alle famiglie delle vittime".

(Agenzia Nova, 26 settembre 2017)


Attentato in Cisgiordania, uccisi tre israeliani

Un uomo di 37 anni, proveniente dal villaggio di Beit Sourik, ha aperto il fuoco al checkpoint di Har Adar, insediamento ebraico nei Territori Occupati. Abbattuto dalle forze di sicurezza.

 
La zona dell'aggressione
Tre cittadini israeliani sono stati uccisi il 26 settembre in un attacco compiuto all'ingresso dell'insediamento ebraico di Har Adar, nella Cisgiordania occupata. Il killer, un uomo di 37 anni proveniente dal vicino villaggio di Beit Sourik, è stato a sua volta ucciso dalle forze di sicurezza.
Le vittime, uccise a colpi di pistola, sono un poliziotto e due guardie di frontiera, tutti tra i 20 e i 30 anni. Un quarto cittadino israeliano, rimasto ferito, è ricoverato a Gerusalemme in gravi condizioni. L'esercito israeliano ha isolato il villaggio da cui proveniva l'attentatore: fino a nuovo ordine, gli abitanti potranno uscire solo per motivi umanitari.

 Hamas: «nuovo capitolo dell'intifada»
  Hazzam Qassam, portavoce di Hamas, ha detto che l'attacco è «un nuovo capitolo dell' intifada di Al-Quds», nome arabo di Gerusalemme. La città, ha detto ancora Qassam, «è arabo-musulmana, i suoi cittadini e i suoi giovani non risparmieranno alcuno sforzo per redimerla con il loro spirito e il loro sangue».

 L'attentatore aveva un regolare permesso
  L'attentatore aveva un regolare permesso di lavoro in Israele che gli consentiva di entrare nell'insediamento. Secondo la ricostruzione fornita dalla polizia, ha destato sospetti mentre si avvicinava al checkpoint di Har Adara e gli agenti gli hanno ordinato di fermarsi. A quel punto ha estratto una pistola e ha aperto il fuoco.

(Lettera43, 26 settembre 2017)


Gemellare Torino e Gerusalemme

La proposta della Lega Nord:"Importante iniziare un dialogo costruttivo con Israele". Lo ha annunciato il consigliere Fabrizio Ricca.

"Abbiamo presentato questa mattina la proposta di gemellaggio tra la Città di Torino e quella di Gerusalemme". Ad annunciarlo è il consigliere della Lega Nord Fabrizio Ricca, che prosegue:"Torino ha sempre avuto una vocazione nel dialogo internazionale plurale e non unilaterale ed è per questo che, dopo il gemellaggio del 1999 con Gaza, riteniamo importante iniziare un dialogo costruttivo e proficuo con lo Stato d'Israele".
"Proprio per tale ragione la scelta della città da gemellare è ricaduta su Gerusalemme: in virtù della sua peculiarità di essere Città Santa per Ebraismo, Cristianesimo ed Islam, è - più di ogni altra città - elemento unificante e non divisivo, inclusivo e non emarginante, e rivestendo un ruolo importante quale emblema di democrazia, di rispetto e di tutela della libertà di culto e dei diritti di ogni minoranza etnica e/o religiosa". "Tale atto amministrativo rappresenta, a livello politico, la conferma del sostegno e dell'amicizia che nutriamo nei confronti dello Stato d'Israele", conclude Ricca.

(TorinoOggi, 26 settembre 2017)


Aiutati dagli italiani o dalla sorte. Gli ebrei sfuggiti all'orrore nazista

Liliana Picciotto racconta le vicissitudini di chi scampò alla deportazione e alla Shoah (Einaudi)

di Antonio Ferrari

Esce oggi in libreria il volume di Liliana Picciotto Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah1943- 1945 (pagine XIX-565, € 38). Si tratta di una ricerca del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) su coloro che riuscirono a sottrarsi alla deportazione.

Liliana Picciotto è autrice del Libro della Memoria (Mursia, 1991) sugli ebrei italiani deportati dai nazisti. Inoltre ha dedicato al campo di Fossoli il saggio L'alba ci colse come un tradimento (Mondadorì. 2010).

Dico subito che è stato stimolante leggere il libro-documento di Liliana Picciotto, che ha un titolo accarezzato dal vento della speranza: Salvarsi (Einaudi). Stimolante perché questo studio documentatissimo sugli «ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah dal 1943 al 1945» ha l'indubbio merito di sfatare alcuni luoghi comuni: che cioè il fascismo italiano fosse una sola cosa con il nazismo di Adolf Hitler. Intendiamoci. I due regimi erano imparentati nell'ideologia e compenetrati inesorabilmente. Il leader-pagliaccio (come molti lo definivano in Germania, persino i comunisti) che veniva da Vienna, di sicuro meno attrezzato culturalmente di Benito Mussolini, aveva copiato il Duce all'inizio, costringendolo poi all'abbraccio mortale sul fronte di una guerra orrenda e di una sfida mortale. Guerra e sfida che hanno annientato più di una generazione di giovani. Decine di milioni di morti.
   Preambolo necessario per introdurre il tema della ricerca del Centro di documentazione ebraica contemporanea, che dimostra con cura e scrupolo i risultati di una indagine, prevalentemente orale ( con tutti i limiti che questo approccio comporta) per capire quanti furono gli ebrei che riuscirono a salvarsi dalla deportazione nei campi di sterminio.
   Cito testualmente un passaggio del libro di Liliana Picciotto: «Gli ebrei presenti, alla fine di settembre del 1943, nell'Italia occupata, erano 38.994, di cui 33.452 italiani e 5.542 stranieri. Di tutti costoro,
   quelli identificati, arrestati e deportati (morti e sopravvissuti) oppure uccisi in Italia prima della loro deportazione, sono stati 7.172. Rimasero perciò non catturati e sfuggiti alla Shoah 31.822 ebrei, tra italiani e stranieri, oggetto di questa ricerca ... Gli scampati rimasti in patria furono cioè più del1'81 per cento».
   Ovviamente, l'inizio della persecuzione sistematica è del mese di novembre del 1938, quando il governo fascista, con il Regio decreto legge 1728/1938 stabilì che diventava imperativo emanare i «Provvedimenti per la difesa della razza», sottintendendo che la razza incriminata fosse quella ebraica. La persecuzione aveva gravi conseguenze sociali (perdita del lavoro, espulsione dalle scuole del regno) ed economiche. Nessuno degli ebrei però, a parte i più darsene, immaginava quel che po! sarebbe accaduto.
   E evidente che le leggi razziali furono suggerite e caldeggiate da Hitler, e in realtà Mussolini vi si adeguò con qualche mal di pancia, perché il Duce sapeva che imporre drastiche misure agli italiani sarebbe stato controproducente. L'italiano non è e non sarà mai un carnefice.
   Forse si spiegano così i gesti di grande solidarietà con la minoranza perseguitata. L'esempio del console italiano fascista di Salonicco, Guelfo Zamboni, ne è una prova. Gino Bartali, campione di ciclismo, rischiò la vita per salvare decine di ebrei. I casi di coraggio civile, con l'avanzare della ricerca, si sono moltiplicati. Fino a dimostrare un'indubbia realtà: molti ebrei sono stati soccorsi e altrettanti si sono auto-salvati, adottando misure e comportamenti per sfuggire alla retate.
   C'è poi chi si è salvato per un evento imprevedibile e fortunato. Persino nei campi della morte non era impossibile sfuggire alle camere a gas. Sami Modiano, ebreo di Rodi, appartenente alla comunità italiana nell'isola greca allora sotto il controllo del nostro Paese, ci ha raccontato di avere evitato il «forno» per puro caso. Era già pronto a morire, quando venne salvato da un carico di patate giunto con un treno ad Auschwitz. Era necessario scaricare le patate e i nazisti decisero che quei condannati in buona salute sarebbero stati utili per missioni successive. Nedo Fiano, il padre del deputato del Pd Emanuele, si salvò perché conosceva il tedesco e sapeva cantare. Quando disse che veniva da Firenze, il colonnello di Hitler si commosse e lo abbracciò. Aveva trascorso nella città toscana una vacanza sentimentale con la fidanzata.
   Se l'orrore si coniuga con il sentimentalismo è davvero un disastro. Tuttavia il libro-ricerca, curato da Liliana Picciotto, è un formidabile veicolo di conoscenza. Un'enciclopedia di storie umane che ci raccontano di un'Italia, apparentemente indifferente, ma anche solidale con chi soffriva. Perché delle camere a gas quasi tutti erano informati.

(Corriere della Sera, 26 settembre 2017)


Kurdistan, voto di massa per l'indipendenza

Affluenza record: l'80% dei curdi iracheni alle urne Coprifuoco a Erbil. Baghdad manda I 'esercito a Kirkuk

di Giordano Stabile

 
ERBIL - Si sono vestiti a festa. Le donne con i lunghi abiti a disegni floreali, i veli trasparenti, a volte ricamati in oro, gli uomini in choka, il vestito tradizionale dalla larga fascia in vita. Arrivano con i bambini in braccio o per mano, come a un matrimonio, a una celebrazione. È il «grande giorno». Il battesimo del Kurdistan indipendente. Si sono messi in fila al mattino presto, prima ancora che aprissero i seggi. «Aspettiamo da tanti anni, non potevamo arrivare in ritardo», scherza Mahmoud Fahmi, un ottico di 37 anni, con un grande sorriso e gli occhi battaglieri: «Alle minacce siamo abituati, ci hanno sempre ricattati, non sarà peggio adesso che siamo indipendenti: se poi passano ai fatti, abbiamo tutti il kalashnikov in casa, vengano».
   A Bakhtiari, il quartiere benestante di Erbil, allo sfoggio dei vestiti si aggiunge quello dei fuoristrada parcheggiati senza curarsi di nessuno davanti ai jersey di cemento che bloccano la strada prima di arrivare ai seggi, in una scuola elementare. E l'unica misura di sicurezza, a parte un agente della polizia «asaysh», accasciato su una sedia davanti all'ingresso. Il timore di attacchi da parte dell'Isis è relativo, gli islamisti sono in rotta e i peshmerga hanno steso un cordone di sicurezza lungo tutti quelli che saranno i futuri confini. «Abbiamo dato il sangue - continua Fahmi -: 1.500 martiri nella guerra contro l'Isis. Ora non vogliamo avere più niente a che fare con l'Iraq, quando vado all'estero mi vergogno del mio passaporto iracheno».
   Tutti sono certi che il sì «stravincerà». I risultati definitivi si sapranno domani. Quello che conta è l'affluenza, quanti dei 5,3 milioni di elettori registrati sono andati al voto. Per tutto il giorno la tv ufficiale Rudaw trasmette le immagini delle lunghe file, l'apertura dei seggi viene prolungata di un'ora, fino alle sette. Poco dopo sempre Rudaw comincia a snocciolare i dati della partecipazione: Erbil 84 per cento, Kirkuk 80, Duhok 90, Zakho 94, Akre 94, Nineveh 80 ... Sono i nuovi distretti che suddividono il territorio del Kurdistan, per lo meno quello che a Erbil vogliono sia il futuro territorio del Kurdistan indipendente.
   I confini sono stati spinti in aree dove è forte il popolamento arabo e di altre minoranze come gli yazidi, i kakai, gli shabak, i turkmeni, i circassi, un mosaico. Il presidente Massoud Barzani però conta di integrarli, anche per portate la popolazione a 7, forse 8 milioni di abitanti, una soglia critica per avere la dimensione di uno Stato. La politica di accoglienza nei confronti dei cristiani scappati da Mosul ha dato i suoi frutti. Nel quartiere a maggioranza cristiana di Ankawa sono andati in massa alle urne. «La verità è che è impossibile per noi tornare a Mosul - spiega Ashraf Fawas, un ingegnere civile di 39 anni -. Questa sarà la nostra nuova patria e vogliamo contribuire subito. A Erbil ci siamo sentiti per la prima volta al sicuro, in Iraq mai».
   La «carta cristiana» sarà decisiva per imporre l'autorità del Kurdistan nei territori attorno a Mosul, ma non è lì che si gioca la partita decisiva. Mentre i curdi votano il Parlamento di Baghdad adotta una mozione che «obbliga» il primo ministro Haider al-Abadi, «nella sua qualità di capo delle forze armate» a «schierare l'esercito a Kirkuk e in tutte le zone contese». Erbil risponde con l'imposizione del coprifuoco nella città petrolifera, la cassaforte del futuro Stato. Ma il governo iracheno lavora con i suoi più stretti alleati in questo frangente, Turchia e Iran, per stringere l'assedio. Teheran lancia manovre militari nella zona di confine dove vive la sua minoranza curda, Ankara, che ha già schierato le truppe, minaccia il blocco economico.
   «Possiamo chiudere il rubinetto quando vogliamo», sintetizza il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il rubinetto è quello dell'oleodotto che porta il petrolio curdo in Turchia e Europa. Senza gli introiti del greggio per Erbil è finita: «Voglio vedere attraverso quali canali il governo dell'Iraq del Nord (così chiama il Kurdistan) potrà vendere il suo petrolio». Il rubinetto per ora resta aperto, e anche il valico di Khabur. Erdogan chiama al telefono il presidente russo Vladimir Putin, che vedrà giovedì ad Ankara, e insieme ribadiscono l'impegno per «l'integrità territoriale» dell'Iraq e della Siria. È notte, a Erbil esplodono i fuochi artificiali e i caroselli impazziti dell'auto. Lo stesso succede nelle città curde in Siria, e in Iran. Le «integrità territoriali» traballano da tutte le parti e i confini in Medio Oriente non sono mai stati così fragili da un secolo a questa parte.

(La Stampa, 26 settembre 2017)


Malgrado l'età, la centrale nucleare di Dimona non va in pensione

di Aldo Baquis

 
Il centro nucleare di Dimona nel deserto del Neghev
Malgrado l'età avanzata e accertati segni di logorio, la centrale nucleare di Dimona (Neghev, sud di Israele) non si accinge ad andare in pensione nel prossimo futuro. Lo ha appreso la parlamentare israeliana Yael Cohen-Paran (una sostenitrice della causa ambientalista) che ha appena ricevuto la risposta ufficiale ad sua una interpellanza sottoposta alla Knesset oltre un anno fa. "Non è stato fissato alcun tempo massimo riguardo al funzionamento della centrale" le ha risposto il ministro Yariv Levin. Parole che hanno fatto trasalire un commentatore Haaretz secondo cui reattori analoghi a quello di Dimona hanno al massimo 40 anni di vita. Quello israeliano (costruito sul modello dei reattori francesi per la produzione di energia elettrica) potrebbe essere, a suo parere, il più anziano nel suo genere ancora attivo al mondo.
   Il reattore di Dimona fu realizzato nella seconda metà degli anni 50 su iniziativa di Shimon Peres. In un libro di memorie appena uscito, ad un anno dalla sua morte ('Nessuno spazio per sogni piccoli'), Peres ricorda le battaglie che dovette vincere per superare le resistenze dei dirigenti israeliani. Temevano fra l'altro di suscitare reazioni punitive da parte degli Usa o dell'Urss. Altri avvertivano che i costi erano proibitivi e paventavano che gli israeliani sarebbero rimasti "senza pane".
   Ma a posteriori quel reattore si ripago' abbondantemente, secondo Peres, in termini di deterrente strategico nei confronti dei nemici di Israele. Sei decenni dopo Cohen-Paran si domanda però se Dimona non possa rappresentare adesso un pericolo per i dipendenti (nel corso degli anni almeno 170 si sono ammalati di tumori) e per i 35 mila abitanti della città vicina. La parlamentare ha citato un rapporto secondo cui nel cuore del reattore, nel nocciolo, sono stati rilevati 1537 difetti. Nella sua risposta il ministro Levin ha assicurato che le attività del reattore sono monitorate in base a "criteri di sicurezza professionistici, chiari e severi".
   Parole che però non hanno tranquillizzato la parlamentare che in Facebook ha menzionato altri episodi in cui dietro ad un "velo di segretezza" si sono create situazioni pericolose per l'ambiente e per la popolazione. Ad esempio la fuga di un milione di litri di combustibile nell'oleodotto fra Eilat e Ashkelon che nel 2014 allagò una riserva naturale nella Arava' (Neghev); e l'estenuante braccio di ferro per lo svuotamento di un grande contenitore di ammoniaca a Haifa - conclusosi solo di recente - che, secondo esperti, aveva il potenziale distruttivo di un ordigno nucleare. "Come è mai possibile - si è chiesta - che in tutto il mondo questi reattori vengano chiusi entro 40 anni, e che solo in Israele non abbiano alcuna scadenza?". Haaretz nota che il governo si trova di fronte a un grave dilemma. Da un lato, sostiene, non intende privarsi di Dimona, ma dall'altro non sembra avere ne' i mezzi ne' i sostegni internazionali per costruirne uno nuovo. Volente o nolente, lascia intendere il giornale, il governo non ha altra scelta che affidarsi ad una manutenzione reputata - almeno dalle autorità - di alto livello.

(ANSAmed, 25 settembre 2017)


Il festival "Primi d'Italia" svela la cucina ebraica. È la prima volta

A Foligno dal 28 settembre al 1 ottobre. Ospite d'onore Amatrice

Torna da giovedì 28 settembre a domenica 1o ottobre a Foligno il grande appuntamento con "Primi d'Italia", il gustoso viaggio nell'alta qualità del Made in Italy dei primi piatti, con tante ricette da assaporare tra i vicoli e le piazze della città umbra. Pasta e riso italiani (anche gluten free), zuppe, gnocchi, polenta, ma anche i prodotti agroalimentari indispensabili per la creazione di un gustoso primo, sono i protagonisti della maratona culinaria più appetitosa d'Italia.
Un festival in continua crescita che attira appassionati, turisti e curiosi da tutt'Italia. Quest'anno gli organizzatori contano di raggiungere e superare i 200.000 visitatori della scorsa edizione. Tra i presenti ci saranno alcuni chef stellati, come Gianfranco Vissani, i fratelli Sandro e Maurizio Serva e Daniele Usai.
   Sarà presente anche uno chef statunitense, Michael Toscano.
   Inoltre al convegno su "Alimentazione e sport" parteciperà anche Giacomo Sintini (campione di pallavolo di serie A). Ospite d'onore sarà il Comune di Amatrice: al sindaco Sergio Pirozzi un premio speciale per l'attività sociale per la comunità sconvolta dal sisma.
   Nella XIX edizione inoltre, e per la prima volta nella storia della gustosa manifestazione, verrà allestito il villaggio della cucina ebraica, che punta ad offrire "un'inebriante esperienza immersi nei colori, gli odori e i sapori dei piatti medio orientali". Una scoperta delle produzioni kosher che prenderà il via con la cena di gala in onore dell'Ambasciatore d'Israele in Italia, Ofer Sachs, che giovedì 28 settembre sarà a Foligno dove ritirerà un premio offerto dagli organizzatori de "I Primi d'Italia".
   Tutti coloro che entreranno nel Villaggio della Cucina Ebraica e faranno una degustazione di primi piatti e/o di vini, potranno partecipare gratuitamente all'estrazione di un viaggio in Israele per due persone comprensivo di volo aereo e soggiorno a Gerusalemme e Tel Aviv (primo premio), una cassa di vini Israeliani Kosher (secondo premio) e una cassa di vini Italiani Kosher (terzo premio). Il concorso "Vinci Israele" è organizzato dall'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.

(ANSA, 25 settembre 2017)


Israele ribadisce il sostegno al referendum sull'indipendenza del Kurdistan iracheno

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non solo ha ribadito il sostegno di Tel Aviv al referendum sull'indipendenza organizzato per oggi (lunedì) dal Kurdistan iracheno, ma si è anche espresso apertamente in favore alla nascita di uno Stato curdo. Lo riferisce la stampa israeliana, che torna a illustrare le ragioni geopolitiche del sostegno israeliano all'iniziativa curda. Un Kurdistan indipendente, sottolinea la "Jerusalem Post", potrebbe rivelarsi una preziosa risorsa per Israele in chiave anti-iraniana, e incunearsi nella "mezzaluna sciita" che Teheran ha delineato negli ultimi anni tra l'Iran e il Libano. Il voto di oggi, la cui legittimità è stata respinta dal Parlamento iracheno, sottolinea il quotidiano, potrebbe però anche creare un precedente utile ai palestinesi per avanzare la richiesta di una soluzione a due Stati che riconosca la loro statualità. Israele, comunque, vede nel referendum curdo la possibilità di intaccare e indebolire politicamente il mondo arabo, con un Iraq più debole e piccolo e alimentando ulteriormente i desideri di indipendenza delle minoranze curde in Iran e Turchia. Il referendum nel Kurdistan Iracheno è anche oggetto di un editoriale dell'ex ambasciatore israeliano negli Usa Ron Prosor sul "New York Times". Secondo l'ambasciatore, l'amministrazione del presidente Usa Donald Trump dovrebbe accantonare il timore di un'ulteriore destabilizzazione della Regione mediorientale e"scommettere sull'indipendenza dei curdi", che definisce "una forza democratica, stabilizzatrice e modernizzatrice".

(Agenzia Nova, 26 settembre 2017)


Saggio dedicato alla socialdemocrazia ebraica (il Bund)

“Doikeyt: noi stiamo qui ora!” di Massimo Pieri, Mimesis, 187 pp., € 16

di Vincenzo Pinto

Il centenario della Rivoluzione d'ottobre è anche l'occasione per riconsiderare la storia del socialismo da una prospettiva differente. Questo è ciò che fa Massimo Pieri, fisico e matematico "imprestato" all'alta divulgazione storica, nel saggio dedicato alla socialdemocrazia ebraica (il Bund). Di ciò che è stato il Bund dalla fine dell'Ottocento sino al suo totale annientamento a opera dei totalitarismi (quello nazista in maniera più rapida e generalizzata; quello comunista in maniera più lenta e apicale) sappiamo ben poco in Italia. Al di là della crisi della socialdemocrazia novecentesca, incapace di includere nelle sue categorie ontologiche (prima che politiche) i diseredati del Terzo mondo, e dell'annientamento totalitario, la storia del Bund sembra essersi conclusa nel 1948 con la nascita dello stato d'Israele. Cosa ne pensa Pieri?
  L'autore non ci fornisce una storia generale del Bund dalle origini (1897) sino al secondo Dopoguerra. Ma termina il racconto a cavallo della rivoluzione d'Ottobre. Non indaga quindi la nascita del "mito" del Bund, di quel proletariato ebraico capace di apportare un contributo eccentrico e innovativo alla causa rivoluzionaria socialista da una prospettiva autenticamente inter-nazionale. Si concentra fondamentalmente sulle origini intellettuali e sul dibattito politico in seno alla socialdemocrazia russa circa la sua "liceità". Il tema centrale è la questione nazionale ebraica.
  Se è vero che il tema della questione nazionale (e del marxismo) è stato sviscerato in lungo e in largo per tutto il Novecento, lo è altrettanto che il caso ebraico è stato spesso declinato in base agli "effetti" politici, cioè al sionismo e al socialismo marxista. Pieri ricostruisce il dibattito in seno agli intellettuali ebrei che formarono il Bund sulla base della piena consapevolezza che non ci fossero altri modi di avvicinare la massa operaia ebraica se non superando il materialismo storico e valorizzando la "diversità" nazionale. Un progetto non dissimile da quello dell'intellettuale ebreo marxista-sionista Ber Borochov, che parlava di "condizioni di produzione" proprio per marcare il carattere storico-esistenziale della genesi di una nazione e l'importanza della lingua (lo yiddish, nel caso specifico).
  Ma la vera differenza col sionismo era che il Bund intendeva dar voce alla spinta rivoluzionaria del proletariato ebraico nella diaspora, qui e ora, non là e un domani. Di qui l'espressione di "doikeyt", cioè di "hiccità": né emigrazione, né assimilazione, ma lotta per un socialismo "topico". L'autore ricostruisce però il dibattito solo all'interno della socialdemocrazia, soffermandosi sulla posizione di Marx, Lenin-Stalin, Bauer, Kautsky, Luxemburg e, infine, Léon. Il nesso fra diritti nazionali e lotta di classe non è stato colto da nessuno di loro, ossia è stato di fatto annullato a favore della nazione più forte, maggioritaria e "cristiana".
  Il perché di questa "miopia" si deve alla "pregiudiziale antisemita": l'ebreo non era ritenuto membro di una nazione come le altre. Quindi la posizione del Bund era doppiamente rivoluzionaria: da una parte affermava l'esistenza delle nazioni (un'esistenza però etica, non strumentale) e, dall'altra, richiamava l'importanza della tradizione ebraica. L'esperienza del Bund si realizzò al meglio in Polonia, dove il programma della "doikeyt" riuscì a realizzare clandestinamente alcuni dei suoi punti programmatici. L'utopia di una nazione socialista e rivoluzionaria "senza un territorio" appare - agli occhi di Pieri - il vero patrimonio del Bund allo sviluppo di un mondo libero, democratico e tollerante.

(Il Foglio, 25 settembre 2017)


E il Papa andò alla guerra. Sulle onde della radio

Nata nel '31 per contrastare la propaganda ateista dell 'Urss l'emittente vaticana denunciò i soprusi dei rossi contro il clero ma mantenne il silenzio sulle persecuzioni anti-ebraiche.

di Simon Levis Sullam

 
12 febbraio 1931 - Inaugurazione della Radio Vaticana alla presenza del pontefice Pio XI e del cardinale Pacelli, futuro Pio XII
A destra - Un momento dell'inaugurazione di Radio Vaticana
Al principio degli Anni Trenta anche la Chiesa cattolica abbracciò per la prima volta i mezzi di comunicazione moderni dotandosi di una stazione di radiodiffusione. Poté così trasmettere dal Vaticano i propri messaggi, assicurandosi la possibilità di raggiungere istantaneamente milioni di fedeli. Con la collaborazione di Guglielmo Marconi, premio Nobel e accademico d'Italia, nasceva Radio Vaticana. Il 12 febbraio 1931 Pio XI trasmise il suo primo radiomessaggio: una benedizione urbi et orbi, in latino, rivolta anche «agli infedeli e ai dissidenti». Seguendo le principali nazioni occidentali, ed emula forse anche dell'azione e dei primi successi conseguiti con la radio dal regime fascista, la Santa Sede, superate le proprie iniziali resistenze nel corso degli Anni Venti, si dotò del più moderno mezzo di comunicazione di massa dell'epoca. La direzione, la programmazione e la conduzione della radio, come nel secolo precedente era avvenuta per la rivista Civiltà cattolica, venne affidata all'ordine dei Gesuiti: assieme alla rivista, Radio Vaticana divenne pertanto organo di comunicazione ufficiosa della Santa Sede.
   Un volume appena edito (La radio del papa. Propaganda e diplomazia nella seconda guerra mondiale, Il Mulino, pp. 288, € 27), a firma di Raffaella Perin, docente all'Università Cattolica, affronta le vicende della Radio e gli atteggiamenti che emergono dalle sue trasmissioni nelle diverse lingue europee, particolarmente durante la Seconda guerra mondiale. La storica ha dovuto innanzitutto affrontare nella ricerca il problema delle sue fonti documentarie: l'archivio storico di Radio Vaticana non ha infatti conservato le registrazioni né i testi delle trasmissioni del periodo.
   Pertanto Perin ha dovuto rivolgersi in particolare agli archivi dei servizi governativi di monitoraggio delle radio estere attivi nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nel Terzo Reich tedesco.
   Questi materiali consentono innanzitutto di arricchire la ricostruzione storica dell'atteggiamento della Santa Sede verso i totalitarismi. In effetti, l'impegno a contrastare la propaganda antireligiosa dell'Unione Sovietica, e quindi la diffusione di propaganda anticomunista, emerge come una delle principali spinte e motivazioni dello sviluppo iniziale di Radio Vaticana. Accanto a essa contò anche la possibilità di trasmettere verso la Germania dopo la soppressione nazista della stampa cattolica. Proprio in funzione anticomunista, il Segretariato contro l'ateismo della Santa Sede forniva alla Radio materiali per le trasmissioni. E nell'ambito dell'anticomunismo pare vi sia stata una convergenza dell'impegno di Radio Vaticana con il regime fascista, particolarmente nel corso della guerra di Spagna: questo lascerebbe ipotizzare un incontro del 1936 tra il responsabile del Segretariato contro l'ateismo, padre Ledit, e l'alto funzionario del ministero dell'Interno italiano e futuro capo della polizia politica fascista, Guido Leto.
   Gli eventi della Guerra civile in Spagna, in particolare le violenze dei «rossi» contro il clero, ma anche le notizie di soprusi a danno di religiosi cattolici in Unione Sovietica e in Messico, furono gli argomenti centrali dell'informazione di Radio Vaticana negli ultimi Anni Trenta. In questo periodo, sul fascismo italiano, anche perché alleato nella lotta anticomunista, si registra invece il silenzio.
   E la questione dei silenzi, già oggetto di attenzione e polemiche circa l'atteggiamento di papa Pio XII nel corso della Seconda guerra mondiale e particolarmente nella Shoah, si ripropone con forza anche per Radio Vaticana. Anche a partire dalle trasmissione della Radio della Santa Sede è possibile dire che, verso la Germania nazista, emersero critiche sul razzismo, ma pure l'espressione - attraverso le parole del vescovo di Friburgo - della necessaria fedeltà della Chiesa allo Stato tedesco fin nel 1942. Soprattutto vi fu il silenzio sulle persecuzioni antiebraiche e sulle deportazioni: in Germania, in Polonia, a Vichy, in Croazia, in Ungheria, come pure in Italia. Quindi anche quando esse avvennero a poche centinaia di metri dal Vaticano.
   Alla modernità del mezzo di comunicazione non corrispose un cambiamento dei messaggi della Chiesa, ad esempio nelle trasmissioni in cui si condannava lo spirito laico o la fede nella scienza. E anche mentre prendeva avvio nel cuore dell'Europa lo sterminio degli ebrei, i testi letti da Radio Vaticana continuavano a diffondere l'antisemitismo cattolico, la secolare accusa antiebraica di deicidio, l'invito agli ebrei a «ravvedersi» e «convertirsi». Misericordia poteva esservi solo per gli ebrei convertiti: ancora in una trasmissione in italiano del 24 gennaio 1945, tre giorni prima della liberazione di Auschwitz, si diceva: «I veri ebrei sono in realtà coloro che diventano cristiani. Gli altri... sono privati della illuminazione divina». Sulle onde della radio correva ancora l'antigiudaismo.

(La Stampa, 25 settembre 2017)


La storia di due gemelle friulane: lasciano l'Italia e si arruolano al fronte nell'esercito israeliano

Noah e Coral Da Ros sono nate a Sacile. La mamma è portavoce dell'associazione Italia-Israele

di Rosario Padovano

Noah e Coral Da Ros
Due ragazze nate in Italia serviranno l'Esercito di Israele: hanno giurato pochi giorni fa.
Sono cresciute nella provincia di Pordenone, sono entrambe di Sacile. Si tratta di Noah e Coral Da Ros, gemelle, 20 anni, diplomate nel 2016 al Liceo Pujati nella città del Livenza e figlie di Anati Hila Levi, portavoce dell'associazione Italia - Israele, molto attiva in Friuli Venezia Giulia.
Il loro giuramento è coinciso con la festività del Capodanno ebraico. Ma c'è di più. Nell'oceano di emozioni che queste due giovani originarie di Sacile stanno provando in questi giorni c'è stato un incontro molto emozionante, con la nonna materna che ha assistito al loro giuramento.
La donna, infatti, aveva servito il neonato esercito israeliano quasi 70 anni fa, in occasione della prima guerra arabo israeliana, coincisa con la data di nascita dello Stato d'Israele, risalente al 1948.
La donna ora ha 90 anni. Quelle vissute insieme a lei sono state emozioni indescrivibili per queste due giovani, molto conosciute a Sacile e in provincia di Pordenone. Hanno entrambe doppia nazionalità, italiana e israeliana e ora Noah e Coral hanno deciso di servire Israele, come fece a suo tempo proprio la madre.
Noah poi è riuscita a entrare nell'aviazione dello Stato ebraico, non è da tutti. Gli addestramenti, come si sa, sono durissimi e l'esercito di Israele è uno dei meglio equipaggiati al mondo, proprio perché fin dagli "esordi" è aggrappato alla sopravvivenza sua e dello stato.
La tensione, all'interno di Israele, è un po' scemata rispetto ai tempi della prima e della seconda Intifada e anche, più recentemente, rispetto al periodo dell'Intifada dei coltelli. Ma gli agguati restano all'ordine del giorno e i soldati rischiano quotidianamente la vita.
Proprio qualche giorno fa l'Iran ha annunciato di aver provato con successo un missile balistico in grado di percorrere 2 mila chilometri e quindi potenzialmente in grado di colpire Israele. La Repubblica islamica, che soffoca il dissenso da quasi 40 anni secondo molti nell'indifferenza internazionale, potrebbe diventare una potenza atomica se il presidente degli Usa Donald Trump revocasse, come sembra, l'accordo sul nucleare raggiunto a suo tempo dal predecessore Barack Obama.
La posizione di Israele, in merito, è di attesa: ma il silenzio a volte fa più rumore di tante parole. Questo il contesto internazionale del Medio Oriente, senza dimenticare la sanguinosa guerra civile in Siria.
Tornando alle gemelle Da Ros e al loro legame col Friuli occidentale, il 28 gennaio 2014 si esibirono a Pordenone durante "La Giornata della memoria" al violino e alla pianola, sulle note della colonna sonora del film premio Oscar "Schindler's List". I legami fra Israele e il nostro Paese sono moltissimi. Il prossimo anno il Giro d'Italia partirà da Israele per omaggiare i 70 anni di vita dello Stato ebraico e allo steso tempo anche Gino Bartali, il campione che salvò la vita a molti ebrei durante la Seconda guerra mondiale e il cui nome, da qualche anno, è inserito nella speciale lista dei Giusti tra le nazioni. La famiglia di Anati Hila Levi ebbe rapporti di amicizia con l'allora primo ministro Menachem Begin, uno dei padri della patria.
Molti studiosi del Nord Est lavorano nelle università di Tel Aviv.
Ora la scelta di Noah e Coral. Il giuramento che ha cambiato la loro vita. Gli studi al Pujati e la scuola di musica Ruffo rimarranno, però, per sempre, nel loro libro dei ricordi.

(Messaggero Veneto, 25 settembre 2017)


L'alpinista che non può camminare e il miracoloso esoscheletro robot

L'idea è di un ricercatore israeliano, che ha creato ReWalk ("cammina di nuovo"), uno strumento che offre la possibilità di rimettere in piedi persone paraplegiche supportandone i movimenti.

di Giambattista Gherardi

 
Nei momenti più duri, cinque anni fa, non ci avrebbe mai creduto: trovarsi in prima fila in una corsa podistica, sulle proprie gambe. È invece un sogno che si è avverato, quello di Franco Tonoli, 58 anni di Gazzaniga, che vive immobilizzato (o forse è meglio dire viveva) su una carrozzina. Lui e la moglie Ileana Locatelli (un passato da atleta della nazionale azzurra di sci al fianco di Claudia Gordani) sono sposati dal 1989 e hanno una figlia, Valeria, di ventisette. La passione per la montagna è un denominatore comune, dato che Franco negli anni ha concluso tre Trofei Mezzalama di scialpinismo, compiuto spedizioni in Nepal con Mario Merelli, scalato il Bianco e l'Ortles, completato raid a Capo Nord ed in Islanda. Insieme, nel 2011, Franco e Ileana hanno raggiunto la vetta del Cervino.

 La sfida più dura
  La sfida più dura, e per questo forse ancora più appassionante, si presenta però il 21 settembre 2012, quando Franco Tonoli è vittima di un gravissimo incidente mentre scala una parete in Grecia, sull'isola di Kalymos. Una diagnosi tremenda: frattura di dodici costole, lesione alla milza con emorragia interna ed esplosione della dodicesima vertebra lombare con fuoriuscita del midollo. È' salvo per miracolo, ma con una sentenza difficile da digerire: paraplegia, paralizzato dalla vita in giù. Dopo mesi di crisi e di buio («Non nego di aver pensato al peggio»), Franco scarica la voglia di riscatto di cui è capace nella caccia a strumenti sempre più adeguati per garantirsi una mobilità efficace e quotidiana. Una vera e propria ricerca di libertà. «Dapprima ho affrontato carrozzina e automobile, poi l'handbike, la bicicletta a braccia che è valsa l'oro olimpico ad Alex Zanardi. Su internet, insieme a Ileana, abbiamo scoperto anche il Triride, un monociclo a motore ideato a Civitanova Marche. È l'uovo di Colombo: aggiunge una ruota frontale a una normale carrozzina e la fa diventare un triciclo motorizzato».

 Un esoscheletro robot
  Da internet arriva anche un altro input, decisivo: l'idea di un ricercatore israeliano, Amit Goffer, che ha creato l'esoscheletro ReWalk ("cammina di nuovo") che offre la possibilità di rimettere in piedi persone paraplegiche supportandone i movimenti. «È un robot indossabile - spiega Franco - con piccoli motori posti all'altezza di anche e ginocchia, comandati da un computer portato in uno zaino sulle spalle». A prima vista sembra fantascienza, ma il passaparola, la rete e, soprattutto, la solidarietà di tanti amici in Valle Seriana fanno di Franco un testimonial cocciuto e contagioso, grazie a questo ritrovato della tecnica.

 La gara e un traguardo
  Da qui alla Rewalk race disputata per la prima volta domenica 17 settembre a Brescia il passo (è il caso di dirlo) è davvero breve. Franco è stato uno dei nove partecipanti, che come lui hanno deciso di mettersi in gioco per testare e sviluppare l'esoscheletro realizzato dalla ReWalk Robotics, La gara è stata disputata su un percorso di circa 1,1 chilometri (e per chi si era visto impossibile anche un passo di pochi centimetri è più di una maratona) attorno alla Casa di Cura Domus Salutis, clinica di riabilitazione della Fondazione Teresa Camplani. «Lo scopo - aggiunge Tonoli - è innanzitutto dare visibilità alle reali potenzialità derivanti dall'utilizzo dell'esoscheletro Rewalk, diffonderne la cultura e stimolare il supporto di enti e istituzioni esterne al mondo della riabilitazione. È un'opportunità concreta che la tecnologia mette a nostra disposizione, che può contribuire in modo decisivo alla partecipazione sociale attiva di chi subisce una lesione midollare. La diffusione dell'esoscheletro è la condizione necessaria per abbattere i costi di ricerca e sviluppo». Il traguardo appare possibile e Franco, con Ileana e gli altri runners del ReWalk, non mancherà di tagliarlo.

(Bergamo Post, 25 settembre 2017)


L'Islam retrogrado intralcia la scienza

di Antonio Carioti

L e cifre sono eloquenti. I 21 Paesi islamici dell'Africa e del Medio Oriente contano tutti insieme 14.260 ricercatori scientifici, contro i 45.273 della sola Italia (gli Stati Uniti arrivano a 272.879). Negli Stati a maggioranza musulmana troviamo 230 scienziati per ogni milione di abitanti, negli Usa 4 mila e in Giappone 5 mila. Un divario abissale. Eppure, nota Elio Cadelo nel libro Allah e la scienza, un dialogo impossibile? (Palombi, pp. 239, € 14), non è sempre stato così. Fin verso l'XI secolo erano gli islamici a primeggiare sui cristiani in fatto di conoscenza della natura. Poi però, mentre in Occidente si andava affermando il rispetto per i diritti della persona, tra i musulmani prevalse la chiusura comunitaria. Illuminante una considerazione dello scrittore Tahar Ben Jelloun, riportata da Cadelo: «La modernità è il riconoscimento dell'individuo, mentre nella società arabo-musulmana sono il clan, la famiglia, la tribù che hanno la priorità». Un ambiente poco propizio, dunque, allo sviluppo dello spirito critico che è il motore del sapere. E per giunta oggi condizionato da gruppi fondamentalisti «che hanno stretto la ricerca scientifica nella morsa del fanatismo religioso».

(Corriere della Sera, 25 settembre 2017)


L'integrazione non funziona con l'islam

L'occidente ha saputo assimilare tante culture diverse

Da il Figaro (30/8)

Da un punto di vista occidentale, il mese di agosto 2017 sarà ricordato per una nuova ondata di attacchi terroristici in Europa (in Spagna e in Finlandia) e per il ritorno della questione razziale negli Stati Uniti". Così ha scritto Renaud Girard sul Figaro. "I sanguinari eventi di Barcellona, Turku e Charlottesville sono un brutale monito del fatto che, da oltre una generazione, l'occidente sta affrontando una doppia sfida. I principali paesi occidentali mancano di una coesione interna e soffrono per un accumulo di inconsistenze in politica estera. Il modello d'integrazione attuato nei paesi europei ha funzionato con successo per gran parte della seconda metà del Ventesimo secolo, con le popolazioni di migranti di diverse origini che sono state efficacemente integrate nella società. E' emersa, tuttavia un'importante eccezione: questo modello non sembra avere i mezzi per integrare davvero le popolazioni musulmane. Spesso ci dimentichiamo di riflettere su come i paesi di destinazione appaiono a chi arriva. Effettivamente, c'è ben poco delle nostre società europee contemporanee che possa vincere i cuori dei giovani musulmani. Se siete un giovane musulmano e vi sentite a disagio nel mondo dei centri commerciali, di Disney World, dei reality televisivi e delle catene di fast food e state cercando un ideale cui ispirarvi, che opzioni avete? Il comunismo? Ha fallito. Il cristianesimo? La maggior parte degli europei lo ha abbandonato. Quel che rimane per chi, bisogna dirlo, ha scarsa cultura, è una fantasiosa versione dell'islam dei primi califfi. Il giovane immigrato musulmano è portato a pensare, come proclamano i Fratelli musulmani, che 'l'islam è la soluzione'. La soluzione a tutti i problemi, i suoi e quelli della società che lo circonda. La legge della Sharia è l'unico modo possibile di governare l'uomo".
   Anche la società americana, conclude Girard, "manca di coesione. Non è mai stata tanto divisa. I giovani bianchi sono in guerra aperta con il culto delle minoranze e con l'economia globalizzata che gli establishment accademici e mediatici stanno provando a imporre loro. Formano una base elettorale tanto solida, per Donald Trump, che nessuno può seriamente dire che non possa essere rieletto nel 2020. Il grave errore dell'occidente, in questo nuovo millennio, è stato quello di credere che l'accoglienza di così tante culture diverse e l'adozione da parte del mondo intero dei valori politici occidentali - quelli che sostiene essere 'universali' - non avrebbero generato alcuna violenza".

(Il Foglio, 25 settembre 2017)



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Guerra di civiltà

Quando l’Islam ha cominciato a invadere l’Occidente, i democratici multiculturalisti hanno detto: “Non deve essere una guerra di civiltà: tutti siano liberi di osservare i dettami della propria religione”. Ma in giorno in cui questo dovesse avvenire, l’Islam avrebbe perso la sua guerra, la sua “jihad”, perché il multiculturalismo democratico è la fine dell’Islam. Riconoscendo questa realtà, e non inseguendo i propri sogni, l’Occidente avrebbe dovuto dire: “Sì, è una guerra di civiltà, e vogliamo vincerla. Con le armi della nostra civiltà, le armi legislative delle costituzioni democratiche, cioè concedendo libertà nei limiti della legge e reprimendo, anche con la legittima forza, ogni tentativo di scavalcarle in nome della propria religione”. Non volendo fare subito questo, e non potendolo più fare da un certo momento in poi, l’Occidente si avvia a perdere la sua “guerra di civiltà”. Perché nei momenti decisivi le armi della civiltà islamica sono quelle della “sacra” violenza. Per l’Islam la guerra di civiltà non è una deviazione, ma un sacro dovere. E ha il dovere di vincerla. Si direbbe invece che la democrazia laica, che si vanta del suo governo dal basso (il popolo), nella sua forma più matura fa emergere la sua tendenza più intima: la vocazione al suicidio. "Cupio dissolvi". M.C.

(Notizie su Israele, 25 settembre 2017)


Turismo, la sfida della Giordania, sicurezza ed ospitalità

Le presenze risalgono, Amman vuole offrire piu' della sola Petra. Arrivano anche gli israeliani.

di Patrizio Nissirio

 
Resti dell'antica Gerasa - La Piazza Ovale
AMMAN - Alle 10:30 in punto, la luce e' al suo meglio sulla facciata del Tesoro di Petra, una delle bellezze archeologiche piu' straordinarie al mondo, resa ancor piu' celebre dalla sua apparizione in Indiana Jones e l'ultima crociata. In quella manciata di minuti, lo spiazzo davanti al tempio scavato nella roccia arenaria dagli antichi nabatei, e' pieno di turisti, intenti a farsi selfie o a farsi riprendere sulla groppa di un dromedario. Ma poco dopo, lo spazio si svuota. La Giordania, dopo anni di crisi del turismo causata da crisi e tensioni che la circondano - prima fra tutte la guerra in Siria e l'enorme massa di profughi che ha varcato il suo confine -, sta risollevando il capo, ma il piazzale del Tesoro ben racconta lo stato dell'arte: i visitatori iniziano a tornare, ma affollano brevemente i suoi siti piu' celebri, come il biblico monte Nebo, perdendosi le infinite altre bellezze di questo paese mediorientale. Che ora pero' vuole puntare proprio sulle sue meraviglie meno note e sulla sua capacita' di accogliere - in tutta sicurezza e con impeccabile ospitalita' - il visitatore.
   Le cifre del 2017 sono incoraggianti: le presenze sono aumentate del 14,5% nella prima meta' dell'anno, e il resto della stagione sembra consolidare la tendenza, grazie a un incremento di visitatori da Europa e Nord America. Forte anche la presenza di turisti asiatici. E proprio per rafforzare l'immagine di Paese sicuro ed accogliente, a Jerash - citta' romano-elenistica magnificamente conservata, con centinaia di colonne che hanno resistito ai secoli - c'e' stato qualche giorno fa un grande concerto di Andrea Bocelli, il primo in Giordania del tenore.
   Ma accanto a Jerash - l'antica Gerasa: in Giordania dicono che l'imperatore Adriano vide qui per la prima volta i ciliegi, da cui verrebbe il nome 'cerase' al posto di ciliegie usato in molti dialetti italiani - il Paese racchiude altri siti che non vengono visitati abbastanza. Per esempio Beida, la 'piccola Petra'. Se la piu' celebre Petra (che sorge a 14 km da qui) era una citta' a tutto tondo, questo sito, che le somiglia a causa di uno stretto canyon (siq) tra le rocce e strutture scavate sugli alti muraglioni, era un punto di sosta di alto livello per le carovane che percorrevano la via dell'incenso. Qui ci sono addirittura affreschi ben conservati sui soffitti degli ambienti dove dormivano i commercianti piu' facoltosi.
   Oppure, vicino al monte Nebo, il sito Unesco di Umm ar-Rasas: qui, dove non viene praticamente nessuno, si vedono i resti di un'antica città carovaniera romano-bizantina dove sorgevano ben 56 chiese, che dal 665 a.D.fino all'anno 900 fiori come punto di fermata per merci e persone anche sotto al dominio islamico della zona. Un terremoto la cancellò (dal 2004 è sito Unesco, ma solo una piccola parte è stata riportata alla luce dagli scavi).
   La Giordania ha formidabili bellezze naturali e numerose riserve che le tutelano. La piu' famosa di tutte, il deserto di Wadi Rum, e' talmente scenografica che qui sono stati girati ben 12 film, tra cui Lawrence d'Arabia, Transformers 2 e The Martian con Matt Damon. Il colore rosso di rocce e sabbia sembra davvero marziano. Qui il visitatore puo' alloggiare in campi tendati perfettamente attrezzati, nel silenzio irreale del deserto, come a Hasan Zawaideh. Spiega Ziad Al-Kurdi, veterano delle guide giordane: ''Al parcheggio all'ingresso del parco naturale un tempo c'era la folla di pullman, oggi neanche uno, nonostante settembre sia il mese ideale per Wadi Rum. Serve davvero l'aiuto di tutti per rilanciare il turismo''. I visitatori, per lo piu' locali, con qualche saudita o israeliano, vengono per lo piu' per un solo giorno ed una sola gita.
   Ma se il visitatore preferisce il turismo puro, la Giordania ha anche la sua attrezzatissima costa del Mar Morto, o gli alberghi di Aqaba, sul mar Rosso. Cosi' sicuri che - anche qui - vengono in massa gli israeliani a passare i weekend. Lo conferma anche Mariangela, che fa la chef nel ristorante di un grande albergo sul grande lago salato che divide Israele e Giordania.
   ''Qui mi sento piu' al sicuro che in Europa, di questi tempi. In piu' non c'e' neanche microcriminalita'''.

(ANSAmed, 25 settembre 2017)


Israele - Aumento delle bollette a causa dei danni al giacimento Tamar

GERUSALEMME - Un problema tecnico alla piattaforma del principale giacimento di gas in Israele ha temporaneamente paralizzato la fornitura di gas naturale nelle case degli israeliani con conseguente aumento delle bollette a causa del ripiego delle centrali elettriche su combustili più costosi. Lo ha riferito ieri la stampa israeliana che riporta le dichiarazioni del ministro dell'Energia: "A causa di un malfunzionamento riscontrato durante i lavori di manutenzione previsti per il giacimento Tamar, la fornitura di gas naturale è stata completamente sospesa almeno per una settimana". L'incidente fornisce materiale ai critici del sistema di approvvigionamento di gas naturale che evidenziano la pericolosità di dipendere da una sola fonte energetica.

(Agenzia Nova, 25 settembre 2017)


Il retaggio ebraico dell'Oktoberfest

di Angelita La Spada

L'Oktoberfest, l'annuale festa della birra di Monaco di Baviera in programma quest'anno dal 16 settembre al 3 ottobre, ha radici ebraiche. Questa kermesse, divenuta oggi simbolo della echt-cultura eno-gastronomica tedesca, da secoli è frutto del grande impegno profuso da un gruppo di ebrei tedeschi nella costruzione dell'impero della birra in Germania, prima della Seconda guerra mondiale.
   Il coinvolgimento degli ebrei nella produzione della millenaria bevanda iniziò durante il Rinascimento. Prima che venisse promulgata nel 1516 la legge sulla purezza della birra, i mastri birrai potevano utilizzare e miscelare qualsiasi ingrediente volessero. Ma in seguito all'introduzione del Reinheitsgebot (l'editto della purezza) che imponeva solo l'impiego di luppolo, orzo, lievito e acqua, la domanda di luppolo aumentò. Questo avvenne in un momento critico per gli ebrei tedeschi, che espulsi dalle maggiori città si trasferirono nei villaggi delle zone rurali e dovettero cercare nuove occupazioni. Fu così che essi avviarono una nuova attività, perché se era loro vietato birrificare potevano tranquillamente dedicarsi al commercio del luppolo. A Norimberga, ad esempio, nel 1890, circa il 70 per cento delle aziende agricole coltivatrici di luppolo erano di proprietà ebraica. In tal modo, dal XV secolo fino all'ascesa al potere di Hitler, la filiera tedesca del luppolo rimase per la maggior parte nelle mani degli ebrei per poi essere "arianizzata".
   Nel 1869, quando la Confederazione della Germania del nord introdusse la libertà di commercio, i giovani ebrei inventarono una nuova arte: affinare la creazione dei boccali da birra. In una stanza, i boccali in porcellana venivano decorati, in un'altra, i coperchi erano ricoperti da uno strato di stagno, e in una terza stanza le due parti venivano compattate. Fu anche concessa agli ebrei pari dignità, e così non essendo più esclusi dall'industria della birra essi si dedicarono con successo alla produzione della bevanda.
   Ad esempio, Jakob von Hirsch, un banchiere della famiglia reale di Baviera, nel 1824 acquistò una tenuta in cui sorgeva un castello a Planegg, appena fuori Monaco, dove impiantare un birrificio, il Planegg Castle Brewery, che dopo essere stato contrastato per anni iniziò la produzione nel 1836 e divenne il primo
stabilimento industriale, riuscendo a rivoluzionare il comparto della birra del paese. In seguito, il Planegg fu confiscato dai nazisti che lo utilizzarono come deposito di medicinali e come rifugio antiaereo durante la Seconda guerra mondiale. Si pensi anche al Löwenbräu che ancor oggi è uno dei birrifici più grandi e di successo della Germania oltre ad essere uno dei sei marchi autorizzati a servire la birra all'Oktoberfest. A metà del XIX secolo, quando la Germania ampliò la sua rete ferroviaria, Moritz Guggenheimer allora a capo dell'azienda birraia colse l'opportunità di questa rivoluzione nel mondo dei trasporti per trasformare la birra Löwenbräu in un prestigioso prodotto d'esportazione. Nel 1895, Josef Schülein rilevò l'Unionbrauerei in fallimento. Intorno al 1903, il birrificio divenne una società per azioni e poi nel 1905 l'azienda acquisì un altro birrificio di Monaco, il Münchner Kindl. Questo assorbimento permise all'Unionsbrauerei di espandere la sua capacità produttiva e aumentare le vendite di birra. Ma lo scoppio della Prima guerra mondiale ebbe gravi conseguenze su tutti i birrifici tedeschi dal momento che le esportazioni diminuirono e le vendite locali subirono un crollo. Schülein però non si fece scoraggiare dalla crisi e nel 1916 acquisì la Kaltenberg una fabbrica di birra a ovest di Monaco che modernizzò rapidamente introducendo un impianto di produzione del malto e apportando altre innovazioni. Dopo la fine della guerra la Löwenbräu navigava in pessime acque e nel 1921 si procedette a una fusione con la Unionsbrauerie, mantenendo il prestigioso nome. Josef Schülein cedette il timone al figlio Hermann, che divenne il presidente della società e azionista di maggioranza riuscendo nell'impresa di incoronare la Löwenbräu come fabbrica di birra più grande della Germania. Con l'avvento al potere dei nazisti, nel 1933, tutti i membri ebrei del consiglio di amministrazione del birrificio, furono costretti a dimettersi, la società fu "arianizzata" e venduta a tedeschi non ebrei. Josef Schülein si ritirò nel castello di Kaltenberg, dove morì nel 1938. I nazisti confiscarono le proprietà della famiglia Schülein e deportarono a Dachau un altro figlio di Josef, Fritz. Quanto a Hermann, nel 1935, riuscì a fuggire a New York con la sua famiglia e divenne direttore del famoso birrificio Rheingold di Brooklyn, fondato da un'altra famiglia ebrea che aveva lasciato la Germania alla fine del 1800.
   Il castello di Kaltenberg ritornò nelle mani degli Schülein nel 1948 e Fritz, reduce dalla prigionia a Dachau, si occupò della gestione del birrificio che non riuscì però a bissare il successo antecedente alla guerra. Nel 1954, l'epilogo: il marchio fu venduto ai discendenti della casa reale bavarese dei Wittelsbach e ora il principe Luitpol Rupprecht Heinrich, Prinz Von Bayern, pronipote dell'ultimo re di Baviera, Ludwig III, è l'amministratore delegato del König Ludwig Schlossbrauerei Kaltenberg. Anche il Löwenbräu ritornò agli Schülein dopo la guerra, ma pure questo fu venduto. Quanto al castello di Planegg, nel 1950 fu restituito alla famiglia Von Hirsch, ma dal 1964 funge da deposito per la Biblioteca statale bavarese.
   La cultura tedesca della birra affonda le radici nella saga delle famiglie ebree tedesche produttrici di questa bevanda plurisecolare che è frutto di passione e simbolo di orgoglio nazionale. Famiglie che hanno lasciato la loro impronta in questo bene culturale plurisecolare da riconoscere come patrimonio culturale immateriale dell'umanità.

(L'informale, 24 settembre 2017)


Ministro della Difesa russo atteso in Israele

Nell'incontro Shoigu-Lieberman sarà discusso il ruolo dell'Iran.

Il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, è atteso il mese prossimo in Israele per una visita di lavoro durante la quale affronterà fra l'altro la questione del coordinamento di sicurezza in Siria tra Russia ed Israele. Lo ha reso noto l'ufficio del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, citato dalla radio israeliana. Si tratta della prima visita di Shoigu in Israele e la prima di un ministro russo della Difesa in diversi anni. I responsabili israeliani alla Difesa annettono grande importanza a questo viaggio, ha aggiunto l’emittente secondo cui è anche prevedibile che Israele ribadirà la propria preoccupazione per la crescente presenza in Siria delle forze iraniane e delle milizie sciite a loro alleate.

(ANSA, 24 settembre 2017)


L'Iran spara un missile. L'obiettivo è Israele

Testato il Khorramshar, che può raggiungere Gerusalemme. Vacilla l'accordo con gli Stati Uniti sul nucleare

di Carlo Panella

L'intesa del 2015
Nel luglio del 2015, l'Iran e il gruppo dei 5+1 raggiungono un accordo sul programma atomico iraniano, che esclude- rebbe l'utilizzo delle tecnologie nucleari per scopi bellici.

Carta straccia
Voluto fortemente dall'allora presidente Usa, Barack Obama, l'accordo tuttavia non è mai stato ratificato dal Congresso americano e l'attuale amministrazlone degll Stati Uniti, attraverso il segretario di Stato Rex Tillerson ha espresso forti riserve al proposito, in quanto Teheran è uno sponsor del terrorismo sciita.

Sanzioni in vista
Entro il 15 ottobre, Trump è chiamato a certificare ai parlamentari se Teheran sta rispettando il piano d'azione o no. Se affermerà che lo sta violando, il Congresso avrà 60 giorni di tempo per tornare ad imporre le sanzioni eliminate. Tra i parlamentari c'è una maggioranza repubblicana già decisa a ristabilire le misure.

Con non casuale coincidenza, l'Iran ieri si è affiancato alla Corea del Nord nella sfida provocatoria a Donald Trump e alle democrazie, in particolare a Israele. La televisione di Stato Dim Teheran Ibis ha infatti annunciato il lancio di un nuovo missile, il Korramshar che ha la portata di 2.000 chilometri. Un missile che ha senso solo se dotato di testata nucleare. Questo, dopo che dal palco dell'Onu, Trump ha giudicato «imbarazzante» l'accordo sul nucleare siglato con l'Iran da Barack Obama, aggiungendo che ha preso una decisione a proposito, senza però specificare quale. Gli Usa infatti ritengono che l'accordo sul nucleare con l'Iran implichi il divieto di nuovi test missilistici. Interpretazione nettamente rigettata dagli ayatollah, tanto che il presidente Rohani ha sfidato e irriso Trump con un discorso irriverente: «Sarebbe un peccato se l'accordo fosse distrutto da canaglie principianti della politica». Due giorni dopo queste parole, l'esperimento missilistico. Una minaccia cogente e terribile per Israele che è in pieno alla portata di questo missile, che si somma alle manovre aggressive che l'Iran sviluppa in Siria, con l'incremento parossistico delle forniture di missili a corto e medio raggio alle milizie di Hezbollah che presidiano ormai anche i confini tra lo Stato ebraico e la Siria, tanto che l'aviazione israeliana compie settimanalmente raid contro i depositi di nuove armi iraniane in Siria.
   La contemporaneità della provocazione iraniana con quelle della Corea del Nord non è affatto casuale: da più di dieci anni infatti i due Paesi hanno concretizzato un'intensa collaborazione tecnico-scientifica in campo militare. Il missile Khorramshar infatti è assolutamente simile al Musadan prodotto e lanciato provocatoriamente da Pyongyang sui cieli del Giappone- così come i missili iraniani Shahb3 sono identici ai nordcoreani Nodong e gli Shahab2 iraniani sono uguali ai nordcoreani Hwasoong.
   Trump e tutti i Paesi democratici si trovano dunque ora a fronteggiare in contemporanea due «Stati canaglia», come giustamente li definiva George W. Bush, che hanno due sistemi politici ben diversi, ma che non a caso hanno intessuto una collaborazione militare intensissima per sviluppare strategie oltranziste e provocatorie assolutamente simili. Si pensi che l'impianto nucleare che gli iraniani avevano costruito in Siria a Deir Ezzor e che l'aviazione israeliana rase al suolo nel 2007 era la copia degli impianti nucleari nordcoreani, a testimonianza di una collaborazione iniziata da lungo tempo. Non basta: mesi fa è stata intercettata una nave nord coreana che trasportava materiale militare verso la Siria a conferma di una ipotesi più che allarmante: l'Iran sta usando del territorio di quello che è ormai diventato un suo Stato vassallo, per sviluppare quei programmi militari e nucleari che sono proibiti dal trattato siglato con Obama. Una sorta di outsourcing aggressivo.
   Non è chiaro quale sia la strategia che Donald Trump intenderà ora sviluppare nei confronti dell'Iran, se sia di rottura completa dell'accordo sul nucleare o di sua usura. Ma è chiaro invece che Israele è assolutamente determinato a contrastare con la sua abituale durezza i progetti iraniani, a partire da quello ormai evidente di trasformare la Siria in un formidabile avamposto iraniano per distruggere Israele, impegno che da sempre gli ayatollah, incluso il «riformista» Rohani, proclamano a gran voce.

(Libero, 24 settembre 2017)


Monopoli - Palazzo Palmieri, la prima volta di un matrimonio in rito ebraico

Nell'edificio settecentesco celebrate le nozze tra Michali e Roy, ventottenni di Tel Aviv

di Eustachio Cazzorla

 
Il fatidico «sì». La coppia di Tel Aviv affacciata da Palazzo Palmieri
MONOPOLI - La prima volta di Palazzo Palmieri. Un matrimonio ebraico è stato celebrato con lo sfondo dell'atrio interno del palazzo che negli ultimi anni è stato il set prediletto dei migliori film e fiction girate in zona.
   Ieri anche il battesimo di Cupido e l'immancabile rottura del bicchiere come già fatto dai Sutton-Cohen nemmeno un mese fa nel Castello di Santo Stefano. Questa volta non ci sono i miliardari e le dirette tivù. Nemmeno la ressa di fotografi e giornalisti. Il matrimonio sarebbe passato in sordina se non fosse che è la prima volta per l'edificio settecentesco, ora trasformato anche in location per matrimoni.
   Gli sposi sono Michali e Roy, entrambi di 28 anni. Lei ha una casa di moda, lui è interior designer, vivono a Tel Aviv, la metropoli israeliana che si affaccia sul Mediterraneo. Da almeno 4 anni vengono in vacanza a Monopoli e hanno trovato la città così romantica da decidere di pronunciare qui il fatidico «sì».
   L'altra sera l'addio al celibato, insieme, alla Grotta Palazzese di Polignano a Mare. Ieri, dopo la promessa di matrimonio, il rinfresco al Carlo V, in pratica sul lungomare che nel 2014 accolse il red carpet con Pippa Middleton e il principe Harryfra gli ospiti eccellenti di un altro matrimonio vip, ma nel Castello. Giacomo Rizzo, dell'agenzia matrimoniale «Sublimae», ha curato ogni dettaglio della cerimonia e ha anche spiegato che al Castello cittadino l'evento non poteva tenersi in quanto l'autorizzazione è limitata al rito civile. Da Israele non è arrivato nemmeno il nulla osta a sposarsi in un luogo che non sia una sinagoga e allora il bicchiere è stato rotto lo stesso, come usano gli ebrei, il «sì» è stato pronunciato alla presenza dei testimoni.
   Per confermare che tutto il mondo è paese, Michali ha lanciato il suo bouquet fra la gioia dei presenti, una schiera di una cinquantina di amici, giunti direttamente da Israele. Tutti in abito elegante come si conviene al momento del «sì». Le foto dopo il lancio del bouquet dalla balconata del primo piano del palazzo in stile barocco napoletano che si ispira a Palazzo Sanfelice nella città partenopea. La cerimonia è simbolica ma rilancia Palazzo Palmieri a luogo prediletto per i matrimoni. «Quanto donato dagli sposi al Palazzo - spiega il commissario straordinario dell' Asp Romanelli-Palmieri Marilù Napoletano - confluisce nel fondo a favore del restauro del portale».

(La Gazzetta di Bari, 24 settembre 2017)



Il libro della vita e lo stagno di fuoco

Poi vidi un grande trono bianco e colui che vi sedeva sopra. La terra e il cielo fuggirono dalla sua presenza e non ci fu più posto per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. I libri furono aperti, e fu aperto anche un altro libro che è il libro della vita; e i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le loro opere. Il mare restituì i morti che erano in esso; la morte e il soggiorno dei morti restituirono i loro morti; ed essi furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere. Poi la morte e il soggiorno dei morti furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco. E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco.
Dal libro dell'Apocalisse, cap. 20

 


Reggio Calabria - "Viaggio nella cultura e nelle tradizioni dei popoli mediterranei"

di Danilo Loria

Rinviato a data da destinarsi l'incontro su Carosello nel 60o anniversario, l'Associazione Culturale Anassilaos avvia il prossimo 26 settembre presso la Sala di San Giorgio al Corso, alle ore 17,30 un ciclo di incontri dal tema "Viaggio nella cultura e nella tradizioni dei popoli mediterranei" nella circostanza dedicato al cibo "kashèr" con l'intervento della Dr.ssa Daniela Scuncia . Non vi può, infatti, essere incontro tra i popoli che abitano le rive di questo antico mare ricco di storia, di cui noi reggini siamo una parte significativa, senza conoscere abitudini e tradizioni di questi stessi popoli a cominciare proprio dal cibo.
   "Esattamente come il linguaggio - scrive il Prof. Massimo Montanari in un saggio dedicato al cibo come cultura - la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria delle tradizioni e dell'identità di gruppo. Costituisce pertanto uno straordinario veicolo di auto rappresentazione e di comunicazione: non solo è strumento di identità culturale, ma il primo modo, forse, per entrare in contatto con culture diverse, giacché mangiare il cibo altrui sembra più facile - anche se solo all'apparenza - che decodificarne la lingua". La condivisione dello stesso cibo, in famiglia, in occasione di determinati avvenimenti sociali, nella quotidianità, introduce le persone nella stessa comunità, le rende membri della stessa cultura, le mette in comunicazione. Il dono del cibo ad esempio, getta un ponte tra noi e l'altro, e in tutte le società ha sempre avuto un peso rilevante nelle dinamiche sociali. Il termine "convivio" rimanda etimologicamente a "cum vivere", vivere insieme. Mangiare insieme (un altro carattere tipico, se non esclusivo, della specie umana) è un altro modo ancora per trasformare il gesto nutrizionale dell'alimentazione in un fatto eminentemente culturale. In quanto dimensione umana basilare e universale, il cibo "è centrale alla religione - come simbolo, soggetto di preghiere, come segnale di condivisione e non condivisione, come elemento di comunione". Il valore simbolico degli alimenti nelle grandi religioni può difficilmente essere sopravvalutato.
   Nell'Ebraismo un numero notevole delle 613 mitzvot (precetti) che guidano la vita di un ebreo osservante riguarda la sfera alimentare e trae origine da importanti passaggi dell'Antico Testamento. Seguire le norme della Kasherut al riguardo dei cibi permessi o vietati, leciti e illeciti è un vero labirinto che i rabbini sono chiamati spesso in prima persona a chiarire nell'evolversi dei sistemi di produzione e la diffusione di prodotti provenienti da ogni parte del mondo. Anche la letteratura di autori di origine ebraica ci parla di cucina: di cibo o della sua mancanza. È un proposta di approccio trasversale alla cultura ebraica che ha attraversato anche la nostra terra, lasciandoci non pochi segni del suo passaggio.

(strettoweb.com, 23 settembre 2017)


Haifa International Film Festival 33

Tanto cinema italiano in Israele

di Simone Pinchiorri

C'è tanto cinema italiano alla trentatreesima edizione dell'Haifa International Film Festival, in programma nella città israeliana dal 5 al 14 ottobre 2017.
Due i film in concorso per il Golden Anchor: "A Ciambra" di Jonas Carpignano e "Una Questione Privata" di Paolo e Vittorio Taviani
Nella sezione Panorama saranno proiettati "Amori che Non Sanno Stare al Mondo" di Francesca Comencini, "Il Colore Nascosto delle Cose" di Silvio Soldini, "L'Intrusa" di Leonardo Di Costanzo e "Sette Giorni" di Rolando Colla.
L'animazione "Gatta Cenerentola" di Ivan Cappiello, Alessandro Rak, Dario Sansone e Marino Guarnieri sarà presentata in Midnight Madness, mentre in Masters, sezione dedicata ai maestri del cinema, è in programma "La Tenerezza" di Gianni Amelio.
Infine, in Haifa Classics sarà preiettato "La Strada" (1954) di Federico Fellini.

(cinemaitaliano.info, 24 settembre 2017)


Il missile dell'Iran: fra Trump e Rohani non metterci le "Guardie della Rivoluzione"

di Roberto Santoro

Anche per l'Iran come per la Corea del Nord rullano i tamburi di guerra. O almeno così sembra. Nel suo discorso pronunciato alle Nazioni Unite nei giorni scorsi, il presidente americano Donald Trump è andato all'attacco di Teheran e dell'accordo stretto a suo tempo dal presidente Obama con i turbanti atomici proprio sul nucleare, meglio conosciuto come "Iran deal". Trump ha definito l'accordo di Obama "imbarazzante" e l'espressione sconsolata dell'ambasciatore iraniano al Palazzo di Vetro mentre il Don parlava diceva tutto della distanza siderale che c'è tra Washington e Teheran. Tanto più che appena cinque giorni dopo gli iraniani lanciano un nuovo tipo di missile a lunga gittata, "Khorramshahr", dopo averlo fatto sfilare in pompa magna nella capitale in occasione di una parata. A dare la notizia del lancio, le Guardie della Rivoluzione, la potente elite militare del Paese, che hanno in dotazione la testata e definiscono il test "un successo". Il Khorramshahr può essere armato con testate multiple ed ha un raggio di azione di 2.000 chilometri (come i precedenti Qadr-F e Sejjil). Insieme ai missili è scattata anche una grande mobilitazione di terra con esercito, artiglieria pesante e mezzi aerei.
  Scontata la reazione di Israele, unica democrazia dell'area minacciata da decenni dal regime iraniano (Ahmadinejad, il predecessore dell'attuale presidente Rohani, voleva cancellare Israele dalle carte geografiche). Dopo il lancio del missile, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha tuonato accusando Teheran di avere mire espansionistiche: "Il missile balistico che l'Iran ha lanciato è una provocazione per gli Stati Uniti e i suoi alleati, a partire da Israele", ha detto Lieberman. "Questo significa anche testare le nostre reazioni, oltre che essere una nuova prova dell'ambizione dell'Iran di diventare una potenza mondiale per minacciare i paesi del Medio Oriente e gli stati democratici nel mondo". Gerusalemme dunque tira in ballo Washington ma che farà Trump dopo il discorso infuocato alle Nazioni Unite? Cosa c'è dietro il sibillino "ho deciso" pronunciato dal presidente Usa a proposito dell'accordo nucleare voluto da Obama con gli iraniani? E siamo sicuri che l'Iran è così folle da stracciare gli accordi e minacciare Israele e gli Usa proprio adesso che a Washington c'è un uomo che dietro i toni incendiari non sembra esattamente il ritratto del pistolero con le dita pronte a tirare il grilletto?
  Certo, l'Iran resta una minaccia alla stabilità internazionale, è un Paese che finanzia i terroristi di Hamas a Gaza e l'Hezbollah libanese, ed ha allargato la sua sfera di influenza a paesi chiave del medio oriente come il Libano, la Siria e l'Iraq, ma il lancio del missile che rischia di archiviare gli accordi sul nucleare forse non è solo una reazione al discorso di Trump all'Onu. C'è anche la politica iraniana. Per quanto l'Iran sia un regime 'bulgaro', in cui il potere si concentra nelle mani dei chierici falchi o 'moderati' che siano, dopo la vittoria di Rohani alle ultime elezioni (è il secondo mandato) le crepe tra l'entourage del neo presidente e le Guardie della Rivoluzione pare si siano allargate, e molto, anche per ragioni economiche. Chissà insomma che dietro il lancio del missile non si nasconda una qualche prova di forza interna. La propaganda all'esterno in ogni caso resta identica al passato, "l'Iran non cercherà il permesso di nessun Paese per produrre missili di vario tipo e armi di difesa terrestre, navale e aerea", dice minaccioso il ministro della difesa Hatami, "finché la retorica di alcuni costituirà una minaccia, il rafforzamento del potere di difesa dell'Iran continuerà". Messaggio inequivocabile a Trump, ma ricordiamo che prima del discorso di Donald all'Onu c'erano state le condoglianze espresse dalla Casa Bianca all'Iran dopo l'attentato di Isis dentro il parlamento di Teheran. Condoglianze che scatenarono un mare di polemiche ma che a leggerle bene avevano un che di "simpatetico" verso Teheran, come ha scritto The Atlantic.
  Per adesso non sembra che gli USA abbiamo messo in campo azioni precise per rompere gli accordi con l'Iran del 2015, anzi c'è chi dice che gli accordi potrebbero essere anche allargati, ad esempio proprio ai missili balistici. Scopriremo presto o tardi qual è il piano che ha in testa Trump: se prendere le distanze dalla Unione Europea e dagli altri sostenitori dell'Iran Deal (anche troppo sostenitori, se si pensa all'atteggiamento dell'Alto Rappresentante Mogherini verso l'Iran), schierandosi apertamente con Israele, oppure mediare tra le diverse parti in campo, magari con l'aiuto di Putin e scegliendo come scacchiere la martoriata Siria, alleato storico dell'Iran.

(l'Occidentale, 23 settembre 2017)


Conferenze a Torino



Locandina

(Chiamata di Mezzanotte, settembre 2017)


Aslanov: «una rivoluzione culturale e linguistica chiamata Israele»

Da quando esiste la diaspora, gli ebrei hanno dovuto reinventarsi sempre, grazie a legami transnazionali. Ma con Israele tutto cambia: uno Stato e un'unica lingua moderna, intorno a cui gravita l'identità ebraica.

di Ilaria Myr

Sono due, secondo il filosofo Gershom Scholem, le grandi innovazioni che il sionismo ha portato nella storia e nell'identità ebraica: la prima è che essa ha permesso al popolo ebraico di tornare, dopo molti secoli, a essere soggetto della propria storia, invece che oggetto in balia del buono o cattivo volere delle nazioni. La seconda riguarda la scelta dell'ebraico come lingua moderna ufficiale di questo nuovo Stato-nazione, che da idioma liturgico e dotto è diventato moderno, quotidiano e vivo». La nascita di Israele costituisce una linea spartiacque nella vita ebraica secondo lo studioso Cyril Aslanov, studi di filologia greca e di linguistica alla Sorbona e alla Ecole Normale Superiore di Parigi (rue d'Ulm), ex docente alla Hebrew University di Gerusalemme, professore oggi a Aix-Marseille Université nonché membro dell'Accademia della Lingua ebraica e docente di Letteratura del Corso di Laurea triennale in Studi ebraici dell'UCEI, che parteciperà il 10 settembre a Milano alla Giornata europea della cultura ebraica con un intervento intitolato "Diaspore in cammino: lingue e identità alla deriva".
   «Prima di questa trasformazione fondamentale sono sempre esistite metropoli ebraiche importanti - continua Aslanov -: Alessandria d'Egitto, Babilonia, e più tardi Al-Andalus, cioè la Spagna arabo-musulmana, e, ancora, la Grande Polonia del XVI-XVII secolo: ognuna di queste aree è stata, a suo tempo, il centro a cui molti ebrei volgevano gli occhi. Quello che però avviene di rivoluzionario con Israele è che dal 1948 gli ebrei hanno un unico luogo dove vivere e riunirsi».
   Attenzione, però, a non cadere nella trappola diffusa di considerare la diaspora come prerogativa del popolo ebraico, avverte Aslanov: armeni nel Medioriente, cinesi nell'Asia sudorientale e altre popolazioni minoritarie hanno da sempre avuto un destino simile a quello degli ebrei, molto spesso per motivi commerciali. Come spiega lo studioso: «sono molte le realtà - fra cui anche quella ebraica -, che, sotto la spinta degli eventi, hanno dovuto fare di necessità virtù, reinventando la propria vita, e trasformando così la sciagura dello sradicamento nel vantaggio della mobilità nell'ambito di una rete transnazionale ben organizzata». Quello che certamente ha da sempre caratterizzato la diaspora ebraica è infatti il fatto di essere "transnazionale", cioè basata su forti scambi e legami indipendenti dalla vicinanza geografica. Che fosse per sposarsi con persone della propria origine, per gestire affari commerciali o per scegliere la yeshivà migliore dove studiare, gli ebrei hanno sempre agito basandosi su reti di conoscenze - dirette o indirette, ma comunque ritenute affidabili - che davano sicurezza anche se portavano a viaggiare o trasferirsi altrove. «Basti pensare agli ebrei portoghesi - continua Aslanov -, che ad Amsterdam tendevano ad avere contatti solo con connazionali, preferendo addirittura trattare con conoscenze ancora residenti in Portogallo - alcune volte recandosi fisicamente in quella "terra di idolatria" e fingendo provvisoriamente di essere cattolici per nascondere la propria identità ebraica - piuttosto che avere a che fare con i propri correligionari askenaziti della città olandese».
   E la lingua? Fino alla creazione della grande "casa nazionale" gli ebrei nel mondo avevano in comune solo l'uso dell'ebraico nella liturgia e nella cultura religiosa, ma ogni centro diasporico aveva la sua lingua quotidiana, basata su quella del luogo di origine. Si creava quindi una "diglossia", un bilinguismo fra sfera culturale e religiosa e vita quotidiana con, in quest'ultima, alcuni casi di "ebraicizzazione" (si pensi al giudaico-romanesco o al ladino).
   Dal 1948, però, Israele è diventato, insieme agli Stati Uniti, il polo intorno al quale gravita l'identità ebraica mondiale, con conseguenze anche sulla sfera linguistica. «A seconda del Paese, si è più vicini a Israele o agli Usa - spiega-: l'Italia, ad esempio, è più attratta dallo Stato ebraico, mentre il Venezuela è più orientato verso gli Stati Uniti. In ogni caso, un fatto è certo: l'ebraismo di oggi non può prescindere da uno di questi due poli».

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, 23 settembre 2017)


Siria: Israele contro Hezbollah

Israele ha bombardato un deposito di armi appartenente a Hezbollah situato nei pressi dell'aeroporto internazionale di Damasco.

Il direttore dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, Rami Abdel Rahman, ha riferito che, nella notte tra giovedì 21 e venerdì 22 settembre 2017, "gli aerei da guerra israeliani hanno lanciato alcuni missili contro un deposito di armi, che apparteneva a Hezbollah, nei pressi dell'aeroporto".
   Non è la prima volta che Israele compie raid aerei in Siria. L'ultimo attacco israeliano risale al 7 settembre 2017, quando un aereo da guerra israeliano aveva bombardato una postazione militare siriana nei pressi della città di Musyaf, nel governatorato di Hama, causando la morte di due soldati. In tale occasione, i media israeliani avevano riferito che l'obiettivo sarebbe stato un sito iraniano per la produzione di missili in favore di Hezbollah.
   Israele, infatti, accusa l'Iran di aver costruito fabbriche per la produzione di missili sia in Siria sia in Libano. Il 25 giugno 2017, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva avvertito l'Iran sulle conseguenze cui sarebbe andato incontro nel caso in cui avesse proseguito nello stabilire in Libano industrie per la produzione di armi, a vantaggio di Hezbollah, sottolineando che Israele avrebbe risposto con la forza ad ogni attacco contro il proprio territorio e contro i suoi cittadini.
   Gli attacchi israeliani nel territorio siriano si sono intensificati nell'ultimo periodo, dal momento che Israele teme l'estensione dell'influenza iraniana in Siria. Il 28 agosto 2017, in occasione di un incontro con il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a Tel Aviv, Netanyahu aveva affermato che Teheran starebbe trasformando la Siria in una fortezza miliare e che ciò farebbe parte di un più ampio piano iraniano mirato a cancellare Israele. Gli ufficiali della sicurezza israeliana, inoltre, temono che Teheran possa utilizzare la zona occidentale dell'Iraq e quella orientale della Siria come un "ponte" per unire l'Iran al Libano, permettendo il transito di combattenti e di armi tra i due Paesi.
   Dal canto suo, l'Iran appoggia le milizie sciite in Siria, Yemen e Libano. Sostenendo le milizie di Hezbollah, che combattono in Siria a fianco di Al-Assad, l'Iran contribuisce a potenziarne le capacità militari, estendendo in tal modo il suo fronte con Israele dal sud del Libano alle alture del Golan.
   Negli ultimi mesi, il timore di Israele è aumentato, a causa dell'intensificarsi degli scontri delle milizie sciite siriane e libanesi vicino ai propri confini. Per questo motivo, Tel Aviv starebbe rafforzando la propria opposizione nei confronti dell'Iran. Proprio in quest'ottica, il 5 settembre 2017, le forze di difesa israeliane avevano intrapreso le proprie manovre militari nelle aree situate al confine con Siria e Libano, al fine di rendere Israele militarmente pronto ad affrontare una guerra su ampia scala.
   Da parte sua, anche l'Iran si è espresso contro le manovre israeliane. Secondo quanto riferito dall'agenzia di stampa iraniana Fars News Agency, il 18 settembre 2017, il capo dell'esercito iraniano, il maggiore generale Abdolrahim Mousavi, aveva affermato che "se il regime sionista compirà un passo falso, Haifa e Tel Aviv verranno rase al suolo".
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 23 settembre 2017)


La vittoria globale dei format made in Israel

Trame universali, creatività, tecnologie avanzatissime. Le spy story e i quiz show della Startup Nation hanno ormai soppiantato la produzione Usa.

di Massimiliano Panarari

 
Massimiliano Panarari, saggista e rnassmediologo, insegna Informazione e Potere all'Università Bocconi di Milano e Marketing politico alla School of Government dell'Università Luiss di Roma.
Non solo in treatment (ovvero Be Tipul). La serie (andata in onda anche in Italia su Sky, con Sergio Castellitto, lo psicanalista protagonista) rappresenta il prodotto da esportazione più fortunato - con Hatufim-Prisoners of War, su cui è basata le celebre Homeland - dell'industria televisiva israeliana. Che è diventata nel frattempo un autentico caso di studio, come nel convegno, tenutosi l'anno scorso all'Università Luiss, con la presenza di parecchi operatori del settore (dalla Rai a Endemol e Magnolia) e studiosi come: Massimo Scaglioni.
  Israele si è trasformata nella superpotenza esportatrice di format più rilevante di questi anni, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, come certificato dal quadruplicarsi del fatturato delle vendite di produzioni nel corso dell'ultimo decennio, di cui 35 piazzate all'estero solamente nel 2016 (fonte: rivista Link). Spy story, ma anche quiz show (come il format di Still Standing) e, in generale, programmi che sono tutti riconducibili a quel modello di complex tv e di storie a elevato tasso di densità psicologica che hanno dato valore aggiunto e qualità al piccolo schermo. Insieme con la Scandinavia, creatrice della fiction nordica (specie noir), Israele è oggi uno degli esempi più eclatanti di distretti produttivi importanti per la tv in Paesi non anglofoni. La forza dello Stato ebraico nella geopolitica dell'industria televisiva mondiale è così diventata un oggetto di indagine (e "del desiderio"] per tanti. Anche in Italia, notoriamente colma di creatività. ma sempre in difficoltà nel mettere a sistema e a profitto le facoltà immateriali e le capacità artistiche dei propri abitanti.
  Il segreto del successo di questo paradigma produttivo mostra, seppure in un contesto peculiare, le virtù della società aperta e del proiettarsi su uno scenario globale. E. per contrasto. i vizi di un localismo che, nel contesto della mondializzazione, espone ai rischi della colonizzazione produttiva da parte dell'industria dei media e dell'intrattenimento stranieri. Una situazione che sembra dare ragione alle tesi di Mainstream (Feltrinelli). il libro di Frédéric Martel secondo cui attualmente non si dovrebbe più parlare di un'americanizzazione dell'immaginario e del villaggio (audiovisivo) globale, un processo giunto (vittoriosamente) al termine, quanto, piuttosto. di consumi culturali massificati. nei quali si sono ritagliati un proprio spazio singole nazioni o aree geografiche, coi loro distretti di produzione comunicativa e di serialità industriale. In questa rinnovata mappa della cultura di massa gioca un ruolo significativo Israele, ove la necessità (la ristrettezza dei numeri del mercato domestico) ha aguzzato l'ingegno, e una società giovane e cosmopolita, priva di un passato stratificato come quella europea, ha liberato la creatività spingendo verso un'incessante ricerca della novità. Israele è una sorta di mondo in piccolo, e di microcosmo global - basti pensare a Tel Aviv, autentica New York del Mediterraneo - dove i network televisivi e le società di broadcasting puntano molto sulle risorse umane e si avvalgono della diffusione delle tecnologie presentissime in un Paese altamente high-tech, etichettato anche come la Startup Nation, tra Silicon Wadi e industria della difesa. I format made in lsrael vengono pensati sin dall'inizio come "globali" e per l'export internazionale, con concept e trame universali che facciano da spinta propulsiva, anche per rimediare ai limitati budget a disposizione. E. ciliegina sulla torta. c'è una legislazione che prevede di investire nelle produzioni locali e riserva loro appositi tempi di trasmissione sulle reti tv. Si prega, dunque, di prendere appunti.

(la Repubblica, 23 settembre 2017)


Relazioni missilistiche

C'è una ragione perché la tecnologia militare e atomica di Iran e Kim vi sembrano così uguali

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri le Guardie rivoluzionarie iraniane hanno fatto sfilare per la prima volta alcuni sistemi d'arma durante una parata a Teheran e gli esperti - per esempio Sim Tack dell'agenzia di consulenze Force Analysis - hanno notato subito la somiglianza dei nuovi missili iraniani Khorramshahr con i missili balistici Musudan prodotti in Corea del nord. E' lo stesso tipo di missile che a febbraio - quando l'Iran lo ha testato - ha fatto reagire con furia (su Twitter) il presidente americano Donald Trump. La somiglianza tra la versione coreana e quella vista adesso in Iran è spiegata dal fatto che si tratta di un'arma sviluppata dalla stessa squadra di esperti. Il missile iraniano Shahab 2 è un calco di quello nordcoreano Hwasoong 6, e il modello iraniano Shahab 3 è una replica del nordcoreano Nodong. Se abbiamo l'impressione che le crisi in medio oriente e la crisi nell'est asiatico siano due dossier differenti, ci sbagliamo. O meglio, lo sono dal punto di vista politico, ma dal punto di vista tecnico è la stessa faccenda: tecnici e materiali vanno avanti e indietro da una parte all'altra con molta discrezione per produrre la stessa tecnologia, trasferire lo stesso know how proibito e arrivare alle stesse armi pericolose.
  A fine agosto Reuters ha rivelato l'esistenza di un rapporto confidenziale delle Nazioni Unite che riguarda l'intercettazione di due navi che trasportavano un carico partito dalla Corea del nord e diretto verso il Centro siriano per la ricerca e gli studi scientifici (abbreviato in Sssrc e colpito da sanzioni americane), che dietro il nome molto neutro è l'agenzia della Siria che per quasi tre decenni si è occupata del programma di sviluppo e produzione delle armi chimiche. Un articolo del sito americano National Review nota che il rapporto Onu è molto vago sulla data della cattura, dice " ... negli ultimi sei mesi", che corrisponde più o meno alla data della conquista da parte del governo della città di Aleppo. Il dato è interessante perché nei primi anni Novanta la Corea del nord aveva aiutato lo Sssrc a costruire missili balistici in un centro vicino ad Aleppo. La domanda è: il carico delle navi serviva a fare ripartire le attività? Il 7 settembre quattro jet israeliani hanno fatto saltare in aria un sito dello Sssrc che serviva anche per la produzione di missili, ma era in un'altra zona della Siria.
  La collaborazione tra Corea del nord, Iran e Siria non è una storia nuova, fa parte della dottrina militare dei tre paesi, che hanno deciso di cooperare per battere l'isolamento internazionale. Il reattore nucleare siriano in costruzione vicino a Deir Ezzor, distrutto nel settembre 2007 da un raid aereo israeliano, secondo l'ex direttore della Cia Michael Hayden era la copia esatta di un reattore nucleare nordcoreano (un po' come succede con i missili), e lo sappiamo perché il modello nordcoreano era a sua volta la replica di un reattore britannico di cui i nordocoreani erano riusciti a trafugare il progetto. Il reattore siriano era stato finanziato con un miliardo di dollari dall'Iran, che in questo modo voleva duplicare il proprio progetto di ricerca atomica per avere più garanzie in caso di problemi internazionali. Secondo gli articoli di quel mese, nel raid israeliano morirono anche dieci tecnici nordcoreani, a riprova del legame sotterraneo. Insomma, la collaborazione tecnologica tra Corea del nord, Iran e Siria, spesso con successivo raid israeliano a spazzare via lo spazzabile, è uno dei topos politici e militari del medio oriente. Come questa collaborazione raggiunga livelli così avanzati prima di essere scoperta è ancora un mistero.

(Il Foglio, 23 settembre 2017)


Sono un preside o un imam?

"Rappresento a scuola la repubblica francese oppure una religione che spesso vi si oppone?" Il fondamentalismo islamico ha conquistato le aule transalpine

di Giuseppe Corsentino

PARIGI - «Principal du collège ou Imam de la Republique?», sono un preside o un Imam di una nuova repubblica franco-islamica (come quella immaginata dallo scrittore Michel Houllebecq nel suo ultimo, profetico, romanzo Submission, verrebbe da aggiungere)? La domanda se l'è fatta un distinto professore di matematica, ora in pensione, Bernard Ravet (guardatelo, cliccate sulla foto qui accanto: con i suoi baffoni bianchi sembra un signore d'altri tempi), che per quindici anni ha guidato tre licei di Marsiglia (il Versailles, l'Edouard Manet e il Jean-Claude Izzo: quest'ultimo, detto per inciso, è uno scrittore marsigliese che ha inventato un genere, il noir mediterraneo), quando ha inviato ai suoi superiori, agli ispettori del Ministero dell'Educazione nazionale, un'informativa riservata per denunciare che un suo bidello marocchino era un «fiche S», un fiancheggiatore dell'Isis che distribuiva certi opuscoli religiosi agli alunni, e si è sentito rispondere che non potevano farci niente, che il signor Abdel aveva un regolare contratto di lavoro e non poteva né essere licenziato né trasferito.
   In altre parole, che si arrangiasse, per dirla all'italiana, anzi che tenesse l'informazione riservata per evitare grane con la comunità islamica, con l'Uoif, Union des organisations islamiques en France, con il sindacato della scuola, con il consiglio comunale di Marsiglia e i politici locali. Ora quella domanda, Principal du collège ou Imam de la République?, è diventato un libro (edizioni Kero, un piccolo e coraggioso editore parigino, 240 pagine, 16,90 euro) che sta scalando le classifiche e che, soprattutto, ha riaperto un dibattito sulla ormai defunta laicità della scuola francese, sulla deriva islamista, sul fondamentalismo che sta conquistando migliaia e migliaia di studenti sotto gli occhi impotenti delle gerarchie scolastiche che, denuncia Ravet, preferiscono non vedere per quieto vivere, per viltà.
   «Ho deciso di scrivere questo libro perché sono molto arrabbiato, molto solo e molto triste. Arrabbiato perché ho visto la mia impotenza e quella delle istituzioni. Solo perché mi sono accorto di non avere alleati nella mia battaglia in difesa della scuola repubblicana. Triste perché vedo la situazione peggiorare di anno in anno», così scrive Ravet nel primo capitolo che sembra quasi un appello a resistere alla «vague islamique» (e qui sembra di rileggere certi passaggi de «La rabbia e l'orgoglio» della nostra Oriana Fallaci). «Il y a urgence. Pour ne pas laisser les prophètes de l'Apocalypse nous convaincre que l'obscurantisme l'a emporté», non c'è tempo da perdere se non vogliamo far vincere i profeti dell'oscurantismo.
   Per la verità, che ci fosse poco tempo per impedire «la progression du fanatism religeux dans les établissements scolaires» lo aveva denunciato e scritto nel suo rapporto al governo il capo degli ispettori ministeriali, Jean-Pierre Obin (ora in pensione anche lui) nel 2002, quindici anni fa, ma il governo, allora guidato dal cattolicissimo François Fillon, il candidato della destra repubblicana trombato dopo la scoperta dell'impiego parlamentare fittizio alla moglie, il Penelopegate, aveva preferito il «troncare, sopire» della migliore tradizione gesuitica.
   L'unica conseguenza del Rapporto Obin ( da cui abbiamo tratto la citazione) è stato un certo proliferare editoriale di saggi e di pamphlet - il più famoso è L'Ecole face à l'obscurantisme religieux di Alain Seksig, altro ispettore generale della Pubblica Istruzione - poi il silenzio. Rotto, di tanto in tanto, da qualche intervento (contro il velo nelle scuole, contro la separazione maschi e femmine nelle sessioni sportive, contro il doppio menu nelle mense) del Comité Laicité Republique presieduto proprio dall'ex ispettore scolastico Seksig. Ora il libro del preside di Marsiglia riapre questa che è, davvero, una questione di fondo per il futuro (non lontano)
   della Francia.
   Che cosa c'è da aspettarsi, infatti, da un sistema scolastico che accetta che le ragazze entrino velate a scuola («Io li fermavo sull'androne» racconta Ravet nel suo libro «e mi accorgevo che lo facevano apposta a togliersi il velo appena un attimo prima di entrare in classe. Una provocazione»)? Che non interviene quando gli alunni di religione islamica aggrediscono le loro compagne non islamiche con le gonne corte gridando «salope, putaine», stronza puttana?
   Che rimane impotente se gli stessi allievi argomentano tranquillamente con i loro insegnanti che è giusto lapidare un'adultera e tagliare la mano a un ladro perché così è scritto in un libretto che gli ha dato Abdel, il bidello di cui abbiamo parlato prima? Quest'ultimo episodio, che Ravet racconta in dettaglio, è istruttivo sia perché dimostra le strategie entriste, chiamiamole così, delle moschee nella scuola, sia l'inerzia colpevole di molti insegnanti e delle autorità. Accade durante l'ora di storia quando l'insegnante spiega la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e finisce per parlare dell'uguaglianza uomo-donna. Gli alunni mussulmani lo contestano, dicono che non è vero perché gliel'ha detto l'imam della moschea, frequentata dal bidello, e inaugurata qualche anno fa, ricorda Ravet con rabbia, alla presenza della senatrice socialista Samia Ghali, di origine algerina (la stessa ora inquisita per corruzione e arricchimento illecito, ma questa è un'altra storia), del sindaco di Marsiglia e dei due ambasciatori del Qatar e del Kuwait, grandi finanziatori di moschee e centri culturali islamici in Francia.
   Ma la scoperta più agghiacciante il professor Ravet la fa quando, indagando da solo su un giro di hashish attorno all'istituto, scopre che i pusher sono alcuni suoi allievi, musulmani e frequentatori della stessa moschea (di rito Tabligh Eddawa, una setta radicale nata in Pakistan negli anni Trenta, i Testimoni di Geova dell'Islam come sono stati definiti). E sapete che cosa si sente rispondere quando li trascina in presidenza? Spacciare droga «ce n'est pas contraire à notre religion» perché così muoiono più miscredenti. O droga o bombe o raffiche di kalashnikov. Siamo ormai oltre i limiti, commenta Ravet. La scuola francese è diventata un «Territoire perdu de la Republique».

(ItaliaOggi, 23 settembre 2017)


Tra i curdi che sognano l'indipendenza: "Basta trattare, è un nostro diritto"

Migliaia in piazza a Erbil, Barzani: «Ce la siamo meritata». Lunedì lo storico voto

di Giordano Stabile

 
Attivisti curdi in piazza a Erbil per ascoltare il discorso del presidente Massoud Barzani
Lo stadio di Erbil è così pieno che la gente si è assiepata fin sulla terrazza del grande magazzino Carrefour alla sue spalle. Settanta, ottantamila persone sugli spalti e nel prato, che premono come forsennati sulle transenne. È come una finale di calcio e gli slogan sono quelli degli ultrà. «Gubukhé, Abadì», Al-Abadi vai a cagare. Il premier iracheno è il primo bersaglio, ma ce n'è anche per Trump che ora non vuole riconoscere il Kurdistan indipendente, anche se l'America, comunque, resta la grande amica. «Amrika, Amrika». E poi «Israil, Israil». Sventola una bandiera con la Stella di David: Israele è l'unico Stato ad aver riconosciuto l'indipendenza, prima ancora che venga proclamata.
   Un boato sottolinea l'ingresso di Massoud Barzani. Il presidente. Ora più che mai. Sulla tribuna d'onore ci sono tutti i pezzi grossi del suo Kurdish democratic party. E poi leader religiosi, sceicchi delle tribù arabe, il vescovo caldeo Bashar Warda. Lo abbracciano. Il Kurdistan sarà multietnico e plurireligioso, è il messaggio. In maniche di camicia, il governatore di Erbil, «città capitale del Kurdistan», introduce il discorso più atteso, quello del «dado è tratto».
   Barzani è nel tradizionale abito curdo con in testa il turbante a strisce bianche e rosse. L'inizio è esitante, il clamore della folla si calma, c'è tensione perché le voci si stanno accavallando e il timore è che il raiss curdo abbia ceduto alle pressioni internazionali, l'ultima quella del Consiglio di sicurezza dell'Onu che nella notte gli ha chiesto di posticipare il referendum sull'indipendenza. Mancano ancora tre giorni a lunedì, tutto può succedere. Ma poi il vecchio condottiero comincia a scaldarsi, la voce si fa più sicura, potente: «Che cosa possiamo ancora trattare? Baghdad ci ha sempre promesso tutto e non ci ha mai dato nulla. Ora non è più tempo di discussioni. L'indipendenza è un nostro diritto. Andiamo avanti».
   Avanti, quello che la folla vuole sentirsi dire, avvolta nelle bandiere, con il Sole giallo del Kurdistan ancora più caldo alla luce del tramonto. La marcia per l'indipendenza è un fiume in piena. Non saranno gli ultimatum della Corte Suprema irachena a fermarla. E non saranno neanche le armi. «Abbiamo dato il sangue, nessuno può spezzare la nostra dignità e la nostra volontà. Abbiamo sconfitto lo Stato islamico, ci siamo sacrificati per il mondo». E poi l'affondo definitivo contro Baghdad: «Governi precedenti ci hanno gasato, i curdi sono passati attraverso il genocidio. E ora dicono "siamo fratelli". Come possiamo essere ancora fratelli?».
   Il riferimento è alla strage con il gas Sarin di Halabaja, 16 marzo 1988, cinquemila morti, e alla campagna Al-Anfal lanciata da Saddam Hussein, centomila vittime curde. Su quei morti si basa la legittimità, il diritto all'autodeterminazione. Dalle persecuzioni di Saddam è nato anche il sostegno internazionale che dalla Prima guerra del Golfo in poi, 1991, ha fatto del Kurdistan uno Stato indipendente di fatto ma non di nome. La costituzione del dopo Saddam ha puntato a un federalismo spinto. Ma ora non basta più, anche perché Baghdad non ha mai versato a Erbil il 17 per cento degli introiti petroliferi, come stabilito.
   La Russia di Putin sembra essersi adeguata. Lo Zar ha detto di non voler «interferire» e avrebbe già strappato un contratto da 4 miliardi per la costruzione di un gasdotto. Washington, Bruxelles invece premono, ogni giorno, perché Barzani rinunci al passo formale verso l'indipendenza e accetti un federalismo ancora più spinto. Il leader curdo non può fermarsi, vede una finestra d'opportunità che può chiudersi in pochi anni, se non mesi. Gliela ha data il califfato. Il regno di Abu Bakr al-Baghdadi è quasi finito ma ha squassato le fondamenta dell'Iraq. L'esercito iracheno è ancora debole, esausto dopo la battaglia di Mosul. I Peshmerga curdi sono più forti che mai, con le armi ricevute per combattere la minaccia jihadista.
   L'avventura del califfo ha consegnato al Kurdistan anche nuovi pezzi di territori e soprattutto Kirkuk che nel 2014 l'esercito iracheno ha abbandonato e i Peshmerga hanno salvato. Kirkuk è una città dalle mille etnie e religioni, curdi, turkmeni, arabi sunniti e sciiti, cristiani siriaci. I curdi non sono più maggioranza da decenni ma se la vogliono tenere con tutti i pozzi di petrolio. Potrebbe essere la scintilla per una nuova guerra civile. Ma non è il momento di pensarci. Finito il discorso la gente, ubriaca di entusiasmo, balla e canta sulle note della star nazionale Zakaria. Kurdistan, Kurdistan.

(La Stampa, 23 settembre 2017)


La Germania dopo Dio

"Cattolici con Merkel dopo la crisi dei rifugiati, ma la scristianizzazione aiuta l'AtD", il partito della destra populista. Parla Püttmann.

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche settimana fa, il superomista Peter Sloterdijk, uno dei più rinomati filosofi tedeschi, ha tirato fuori per le edizioni Suhrkamp il libro "Nach Gott". Dopo Dio. Un inno alla secolarizzazione per il 500esimo anniversario di Lutero. Una conferma è arrivata dal dibattito in tv dello scorso 3 settembre, quando il moderatore ha chiesto ai candidati alla Cancelleria, Angela Merkel e Martin Schulz, se fossero di recente andati in chiesa. I candidati, sorpresi, hanno risposto di no. Domani, nell'urna, questa indifferenza alla religione, nel paese che ha dato i natali a Benedetto XVI, dove l'ex presidente Joachim Gauck era un pastore protestante e dove le chiese, ricchissime, sono il secondo datore di lavoro, potrebbe avvantaggiare il terzo incomodo. Se il moderatore avesse fatto la stessa domanda a uno dell'AfD, il partito della destra populista, avrebbe avuto una risposta diversa. Il fondatore dell'AfD, Bernd Lucke, ha cinque figli e frequenta ogni giorno la chiesa evangelica riformata. Beatrix von Storch, la dirigente del partito erede del Casato degli Oldenburg, è una devota protestante. E quando non va alle riunioni di partito è facile trovare Frauke Petry, coi suoi quattro figli e l'ex marito ministro protestante, a cantare nel coro della chiesa di Lipsia. L'ultimo numero di Foreign Policy ha definito le elezioni tedesche "una guerra civile cristiana". Ne parliamo con Andreas Püttmann, il ricercatore della Fondazione Adenauer che ha scritto "Gesellschaft ohne Gott" (La società senza Dio), un libro che ha avuto un grande successo di pubblico e critica. "La religione è agitata come un simbolo culturale, è una questione identitaria", ci dice Püttmann, "A questa visione attinge l'AfD. C'è poi la visione liberalcentrista del cristianesimo basata sulla dignità della persona, quella della Cdu di Merkel. Le 'chiese libere' e i protestanti votano AfD più dei cattolici. L'AfD è forte non a caso nella ex Ddr. Dirò di più, la scristianizzazione è uno dei motivi del successo dell'AfD. E' uno choc culturale di cui ha beneficiato il nazionalismo".
   Se l'AfD rivendica una piattaforma cristiana identitaria, la Cdu a malapena ne parla. "Angela Merkel è stata molto criticata dalla chiesa cattolica tedesca quando nel 2009 attaccò Papa Benedetto", continua al Foglio Andreas Püttmann. "Ma da allora, lei che pure è luterana, si è riavvicinata alla chiesa con la crisi dei rifugiati. Martin Schulz e la Spd hanno una vaga concezione benigna del cristianesimo, come il presidente tedesco, il protestante Steinmeier. Liberali, Verdi e Linke sono molto critici. La scristianizzazione della Germania ha creato un vacuum, un vuoto. Solo il 10 per cento dei giovani dell'est sono oggi cristiani. Nella terra di Lutero, il cristianesimo è in gravissima crisi". Il Guardian ha definito l'ex Ddr "il luogo più ateo al mondo".
   La Frankfurter Allgemeine Zeitung, giocando col nome del partito, ha dedicato un dossier alla "Alternative fùr Christus". Si racconta che "nelle elezioni al Bundestag nel 2013, l'AfD non aveva gli elettori religiosi, altrimenti avrebbe superato con successo l'ostacolo del cinque per cento". A Erfurt, la Turingia patria di Lutero, i due capi dell' AfD, Stephan Brandner e Wiebke Muhsal, sono due avvocati cattolici. Ulrich Neymeyr, il vescovo di Erfurt, ha spento le luci della cattedrale quando l'AfD ha tenuto un comizio di fronte alla chiesa. L'AfD ricambia il favore, attaccando soprattutto il presidente della Conferenza episcopale tedesca, il cardinale Reinhard Marx. A Wuppertal c'è un presbitero per l'AfD, una "sorpresa colossale" per Manfred Rekowski, presidente della chiesa evangelica della Renania. Nella parte orientale della Germania, dove l'opera di ateizzazione sotto la Ddr è stata mostruosa, è in corso la demolizione di tante chiese. "Il dibattito oggi in Germania sul cristianesimo è dominato dalla destra sulla questione islamica" conclude Püttmann al Foglio. "C'è stata senza dubbio una perdita del dibattito sul cristianesimo nella società tedesca. Ma la Germania resta in maggioranza legata a una visione centrista del cristianesimo, lontana dai toni dell'AfD".

(Il Foglio, 23 settembre 2017)


Se il cristianesimo è un "simbolo culturale" e una "questione identitaria", ben venga la scristianizzazione. M.C.


67% dei palestinesi per le dimissioni di Abu Mazen

Aumenta la sfiducia dopo le leggi su cyber crime e arresti di giornalisti

La grande maggioranza dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza ritiene che il presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas) debba dimettersi. Lo indica un sondaggio - condotto dal Centro palestinese per la politica e la ricerca (Psr) e riferito oggi dall'agenzia Maan - secondo cui il 67% del campione - era al 62% tre mesi fa - si schiera per le dimissioni di Abu Mazen mentre il 27% vuole che resti in carica. Il Centro sottolinea che in Cisgiordania questa percentuale è al 60% e all'80% nella Striscia di Gaza controllata da Hamas.
Ad aumentare la sfiducia nei confronti del presidente dell'Anp è la preoccupazione della popolazione palestinese per il futuro delle libertà civili nei Territori" dopo le recenti legge di Abu Mazen sul cyber crimine e gli interventi su giornalisti e attivisti critici dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Il sondaggio assegna, in caso di elezioni, il primato al leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che batterebbe Abu Mazen. Ma Fatah resterebbe il partito più popolare in Cisgiordania.

(ANSAmed, 22 settembre 2017)


Sulle rive del Bosforo, tra dolce vita e nuove inquietudini

Come vivono oggi gli ebrei in Turchia? Di fatto, nell'ultimo anno, sono circa 6200 gli ebrei ad aver chiesto (e ottenuto) passaporti da Spagna, Portogallo e Israele. Eppure, le partenze effettive sono ancora poche. Nonostante i timori e il rischio attentati, per i 17 mila ebrei turchi la vita prosegue nell'assoluta e pacata normalità.

di Mara Vigevani

 
La Grande Sinagoga di Edirne, restaurata nel 2015
Chiedere a un ebreo turco oggi perché non ha ancora deciso di lasciare il suo Paese, suona offensivo: le radici dell'ebraismo sefardita turco risalgono a più di 500 anni fa, alla cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Da allora ci sono stati periodi di tensione, ma anche molti altri di prosperità. La comunità turca è oggi l'ultimo avamposto dell'ebraismo Sfaradi, sefardita, e della quasi estinta lingua degli ebrei di origine spagnola: il Ladino o spagnolito. Dopo l'espulsione gli ebrei sefarditi si sono insediati in Turchia, Yugoslavia, Bulgaria e Grecia. La Germania nazista ha annientato quasi tutte le comunità balcaniche e solo quella turca è rimasta intatta. Negli anni
  Venti del Novecento, la comunità turca contava circa 80.000 ebrei. Oggi, ce ne sono circa 17.000, di cui circa 2000 a Izmir (Smirne), qualche decina sparsi tra Bursa, Ankara e il resto del Paese e la stragrande maggioranza a Istanbul. Una comunità, quest'ultima, oggi abbastanza grande per sostenere e organizzare una ricca vita comunitaria, ma anche piccola se pensiamo in termini assoluti, e difficile da mantenere. Istanbul è una città dinamica, in continua evoluzione; molti ebrei vivono in case sulle rive del Bosforo e hanno abbandonato il vecchio quartiere genovese di Galata dove tuttavia c'è la Grande Sinagoga di Nevè Shalom, oggi aperta solo per i matrimoni. Negli ultimi vent'anni, il numero di matrimoni misti tra ebrei e musulmani è aumentato, soprattutto a causa del fatto che la Comunità è piccola e non offre quindi un'ampia scelta di partner. La maggior parte degli ebrei vive nei "quartieri bene" della città, ad esempio a Nisantas, Sisli, Etiler, abitati da musulmani laici e professionisti, dove non si respira in nessun modo un'atmosfera antisemita.
  La dicotomia tra discorso pubblico e società civile è oggi il nodo principale per il mondo ebraico che vive sul Bosforo. E il doppio registro del discorso politico, non solo limitato al sentimento anti-israeliano, è forse il più grande problema che gli ebrei turchi si trovano a dover affrontare. Siamo quindi di fronte al prologo di un altro periodo buio, come ce ne sono stati molti nella storia - e che verrà superato da una comunità radicata da più di 500 anni -, o stiamo per assistere alla scomparsa della presenza ebraica in Turchia? Cosa sta accadendo di diverso agli ebrei rispetto agli altri cittadini turchi? «Gli ebrei oggi vivono le stesse difficoltà dei loro connazionali di altre etnie o fedi religiose, la loro realtà riflette quella del Paese. Molti provano le stesse inquietudini e timori, al di là della loro origine e appartenenza», spiega A. C., 55 anni, di Smirne.
  Di fatto, il presidente Recep Tayyip Erdogan proclama insistentemente di non essere affatto un antisemita. Nell'augurio per la festività di Pesach alla Comunità ebraica, nello scorso aprile, ha sottolineato nuovamente che gli ebrei della Turchia sono da secoli parte integrante del Paese e della sua società. «Essi hanno contribuito notevolmente alla crescita del nostro Paese nell'economia, nel commercio e nella società», ha ripetuto. ll leader turco ha anche descritto gli ebrei turchi come «cittadini uguali a tutti nel nostro Stato, persone con cui viviamo in pace e fiducia». Ma i sondaggi documentano un aumento dell'antisemitismo nell'ultimo decennio, senza capire se sia legato al clima generale o al vento più nazionalista e islamico che sta soffiando ovunque. Di fatto, le istituzioni ebraiche sono fortemente protette, con un maggiore apparato di sicurezza interna dopo gli attacchi alle due sinagoghe di Istanbul nel 2003, che hanno provocato venti morti. Il cittadino turco "medio" non sempre distingue tra Israele e gli ebrei, e in un paese di 80 milioni di cittadini la maggior parte delle persone non ha mai incontrato un ebreo, lasciando la comunità vulnerabile e vittima di stereotipi, pregiudizi e caratterizzazioni negative. Proprio per questo il mondo ebraico aspetta ancora di capire quale influenza avranno sulla sua vita i cambiamenti politici degli ultimi anni.
  «Ho deciso di lasciare Istanbul già qualche anno fa, quando mio figlio doveva iniziare la prima elementare - dice A. Y., un giovane ebreo di Istanbul, che ha fatto l'aliyà tre anni fa -. In Turchia avevo una fabbrica tessile con mio fratello; tutto andava bene, ma nell'ultimo periodo abbiamo notato che gli ispettori per il controllo anti inquinamento arrivavano solo nella nostra fabbrica, quasi una volta al mese. Nelle altre, invece, i controlli avvenivano una volta all'anno e non era difficile convincerli a chiudere un occhio. Con noi erano diventati molto severi. Ogni volta ero molto teso, avevo paura che il loro obiettivo fosse accusarmi di qualcosa e trovare un pretesto per danneggiare la nostra attività. Così, con mio fratello, abbiamo deciso di fare l'aliyà».
  Per la Turchia, quest'ultimo è stato un tempestoso periodo politico, culminato nel voto controverso al referendum del 16 aprile 2017, che ha esteso il potere esecutivo, già considerevole, del Presidente Erdogan, Non a caso, negli ultimi 15 mesi quasi 4.700 ebrei turchi hanno chiesto o ricevuto passaporti da Spagna, Portogallo e Israele. Contando anche i bambini, il numero sale a oltre 6.200. Cifre non trascurabili.
  Nel 2015 le richieste di passaporti stranieri da parte degli ebrei sono aumentate, specie dopo l'approvazione di una legge in Portogallo che rende più facile richiedere un passaporto, per chi dimostra origini sefardite. Certo più facile rispetto alle procedure della Spagna. Tra il marzo e il dicembre 2016, circa il 13 per cento della Comunità ebraica ha chiesto passaporti stranieri. Nello stesso periodo, la Spagna ha approvato le richieste di 2.400 ebrei turchi la cui domanda era in sospeso.
  Senza contare poi che i dati dell'Agenzia Ebraica dimostrano che il numero di ebrei che decidono di trasferirsi in Israele è in netta crescita: più di 220 nel 2016 e 7 4 tra gennaio e marzo 2017, quasi il triplo rispetto al trimestre dello scorso anno. Nonostante tutto, però, la vita della comunità continua nella sua pacata normalità: le numerose sinagoghe di Istanbul sono attive, così come l'unica scuola ebraica della città, mentre a Smirne le sinagoghe sono 16, di cui nove antichissime ( e restaurate con soldi pubblici), ma non tutte aperte ogni shabbat.
  Anche Virna Gumusgerdan, managing editor presso Salom, il giornale della comunità ebraica, ha richiesto il passaporto spagnolo: «La possibilità di presentare la domanda per ottenere il passaporto spagnolo si è aperta quasi dieci anni fa. Ho fatto domanda otto anni fa e l'ho ricevuto l'anno scorso. Il motivo della richiesta è stato semplicemente quello di avere un passaporto europeo con cui fosse più facile viaggiare, invece di dover sempre chiedere il visto: ma per ora non sto pensando affatto di andare a vivere in Spagna. Credo che la maggior parte dei candidati al passaporto non abbia davvero voglia di trasferirsi, ma desideri solo un passaporto più agile. Rispetto a solo qualche anno fa, oggi è diventato meno facile ricevere il documento spagnolo, bisogna fare un esame di cultura e storia spagnola e anche di lingua. Per questo, adesso molti ebrei optano per il passaporto portoghese. Ad esempio, mia nipote ha fatto domanda per ottenere il passaporto spagnolo con me, e all'epoca aveva 12 anni. Quando la sua richiesta è stata accettata ne aveva già compiuti 18 e avrebbe dovuto rifare la procedura come maggiorenne. Stufa di aspettare, ora ha chiesto il passaporto portoghese». Di fatto, un esodo vero e proprio dalla Turchia sembra ancora un'ipotesi remota. «Penso che siano pochi, tra i 100 e i 150, gli ebrei che lasciano la Turchia ogni anno. C'è un aumento del 25-30 per cento rispetto all'anno scorso ... Ma devo dire che i numeri non sono precisi e non sono ufficiali. La politica non influisce sulla nostra vita quotidiana o comunque la influenza quanto qualsiasi altro cittadino. Di solito l'antisemitismo non ci tocca mai personalmente, ne veniamo a conoscenza attraverso i media, con casi specifici». «Qui si vive bene, non c'è motivo di preoccupazione seria, le nostre paure sono quelle condivise con qualsiasi cittadino europeo oggi», sottolinea C.V. imprenditore. Serpeggia tuttavia, più che in passato, la paura di attacchi ai centri ebraici. «L'anno scorso è stato arrestato un terrorista che stava progettando un attentato alle istituzioni ebraiche. La cosa ha causato un'enorme ansia. Penso che alcuni genitori abbiano deciso di non mandare più i loro figli alla scuola ebraica per questo motivo». M. H. e E. G., genitori di due ragazzi in età da Bar e Bat Mitzvà, non avevano mai preso in considerazione l'idea di lasciare Istanbul: «Qui abitano i nostri genitori, qui siamo cresciuti, abbiamo un buon lavoro e fino alla scorsa estate, dopo il tentato colpo di Stato, non abbiamo mai pensato di andarcene. - racconta M. H. - Solo negli ultimi mesi abbiamo capito che la crisi economica c'è. Ora abbiamo un passaporto portoghese e abbiamo fatto richiesta per ottenere un permesso di lavoro in Canada». Anche l'incerta situazione economica porta molti ebrei a decidere di lasciare il Paese. Alcuni settori come il turismo, l'agricoltura e le esportazioni sono in crisi; altri invece, come le costruzioni, l'immobiliare e l'edilizia in genere, stanno rifiorendo.
  Attaccatissimi alla Turchia e innamorati della bellezza del loro Paese, gli ebrei preferirebbero non dover mai partire né dover mettere in valigia antiche tradizioni o delizie del palato (fasulia, tomat con aroz, kofte, umam bayildi). La maggior parte di loro oggi, per scaramanzia, pensa a preparare una eventuale via di fuga. Ma di certo aspetterà fino all'ultimo secondo pur di non intraprenderla.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, settembre 2017)


Apple e Israele: le collaborazioni e novità più interessanti

Apple e Israele: le collaborazioni e novità più interessanti. Apple Israel già dallo scorso mese di febbraio aveva attivato una campagna volta a reclutare ingegneri israeliani specializzati in sensori, elaborazione delle immagini, imaging del computer e ottica, per produrre il nuovo iPhone.
Infatti, una gran parte della nuova tecnologia della fotocamera inclusa nei prossimi modelli di iPhone, secondo indiscrezioni, sarebbe stata prodotta proprio dagli ingegneri israeliani di Herzliya.
Una fonte anonima ha rivelato:
Il prossimo iPhone includerà molte tecnologie sviluppate in Israele.
Sotto la direzione del nuovo amministratore delegato di Apple Israele, Rony Friedman, Apple ha reclutato decine di ingegneri tra cui un direttore tecnico in grafica informatica, che sarà responsabile della modellazione tridimensionale.
Ciò che emerge dalla campagna di reclutamento è che probabilmente nell'iPhone 8 ci sia una impronta israeliana. Mentre ulteriori informazioni non sono ancora state rese note, indiscrezioni rivelano che forse la nuova fotocamera 3D, che consentirà all'iPhone di identificare le profondità nelle immagini e nei video, sia made in Israel. Ciò consente, ad esempio, la creazione di modelli tridimensionali di oggetti applicazioni avanzate o giochi.
Inoltre, occorre ricordare la recente acquisizione da parte di Apple dell'israeliana RealFace la cui tecnologia probabilmente contribuisce alla possibilità di una fotocamera 3D di identificare con precisione la faccia dell'utente, simile all'identificazione delle impronte digitali.

(SiliconWadi, 22 settembre 2017)


Hezbollah è un vero esercito

Hezbollah dispone di più di 10.000 combattenti, nella Siria meridionale, pronti ad affrontare Israele. Lo ha dichiarato questa settimana un alto comandante del gruppo terroristico sciita libanese sostenuto dall'Iran. "Hezbollah ha oltre 10.000 combattenti dispiegati nel sud della Siria - ha detto il comandante, citato da Middle East Eye - Hezbollah è un vero esercito con fanteria, razzi, carri armati e forze d'élite". Il comandante ha spiegato che i combattenti sono schierati nelle zone attorno alle alture del Golan, dove vengono costruite postazioni e gallerie in vista di uno scontro con Israele. "Operiamo come nel Libano meridionale - ha spiegato - ma ovviamente in modo più nascosto". A proposito della tregua nella Siria meridionale sotto gli auspici di Russia e Nazioni Unite, il comandante ha affermato che il "piano di de-escalation a noi sta bene: operiamo con maggiore libertà, non ci sono più bombardamenti". Il comandante ha poi detto che la prossima guerra con Israele potrebbe partire dalla Siria "ma ciò che conta davvero è dove finirà: magari a Netanya, Haifa o Kiryat Shmona" (tutte località israeliane). Gli osservatori stimano che Hezbollah disponga di un arsenale tra i 100 e i 150.000 missili a breve, medio e lungo raggio, e di una forza combattente di circa 50.000 miliziani, compresi i riservisti.

(israele.net, 22 settembre 2017)


Interprete iraniano "edulcora" il discorso di Trump

Traducendolo per la TV di Stato ha alleggerito le condanne: «Parlava male del mio Paese, chiunque l'avrebbe fatto».

Donald Trump. Nel tondo il traduttore Nima Chitsaz
NEW YORK / TEHERAN - Donald Trump può denunciare e minacciare l'Iran quanto vuole se, quando viene tradotto dalla televisione di Stato degli Ayatollah, i suoi strali vengono "edulcorati" dagli interpreti. È successo, emerge ora, durante il primo discorso tenuto dal presidente americano all'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Come riporta la BBC, uno zelante interprete ha infatti modificato a suo piacimento le frasi di condanna più dure espresse da Trump alla volta di Teheran. Così, quando in inglese il presidente USA diceva:
«Il regime di Teheran ha trasformato un Paese benestante e con una ricca storia e cultura in uno Stato canaglia economicamente impoverito le cui esportazioni principali sono la violenza, lo spargimento di sangue e il caos»
L'interprete del canale statale IRINN traduceva in persiano:
«Secondo noi, gli iraniani potrebbero stare meglio».
E ancora:
«È questo che porta il regime a limitare l'accesso a internet, rimuovere le parabole satellitari, sparare a studenti che manifestano disarmati e imprigionare i riformisti»
diventata:
«Ci sono molte cose in Iran che consideriamo inaccettabili».
L'interprete responsabile di questa traduzione non proprio ortodossa ha difeso il proprio operato in un video postato su Twitter. «Nel suo discorso alle Nazioni Unite Trump ha fatto delle considerazioni contro l'Iran che io non ho tradotto», ha spiegato Nima Chitsaz come riporta la BBC. «Perché ho scelto di non tradurle? Punto primo, perché non corrispondevano al vero. Punto secondo, perché erano contro il mio Paese, contro l'Iran», ha argomentato l'interprete. E ha aggiunto: «Non penso che sarebbe stato giusto parlare male del mio proprio Paese sulla televisione nazionale». Chitsaz è convinto che molti, o meglio, «tutti» gli darebbero ragione: «Penso che chiunque altro avrebbe fatto lo stesso», ha concluso.
Ad accorgersi della discrepanza fra il discorso in inglese (trasmesso live dal canale anglofono di IRINN) e quello in persiano sono stati alcuni telespettatori che l'hanno segnalato sui social media.
Su Twitter, molti utenti hanno criticato Chitsaz. «Non stavi parlando male del tuo Paese. Stavi solo traducendo. Almeno trova una scusa migliore», scrive uno. «Stai dicendo che chi ascolta non è abbastanza intelligente da capire quali considerazioni (di Trump, ndr) sono sbagliate e quali giuste?», gli fa eco un altro. «No comment», chiude il discorso un terzo.

(tio.ch, 22 settembre 2017)


La Corte suprema: In Israele servizio militare per tutti!

Finora la comunità ultraortodossa era esentata dalla naia, obbligatoria per gli altri i cittadini israeliani. Il 12 settembre la Corte suprema ha annullato il privilegio. Il governo ha un anno di tempo per adeguarsi.

di Christophe Lafontaine

 
Militari di Tzahal, l'esercito israeliano
Nei giorni scorsi la Corte suprema israeliana è tornata ad occuparsi dell'esenzione dal servizio di leva per gli ultraortodossi. Obbligatorio dall'età di 18 anni, salvo eccezioni, in Israele il servizio militare è di due anni e otto mesi per gli uomini, e di due anni per le donne. Le norme sul servizio militare sono formalizzate in una legge del 2014, denominata «condivisione del fardello», varata grazie alle pressioni esercitate dal partito Yesh Atid, allora al governo. All'esame dei giudici vi era un emendamento a questa legge, introdotto nel 2015, che prevedeva un sensibile innalzamento dei coscritti tra i maschi ultraortodossi. Questi ultimi (gli haredim) erano tuttavia riusciti a far fare dietro-front al governo, ottenendo nel 2015 l'emendamento favorevole che avrebbe dovuto garantir loro una vita religiosa lontano dagli obblighi militari fino al 2023. I giudici della Corte suprema, otto contro uno, hanno invece deciso che quel testo favorisce gli studenti di religione rispetto agli altri. Giudicando che l'emendamento «viola il principio dell'uguaglianza», la più alta istanza giudiziaria del Paese lo scorso 12 settembre ne ha invalidato il testo.
   Dalla creazione dello Stato di Israele (1948), e su decisione del suo padre fondatore David Ben Gurion, gli ultraortodossi beneficiano di esenzioni generalizzate per via del loro statuto di studiosi delle yeshiva, le scuole religiose. Sono interamente consacrati allo studio della legge e della religione ebraica, osservano scrupolosamente tutte le regole del giudaismo in ogni aspetto della vita quotidiana e spirituale. Considerano perciò la coscrizione come una sorta di tentazione per i giovani, esposti fuori dal mondo chiuso della preghiera e dello studio religioso. Non di rado, in passato, si sono visti haredim arruolati a forza, cosa che ha generato tensioni, come nel marzo di quest'anno vicino a Tel Aviv, quando l'arresto di alcuni haredim che si rifiutavano di entrare nelle forze armate provocò manifestazioni della comunità ultraortodossa.
   In un Paese in cui l'esercito occupa uno spazio centrale, l'esenzione degli ultra-ortodossi dal servizio militare è diventata motivo di risentimento sempre più forte da parte degli altri cittadini israeliani. Tanto più che la comunità degli haredim, nota per avere famiglie numerose, rappresenta circa il 10 per cento della popolazione e, secondo le proiezioni demografiche, da qui al 2050 potrebbe costituire un quarto degli israeliani.
   Il capofila di Yesh Atid, il centrista laico Yair Lapid, membro del precedente governo Netanyahu, ha applaudito sulla sua pagina Facebook la decisione della Corte suprema. La coscrizione è fatta «per tutti, non solo per gli imbecilli che non hanno un partito nella coalizione» ha scritto. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman il 13 settembre ha annunciato che sosterrà il giudizio della Corte suprema. «Non ci sono cittadini di prima e di seconda classe - ha detto -. Ciascun giovane di 18 anni si deve presentare per un servizio nazionale o militare». E davanti alla Knesset ha precisato: «Parlo degli ebrei, ma anche dei musulmani e dei cristiani. Mi aspetto da tutti i cittadini di Israele che si identifichino nello Stato».
   Citato dal Times of Israel, Yisrael Litzman, del partito Yahadout HaTorah, ha invece affermato che la decisione rientra in una «guerra totale contro il giudaismo». Il ministro della Sanità Yaacov Litzman, alla testa del partito religioso Afoudat Israel, alla radio pubblica ha accusato la Corte suprema di tentare di rovesciare il governo, e uno dei suoi giudici «d'essere da sempre» contro gli ultraortodossi. Il ministro dell'Interno Aryé Dery, del partito religioso Shas, su Twitter ha scritto che per lui la Corte suprema è «completamente scollegata dalle nostre tradizioni» e ha promesso che «gli studenti delle yeshiva continueranno a impegnarsi negli studi e a proteggere, per il loro merito spirituale, gli altri abitanti del Paese». Ha aggiunto che Shas «lavorerà con tutte le sue forze per (…) mantenere la situazione attuale».
   È da notare che «la maggioranza dei giudici ha stabilito che l'annullamento [dell'emendamento] avrà effetto solo un anno dopo la data del giudizio». Questo ritardo è pensato per consentire alla coalizione di Netanyahu di trovare una formula alternativa, che possa essere accettabile per la Corte, l'esercito e i partiti ultraortodossi, il sostegno dei quali è decisivo per il governo in carica.
   Va ricordato che, dopo le elezioni del marzo 2015, in seno alla coalizione al potere vennero conclusi degli accordi: le due formazioni ultraortodosse Shas e Giudaismo unito della Torah presentarono una propria lista di condizioni per confluire nell'attuale governo Netanyahu con il Likud e HaBayit HaYehudi. La questione del servizio militare figurava in primo piano. Secondo gli osservatori, una crisi di governo resta comunque poco probabile. Il quotidiano The Jerusalem Post sottolinea che Netanyahu ha già avuto molte occasioni per rompere gli accordi durante crisi simili, che hanno toccato questioni come il riconoscimento delle conversioni al giudaismo, la preghiera mista al Muro occidentale o il lavoro nel giorno di shabbat. Ogni volta ha scelto la parte degli ultraortodossi. Un editorialista del giornale Maariv ha scritto: «Sono persuaso che la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (…) abbia già un progetto di legge che passerà l'esame della Corte suprema».
   Per confermare l'ipotesi degli osservatori, Eliezer Moses, del partito Giudaismo unito della Torah, ha dichiarato al canale pubblico One TV che la decisione della Corte è «un giudizio deplorevole», ma ha promesso di «non smantellare il governo» ritirando il suo sostegno a Netanyahu prima delle elezioni legislative previste fra due anni.

(Terrasanta.net, 22 settembre 2017)


Alleanza islam e nazifascismo: l'analisi storica di Rosselli con Souad Sbai

di Fabrizio Graffione

GENOVA, 21 set. - In copertina c'è la storica fotografia del Gran Muftì di Gerusalemme che fa il saluto nazista alle truppe islamiche schierate con Adolf Hitler.
Domani il giornalista e storico Alberto Rosselli presenta a Roma il libro "Islam e nazifascismo" Mattioli 1885 editore. L'appuntamento è alle 17,30 nella sala del Centro culturale Averroè. Interviene l'onorevole Soaud Sbai, giornalista e scrittrice di origine marocchina, responsabile Immigrazione, Integrazione e Sicurezza della Lega Nord-Noi con Salvini.
Il merito dell'autore genovese è l'esatta ricostruzione delle idee che mossero i nazisti e gli islamici del Medio Oriente ad un'alleanza finalizzata alla rivolta contro gli anglo-francesi e contro gli immigrati ebrei.
L'analisi storica del libro, ricavata dalle risultanze di fatti e circostanze contenuti in vari archivi nazionali ed internazionali, informa i lettori sull'alleanza, semisconosciuta ed indigesta agli accademici di sinistra.
La puntuale ricostruzione delle ragioni dell'alleanza che si stabilì tra la politica nazista e fascista e l'insorgenza islamica, è il risultato della faticosa consultazione dei documenti emersi dagli archivi tedeschi, italiani, americani, inglesi, francesi, israeliani, serbi, croati ed ex-sovietici e dalla lettura critica della conflittuale biblioteca sull'argomento, ora più che mai attuale.

(Liguria Notizie, 21 settembre 2017)


"Haaretz": Israele si prepara a una offensiva di Hezbollah, ma la vera minaccia viene dall'Iran

Gerusalemme - La massiccia esercitazione delle Forze di difesa israeliane conclusasi la scorsa settimana riflette davvero le nuove sfide che potrebbe trovarsi di fronte l'Esercito in caso di un eventuale conflitto con Libano e Siria? Questo il quesito proposto ieri dal quotidiano israeliano "Haaretz" in seguito all'analisi della strategia proposta dalle forze di difesa israeliane (Idf) in caso di attacco. L'Idf infatti ha prospettato una veloce manovra terrestre per entrare nel sud del Libano come risposta e possibili bombardamenti da parte di Hezbollah. Ciò che è cambiato rispetto al passato, sottolinea l'analisi, è che oggi l'Iran può minacciare i confini di Israele, grazie al posizionamento di milizie sciite nel versante siriano delle Alture del Golan e nel sud del Libano, mentre Israele non ha un confine diretto con l'Iran.

(Agenzia Nova, 21 settembre 2017)


Io, scrittore musulmano e marxista, costretto a vivere sotto scorta

Il politologo egiziano Hamed Abdel-Samad ha scritto Fascismo Islamico, un saggio crudo e interessantissimo per cui ha dovuto lasciare il suo Paese. Siamo riusciti a incontrarlo

di Rock Reynolds

 
Lo scrittore egiziano Hamed Abdel-Samad
"Una miscela fatale di vittimismo e vendetta è diventata il motore principale dell'islamismo." "In tutto il mondo, i musulmani radicali mostrano la stessa mentalità e il medesimo potenziale di violenza… poiché il virus della jihad trae la sua potenza distruttiva dagli insegnamenti dell'Islam e dalla sua storia, l'islamismo è un fenomeno inscindibile dall'Islam stesso." "Per gli islamisti, la modernità è semplicemente un segno di quanto la gente possa allontanarsi dalla vera fede."
  Di frasi come queste, che fuori contesto potrebbero suonare provocatorie, ne troverete tante nel saggio Fascismo Islamico (Garzanti, pagg 221, euro 16) del politologo egiziano Hamed Abdel-Samad, che risiede e lavora sotto scorta in Germania, dopo essere stato fatto oggetto di svariate minacce di morte. Attenzione, però: in questo libro non ci sono frasi a effetto e posizioni preconfezionate. Persino chi si trovi solidale con i palestinesi e non condanni tout court certe rivendicazioni della galassia islamica riconsidererà inevitabilmente le sue posizioni o, quanto meno, le sottoporrà a una radicale revisione critica. Fascismo Islamico è un libro di grande profondità, non un manifesto ideologico. Naturalmente, l'accostamento tra Islam e Fascismo, soprattutto in merito alla nascita dei totalitarismi di destra più tristemente noti, a qualcuno potrebbe risultare indigesta, ma lo storico egiziano è convinto che la visione di onnipotenza insegnata ai bambini musulmani non sia tanto diversa dalla disumanizzazione del nemico predicata soprattutto dai nazisti. D'altro canto, è difficile confutare la sua tesi secondo cui l'obbedienza cieca e la propensione al sacrificio siano tratti comuni a tutti i musulmani, nel solco tracciato da Abramo. La sua vita oggi è difficile e, per venire a Roma, dove lo abbiamo raggiunto, si è dovuto muovere con una scorta armata di cinque uomini giunti con lui dalla Germania.
  "Mi sento un illuminista" dice "e, come tale, andrei contro i miei principi se non esprimessi liberamente le mie idee. Ho sacrificato tanto, ma lo rifarei."

- Ci racconta come è finito tra le fila dei Fratelli Musulmani?
  Sono cresciuto in una famiglia osservante e sarei dovuto diventare io stesso un imam, ma, all'età di 14 anni, hanno iniziato a interessarmi le lingue straniere e le ragazze, il che non si sposa per nulla con quel mondo, e così mi sono trasferito al Cairo, dove ho vissuto un vero e proprio shock culturale. I Fratelli Musulmani cercano giovani alienati dalla società, alla ricerca di un'utopia, e gliela vendono insieme all'illusione di poter cambiare il mondo cambiando te stesso. Ero musulmano ma pure marxista e non c'è nulla di peggio dell'utopia per radicalizzare una persona.

- Perché la separazione tra stato e religione, un cardine di ogni democrazia, è così estraneo al mondo musulmano?
  Perché l'Islam interpreta la storia nel modo sbagliato, sostenendo che tale separazione sia stata necessaria in Europa, dove la chiesa si opponeva alla scienza e alla modernità, e implicando che, al contrario, sia stato il mondo musulmano a promuovere il progresso attraverso figure come Averroè e Avicenna. L'Islam non ha alcun merito: quel progresso è frutto dell'incontro tra diverse culture del mondo arabo, quella persiana, ebraica, siriana, egiziana e altre ancora. Per questo, l'Islam si considera un movimento religioso e un ordinamento politico, senza rendersi conto di aver in realtà frenato il progresso iniziato nel Medio Evo. Il mondo islamico ha imboccato una china pericolosa non a causa delle Crociate e delle invasioni mongoliche, bensì per aver voltato le spalle alla modernità e al pensiero libero, facendo della religione l'unica fonte della propria identità.

- Non pensa che in ogni religione vi sia una propensione all'assolutismo?
  Per legittimarsi, ogni religione ha bisogno di verità assolute. La differenza sta nel fatto che il testo sacro dell'Islam, il Corano, è considerato l'ultima rivelazione di dio all'uomo. Ed è un bel problema, perché il Corano si occupa di ogni singolo aspetto della vita degli uomini, comprese cose di cui non si sarebbe dovuto occupare affatto, per esempio del diritto di punire una moglie disobbediente. Perché mai dio dovrebbe preoccuparsene? Dunque, dio avrebbe atteso miliardi di anni prima di fare queste rivelazioni. Perché non ha atteso l'invenzione della stampa? Oggi, almeno, ci sarebbe la versione originale delle sue parole. Per uscire da questo vicolo cieco, bisogna delegittimare il Corano come autentica parola di dio.

- La soluzione della questione palestinese può riequilibrare il Medio Oriente?
  Nel mondo musulmano se ne parla fin troppo, ma la realtà è che si tratta di una scusa bella e buona. Ai musulmani non interessa quasi nulla della tragedia palestinese. Nessuno si preoccupa delle violenze insensate in Siria e Yemen. Nessuno si lamenta se a infliggere indicibili patimenti alle popolazioni musulmane sono altri musulmani, però se a farlo è Israele c'è una levata di scudi generale. La questione va affrontata diversamente, di certo non con un odio verso gli israeliani che non ha aiutato minimamente la causa palestinese. Abbandoniamo una volta per tutto l'odio sacro covato dall'Islam nei confronti degli infedeli. Capisco la rabbia dei palestinesi e dei libanesi, ma certo non quella di marocchini o pakistani che non sanno neppure dove sia esattamente la Palestina. Tutto dipende dal concetto di umma, la comunità di tutti i musulmani, descritta da Maometto nel Corano. C'è troppa emotività e scarso ragionamento. Pensiamo a Sadat. Nel 1977 tenne un discorso alla Knesset di Gerusalemme, chiedendo la restituzione di tutti i territori strappati all'Egitto con la Guerra dei Sei Giorni e promettendo in cambio la sicurezza dei confini tra Israele ed Egitto. Gli israeliani gli credettero e Sadat passò alla storia. I palestinesi non hanno mai avuto un leader di tal spessore. Il punto centrale è il seguente: combattere perché lo chiede il Corano oppure cercare una vera soluzione negoziale del problema? Hamas propugna la prima via, che è senza futuro.

- La rapida diffusione dell'Islam e la sua immediata conquista del potere sono davvero il peccato originale del fondamentalismo?
  Sì. È quello che definisco il difetto atavico dell'Islam. Maometto era un profeta, un condottiero e un legislatore. L'Islam si è imposto subito, tracciando un solco da cui non si è più staccato. La sharia è un sistema di leggi che governa ogni aspetto della vita e la jihad è un concetto sacro. Si tratta di ostacoli alla modernità.

- Qual è il ruolo dell'Occidente nel Medio Oriente?
  L'Occidente ha commesso tutti gli errori che avrebbe potuto commettere, non optando mai per un piano strategico di lungo termine, non cercando di aiutare i paesi in cui si percepiva uno slancio libertario, facendo affari con governi dispotici e spesso armandoli, com'è successo con i talebani e con Saddam Hussein e come sta succedendo con l'Arabia Saudita. L'Occidente non si è mai preoccupato di quei giovani musulmani che vorrebbero un cambiamento e ha continuato a sostenere dittatori secolari, come Assad, oppure fondamentalisti, come la famiglia reale saudita.

- Secondo alcuni, il mondo musulmano andrebbe abbandonato a se stesso…
  Se capitasse, il sistema globale crollerebbe. In qualche modo, sta già succedendo. Qualcuno mi ha addirittura definito un profeta per aver previsto le "primavere arabe" e il flusso migratorio epocale che ne è conseguito. La distruzione dell'equilibrio mediorientale porterebbe al tracollo assoluto della stessa Europa.

- Cosa pensa dell' incontro tra Papa Francesco e l'Imam el-Tayeb?
  Un'occasione persa. L'università di al-Azhar offre insegnamenti solo apparentemente aperti, ma in realtà si ispira apertamente all'assolutismo del Corano. Io stesso ho ricevuto una fatwa da un Imam che insegna in quell'ateneo e oggi molti giornalisti sono in carcere in Egitto per una fatwa emessa da al-Azhar, così come parecchi pensatori nel mondo musulmano sono stati messi a morte perché è dovere di ogni musulmano osservante uccidere chi parla male di Maometto. Il Papa avrebbe dovuto spingere el-Tayeb a gettare la maschera e a fare proposte concrete.

(globalist, 21 settembre 2017)


Israele - Concerto il 3 ottobre nella Chiesa di San Pietro a Jaffa

Gli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa tra i sostenitori del Festival

La Chiesa di San Pietro a Jaffa
TEL AVIV - Adriano Falcioni al Terra Sancta Organ Festival-Musica dalle Chiese del Medio Oriente. Il maestro organista terrà un concerto martedì 3 ottobre, ore 18:00, nella Chiesa di San Pietro a Jaffa, nelle vicinanze di Tel Aviv. Ingresso libero.
Adriano Falcioni è un organista italiano, riconosciuto a livello mondiale per la sua capacità tecnica e musicalità. Finalista e vincitore di numerosi concorsi internazionali in Europa e negli Stati Uniti, ogni anno tiene concerti a festival e in cattedrali in tutta Europa. È primo organista della cattedrale di San Lorenzo a Perugia.
Il Festival di musica d'organo Terra Sancta è un evento musicale e culturale internazionale. I concerti, tutti ad ingresso gratuito, si tengono nelle chiese e sono aperti a tutti, indipendentemente dalla religione di appartenenza. Per il quarto anno consecutivo, la stagione autunnale del Festival si svolge anche in Israele, con 12 concerti, dal 2 al 26 ottobre.
In Israele il Terra Sancta Organ Festival è sostenuto dagli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa, dal Monastero Francescano di Terra Santa in America, dall'Ambasciata di Ungheria in Israele, dall'Istituto Rumeno di Cultura, da ATS Pro Terra Sancta.
Il concerto di Adriano Falcioni è segnalato dai Comites Israele.

(Inform, 21 settembre 2017)


È arrivato il 5778

Sino a domani tutte le comunità ebraiche celebrano la festività di Rosh Ha-shanà: il capodanno ebraico.

«Nel nostro calendario il conteggio degli anni parte dalla creazione del mondo - ricorda su Pagine ebraiche Noemi Di Segni, la presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) - quindi dall'esistenza fisica del creato, culminata con la creazione dell'uomo. Anni riferiti all'avvio della vita e i cicli della natura nella quale si inseriscono i nostri ritmi. Anni, decenni, secoli sui quali in questo giorno riflettiamo per capire dove ci collochiamo rispetto alla Storia».
La Festa di Rosh Hashanah è sempre vissuta con grande attesa dalle comunità ebraiche, sia per il suo significato ideale-religioso, sia per le modalità che ne caratterizzano la celebrazione. Ricette, cibi con simbologia speciale, grano che decorano le tavole, abiti bianchi: «il suo carico maggiore in questi giorni, che ci porteranno fino a kippur (Yom Kippur che cade il 30 settembre, con vigilia il 29, è la festa dell'espiazione e della penitenza ed è considerato il giorno dell'anno più santo e solenne, ndr), è il bilancio di quello che abbiamo realizzato o mancato, di quello che abbiamo imparato o perso - prosegue Di Segni -. Il primo pensiero in queste prime ore e primo giorno di solenne celebrazione va alle persone che non sono più tra noi […]».
È dunque arrivato l'anno 5778: «il conteggio dei mesi, l'ordine numerario biblico, è riferito all'uscita dall'Egitto, con la liberazione dalla schiavitù, quindi - ricorda Di Segni - riferiti alla nostra creazione ed esistenza come popolo - momento dell'affermazione della libertà fisica e libertà di culto […]».
Quest'anno la festa, tra le più sentite per le comunità ebraiche nel mondo, è iniziata con il tramonto di ieri e terminerà al tramonto di domani, venerdì 22.
I festeggiamenti vissuti in modo comunitario avvengono nelle sinagoghe o in altri luoghi scelti per l'occasione con la lettura della Torah (l'Antico Testamento) e si ascolta il suono dello Shofar, strumento di origine biblica e ricavato dal corno di un ariete maschio che ricorda al popolo ebraico alcune tra le vicende più importanti della Torah e l'invito a compiere le Mizvot (i precetti) e a portare avanti le buone azioni attraverso la Teshuvà, il pentimento.
Il capodanno che si festeggia in famiglia attraverso la preparazione del Seder, la cena rituale in cui si mangiano cibi dal valore altamente simbolico come ad esempio le mele accompagnate al miele, zucche, pesce, fichi, melograno.

(Riforma, 21 settembre 2017)


Putin incontra il capo rabbino della Russia Berel Lazar

 
MOSCA, 21 set 2017 - Vladimir Putin ha incontrato il capo rabbino della Russia Berel Lazar e il presidente della Federazione delle comunità ebraiche Alexander Boroda. Il presidente ha esteso i saluti a tutti gli ebrei della Russia su Rosh Hashanah, il nuovo anno ebraico.

Presidente della Russia Vladimir Putin: Abbiamo un paese così grande.
Capo rabbino della Russia Berel Lazar: Un grande paese.
Vladimir Putin: Grande e molto grande, multietnico e multi-religioso. Abbiamo sempre cosa festeggiare. Oggi celebriamo Rosh Hashanah, il nuovo anno ebraico. Vi auguro a voi e tutti gli ebrei della Russia un felice anno nuovo. Domani sera, il 21o, i musulmani inizieranno celebrare il loro nuovo anno, anche se il profeta ha detto loro di riservare più grandi celebrazioni per altre feste. Poi noi cristiani celebreremo il nostro nuovo anno e in Russia questo è fatto due volte - secondo il nuovo e vecchio calendario. Il 16 febbraio i buddisti avranno il loro nuovo anno. Quindi abbiamo vacanze per festeggiare tutto l'anno.
  Ma oggi stiamo celebrando il nuovo anno ebraico. Vorrei esporre nuovamente i miei migliori auguri. Auguro a tutti gli ebrei della Russia prosperità, felicità e fortuna. Spero che tutto sia nella vostra comunità. So che la vita religiosa sta sviluppando attivamente e che hai delle cose da discutere con persone e nuovi siti - sia secolari che religiosi - per mostrarli. Questo è qualcosa che tu e noi abbiamo sempre prestato attenzione. So che si presta sempre molta attenzione a questo. Sono lieto di vedere che sei in dialogo regolare con le autorità secolari e, soprattutto, a tutti i livelli.
Berel Lazar: Grazie mille! A differenza di altri nuovi anni, celebriamo esattamente il giorno in cui Dio ha creato il primo uomo nella nostra tradizione. Questa non è una vacanza meravigliosa come in altre religioni. Il nostro è più solenne. La gente prega e riflette su ciò che è stato fatto e come vivere meglio.
  Una delle principali lezioni è che Dio ha creato un singolo uomo. Il Talmud spiega che l'idea era quella di insegnarci a tutti che la vita di una persona contiene tutto il mondo. Chi salva la vita di una persona, salva l'intero mondo, come era. Così, durante Rosh Hashanah, in questi giorni ricorderemo gli exploit di coloro che hanno salvato il nostro popolo - soldati e ufficiali che hanno dato la loro vita per salvare gli altri. Su una nota correlata, vorrei ringraziare la Russia per aver fatto di tutto per preservare la verità storica.
  E speciale ringraziamento per la decorazione postuma di un uomo nel Cremlino quando eravamo lì recentemente, un uomo di estrazione ebraica chiamato Alexander Pechersky. La sua guida della rivolta a Sobibor è sempre stata molto importante per noi. Penso che ora, grazie a te, tutti i cittadini russi sanno di questo e sono molto grato a te per questo. Apprezziamo che la memoria della guerra è sacra per tutti i cittadini in Russia oggi.
  Ho pensato a questo oggi perché volevo fare una domanda a nome dell'intera comunità ebraica circa la partecipazione della Russia al rinnovamento del museo sul sito del campo di concentramento di Sobibor. I soldati russi hanno svolto il ruolo principale nella liberazione dell'Europa dai nazisti e hanno sostenuto le maggiori perdite durante la guerra. Pensiamo che i tentativi di escludere la Russia da questo progetto siano immorali e incomprensibili.
  Quando si parla della guerra, la cosa principale è dimenticare tutti questi problemi politici. Non so nemmeno cosa sia questo, ma certamente non la giustizia. Ciò che stiamo assistendo oggi è una sorta di gioco che si gioca con una materia sacra come la guerra. Solleveremo questo problema con i nostri colleghi, dirigenti di organizzazioni internazionali e altre ebraiche. Faremo tutto il possibile per portare questa materia a una soluzione adatta.
  La Russia dovrebbe partecipare in ogni modo a questo progetto e in altri progetti legati alla guerra. L'abilità dei soldati rimane sacra per noi, e sfruttarlo o giocare con esso è inaccettabile. Quindi, grazie ancora una volta. Appoggiamo pienamente la posizione della Russia su questo tema.
Vladimir Putin: Grazie per aver definito il problema in questo modo e anche per la tua posizione. Non è nuovo per me, il tuo atteggiamento a questo problema. Ma è importante per le persone del nostro paese sapere che i leader della comunità ebraica condividono la nostra visione ufficiale sulla verità e la giustizia per tutti gli eventi della seconda guerra mondiale.
  È molto importante che siamo insieme su questi temi estremamente importanti e dobbiamo guardare al futuro. Ma i nostri punti di vista devono basarsi sul solido fondamento della comprensione in cui idee odiose di sterminio di nazioni intere, milioni di persone, possono condurre.
  E dobbiamo fare tutto per evitare che questo accada in futuro. Questo è il motivo per cui faremo tutto il possibile per evitare qualsiasi politicizzazione di tali questioni e cercheremo certamente di adottare un approccio e una verità imparziali, che è l'unica base per una società giusta e le giuste relazioni nel mondo.
  Spero che le tue parole saranno ascoltate dai nostri partner, dai nostri colleghi in tutto il mondo. Mi riferisco anche a questo caso. E l'uomo che hai citato era certamente un eroe, un uomo molto coraggioso. È dovuto a coloro che hanno mostrato tali qualità, persone di ogni genere di origine etnica, che siamo riusciti a vincere questa terribile guerra.
  Ma ancora oggi è il nuovo anno. E io conosco le tradizioni del popolo ebraico e li capisco. Questa è ancora una tappa nuova. Il nuovo anno è il nuovo anno, e ancora una volta vi auguro una felice vacanza.
Berel Lazar: Grazie, signor Presidente!

(Agenparl, 21 settembre 2017)


Hezbollah più forte che mai

Sembrava che la guerra civile in Siria avesse indebolito il gruppo libanese, invece l'ha trasformato in un esercito puntato contro Israele. Avviso per i fan della stabilità assadista.

Hezbollah ha in serbo per Israele una strategia della saturazione: così tanti missili da sopraffare "l'ombrello di difesa" israeliano Israele ha chiesto ai russi una fascia di sessanta chilometri dal confine senza Hezbollah, ne ha ottenuti cinque
Luttwak diceva: lasciamo che in Siria si scannino tra loro. Non è andata benissimo e oggi il paese è una piattaforma militare iraniana Trump dice che ha già deciso cosa fare con il deal nucleare iraniano ma non lo annuncia, l'Iran parla di risposte dure

di Daniele Raineri

 
La recente operazione di Hezbollah contro lo Stato Islamico sulle montagne del Qalamoun, in Siria, è stata una dlmostrazione dell'efficienza militare raggiunta dal gruppo libanese
 
Hezbollah ha perso più di 1.100 combattenti in Siria negli ultimi cinque anni, qui le immagini di un funerale, ma il conflitto è stato anche un laboratorio militare. Israele osserva con preoccupazione
È l'agosto 2013, subito dopo una strage di civili con armi chimiche alla periferia di Damasco, e lo stratega Edward Luttwak scrive un editoriale sul New York Times in cui sostiene che la scelta migliore per l'America è restare fuori dalla guerra civile siriana: la situazione è perfetta per noi (americani), argomenta Luttwak, perché al Qaida e Hezbollah sono entrambi nostri nemici e si stanno scannando tra loro, quindi lasciamoli fare e più a lungo vanno avanti meglio sarà. Luttwak - che in Italia gode dello status di oracolo della realpolitik - omette di dire una cosa in quell'editoriale del New York Times, ed è questa: il ragionamento è passabilmente sensato per chi vive in America, quindi al riparo dalle conseguenze immediate della guerra civile siriana, ma non per chi vive in Europa a soltanto due ore di volo dal centro arroventato della violenza. E infatti negli anni successivi vedremo le conseguenze del conflitto ("che più va avanti e meglio è") farsi sempre più vicine a noi: è difficile fare un elenco degli effetti orrendi che poi ci hanno toccato, ma ricordiamo tutti le immagini delle centinaia di migliaia di profughi siriani attraversare in colonna mezza Europa e le altre immagini delle stragi di Parigi e Bruxelles (compiute da attentatori dello Stato islamico addestrati in Siria). Ora che la guerra civile ha imboccato una fase terminale, che cosa è successo alle parti in lotta: si sono distrutte a vicenda? Anche in questo caso il risultato è diverso dalla previsioni, ci sono molti vincenti e ci sono molti perdenti. In cima al gruppo di chi vince c'è Hezbollah, che "è più forte di prima" - dice Qassim Qassir, un esperto libanese interpellato ieri da Associated Press. Gli analisti dicono che è come se in Siria il gruppo avesse fatto una cura rinvigorente, i suoi combattenti adesso sono veterani con alle spalle anni di esperienza in combattimenti diretti, sono equipaggiati come i soldati di un esercito moderno e sono utilizzati come "shock troop" durante le offensive, vale a dire che aprono la strada a tutti gli altri soldati - assai meno efficienti.
  Prendiamo per esempio cosa è successo soltanto nell'ultimo mese. Nell'est della Siria un contingente hezbollah di due brigate (circa duemila uomini, non è dato sapere il numero esatto) ha fatto da avanguardia al corpo di spedizione assadista che ha rotto l'assedio della città di Deir Ezzor - era circondata dallo Stato islamico - mettendo fine al pericolo di vita immediato per novantamila assediati. E' stata un'operazione gestita assieme ai russi, che hanno fornito i pontoni mobili usati per attraversare con i mezzi il fiume Eufrate e anche la copertura aerea con i bombardieri. Nel frattempo a ovest un altro contingente hezbollah ha disinfestato il massiccio montuoso del Qalamoun dalla presenza dello Stato islamico, che era arroccato lì da tre anni, e per evitare una resistenza fino all'ultimo uomo da parte dei quattrocento guerriglieri di al Baghdadi ha stretto un patto di evacuazione con loro: vi diamo alcuni bus, voi ci salite con le vostre famiglie, attraversate la Siria e raggiungete l'Iraq. La campagna sul Qalamoun è stata fatta insieme con l'esercito libanese, che è armato e addestrato dall'Amministrazione americana. Così, nelle stesse settimane di guerra, Hezbollah ha combattuto con i siriani appoggiati dai russi e con i libanesi appoggiati dagli americani. Poi il Pentagono in questa storia del Qalamoun ha avuto un ripensamento, ha provato a bloccare il convoglio dei guerriglieri diretto verso l'Iraq (il principio è corretto: quelli dello Stato islamico sono come scorie radioattive, continuano a fare danni per anni, dove li metti causano devastazione) e ha bombardato alcuni ponti davanti ai bus. Infine anche l'America ha convenuto che ormai non c'era altra soluzione che lasciare passare il convoglio (altrimenti avrebbe dovuto uccidere tutti: famiglie e guidatori dei bus). Il punto è che Hezbollah fa da attore protagonista in queste battaglie ed è al centro della scena: siriani, russi, iraniani, americani, tutti devono parlare con loro.
  C'è da notare come per raccontare il ruolo di Hezbollah in questa guerra ormai si utilizzano parole che sono adatte a descrivere una forza regolare impegnata contro guerriglieri jihadisti. Ma Hezbollah fino a pochi anni fa era proprio questo: un gruppo di guerriglieri jihadisti. Il fondatore di al Qaida, Osama bin Laden, si è ispirato alla tattica del camion bomba guidato da un attentatore suicida inventata da Hezbollah, che nell'ottobre 1983 l'aveva usata per uccidere 241 marines e 58 paracadutisti francesi di stanza a Beirut come peacekeepers, Dopo la strage, i peacekeepers si ritirarono dal Libano e tutti i gruppi jihadisti presero nota dell'impatto enorme che si può ottenere con il sacrificio di un paio di guidatori suicidi. Trent'anni fa la reputazione del Partito di Dio non era molto dissimile da quella dello Stato islamico oggi - anche se c'è l'ovvia differenza che Hezbollah è sciita e lo Stato islamico sunnita. Poi ad alterare questa reputazione sono intervenuti altri passaggi.
  C'è stata una fase recente in effetti in cui il Partito di Dio si è pentito con amarezza del suo ingresso al fianco del presidente Bashar el Assad nel tritacarne siriano, avvenuto nella seconda metà del 2012. C'è una regola non scritta che dice che la guerra in Siria punisce chi si avvicina troppo e il gruppo libanese non ha fatto eccezione. L'ultimo bilancio dice che ha perso più di millecento combattenti e l'emorragia non accenna a diminuire, ad agosto ci sono stati 28 morti (fonte Ali Alfone del think tank Atlantic Council, che conta con pazienza da cinque anni). Oltre al logoramento materiale c'era quello di immagine. Il gruppo che sparava nelle strade di Aleppo e vicino Damasco, contro altri arabi, era diventato materia di dileggio. "Non eravate quelli della Resistenza contro Israele? E allora che ci fate in Siria? Qui non ci sono sionisti. Non dovevate liberare al Quds, Gerusalemme? E' più a sud, vi siete persi". La sua natura di vassallo delle politiche iraniane non aveva più la protezione del confronto con Israele. Inoltre, a dispetto della preparazione militare, non riusciva a salvare Assad. E nemmeno ci stavano riuscendo gli stessi militari iraniani, arrivati in Siria un anno dopo, nel 2013. L'avventura a Damasco era una perdita secca e ci sono resoconti molto poco ufficiali di litigate furiose con i gerarchi di Assad, che da Hezbollah volevano ancora più sacrifici e ancora meno visibilità. Poi nel settembre 2014 sono arrivati i russi ed è cambiato tutto. L'intervento di Putin ha cambiato di segno a gran parte di quello che stava succedendo in Siria, dove c'era un segno meno è arrivato un segno più e viceversa. Il Partito di Dio che era impantanato in una guerra di contro insurrezione bestiale e che rischiava di uscirne a pezzi è finito dalla parte dei vincenti. Durante la battaglia per prendere Aleppo est gli ufficiali russi hanno cominciato a incontrare in pubblico i comandanti di Hezbollah (che è pur sempre un gruppo sulla lista americana del terrorismo. Controargomento pronto: anche gli americani collaborano con lo Ypg curdo, che è legato al Pkk, anche quello un gruppo sulla lista del terrorismo).
  Due giorni fa Hezbollah ha fatto alzare in volo un drone di fabbricazione iraniana da Damasco e l'ha fatto entrare in territorio israeliano. Metafora perfetta dello scenario mediorientale prossimo venturo - anzi già presentissimo. Hezbollah è il braccio armato dell'Iran e ora agisce dalla Siria, che è una piattaforma militare molto comoda e ampia in caso di guerra contro Israele. Gli israeliani al confine hanno abbattuto il drone con un missile Patriot di cinque metri di lunghezza, valore tre milioni di dollari, e anche questa risposta spiega molto bene lo scenario di guerra (è un episodio simile a quello raccontato a marzo da un generale americano, David Perkins, durante un simposio dell'esercito, senza citare Israele: "Un nostro alleato ha sparato un missile da tre milioni di dollari per abbattere un drone da 200 dollari"). Secondo gli analisti israeliani, Hezbollah e gli sponsor iraniani vogliono combattere la prossima guerra con attacchi a saturazione, una moltitudine di missili lanciati assieme dalla Siria e dal Libano verso bersagli dentro Israele in quantità così elevata da sopraffare le contromisure missilistiche. Israele è protetto da un ombrello di difesa che in teoria distrugge ogni missile nemico con un contro-missile in tempi così rapidi da azzerare il pericolo. Ma cosa succede se il nemico usa la forza bruta della quantità e lancia troppi missili, troppi per essere fermati tutti? Questo timore degli sciami di missili è la spiegazione di molti dei cento raid aerei israeliani che a partire da gennaio 2013 hanno colpito installazioni e convogli di Hezbollah dentro la Siria. L'obiettivo è impoverire le scorte di missili, intralciare il trasferimento, ritardare l'accumulo e il raggiungimento di quella soglia di pericolo oltre la quale l'ombrello israeliano non riuscirà più a bloccare tutto. Inoltre, secondo gli esperti, gli ordigni di Hezbollah non sono più roba artigianale, sono armi precise, più pesanti e con gittata più lunga per incrementare la capacità di fare danni, in modo che quelli che sfuggono alla rete di intercettazione non finiscano a spegnersi fra le colline, ma colpiscano bersagli paganti come le città. Mentre il resto del mondo osserva la guerra contro lo Stato islamico, Israele svuota le scorte di missili di Hezbollah in Siria e Hezbollah le riempie di nuovo. E' lecito supporre che l'intelligence israeliana non riesca a vedere proprio tutto e che la joint venture Iran-Damasco-Hezbollah sia in vantaggio, altrimenti i raid aerei non continuerebbero a questo ritmo. Il complesso militare industriale in Siria cresce ed è più esteso delle operazioni per contrastarlo. Quando c'è maltempo i camion possono spostarsi sulle strade, gli aerei non possono levarsi in volo. Una settimana fa i jet israeliani hanno bombardato uno stabilimento per la produzione di armi nel nord della Siria dove lavorava anche personale iraniano, ed era un sito che faceva parte anche del programma chimico. Del resto stiamo parlando della Siria, il paese che nel settembre 2013 aveva detto alla comunità internazionale di avere consegnato tutto l'arsenale chimico e che poi il 4 aprile ha lanciato una bomba al sarin contro un villaggio ribelle. Secondo una notizia apparsa sul sito francese Intelligence Online a luglio, Hezbollah ha anche due fabbriche militari in Libano, una nella Beqaa libanese per produrre il razzo al Fatah 110 e l'altra per produrre munizioni tra Tiro e Sidone.
  Il problema è che prima Hezbollah aveva a disposizione soltanto il sud del Libano per fare la guerra, ora ha quasi tutta la Siria. Prima il terreno di gioco era quel pezzo di Libano a sud che s'incunea verso Israele, ora è tutta la linea di confine del Golan. Questo vale per le squadre di fuoco che prima sparano i missili contro Israele e poi si nascondono prima di essere visti dai jet, e vale anche per la logistica. Oggi i rifornimenti non devono essere più contrabbandati in Libano di soppiatto, atterrano alla luce del giorno sulle piste dell'aeroporto internazionale di Damasco - nelle stive di voli passeggeri, che non possono essere abbattuti. Oppure attraccano ai moli militari dei porti di Tartous e Latakia, al riparo da sguardi curiosi. Se prima la guerra era difficile, ora la difficoltà è aumentata di qualche ordine di grandezza. Israele ha chiesto per favore ai russi di garantire una fascia di rispetto di circa sessanta chilometri a partire dal confine, niente Hezbollah oppure iraniani, ma i russi hanno ridotto questa fascia a cinque chilometri - che contano zero in una guerra moderna. Da poco hanno trasportato alcuni uomini di Hezbollah a Quneitra, città siriana a ridosso delle alture del Golan. Chi scrive l'ha osservata l'anno scorso dall'altro lato del confine: da una postazione dell'esercito israeliano la si vede a portata di mano, adagiata nella pianura che comincia subito dopo una ripida discesa erbosa oltre i reticolati, così vicina che si vedono le macchine andare e venire tra gli edifici. Un po' oltre la portata di un fucile.
  Tre giorni fa la rivista americana Atlantic ha pubblicato un pezzo in cui racconta "la hybris di Hezbollah", è firmato da Andew Exum, ex consigliere militare americano che ha studiato a Beirut. La tesi è che a volte anche soltanto il gesto di accumulare e ammodernare un arsenale equivale a una dichiarazione di guerra contro i vicini e che il fatto che Hezbollah stia acquisendo le capacità per cominciare e continuare un conflitto contro Israele verrà letto inevitabilmente da Israele come un casus belli. E' una linea rossa perché oltre una certa soglia di armamento l'inazione diventerà più pericolosa e costosa dell'azione e quindi è soltanto questione di tempo prima che cominci il secondo tempo della guerra tra Hezbollah e Israele sospesa nell'estate 2006. Approfittare della guerra civile siriana per diventare un'arma puntata contro Gerusalemme è una strategia quasi suicida e per questo il titolo parla di hybris, l'arroganza che nelle tragedie greche porta alla rovina. Mentre il mondo parla del deal atomico dell'Iran e alle Nazioni Unite il presidente iraniano Hassan Rohani dice che il suo paese "risponderà in modo determinato e decisivo a qualsiasi violazione dell'accordo" e mentre il presidente americano Donald Trump sostiene di avere preso già una decisione su quel dossier, senza però dire quale, si alza il rischio di una guerra convenzionale e che potrebbe essere catastrofica. Exum nota che questa volta il gruppo libanese ha sparpagliato le sue postazioni in tutto il paese e che quindi c'è il rischio, anzi la certezza, di danni molto più gravi e profondi di quelli di undici anni fa, senza contare le basi in Siria. Exum non fa che un accenno, ma si riferisce alla cosiddetta dottrina Dahiye, che è quella correntemente adottata dall'esercito israeliano come risposta di default in caso di guerra contro Hezbollah e che prevede la distruzione deliberata e punitiva di tutte le infrastrutture che sostengono il nemico, anche in zone civili, per dare un colpo di grazia e assicurarsi che non ci siano nuove riprese e ulteriori capitoli di un conflitto infinito. Il nome viene dal quartiere di Dahiye, nella parte meridionale di Beirut, che fa da base per Hezbollah e che nel 2006 fu quasi raso al suolo.
  Questo scenario, tuttavia, è come se fosse ancora ignorato dall'opinione pubblica, anche perché i contendenti sono stati bravi a tenerlo sottotraccia. Non per questo è meno probabile. Nel prossimo futuro il presidente siriano Bashar el Assad, che oggi da alcuni è considerato un bastone di solidità, potrebbe tornare a essere il centro del problema, perché è l'incubatore consenziente di un conflitto esplosivo. Allora forse si assisterà a un cambio repentino di posizione da parte di chi - per esempio una delegazione di politici italiani appena stata in visita a Damasco e Aleppo - sta ancora celebrando i fasti della finta "stabilità" assadista. Per tornare all'assunto di Edward Luttwak: no, non siamo più al sicuro, non ci si salva se si lascia che i nemici si scannino tra di loro.

(Il Foglio, 21 settembre 2017)


Mossad: «l'lsis cerca la ribalta. Rischio attacco in Vaticano»

Allerta del servizio segreto israeliano che ha simulato un attentato a San Pietro

007 nei panni dei terroristi
Giochi di ruolo per evitare attentati anche nelle stazioni della metro
Lo scenario
I terroristi sconfitti in Siria e Iraq cercano l'azione eclatante
700 dollari
Il costo di un drone su Amazon a portata di ogni tasca

di Francesca Musacchio

Dabiq, la copertina con le bandiere nere dell'lsis sul periodico di propaganda jihadista
L'Isis è a caccia di visibilità per dimostrare che la sua potenza non è in crisi. Le pesanti sconfitte subite tra Siria e Iraq hanno offuscato l'immagine del gruppo terroristico e quindi serve una risposta adeguata, un attacco spettacolare. Quale migliore obiettivo se non il Vaticano? E' questo il presupposto dal quale è partita la simulazione dell'Itc, Herzliya International lnstitute for Counter-Terrorism Conference, a cui hanno partecipato anche alcuni ex ufficiali del Mossad e dell' esercito israeliano. Uno scenario spaventoso, messo in campo per immaginare come potrebbe svolgersi un attacco terroristico a San Pietro, da sempre considerato l'obiettivo numero uno dello Stato islamico.
   La simulazione, fatta anche attraverso un inquietante gioco di ruoli dove i leader lsis erano interpretati da alcuni 007, è stata attuata per ricreare possibili scenari, motivazioni e organizzazione degli jihadisti. È stata persino inscenata una riunione tra i vertici del Califfato per pianificare il mega-attacco che avrebbe l'ambizione di dimostrare che l'Isis è ancora esistente, nonostante le sconfitte subite in Siria. Il tutto è avvenuto, per tragica coincidenza, il giorno prima dell'esplosione nella metropolitana di Londra. La Gran Bretagna, però, non è un obiettivo facile, vista la difficoltà di entrare liberamente, e neanche uno dei più importanti dal punto di vista mediatico.
   Nonostante l'attacco a Person Green non abbia sorpreso gli esperti israeliani, la loro analisi li ha portati a considerare uno scenario ben più appetibile per gli jihadisti: l'Italia e in particolare il Vaticano.
   Boaz Ganor, fondatore del think tank, ha interpretato il ruolo del leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. L'ex capo di Mossad, Naftali Granot, ha invece svolto la parte del capo del consiglio militare dell'Isis, Nello scambio di battute previste dalla simulazione, il concetto dei terroristi suona come una profezia: «Negli ultimi anni abbiamo subito delle sconfitte militari. Ma questa non è sicuramente la fine. Ora ci concentreremo principalmente su ciò di cui siamo più capaci: colpire gli infedeli in vari Paesi usando gli attacchi suicidi e altre operazioni terroristiche. Per noi sarà molto più semplice che combattere una vera e propria campagna militare. Questa nuova fase sarà una lunga campagna terroristica».
   L'attacco a San Pietro, dunque, avrebbe «un grande valore simbolico in quanto è il simbolo del cristianesimo».
   Nella simulazione sono stati persino utilizzati dettagli operativi come il numero di kamikaze che potrebbero essere messi in campo, l'uso di droni e di componenti esplosivi che si possono facilmente acquistare per costruire bombe artigianali. Proprio in merito ai droni, inoltre, gli specialisti hanno spiegato come sia facile reperirne di ottima qualità su Amazon al costo di 700 dollari. Insomma, la simulazione di uno scenario devastante, ma allo stesso tempo realizzabile, che allerta anche su un possibile attacco in contemporanea nelle stazioni metro nei pressi di San Pietro. Secondo l'analisi utilizzata per progettare la simulazione, I'Isis avrebbe inviato in Europa la maggior parte dei combattenti stranieri. Tutti mujaheddin pronti a compiere attacchi nei Paesi d'origine e già in possesso di armi, esplosivi e munizioni per «avviare una vera e propria campagna di terrore».
   Non è la prima volta che da Israele arrivano avvertimenti sul rischio di attentati in Italia. I servizi segreti israeliani hanno segnalato tra gli obiettivi il Vaticano e il Papa, oggetto anche della propaganda jihadista nel web. Mai come questa volta, però, è inevitabile pensare alla ormai famosa copertina di Dabiq, il magazine online dello Stato islamico, dove si vede issata la bandiera nera dell'Isis sull'obelisco di piazza San Pietro. Un'immagine che negli anni ha simboleggiato più di ogni altra le intenzioni dell'Isis: arrivare a Roma, conquistarla, sottometterla e sostituire tutti i simboli del cristianesimo con quelli dell'Islam. Le informazioni delle varie intelligence e la continua propaganda sul web, inoltre, hanno contribuito ad innalzare l'allerta per possibili attentati nel nostro Paese, come durante il Giubileo quando Roma si è blindata.
   Tra le immagini agghiaccianti che continuano ad affollare gli incubi di quanti devono occuparsi della sicurezza in Italia, ci sono le foto postate nel corso degli ultimi tre anni da alcuni account Twitter in cui si vedono Roma e piazza San Pietro a ferro e fuoco, mentre la terribile bandiera nera dello Stato islamico sventola sulla città eterna. In un'altra immagine, invece, la mappa della Libia sovrasta Roma e sotto la frase: «Le armi degli ottomani sono state lanciate e hanno accerchiato Roma dopo avere conquistato la Libia a sud dell'Italia. Chi vuole prendere Roma e l'Andalusia deve cominciare dalla Libia».
   La simulazione israeliana dei giorni scorsi, quindi, evoca gli scenari più volte temuti dagli esperti e da non sottovalutare.

(Il Tempo, 21 settembre 2017)


Netanyahu: coloro che minacciano di annientarci si espongono ad un pericolo mortale

NEW YORK - Coloro che minacciano Israele di annientamento si espongono "ad un pericolo mortale". Lo ha dichiarato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, nel suo discorso pronunciato ieri nel quadro della 72ma Assemblea generale delle Nazioni Unite, in corso a New York. "Israele si difenderà con la forza delle sue braccia e con il potere delle sue convinzioni", ha sottolineato il premier israeliano. Nel suo discorso Netanyahu ha elencato i progressi diplomatici israeliani in seguito ai lunghi viaggi effettuati dal premier in Australia e America Latina, precisando che il suo paese ha molto da offrire in termini di tecnologia ed esperti anti-terrorismo. Tuttavia Netanyahu ha dedicato un'ampia parte del suo discorso al tema dell'Iran e alla minaccia che la Repubblica islamica rappresenta per lo Stato di Israele. Il premier ha ricordato come il paese si sia sempre opposto all'accordo sul nucleare iraniano divenuto realtà nel luglio 2015, avvisando i paesi della Comunità internazionali. "Ho avvisato che quando le sanzioni sarebbero state rimosse, l'Iran si sarebbe comportato come una tigre affamata e scatenata", ha dichiarato Netanyahu.
   Per il premier israeliano l'Iran non è entrato nel novero della comunità delle nazioni, ma sta divorando gli Stati uno dopo l'altro. Netanyahu ha avvertito, facendo un parallelismo con la cosiddetta "cortina di ferro" del periodo della Guerra fredda, che "una tenda iraniana sta calando sul Medio Oriente, estendendosi su Iraq, Siria, Libano e altre zone, intenzionata a spegnere la luce di Israele". "Io - ha aggiunto - ho un semplice messaggio per Khamenei (la guida suprema dell'Iran ayatollah Ali Khamenei): la luce di Israele non potrà mai estinguersi".
   Durante il suo intervento, Netanyahu si è rivolto direttamente al popolo iraniano, inviando un messaggio di ringraziamento in lingua farsi, sottolineando che Israele non è "loro nemico e che una volta che il regime sarà cambiato, i popoli potranno riprendere quella che in passato è un'amicizia storica". Il premier ha inoltre elogiato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sia per il contenuto del suo discorso, sia per il suo forte sostegno allo Stato di Israele presso le Nazioni Unite. Netanyahu ha detto che nei suoi 30 anni di esperienza con l'Onu, non ha sentito un discorso più coraggioso di quello pronunciato da Trump.

(Agenzia Nova, 20 settembre 2017)


Israele, inaugurata la prima base militare Usa

Decine di cadetti frequenteranno la School of Air Defence

di Maria Grazia Labellarte

Il generale israliano Zvika Haimovich e il generale statunitense John L. Gronski firmano un accordo durante una cerimonia alla base aerea di Bislach, vicino a Mitzpe Ramon, lunedì 18 settembre 2017
La prima base militare americana è stata inaugurata sul suolo israeliano lo scorso 18 settembre all'interno della già esistente Bislach Air Base. Situata nel cuore del Negev, sarà frequentata da decine di cadetti americani che frequenteranno la School of Air Defense.
Già due anni fa fu siglato da entrambe le parti un accordo per l'avvio dei lavori per un'installazione militare americana, consolidando così le volontà reciproche di una strategia di cooperazione militare. La base vuole essere un nuovo simbolo della presenza a stelle e strisce nel Medio Oriente e, per Israele, ribadire il permanente stato di allerta della difesa israeliana verso il nemico di sempre, l'Iran. Proprio con gli Stati Uniti, infatti, Israele ha sviluppato un sistema multistrato di difesa contro gli attacchi di missili a lungo raggio lanciati dall'Iran sulla Striscia di Gaza.
   Tuttavia, in Israele, matura sempre più la preoccupazione per il chiaro coinvolgimento dell'Iran nella guerra civile nella confinante Siria ed il timore che lo stato persiano insieme al partito politico libanese Hezbollah possa stabilire una presenza a lungo termine sul confine con lo stesso Israele.
   Hezbollah ha sofferto nello stesso conflitto pesanti perdite, la stima si avvicina a più di 1300 morti e più di 5000 feriti, la sua partecipazione, inoltre, ha richiesto ingenti finanziamenti relativi ad armamenti, manutenzione e personale militare. In aggiunta a questo, Hezbollah è stato costretto a schierarsi contro i gruppi sunniti radicali cercando di estendere il campo di battaglia oltre confine, in territorio libanese. Nel Paese dei cedri sono affluiti, dall'inizio della guerra, oltre 1 milione di profughi e l'intera popolazione libanese, che oscilla intorno ai 4,5 milioni di abitanti tra cui 400 mila profughi palestinesi, sta subendo da mesi una forte pressione politica, sociale ed economica.
   Lo stesso partito politico da piccola organizzazione terroristica munita di una sua milizia armata è divenuta, ultimamente, un esercito nazionale, a tutti gli effetti. Con il tempo si è dotato di missili a lungo raggio ad alta precisione con testate più grandi di quanto non fossero nel 2006 ed oggi può contare su 100.000 vettori armati, rispetto ai circa 12.000 nel 2006. Il gruppo ha anche ampliato e migliorato la sua dotazione di droni, le difese antiaeree, missili terra-mare, armi anticarro, la capacità di acquisizione di informazioni, così come ha ammodernato i sistemi di comando e controllo. Oltre a tutto ciò, ha acquisito una enorme esperienza sul campo di battaglia, comprensiva sia delle capacità logistiche sia, soprattutto tattiche, schierando i suoi battaglioni in teatri operativi complessi, come la Siria per l'appunto.
   L'arrivo di decine di soldati americani presso la Bislach Air Base, unitamente alla sua attività operativa, acquista un grande valore simbolico nell'area, soprattutto nella sua funzione di deterrenza e contrasto contro eventuali incursioni in territorio israeliano.

(ofcsreport, 20 settembre 2017)


Israele, incubo lupi nel deserto: "Attaccano i bambini per mangiarseli"

Almeno dieci attacchi quest'anno. Gli zoologi: non temono più l'uomo, lo considerano un preda

di Giordano Stabile

 
C'è un nuovo nemico alle frontiere di Israele ma non è un gruppo terroristico o uno Stato arabo in cerca di rivincite. Sono i lupi. Si sono adattati alla presenza umana nel deserto, ai margini delle città, e ora cominciano ad attaccare gli uomini. Sono stati registrati già una decina di episodi, nel Negev. L'ultimo in un piccolo accampamento di famiglie in gita vicino a Masada.

 Assalto al campeggio
  «C'erano almeno dieci tende - ha raccontato Ramat Hasharon al quotidiano Haaretz -. All'improvviso, nella notte, un animale che sembrava un cane è entrato nell'accampamento. Ho urlato ma non se ne andava». Il predatore è stato cacciato dagli altri campeggianti ma è tornato due ore dopo e ha assalito la figlia di Ramat: «L'ho visto sopra di lei, con lei a terra, muoveva il suo naso sopra di lei». La piccola ha riportato una ferita per un morso. «Non sembrava che volesse ucciderla ma piuttosto che volesse trascinarla via, portarsela via».

 Bambini come prede
  L'attacco risale a quattro mesi fa. Da allora ne sono stati registrati almeno altri nove, tutti nella zona del deserto. Quasi tutte le vittime erano bambini piccoli. Per esempio due bambini sono stati attaccati alla scuola all'aperto Ein Gedi. Anche una donna è stata assalita, mentre dormiva in una tenda con il marito. Lo zoologo Haim Berger ha analizzato i casi e ha concluso che i lupi non attaccano per mordere o spaventare gli uomini ma proprio per predare i bambini, per nutrirsi. Questo li rende un pericolo molto preoccupante.

 "Se non ti teme, devi temerlo"
  Lo stesso Berger lo ha sperimentato, durante un campeggio nel deserto. «I bambini grandi non volevano dormire nelle tende ma fuori. A un certo punto mia figlia mi ha detto di aver visto un lupo. La cosa anomala è che non sembrava aver paura degli uomini. Non è normale che un predatore stia vicino a te e non abbia paura. Vuol dire che sei tu a dover avere paura. Un lupo che non è spaventato dall'uomo è un lupo che attacca».

 Adattamento all'uomo
  Berger è convinto che i lupi nel deserto israeliano sono passati attraverso una lunga fase di adattamento alla società umana. Hanno imparato che non è necessario temere gli uomini, e che la gente può essere una fonte di cibo, come le gazzelle. Se un lupo non riesce a trovare cibo per giorni e si imbatte in un gruppo di uomini, sente l'odore del cibo cucinato, si avvicina. Cento anni fa nessun lupo avrebbe osato avvicinarsi a un accampamento di beduini. «Ma oggi la situazione è differente».
Già nel 2008 c'era stato un incidente del genere, sempre vicino a Masada, con tre ragazzine assalite a pochi metri dai loro genitori. Il lupo era riuscito a trascinarne una per alcuni metri prima che i genitori riuscissero a scacciarlo. La ragazza era rimasta ferita al collo e alla gola. Allora, l'Autorità per i parchi e la natura aveva promesso di recintare le aree di campeggio ma non l'ha mai fatto.

 Fucili ai ranger
  Quest'anno però gli attacchi sono moltiplicati. Al Kibbutz Ein Gedi una piccola di due anni e mezzo che stava giocando in un campo è stata assalita e ferita alla schiena. Un ranger ha confermato che l'animale ha attaccato per predarla. Gild Gabau, il direttore del distretto meridionale dell'Autorità per i parchi e la natura, ha confermato che ci sono stati almeno dieci gli attacchi nel corso del 2017. Ha aggiunto che la minaccia è presa «sul serio»: è stato proibito dare cibo agli animali selvatici e i ranger sono stati muniti che fucili che sparano pallottole di vernice per spaventare e cacciare i lupi che si avvicinano alle zone abitate e ai campeggi.

(La Stampa, 20 settembre 2017)


I consigli dello 007 israeliano: "Così si combatte il terrorismo"

Nadav Argaman, capo dell'Agenzia di sicurezza israeliana
Dieci giorni fa, il capo dell'Agenzia di sicurezza israeliana (Shin Bet), Nadav Argaman, ha rivelato, durante la riunione del governo israeliano presieduto da Benjamin Netanyahu, che dall'inizio di quest'anno, in Israele, sono stati sventati circa 200 attacchi terroristici, 70 dei quali nei soli mesi di agosto e settembre. Va detto che Argaman ha incluso in questa lista non soltanto gli attentati terroristici come li percepiamo noi in Europa, ma anche rapimenti e scontri a fuoco. Quindi una vasta gamma di episodi terroristici di cui, alcuni, non ancora parte dell'immaginario collettivo europeo sul terrorismo di matrice islamica, come appunto possono essere i rapimenti. In particolare, a destare preoccupazione nell'intelligence israeliana è la situazione in Cisgiordania, che per lo Shin Bet è "fragile" e caratterizzata da una forte presenza simultanea di organizzazioni terroristiche e attori individuali privi di legami con le forze principali del terrorismo, ma pieni di sentimenti di odio verso Israele.
  Con l'avvento del fenomeno terroristico in Europa, in molti considerano il sistema israeliano come un modello da prendere ad esempio per combattere il radicalismo islamico e reprimere le organizzazioni terroristiche. Gli attentati di Barcellona, Manchester, Londra, Parigi, Bruxelles, così come i vari attacchi all'arma bianca o con pulmini tra Regno Unito, Germania e Svezia, hanno posto l'accento su quello che da molti è teorizzato come l'israelizzazione dell'Europa. Ogni capitale europea si sta, infatti, lentamente trasformando, a detta di molti osservatori, come una Tel Aviv del Vecchio Continente. Non c'è più una città tranquilla e non si rischia più soltanto un attentato di vaste proporzioni come potevano essere quelli orribili e devastanti degli anni precedenti, Oggi la tensione è continua e la minaccia costantemente presente in ogni area del continente. Per controllare questa nuova minaccia, il sistema israeliano sembra essere l'unico modello in grado di poter far fronte al problema, comprimendo il rischio nei limiti del possibile. Gianluca Perino, per il Messaggero, ha riportato le parole di un ex 007 dello Shin Bet, Adi Carmi, che ha spiegato come l'Europa dovrebbe comportarsi di fronte al pericolo jihadista.
  "Ci sono soltanto due possibili scenari - spiega Carmi al quotidiano romano - e in entrambi i casi il nostro obiettivo è arrivare prima dell'attacco. Di fronte a gruppi terroristici tradizionali, se hai una buona intelligence, la possibilità di far saltare i piani dei terroristi è sicuramente alta. Di solito gli jihadisti commettono degli errori o, comunque, utilizzano smartphone, computer, tablet e altri sistemi che possiamo intercettare. Lo stesso discorso vale in presenza di una rete che si muove sul territorio, che importa armi ed esplosivo o che è comunque costretta a spostamenti nelle città: anche in questo caso possiamo riuscire a fermarli in tempo. E lo abbiamo già fatto, noi come le polizie di altri paesi europei. Ma questo scenario potrebbe non essere più prevalente, perché in realtà il mondo del terrore è cambiato". Secondo l'ex agente dell'intelligence israeliana, il problema nasce dal fatto che ai miglioramenti del terrorismo islamico nell'uso delle tecnologie, deve esserci un contemporaneo miglioramento delle forze di sicurezza per prevenire queste nuove forme di sviluppo ed espansione dello jihadismo. Nell'ambito dei social network, ad esempio, alcuni sistemi europei si sono ritrovati nettamente impreparati. Le parole di Carmi sono essenziali per comprendere cosa deve cambiare: "La nostra salvezza è rappresentata dalla capacità di cambiare mentalità e strutture, magari anche qualche legge: dobbiamo pensare come loro, vivere come loro, infiltrare i loro ambienti. Servono agenti che parlino arabo perfettamente, che studino il Corano in modo maniacale, che riescano a capire cosa accade realmente nelle moschee dove si predica quell'odio che poi arma i terroristi improvvisati".
  Secondo Adi Carmi, va cambiata anche la percezione delle leggi in materia di antiterrorismo. Nel 2002, Israele modificò le leggi in materia di antiterrorismo unificando i vertici dell'intelligence, che adesso rispondono solo al primo ministro e soprattutto concessero ampi poteri discrezionali alle agenzie di sicurezza del Paese e alla polizia. Il tempo è essenziale, non si può perdere in rimpalli di responsabilità e in cavilli burocratici. E devono essere riformate anche le leggi per prevenire il terrorismo. L'ex agente israeliano pone in particolari due temi fondamentali: migranti e moschee. Per Carmi il problema delle migrazioni è una tema semplicemente di sicurezza interna., E le sue parole sono chiarissime nel delineare quali sono le politiche che l'Italia dovrebbe intraprendere: "Se devo occuparmi della sicurezza del mio Paese, devo sapere tutto: chi sono, da dove vengono, quali contatti hanno, dove stanno andando, dove vanno a dormire. Arrivano a milioni, e tra questi volete che non ci sia qualche potenziale pericolo?". E le moschee e i centri culturali islamici sono un altro grave problema che la politica italiana dovrebbe regolare il prima possibile con leggi più dure. "Perché l'estremismo islamico passa proprio da quei posti, proprio come a Bruxelles o a Malmö", e, aggiunge Carmi, "il problema è che le nostre democrazie devono essere nette quando si parla di integrazione: diritti sì, ma rispetto totale delle nostre regole". Parole che dovrebbe essere stampate a caratteri cubitali nelle aule del nostro Parlamento.

(Gli occhi della guerra, 20 settembre 2017)


Torino, le istituzioni in visita alla sinagoga di San Salvario

La Circoscrizione 8 accolta dal presidente della comunità ebraica torinese e dal Rabbino capo. "Ampliare la collaborazione".

 
La sinagoga di Torino
La sinagoga, le scuole, la casa di riposo e gli spazi di socialità. Il grande patrimonio architettonico e culturale contenuto negli spazi di una delle comunità ebraiche più grandi d'Italia. Si, perché dopo Roma e Milano, è proprio a Torino e Firenze che queste realtà sono maggiormente radicate e ampie. Il tutto aperto alle porte dei consiglieri della Circoscrizione 8 di Torino, per una visita in cui sono state raccontate la storia e le attività della comunità.
   A guidare questa visita il presidente Dario Disegni, che ha mostrato ai consiglieri anzitutto la sinagoga, raccontandone la storia: un edificio arrivato tardi in San Salvario, ricostruito nei suoi interni dopo lo scoppio di una bomba nella seconda guerra mondiale. Ma non solo quella perché, come racconta Disegni, la comunità ebraica è ben più ampia, fatta di scuola elementare e media e casa di riposo, tutte e tre aperte anche ai non ebrei.
   Malgrado sia tra le prime quattro del nostro Paese, ormai la comunità non conta più di 900 membri, "per tutte le variabili comuni nella società italiana: i giovani vanno via per cercare lavoro e l'età della popolazione è sempre più avanzata". Ma nonostante questo lo spazio è fiorente "di attività culturali aperte anche all'esterno. Ormai siamo una comunità allargata in tutti i sensi".
   "Siamo profondamente impegnati nel dialogo religioso - dice il rabbino capo - cosa ancora più importante in un quartiere come San Salvario, che è un laboratorio vero e proprio per la città, dove svolgiamo tantissime iniziative. La nostra comunità non è importante solo per la sua storia, ma anche per la presenza sul territorio".
   Molto soddisfatta la coordinatrice di commissione Noemi Petracin: "E' una realtà importante che dev'essere conosciuta ancora di più, anche per evitare di fare di nuovo degli errori terribili, soprattutto visto il momento storico che vediamo. In questa prospettiva sarebbe bello ampliare la collaborazione, soprattutto per quanto riguarda le scuole e il sociale. Potrebbe dare un senso forte di comunità per il territorio e le sue associazioni".

(TorinOggi, 20 settembre 2017)


Prima base militare statunitense in Israele

Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti hanno stabilito una base militare permanente di difesa aerea in Israele, nel cuore del deserto del Negev, nel sud del paese. Lo ha annunciato ieri, citato dal quotidiano «The Times of Israel», il capo del comando della difesa aerea israeliana, il generale di brigata Tzvika Haimovitch.
Al giornale il generale ha detto che la base statunitense è collocata all'interno di quella israeliana di Mashabim, a occidente delle città di Dimona e Yerucham. «La base - ha aggiunto Haimovitch - dimostra la lunga alleanza tra Stati Uniti e Israele e ci consente di aumentare le nostre difese, nella ricognizione, nell'intercettazione e nella capacità di reagire».
Nonostante abbia sottolineato che l'apertura della nuova installazione non sia legata a nessun evento specifico - e che è stata allestita e preparata in due anni - Haimovitch ha spiegato che la presenza permanente di una base statunitense su suolo israeliano «fa comprendere ai nostri vicini quanto la nostra amicizia con gli Stati Uniti sia importante».
Il generale ha confermato che nella nuova base prenderanno servizio decine di militari israeliani e statunitensi.

(L'Osservatore Romano, 20 settembre 2017)


Ebreo chi?

"Ebreo chi? Sociologia degli ebrei italiani oggi", Jaca Book, 330 pp., 35 euro

di Alessandro Litta Modignani

Ma tu sei ebreo? non è una domanda come tutte le altre. E' un interrogativo che genera "imbarazzo", avverte Furio Colombo nella prefazione, e sulla natura profonda, intima, di questo imbarazzo è necessario scavare e riflettere. Va a Ugo Pacifici Noja e Giorgio Pacifici, i due curatori, il merito di avere assemblato in questo volume collettaneo e multidisciplinare un forte mix di contributi scientifici e di testimonianze di alto valore morale. I coautori sono 16, il focus è sugli ebrei italiani, ma molte considerazioni sull'identità ebraica e l'antisemitismo hanno carattere generale. Analizzando i dati statistici, si scopre per esempio che circa il 50 per cento degli ebrei italiani dichiara di avere un livello di osservanza religiosa medio-bassa, bassa o nulla. Oppure che il 73 per cento degli ebrei americani indica il primo significato dell'identità ebraica nel "Remembering Holocaust", risposta che scende sotto il 20 per cento per gli ebrei italiani. Sergio Della Pergola riprende i complessi e sofisticati sondaggi internazionali dell'Anti Defamation League, Nel 2013-14 poteva essere classificato come "antisemita" il 26 per cento della popolazione mondiale, percentuale che sale al 74 per cento in medio oriente e nord Africa e che si attesta al 24 per cento in Europa occidentale. In Italia la media era al 20 per cento - è salita però al 29 solo un anno dopo. Lo storico Claudio Vercelli, fra i massimi esperti di genocidi e negazionismo, affronta i temi di più bruciante attualità, dai processi migratori ai fenomeni populistici. "L'insediamento di comunità provenienti dal Mediterraneo meridionale e dall'ampia regione mediorientale (. . .) influisce (. . .) anche sulle dinamiche di formazione, rinegoziazione e diffusione di pregiudizi antichi". Per fornire una definizione, Vercelli scrive che "si ha antisemitismo quando vi è la diffusa convinzione che la storia umana sia attraversata e condizionata in maniera permanente, da una cospirazione tramata nell'ombra dall'ebraismo ai danni dei non ebrei", cospirazione che "avrebbe come obiettivo il conseguimento di un potere di controllo, se non di dominio, pressoché assoluto sull'intera comunità umana.(…) La nascita di Israele viene letta come una peculiare manifestazione di questo processo di 'rivelazione' della intrinseca malignità degli ebrei". Alcune suggestioni di questo tipo, aggiunge Vercelli, si possono riscontrare nei richiami anti politici dei movimenti populisti europei e italiani. "E' infatti tipico della stereotipia antisemitica l'identificare la politica democratica come prodotto della corruzione e dell'affarismo", una concezione "storicamente propria di quei ceti che hanno faticato a definire un ruolo economico e un profilo culturale certi". Nelle conclusioni, Giorgio Pacifici sottolinea la pericolosa interazione fra due stereotipi profondi: "Avarizia, ricchezza e potere" costituiscono un insieme strettamente interconnesso con la presunta "estraneità della comunità ebraica italiana, il suo essere 'altro' rispetto alla collettività nazionale. (. . .) Un'immagine indubbiamente banale, ma pericolosa soprattutto in un momento storico come quello presente".

(Il Foglio, 20 settembre 2017)


Marocco - Rabbini riuniti a Essaouira per la celebrazione dell'Hiloula

RABAT - Si è svolto ieri a Essaouira, nella parte centrale del Marocco, l'annuale raduno dei rabbini e della comunità ebraica marocchina per la celebrazione dell'Hiloula. Questa riunione religiosa annuale è rivolta agli ebrei marocchini del Nord America, dell'America Latina e di tutta l'Europa, ed è un momento di riunione per il Marocco. Per celebrare l'ultimo giorno di Hiloula, è stata organizzata una grande serata musicale a Essaouira in onore di re Mohammed VI. Le celebrazioni commemorano la figura di uno dei rabbini più importanti della storia dell'ebraismo marocchino, Rabbi Haim Pinto. Durante la serata di chiusura l'orchestra ha eseguito l'inno nazionale della "marcia verde" come tributo al re.

(Agenzia Nova, 20 settembre 2017)


Il Giro che fa la storia. «Il primo capitolo di una nuova era. Così uniremo Israele e Italia»

Il direttore Vegni: «Sulla sicurezza non dobbiamo insegnare niente. I team arabi? Nessuna obiezione»

«Useremo tre aerei e due navi. squadre con due strutture» «Israele fornirà 120 tra auto e furgoni e tutte le moto» «Esiste anche un piano B tutto italiano, ma non voglio pensarci»

di Luca Gialanella

GERUSALEMME - Il giorno dopo la nascita di Gerusalemme rosa, la soddisfazione è ancora più forte. Mauro Vegni, direttore del Giro d'Italia, giustamente parla di «un evento che non è stato formale, ma ha toccato tutti perché la partenza da Israele nel 2018 rappresenta un punto di non ritorno, una svolta epocale che resterà per sempre nella storia del ciclismo mondiale». Tre tappe, dal 4 al 6 maggio: la cronometro inaugurale a Gerusalemme, 10,1 chilometri sotto le Mura della città cuore di ebraismo, cristianesimo e islamismo; l'arrivo sul lungomare di Tel Aviv e quello di Eilat, dopo aver attraversato il deserto del Negev, tappe per velocisti, con le insidie di vento, caldo, soprattutto di un mondo da esplorare anche in bicicletta. Sul tavolo, questioni complesse di logistica e sicurezza. Una carovana di 2000 persone a notte da porta-
re nel Medio Oriente a 4 ore di volo dall'Italia, la polizia, i mezzi. Vegni spiega tutto.

- Partiamo dalla logistica. Come si porta il Giro in Israele e poi lo si riporta in Itala?

  «Il progetto della Grande Partenza a Gerusalemme nasce ambizioso e mi ha affascinato subito proprio per questo motivo. È il primo capitolo della nuova storia del Giro, ma non ci spaventa perché ho la fortuna di avere una grande squadra alle spalle. Anche le partenze dall'Irlanda del Nord nel 2014 o dall'Olanda (2010 e 2016) erano complesse. Intanto ci sarà un contributo importante da parte di Israele: le transenne, i podi, le tribune, i villaggi di partenza e arrivo saranno realizzati in loco su nostre indicazioni. E Israele fornirà anche tutti i mezzi dell'organizzazione: parliamo di 120 auto e furgoni, da quelli della Giuria ai mezzi della pubblicità, per esempio. E anche tutte le moto di supporto, come quelle dei motociclisti e della scorta tecnica. Auto e moto che saranno ufficiali, della stessa marca con la quale abbiamo firmato il contratto di fornitura».

- Per quanto riguarda i team?

  «Porteranno le loro ammiraglie e i pullman, con i rispettivi sponsor. Non ci sembrava bello partire con auto noleggiate sul posto. Abbiamo invece lasciato discrezionalità per i mezzi di supporto, come il camion officina: in questo caso, lo possiamo fornire in Israele».

- Martedì primo maggio i corridori saranno a Gerusalemme.

  «Partiranno direttamente dalle loro sedi in aereo per Tel Aviv, perché è più comodo per tutti. Chiaramente questo aspetto sarà compensato nei costi riconosciuti alle squadre. Mentre per il ritorno, da Israele all'Italia, ci saranno due voli charter che lunedì 7 maggio porteranno i corridori, più un aereo cargo per le biciclette e il materiale tecnico».

- E i mezzi delle squadre?

  «Organizzeremo due navi-charter che partiranno da un porto ancora da stabilire, uno tra Venezia, Ancona o Ravenna. Sono quattro giorni di navigazione. Il personale delle squadre arriverà con i voli dei corridori in anticipo per organizzare tutto per tempo. Lo stesso per il ritorno. Ma in questo caso i team si organizzeranno con una seconda struttura logistica, ammiraglie e pullman, per accogliere i corridori: le due navi-charter arriveranno in Italia dopo che la corsa sarà già ripartita».

- Passiamo alla polizia.
  «In Israele, la responsabilità della scorta del Giro sarà della polizia israeliana. La nostra Stradale non ha facoltà per intervenire in uno stato estero. Gli israeliani sono già venuti al Giro e torneranno al Lombardia per definire gli ultimi dettagli. Problemi non ce ne saranno».

- La sicurezza. .
  «La Grande Partenza ha il sostegno totale del governo israeliano. L'avete visto alla presentazione: due ministri, turismo e sport, il sindaco di Gerusalemme, che è una figura di primissimo piano, e lo stesso premier Netanyahu che segue questo evento sin dal primo momento. Con la corsa rosa, Israele ha investito tantissimo sulla propria immagine e la sicurezza non è un problema che dobbiamo insegnar loro come si risolve. Lo conoscono molto bene: sulla sicurezza si giocano l'investimento di questa operazione. C'è sempre, all'esterno, questa idea di Israele come nazione pericolosa, ed è proprio questo il motivo per cui vogliono investire sul Giro. Per loro, il discorso sicurezza è implicito nell'organizzazione del Giro. E io aggiungo che in questo momento può essere molto più pericoloso partire da Bruxelles, per esempio».

- Le squadre arabe come Bahrain-Merida o Uae-Emirates?
  «Già da marzo avevo informato il Ccp (il Consiglio del professionismo dell'Uci, ndr) che si sarebbe potuti partire da Gerusalemme. Ci siamo risentiti il 7 settembre. Nessuno ha avuto da ridire, e da parte sua Israele è una nazione molto aperta. "Siamo aperti a tutti", hanno sempre detto».

- Nel 2018 i corridori nei grandi giri scenderanno da 9 a 8. Questo vuol dlre che verrà invitata una squadra in più?
  «Assolutamente no, anche perché attualmente il regolamento non lo prevede. Restiamo a 22 squadre con tetto massimo di 176 corridori: 18 WorldTour, se non ci saranno cambiamenti, e quattro wild-car»,

- Nel caso di eventi catastrofici che impedissero il via da Israele, come si regolerà il Giro?
  «Ho già un piano-B, tutto italiano, ma è davvero una soluzione da prendere in considerazione come ultimissima possibilità. E in ogni caso tenete presente che il nostro ministero degli Esteri segue passo passo la Grande Partenza. Ho la possibilità di inserire nel tracciato del Giro, diciamo tra il sud e il centro, risalendo l’Italia, un pacchetto di tre tappe per sostituire eventualmente le tre di Israele. Il programma originale prevede l'arrivo della carovana da Eilat alla Sicilia, e quindi il nuovo via verrebbe dato qui. Ma, ripeto, sono soluzioni davvero estreme alle quali non voglio proprio pensare».

(La Gazzetta dello Sport, 20 settembre 2017)


Vladimir Putin si congratula con gli ebrei russi per il Rosh Hashanah

 
MOSCA, 20 set 2017 - Vladimir Putin si è congratulato gli ebrei russi per il Rosh Hashanah.
"La celebrazione del nuovo anno ebraico è un evento importante nella vita della comunità ebraica, tributo al patrimonio storico e spirituale degli ebrei e alla loro cultura e costumi distintivi. Sono contento che incoraggiate i giovani a seguire queste tradizioni secolari. In questa festa i sostenitori dell'ebraismo analizzano i loro risultati, elaborano piani per il futuro e si rendono conto della loro speciale responsabilità per il benessere di coloro che hanno bisogno della loro assistenza e supporto.
Sono fiducioso che le organizzazioni ebraiche della Russia contribuiranno attivamente all'attuazione di iniziative educative e di sensibilizzazione tanto necessarie, sia agli atti di compassione e di carità, nonché promuoveranno la tolleranza religiosa e le buone relazioni tra persone di diverse fedi."

(Agenparl, 20 settembre 2017)


Hannah e Leni divise dalla Shoah

La corrispondenza fra la filosofa Arendt e la storica Yahil si interrompe bruscamente nel 1963, dopo gli articoli pubblicati dalla prima sul processo Eichmann e riuniti nel volume "La banalità del male". La simpatia che le unisce viene scalfita dalle dissonanze su totalitarismi e responsabilità individuali. Ora in italiano le lettere delle due intellettuali.

di Massimo Giuliani

Una piccola corrispondenza, solo quindici lettere, tra due grandi donne, da cui trapelano le drammatiche domande del XX secolo. Le amiche sono la filosofa Hannah Arendt e la storica Leni Yahil, due intellettuali ebree che si incontrano a Gerusalemme nella primavera del 1961, in occasione dell'inizio del processo Eichmann, il criminale nazista responsabile della deportazione e della morte di molte migliaia di ebrei. "Rapito" dai servizi segreti israeliani in Argentina, Eichmann viene trasferito in Israele e portato in tribunale alla presenza di molti testimoni sopravvissuti alla Shoah, in un processo voluto dal!' allora primo ministro David Ben Gurion anche a scopi "pedagogici": elaborare in ambito ebraico il trauma dell'esperienza nazista e forgiare un ethos diverso da quello esilico nelle nuove generazioni di ebrei israeliani. Tutto il mondo ne parlò. La posta in gioco era grande: chiudere o meglio affrontare un passato recente enormemente doloroso, e complesso dal punto di vista storico, e far comprendere come l'obbedienza cieca e irresponsabile non fosse più una virtù per nessuno.
  Tornata in America (la sentenza non è ancora stata emessa), Arendt riceve un piccolo regalo dalla sua nuova amica israeliana, una "mano della fortuna" con una lettera d'amicizia. È l'inizio di un dialogo epistolare dove però già emergono le spinose questioni sulle quali le idee delle due amiche divergono: la laicità di Israele e il rapporto con la tradizione, la separazione tra religione e stato, il senso del sionismo e del nazionalismo ebraico ... Grande simpatia sul piano umano ma progressive dissonanze sul piano ideologico, politico e persino culturale. La rottura tra le due si consuma tra il marzo e l'aprile del 1963, a processo concluso e sentenza (di morte) eseguita, quando i reportage della Arendt sul processo di Gerusalemme escono sul "NewYorker" e il mondo ebraico insorge contro i commenti e le obiezioni che la filosofa ebrea-tedesca-statunitense muove al processo stesso. Queste lettere, scritte originariamente in tedesco e inglese, e rimaste a lungo private, sono ora disponibili in italiano (Hannah Arendt, L'amicizia e la Shoah. Corrispondenza con Leni Yahil, introduzione di Ilaria Possenti, traduzione di Fabrizio lodice, Edb, pagine 112, euro 9,80) e fanno riflettere, perché anticipano i temi di un'altra dolorosa rottura amicale, quella tra la stessa Arendt e Gershom Scholem, in due lettere rese subito pubbliche, dove lo studioso di qabbalà accusa l'autrice di La banalità del male (che raccoglie quei reportage sul processo Eichmann) di aver espresso giudizi falsi e avventati (falsi appunto perché avventati), di non essersi messa a sufficienza nei panni degli ebrei perseguitati dal regime nazista e di mancare di quella solidarietà e sensibilità umana, «il tatto del cuore» dice Scholem, senza il quale i giudizi storici rischiano di mancare l'obiettivo.
  È interessante vedere in parallelo le reazioni di Yahil e di Scholem all'approccio della Arendt: la storica della Shoah le chiede brutalmente a chi pensa di servire con i suoi duri giudizi: alla verità storica? Oppure alla giustizia? Al popolo ebraico o al popolo tedesco? O vuole negare a Israele il diritto a una giustizia che non può conseguire altrove se non in un proprio stato? E Scholem, poche settimane dopo, le rinfaccia di mancare di amore per il popolo ebraico e di cadere in contraddizione con le riflessioni sul totalitarismo dei suoi libri precedenti. Già nelle risposte all'amica israeliana Arendt è chiara: si processano le persone, non le ideologie o gli stati; quello che le sta a cuore è capire e valutare le responsabilità dell'individuo e non i sistemi in quanto tali; e ciò anche a costo di smettere di parlare di «male radicale» e fermarsi invece a pensare il «male estremo», appunto più esteso che profondo. Da qui la tesi della «banalità del male», che per oltre cinquant'anni ha fatto discutere filosofi e sociologi, storici e scienziati politici. Questo carteggio illumina quella riflessione al suo stato nascente, e se poco aggiunge ai contenuti, molto aiuta a capire che il rigore intellettuale della Arendt, che non teme di andare controcorrente e ben coglie, e se non denuncia tuttavia evidenzia i punti più critici della nuova esperienza politica dello stato di Israele: il rapporto tra la laicità delle istituzioni e il retaggio religioso del popolo ebraico ovvero il conflitto tra modernità e tradizione, la separazione tra stato e sinagoga, il rischio che un legittimo patriottismo sconfini nell'estremismo tipico di ogni nazionalismo.
  Avevano ragione Scholem e Yahil a rimproverare alla loro amica di non capire il momento storico, unico e irripetibile, che stava vivendo la giovane nazione ebraica nata (anche) dalle ceneri della Shoah? O aveva ragione la Arendt nell'insistere che, nei sistemi totalitari, la linea tra vittime e persecutori resta confusa ... e che già quella generazione era in grado di esprimere giudizi storici ben precisi sugli eventi contemporanei? Forse, in questo avvio di dibattito mancò una categoria che sarebbe emersa lentamente tra gli studiosi, che anzi fu formulata in modo chiaro solo da un testimone-pensatore come Primo Levi, la categoria della «zona grigia». E anch'essa, all'inizio, fu fraintesa e avversata, come se volesse offuscare la linea di demarcazione tra vittime e carnefici, tra chi il male lo subisce e chi lo compie, e sollevare i nazisti dalle loro responsabilità. Ma in Levi era chiaro che l'esistenza innegabile della zona grigia nei sistemi totalitari non fa venir meno la «colpa dei carnefici», che in ultima istanza sono responsabili anche della corruzione morale delle loro vittime. La distinzione resta netta, anche nel grigiore delle condizioni storiche dei regimi di terrore. Su un punto, credo, Levi e Arendt avrebbero concordato: che le responsabilità penali restano comunque individuali, in tribunale si portano e si valutano le azioni degli individui e non i sistemi e le ideologie, dato che questi ultimi sono meglio vagliati, e se necessario condannati, dai tribunali della ricerca dei fatti, della valutazione etica e non ultimo del giudizio critico degli storici. Ecco perché, pur nelle divergenze e nelle obiezioni alle procedure del processo Eichmann, Hannah Arendt non dubitò mai che la sentenza fosse giusta, soprattutto se venne dettata non dal «cuore», dalle molte emozioni che il processo aveva suscitato, ma dai fatti, ossia dalle azioni (malvagie) compiute dal gerarca nazista. Del resto, anche Scholem approvò la sentenza anche se si era attivato, senza successo, per una sua sospensione. Così la Storia, termine che alla Arendt non piaceva perché ciò che conta sono solo le storie, si è frapposta tra amici, pur tutti ebrei e in un certo senso sopravvissuti alla Shoah. Si è frapposta e ha rotto quel sentimento, quell'empatia che, da Aristotele in poi, chiamiamo amicizia. È una dinamica che la storia del pensiero occidentale ben conosce: «amicus Plato, sed magis amica veritas» ossia Platone è un amico, ma ancor di più lo è la verità. Peccato (o fortuna) che, nei giudizi storici, spesso tale verità assume volti nuovi in epoche diverse.

(Avvenire, 20 settembre 2017)


Storico incontro Netanyahu-Trump: archiviati tutti gli errori di Obama

di Giovanni Trotta

 
Israele e Usa, dopo la devastante èra Obama, si riavvicinano. Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti hanno stabilito una base militare permanente in Israele. Si tratta di una base aerea nel deserto del Negev, all'interno della base aerea israeliana di Mashabim. Lo ha annunciato questa sera il capo del comando della difesa aerea israeliana, generale Tzvika Haimovitch, citato dai media locali. La base americana, con decine di militari statunitensi, permetterà di "migliorare la nostra difesa, nella ricognizione, le intercettazioni e la capacità di reazione", ha sottolineato il generale. La cosa è collegata al colloquio tra i due leader: con Donald Trump discutiamo "di come possiamo affrontare insieme questo terribile accordo nucleare con l'Iran" e di come possiamo respingere la "crescente aggressione" dell'Iran "nella regione, specialmente in Siria". Lo ha detto il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, in dichiarazioni pronunciate davanti alla stampa all'inizio del suo incontro a New York con il presidente americano. Interpellato dai giornalisti sull'Iran, Trump si è limitato a dire: "lo vedrete molto presto". "Signor presidente, sotto la sua leadership l'alleanza fra l'America e Israele non è mai stata così forte, mai così profonda", ha aggiunto Netanyahu, che aveva avuto un difficile rapporto con il predecessore di Trump, Barack Obama. Donald Trump da parte sua si dice convinto che vi sia "una buona possibilità" per un accordo di pace in Medio Oriente. "Parleremo di molte cose, fra cui un accordo di pace fra israeliani e palestinesi, un fantastico risultato - ha detto il presidente americano all'incontro a New York con il primo ministro israeliano. "Noi diamo un assoluto via libera. Penso ci sia una buona possibilità che possa accadere". "Israele vuole vederlo. I palestinesi vogliono vederlo. Posso dire che l'amministrazione Trump vuole vederlo - ha proseguito il presidente americano parlando dell'accordo di pace -. Lavoriamo duramente. Vedremo cosa accadrà. Storicamente la gente dice che non può accadere. Io dico che può accadere". Netanyahu ha anche detto di voler discutere con Trump "dell'opportunità per la pace" fra Israele e i palestinesi e "fra Israele e il mondo arabo".

(Il Secolo d’Italia, 19 settembre 2017)


Incontro bilaterale Israele -Egitto. Al Sisi guida la svolta dei Paesi arabi

di Yossy Raav

I segnali positivi si rincorrono. Si susseguono. Non era mai accaduto dal 2009 che Israele e Egitto avessero un incontro bilaterale, che i due leader si offrissero a teleobiettivi e cineprese. Sorrisi, strette di mano, un'atmosfera cordiale e amichevole. Benjamin Netanyahu e Abdel Fattah al-Sisi faccia a faccia a New York per poco più di un'ora e mezza. Una svolta. Può cambiare la politica dei Paesi arabi nei confronti di Israele.

 
Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altri paesi del Golfo ormai da un po' di tempo stanno beneficiando della cooperazione in materia di sicurezza e di intelligence con Israele. E questo perché ora hanno nemici comuni, l'Iran e il terrorismo radicale sunnita.
Tuttavia fino ad ora, nonostante la collaborazione ed i nemici comuni, i Paesi Arabi non sono stati disposti a dare a Israele qualcosa di importante in cambio, il riconoscimento pubblico di tali legami, dei nuovi rapporti.
A rompere questo velo di ipocrisia, incontrando Netanyahu pubblicamente, Sisi ha voluto riconoscere pubblicamente ciò che tutti sanno: e cioè che l'Egitto ha un rapporto importante e significativo con Israele. E che non ritiene più sia necessario di nasconderlo. Una svolta che potrebbe indurre gli altri Paesi a fare altrettanto e che potrebbe disegnare nuove strategie in Medio Oriente.

(Italia Israele Today, 19 settembre 2017)


Perché quella di Hamas con Fatah potrebbe essere una mossa politica

di Emanuele Rossi

Domenica Hamas, il gruppo che Stati Uniti e Unione Europea considerano un'organizzazione terroristica e che controlla la Striscia di Gaza, ha annunciato unilateralmente di aver avviato la strada per la riconciliazione con Fatah, altro gruppo (teoricamente) ex-combattente che guida l'Autorità Palestinese (AP) del presidente Mahmmoud Abbas. Hamas accetterebbe le richieste di Abbas per tenere elezioni nazionali sia sulla Striscia che in Cisgiordania. Ma alcuni analisti, come Grant Rumley della Foundation for Defense of Democracy (autore del libro fresco d'uscita "The Last Palestinian", sull'ascesa politica di Abbas), ritengono che si possa trattare di "un'altra mossa di un gioco di scacchi di cui da dieci anni i palestinesi pagano quotidianamente il prezzo".

 L'avvicinamento
  I funzionari di Hamas hanno parlato dal Cairo e dichiarato di "rispondere ai generosi sforzi egiziani che riflettono il desiderio egiziano di porre fine alla divisione e di raggiungere la riconciliazione, e sono basati sul nostro desiderio di trovare l'unità nazionale". Le due entità palestinesi sono formalmente divise dal 2007, anno in cui le forze di Abbas sono state cacciate dalla Striscia, su cui Hamas detiene il controllo militare, e una fitta serie di tentativi di riconciliazione sono via via falliti: la Mecca 2007, Sana'a 2008, Cairo 2011, Doha nel 2012, il Cairo ancora nel 2012 e infine il campo profughi Shati nel 2014, sono stati teatri di negoziati sempre chiusi con un nulla di fatto. L'ultimo grave argomento di contenzioso è stata l'istituzione, nel mese di marzo, di un comitato amministrativo per governare Gaza. L'AP è stata da subito contraria perché lo vedeva come un ulteriore passo voluto da Hamas per far diventare Gaza uno stato - e dunque allontanando una riconciliazione nazionale che dalla Cisgiordania vedono più come una sottomissione dei cugini. Abbas ha reagito sanzionando la Striscia: pesanti tagli alle forniture elettriche (da anni l'AP sopperisce al fabbisogni dei gazzaschi dato che Hamas non ha rapporti formali con Israele) e alle forniture mediche, più una serie di misure restrittive per i lavoratori.

 La situazione nella striscia
  La situazione ha messo ancora più in crisi Gaza, che subisce già un severo blocco israelo-egiziano sugli accessi clandestini di beni di prima necessità alla Striscia - una misura di pressione nel quadro della lotta al terrorismo che Gerusalemme e il Cairo stanno coordinando più o meno ufficialmente a cavallo delle aree di confine. La situazione attuale è da sommare a un malcontento diffuso che per la prima volta è venuto alla luce pubblicamente a gennaio, quando migliaia di persone si erano riunite per protestare contro le politiche adottate dal gruppo che amministra la Striscia. La nuova leadership di Hamas, finita sotto pressione, potrebbe aver scelto la via pragmatica della riconciliazione. Ma non è chiaro quanto il regime militarista islamista accetti di sottoporre le proprie forze armate al controllo di Abbas e dell'AP.

 Il gioco di Hamas
  È possibile, nell'ipotesi Rumley, che le dichiarazioni di domenica siano un mossa politica per complicare la strada ad Abu Mazen. Abbas si incontrerà con il presidente americano Donald Trump a New York, in occasione dell'assemblea generale della Nazioni Unite. Trump ha piantato nella pace mediorientale un caposaldo della sua politica estera, anche per cercare di marcare un successo su uno sforzo in cui il suo predecessore ha fallito. La riconciliazione palestinese è stata la base della dottrina con cui John Kerry, l'ultimo segretario di Stato obamiano, ha affrontato la questione, senza successo. Ora Hamas proponendo un avvicinamento a Fatah mette in difficoltà sia Trump che Abbas, perché sa che il primo difficilmente potrà aprirsi se l'AP accetterà l'inclusione di un gruppo colpevole di atti terroristici, spiega Rumley.

(formiche.net, 19 settembre 2017)


I nostri cugini ebrei festeggiano l'anno 5778. E' tempo di capodanno

E' usanza festeggiare Rosh haShanah con una cena preparata appositamente. Pur assumendo forme diverse nelle comunità, in questa cena si è soliti consumare dolci a base di mele e miele, segno di buon auspicio che il nuovo anno possa essere dolce. Anche il melograno viene spesso consumato come segno di prosperità e dolcezza auspicata.

di Alessandro Anderle

In questi giorni il popolo ebraico celebra il suo capodanno Rosh haShanah (letteralmente il capo dell'anno). Ebrei e musulmani hanno conservato il proprio calendario, nato in epoca molto antica e basato sulle fasi lunari (quello gregoriano, che comunemente usiamo, è stato invece calcolato sull'anno solare). Per questo motivo le giornate di festività mutano di anno in anno e, per quanto riguarda il 2017, Rosh haShanah inizia mercoledì 20 settembre al tramonto del sole e termina venerdì 22 settembre.
   È una delle feste più sentite dagli ebrei e originariamente - come le altre festività giudaiche - era una festa legata alla vita contadina, la festa del raccolto (mentre Pasqua era la festa della semina e, sette settimane dopo, cadeva quella di "Pentecoste" legata alla raccolta delle primizie). Oggi rappresenta l'inizio dell'anno ebraico, coincidente con la creazione di Adamo. Il 20 settembre 2017 inizia, secondo il calendario ebraico, l'anno 5778 dalla creazione adamitica.
   Nel pentateuco (Torah), i giorni di Rosh haShanah vengono anche definiti Yom Terua (il giorno del suono dello Shofar - corno di montone), Yom haDin (il giorno del giudizio). Lo Shofar viene suonato per chiamare simbolicamente a raccolta il popolo d'Israele, risvegliarlo per ricordargli che il giudizio è vicino. Secondo la letteratura rabbinica, in questi giorni il Signore esamina la storia dell'umanità intera per giudicarla. Per questo motivo la festa di Rosh haShanah è occasione di meditazione sull'anno appena trascorso, e di riconciliazione. Se vi sono delle offese irrisolte, colui il quale ha offeso ha l'occasione per chiedere perdono a colui che ha offeso. E l'offeso, salvo qualche eccezione, deve saper concedere il perdono. Questo periodo di pentimento, riconciliazione umana, e giudizio divino si protrae per dieci giorni, fino al giorno dell'espiazione (Yom haKippur).
   Dal punto di vista tradizionale, è usanza festeggiare Rosh haShanah con una cena preparata appositamente. Pur assumendo forme diverse nelle comunità, in questa cena si è soliti consumare dolci a base di mele e miele, segno di buon auspicio che il nuovo anno possa essere dolce. Anche il melograno viene spesso consumato come segno di prosperità e dolcezza auspicata.
   Durante la cerimonia di Rosh haShanah viene recitato il passo del profeta Michea (7,18-20): "Qual dio è come te, che toglie l'iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità; che non serba per sempre l'ira, ma si compiace d'usar misericordia? Egli tornerà ad aver pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati. Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo la tua benevolenza, come hai giurato ai nostri padri fino dai tempi antichi". Dalla lettura di questo passo biblico è nata, in tempi antichi, la tradizione di gettare via i peccati commessi - spesso simboleggiati da piccoli sassi - nelle acque di un fiume, di un lago o nel mare. Tale usanza, molto sentita ancora oggi, prende il nome di Tashlikh, che, appunto, significa buttare.
   Auguri ai fratelli (maggiori) del popolo ebraico, che il 5778 possa essere un anno di pace. Shalom!

(il Dolomiti, 19 settembre 2017)


La diaspora e il destino dei beni culturali sottratti agli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale

La Scuola IMT di Lucca
LUCCA - Il dramma delle comunità ebraiche insediate nella regione dell'Alpe Adria durante la Seconda Guerra Mondiale narrato attraverso la ricostruzione delle requisizioni di cui furono vittime in quegli anni. Questo il tema affrontato dal team internazionale di studiosi provenienti da università e istituzioni culturali di Croazia, Germania, Italia, Slovenia e Austria che si è riunito in questi giorni alla Scuola IMT di Lucca per il seminario internazionale "Transfer of Cultural Objects in the Alpe Adria Region in the 20th Century (TransCultAA)". Il workshop, in corso fino al pomeriggio del 19 settembre 2017, si è focalizzato in particolare sull'appropriazione dei beni culturali di proprietà ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale nel territorio che comprende Slovenia, Carinzia, Stiria, Friuli Venezia Giulia e Croazia. Un capitale simbolico, oltre che materiale, fatto di quadri, opere d'arte, collezioni di libri, ma anche di oggetti di uso comune di cui è importante ricostruire le vicende per comprendere la storia e i cambiamenti più profondi della società europea.
   Il progetto che vede la partecipazione di IMT con il professor Emanuele Pellegrini, coordinatore del programma di dottorato in Beni Culturali della Scuola, e con Daria Brasca, nel ruolo di post doc, intende analizzare la complessità del fenomeno dell'appropriazione e della gestione del patrimonio appartenuto agli ebrei a livello transnazionale e confrontare le diverse pratiche amministrative, cercando anche di documentare gli oggetti presenti o in transito nei vari territori coinvolti. L'evento fa parte del progetto europeo HERA - Humanities in the European Research Area (Le scienze umanistiche nell'area europea della ricerca, ndr), un partenariato tra 24 consigli di ricerca di tutta Europa, nato per garantire alle scienze umanistiche uno spazio e un'attenzione specifici nei programmi quadro della Commissione europea. Parte essenziale del workshop è la mostra allestita nel chiostro di San Francesco a Lucca. Si tratta di dodici manifesti realizzati dal gruppo di studiosi afferente al progetto HERA per presentare il destino di beni ebraici durante la Seconda Guerra Mondiale. L'esposizione è gratuita e resta aperta al pubblico fino al 28 settembre.

(Toscana, Eventi e News, 19 settembre 2017)


I palestinesi dimenticati

di Khaled Abu Toameh (*)

Originale inglese: The Forgotten Palestinians

 
Il campo profughi di Yarmouk, in Siria, è stato sotto assedio da parte dell'esercito siriano per più di 1510 giorni. Nella foto: i residenti di Yarmouk fanno la fila il 31 gennaio 2014 per ricevere derrate alimentari.
In Siria, dall'inizio della guerra civile, sono scomparsi più di 1.600 palestinesi e centinaia sono stati uccisi. Ma questo non è il tipo di notizie riprese dai media mainstream in Occidente.
   Per attirare l'attenzione della comunità internazionale e dei media, i palestinesi devono vivere in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o a Gerusalemme. Sono questi i palestinesi fortunati le cui storie (e i drammi) ricevono regolarmente copertura da parte dei mezzi di comunicazione internazionali. Per quale motivo? Perché si tratta nella maggior parte dei casi di episodi spesso collegati, direttamente o meno, a Israele.
   Non è un segreto che i giornalisti e i media mainstream occidentali abbiano sviluppato un'ossessione per Israele. Tutto ciò che Israele fa (o non fa) riceve un'ampia copertura mediatica, soprattutto se c'è un modo per accusare Israele di infliggere sofferenze ai palestinesi.
   Se il presidente dell'Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas impone misure coercitive contro i due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, negando loro farmaci, energia elettrica e stipendi, in qualche modo i media mainstream trovano il modo di implicare Israele.
   Anche l'offensiva in atto lanciata da Abbas contro i media palestinesi, tra cui l'arresto di giornalisti e utenti di Facebook, pare che non faccia notizia, a giudizio dei media occidentali. Che importa se Abbas blocca 30 siti web di notizie a causa delle critiche mosse alle sue politiche e azioni? Che importanza ha se Abbas la settimana scorsa ha ordinato l'arresto del giornalista Ayman Qawasmeh, direttore di una emittente radiofonica privata di Hebron?
   Qawasmeh è stato arrestato dopo aver criticato Abbas, chiedendo a lui e al suo primo ministro Rami Hamdallah di dimettersi. I giornalisti occidentali che si occupano del conflitto israelo-palestinese ignorano queste notizie solo perché, a quanto pare, non offrono alcun appiglio per prendersela con Israele.
   Come se non bastasse l'arresto di Qawasmeh, le forze di sicurezza di Abbas hanno poi arrestato Issa Amro, un attivista palestinese di Hebron, per aver criticato su Facebook l'Autorità palestinese per la
Sarebbe stato meglio se Ayman Qawasmeh e Issa Amro fossero stati arrestati dalle autorità israeliane. Se fosse accaduto, le loro vicende sarebbero finite sulle pagine dei principali quotidiani occidentali
detenzione del giornalista, accusandola di soffocare la libertà di espressione.
Sarebbe stato meglio se Ayman Qawasmeh e Issa Amro fossero stati arrestati dalle autorità israeliane. Se fosse accaduto, le loro vicende sarebbero finite sulle pagine dei principali quotidiani occidentali. La CNN e la NBC avrebbero potuto dedicare un intero programma alla loro disavventura. Ma senza alcuna implicazione di Israele, non c'è nessuna attenzione mediatica occidentale e le loro vicissitudini rimangono sepolte, insieme alla loro libertà.
   La tragica notizia dei palestinesi morti in Siria rivela l'approccio dei due pesi e due misure che i media internazionale adottano per quanto riguarda il Medio Oriente: se Israele non è coinvolto in qualcosa, i giornalisti non se ne occupano.
   Ciò che accade ai palestinesi nei paesi arabi sembra essere piuttosto banale per la maggior parte del mondo. Pertanto, cosa succede se migliaia di palestinesi sono scomparsi o sono stati uccisi? Se è coinvolto un paese arabo, i media stanno alla larga.
   Il Gruppo d'azione per i palestinesi in Siria (AGPS) afferma di aver documentato 1.632 casi di detenuti palestinesi, compresi donne e bambini, che sono scomparsi in Siria. Tra loro ci sono giornalisti, medici, infermieri e operatori umanitari. Secondo questa organizzazione per i diritti umani, i detenuti hanno subito "ogni forma di tortura" in varie strutture di detenzione e prigioni siriane.
   L'AGPS afferma di aver documentato circa 472 casi di decessi per le torture inflitte nelle strutture di detenzione e nelle prigioni siriane negli ultimi anni. Il numero reale potrebbe essere molto più alto, tenuto conto del silenzio e delle severe restrizioni imposte dalle autorità siriane. I familiari non annunciano la morte dei loro cari per paura di una rappresaglia da parte delle autorità siriane.
   In un altro report, il gruppo precisa che dall'inizio della guerra civile in Siria sono stati uccisi circa 3.570 palestinesi, tra cui 462 donne. Al contempo, il campo profughi di Yarmouk, in Siria, è stato sotto assedio da parte dell'esercito siriano per più di 1510 giorni
   Un altro campo profughi palestinese, quello di Dara'a, è rimasto senza acqua per più di 1247 giorni (A Yarmouk non c'è stata acqua potabile per 1088 giorni). Il report rileva inoltre che alla fine del 2016 più di 85.000 palestinesi sono fuggiti dalla Siria verso l'Europa, e più di 60.000 hanno trovato rifugio in Giordania, Turchia, Egitto e nella Striscia di Gaza.
   Questi dati raccapriccianti sono la norma nei paesi del mondo arabo devastati dalla guerra, dove arabi e
Il dramma dei palestinesi nei paesi arabi desta una scarsa attenzione internazionale. Questo silenzio ha conseguenze devastanti ed è diret- tamente legato alla sproporzionata copertura mediatica internazionale che viene riservata a Israele.
musulmani si spostano da un paese all'altro, si torturano e si uccidono a vicenda da molti anni. In modo preoccupante, il dramma dei palestinesi nei paesi arabi desta una scarsa attenzione internazionale. Questo silenzio ha conseguenze devastanti ed è direttamente legato alla sproporzionata copertura mediatica internazionale che viene riservata a Israele.
Si consideri che la notizia di un palestinese ucciso da un poliziotto o un soldato israeliano rischia di ottenere una maggiore attenzione rispetto alla vicenda di migliaia di palestinesi che vengono illegalmente incarcerati e torturati a morte in una paese arabo.
   Potrebbero essere pubblicati un'infinità di articoli sul modo in cui i paesi arabi maltrattano i palestinesi, da come negano loro diritti fondamentali come la cittadinanza e l'uguaglianza a come li imprigionano e li torturano.
   Qualcuno vorrebbe conoscere le vere leggi sull'apartheid applicate ai palestinesi nei paesi arabi? Le informazioni sono facilmente disponibili: tutto ciò che occorre è che i media occidentali e il resto della comunità internazionale riflettano sulla loro ossessione per Israele e inizino a prestare attenzione alle vere vittime palestinesi: quelle che vivono nei paesi arabi.
(*) Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme.

(Gatestone Institute, 19 settembre 2017 - trad. Angelita La Spada)



A Gerusalemme il bosco in memoria dei magistrati italiani

Ventisette, come le piante che oggi, a perenne memoria di quei caduti, affondano le radici non lontano dal luogo in cui si ricordano i Giusti

di Ludovica Passeri

 
A Gerusalemme il bosco in memoria dei magistrati italiani. Ventisette, come le piante che oggi, a perenne memoria di quei caduti, affondano le radici non lontano dal luogo in cui si ricordano i Giusti.
"A Gerusalemme c'è la tradizione che quando si pianta un albero rinasce una nuova vita, per cui una persona, anche se è morta, viene ricordata per sempre". Lo ha detto Enrico Mairov, Presidente dell'Associazione Lombardia-Israele e della Mediterranean Solidarity Association. Assieme a Stefano Amore, magistrato, ha ideato il bosco commemorativo dedicato ai ventisette magistrati italiani uccisi dalla fine della Seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Ventisette, come le piante che oggi, a perenne memoria di quei caduti, affondano le radici non lontano dal luogo in cui si ricordano i Giusti.
Un'iniziativa inaugurata il 6 settembre scorso nella Foresta Presidenziale Tzora, sulle colline di Gerusalemme, nell'angolo di mondo dove, sempre secondo la tradizione ebraica, si è «molto vicini a Dio, al cielo, alla pace mondiale». È qui che è approdato il progetto, salpato all'inizio di quest'anno da Milano. Un viaggio che ha attraversato il Mediterraneo facendo idealmente tappa a Palermo, la città di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il venticinquesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D'Amelio ha offerto l'occasione per tenere vivo il ricordo dei caduti al servizio della "democrazia e della libertà del popolo italiano e quindi di tutti" ha concluso Mairov.
Oltre la dimensione della memoria c'è l'orizzonte 'polispecialistico': ambiente, sanità, giustizia sono stati protagonisti di un dialogo interdisciplinare. Il Keren Kayemeth Leisrael, la più antica organizzazione ecologica al mondo, ha progettato il 'giardino' in linea con la sua azione secolare di «rimboschimento e bonifica della Terra di Israele», mentre la rivista giuridica 'Nova Itinera', unitamente all'Associazione F.A.B.I.I.U.S. (Friendship Association Between Italy, Israel and United States), ha sostenuto l'iniziativa.
Il significato di una manifestazione come quella del 6 settembre si spiega alla luce dell'attualità dei progetti di collaborazione tra Italia e Israele. La Sanità è il terreno privilegiato in cui avviene questo incontro tra popoli, cullato nella prospettiva di un sistema sanitario globale. Il sodalizio in ambito medico tra l'eccellenza lombarda e israeliana già sta dando i suoi frutti. Nei giorni scorsi, secondo Mairov, si è compiuto un ulteriore passo avanti nel «grande processo di amicizia» tra i due Paesi.

(L'Indro, 19 settembre 2017)


Israele ha abbattuto un drone proveniente dallo spazio aereo siriano

Questa mattina l'aviazione israeliana ha abbattuto un drone che dallo spazio aereo siriano era entrato in territorio israeliano. Il drone si è inoltrato per quattro chilometri oltre il confine prima di invertire la rotta e tornare verso la Siria. L'aviazione israeliana ha abbattuto il drone lanciando un missile Patriot. Il drone probabilmente appartiene ad Hezbollah, una milizia libanese sciita che opera anche in Siria. Israele interviene da tempo in Siria con attacchi aerei mirati ed altre azioni, soprattutto per indebolire il movimento libanese Hezbollah, che appoggia il regime siriano dal quale riceve armi e altri aiuti.

(il Post, 19 settembre 2017)


I tre Nobel un po' razzisti

In un saggio di Andrea Colombo (Lindau) una rassegna di illustri intellettuali che si schierarono dalla parte del nazismo e del fascismo. Dopo il 1945 di solito preferirono nascondere il passato e non fornirono spiegazioni delle loro scelte.

Eugenetica
Favorire lo sviluppo degli «esemplari di sangue puro» era una necessità per gli animali ma anche per gli uomini, sosteneva Lorenz
Pavidità
Martin Heidegger non partecipò ai funerali del suo maestro (di origini ebraiche) Edmund Husserl, che si tennero nel 1938

di Paolo Mieli

Da sinistra: Knut Hamsun, Konrad Lorenz e T.S. Eliot
Come fu possibile che persone di grande ingegno e di altrettanto grande talento artistico si lasciarono sedurre dal fascismo e dal nazionalsocialismo? Nel libro I maledetti. Dalla parte sbagliata della storia (in via di pubblicazione per i tipi delle edizioni Lindau) Andrea Colombo cerca di rispondere a questa domanda esaminando in maniera approfondita i casi di Gottfried Benn, Martin Heidegger, Giovanni Gentile, Emil Cioran, Robert Brasillach, Ezra Pound, Wyndham Lewis, Julius Evola, Adolfo Wildt, Mario Sironi, Louis Ferdinand Céline, Mircea Eliade, Filippo Tommaso Marinetti, Leni Riefenstahl e dei tre premi Nobel che a pieno titolo possono essere inseriti nell'elenco: Knut Hamsun, T.S. Eliot e Konrad Lorenz. Il tratto che li accomuna è «la consapevolezza che l'Ottocento, il secolo dei buoni sentimenti, del liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un progresso senza limiti, era definitivamente tramontato» e l'idea che «dalle macerie della Prima guerra mondiale doveva sorgere un mondo nuovo, radicalmente trasfigurato». Qualcosa di simile a ciò che avrebbe spinto molti intellettuali della stessa generazione ad abbracciare in quegli anni la causa comunista. Ma mentre questi ultimi non sarebbero mai stati costretti a rinnegare il loro passato ( se non per qualche eccesso), coloro che, magari per un caso, erano finiti «dalla parte sbagliata» - con l'ovvia eccezione di quelli che ( come Gentile) furono uccisi- si sentirono in obbligo di occultare, chi più chi meno, i loro ingombranti trascorsi. Tutti, tranne il drammaturgo norvegese Hamsun che aveva avuto il Nobel nel 1920, prima che i fascismi entrassero in scena, e che il 7 maggio del 1945, quando Hitler e Mussolini erano stati sconfitti, scrisse sul quotidiano «Aftenposten» un necrologio proprio di Adolf Hitler, del quale si proclamava «fedele seguace» per poi definirlo «un pioniere dell'umanità», «un apostolo del diritto di tutte le nazioni», «un riformatore di altissimo rango». Hamsun aveva 86 anni, la Norvegia era in procinto di essere liberata, e i tipografi dell' «Aftenposten» trasecolarono al cospetto di quel testo che sarebbe costato all'autore detenzione, processo e manicomio criminale. Ma lo diedero ugualmente alle stampe.
  Hamsun, secondo Colombo «uno dei più grandi romanzieri del secolo scorso», si era avvicinato ai nazisti su spinta della giovane moglie, che per conto proprio aveva precedentemente preso contatto con Joseph Goebbels. In seguito Goebbels si era invaghito di quell'intellettuale norvegese che in segno di stima gli aveva addirittura donato la sua medaglia del Nobel: più volte il ministro della Propaganda del Terzo Reich lo aveva citato nei suoi diari con espressioni assai amichevoli ed elogiative.
  Hamsun era uno scrittore molto particolare. Il suo Il risveglio della terra, pubblicato nel 1917 -e che tre anni dopo gli sarebbe valso il Nobel - conteneva diversi spunti antisemiti a dispetto del fatto che nel suo Paese, la Norvegia, la comunità ebraica praticamente non esistesse. Nonostante ciò il libro fu universalmente elogiato e considerato pressoché dall'intera comunità letteraria internazionale alla stregua di un capolavoro. Fu solo nel 1934 che Hamsun si iscrisse al partito filonazista norvegese di Vidkun Quisling. Quando nell'aprile del 1940 la Germania hitleriana invase la Norvegia, scrisse articoli per accusare di tradimento re Haakon VII, che aveva scelto l'esilio, e biasimò il presidente del Parlamento (di origine ebraica) Carl Joachim Hambro, fuggito in Svezia. Suo figlio Arild fu poi tra gli ottomila giovani norvegesi che si arruolarono nelle Waffen SS per combattere sul fronte orientale contro i russi. Ma, rileva Andrea Colombo, il suo rapporto con gli uomini di Hitler - e con lo stesso Hitler - fu «tutt'altro che idilliaco».
  Allorché i nazisti presero il potere in Germania, il drammaturgo norvegese fece di tutto per salvare l'ebreo tedesco Max Tau, suo amico di lunga data. E quando i tedeschi invasero il suo Paese, condusse una sfibrante battaglia, costellata da telegrammi a Hitler e al suo luogotenente in Norvegia Josef Terboven, per ottenere la liberazione di alcuni condannati a morte. Il 26 giugno del 1943 fu ricevuto da Hitler nel rifugio bavarese di Berghof. Il dittatore voleva essere piacevolmente intrattenuto con una conversazione di carattere letterario da uno scrittore, Hamsun, che sapeva essere un suo estimatore. Ma Hamsun lo sorprese con una serie di rilievi al comportamento di Quisling e Terboven; chiese ancora una volta insistentemente che alcuni prigionieri venissero rilasciati e diede prova, nel colloquio con il dittatore, di un coraggio che nessun altro degli invitati a quel genere di colloqui aveva e avrebbe mai mostrato. Fino al punto che Hitler perse le staffe e all'improvviso, senza neanche salutarlo, uscì dalla stanza urlando: «Non voglio più vedere questo pazzo!». Quel «pazzo» fu dunque l'unico che, quando Hitler era vivo e al potere, osò sfidarlo incontrandolo di persona. Ma fu anche l' «unico» che, quando il Fiihrer fu sconfitto e si uccise, si sentì in dovere di parlarne in termini elogiativi. Pur sapendo che sarebbe stato lasciato solo e l'avrebbe pagata cara.
  Quando nel 1948 gli fu concesso di uscire dal manicomio criminale, si mise a scrivere un'autobiografia, Per i sentieri dove cresce l'erba, nella quale non ritrattò nulla della propria «fede» filonazista, disse di aver avuto l'impressione di essere «spiato» dai tedeschi, ricordò che in ogni momento avrebbe potuto andarsene in Inghilterra, dove sarebbe stato accolto a braccia aperte, e non lo aveva fatto. Ma, in merito alle sue parole filonaziste degli anni Trenta e Quaranta, volle anche aggiungere:
  «Nessuno mi disse allora che quanto andavo scrivendo era sbagliato, nessuno in tutto il Paese. Mai che mi sia arrivato il minimo cenno d'avviso, né un piccolo buon consiglio dal mondo esterno». A proposito del rapporto dell'Europa settentrionale con il nazismo, Colombo ricorda che «parte dei settori più avanzati e progressisti della società norvegese avevano visto con simpatia quel movimento pangermanico che predicava il ritorno al paganesimo nordico, al naturismo e ai valori della terra». Ed è da sottolineare che l'autore parli dei «settori più avanzati e progressisti».
  Un discorso che per vie traverse ci conduce a Konrad Lorenz, ispiratore dell'ecologismo contemporaneo, il quale da giovane fu un convinto nazista. Sosteneva, Lorenz, che i malati mentali e i portatori di patologie genetiche andassero sterilizzati per far trionfare la «bestia bionda», la razza ariana perfetta. Volontario nella Wehrmacht sul fronte russo, fu catturato dai sovietici e per sopravvivere mangiò ragni. Rinchiuso in un gulag, ne approfittò per studiare i rituali di corteggiamento tra le pulci da cui era afflitto nella sua baracca. Diceva Lorenz: «Se non effettuassi costantemente una certa selezione tra le mie oche domestiche, eliminando i frutti in eccesso degli incroci, entro poco tempo gli esemplari di sangue puro di oca selvatica verrebbero sopraffatti dalla concorrenza numerica dell'oca domestica». Mutatis mutandis, «lo stesso vale per l'uomo della grande città». È, sostiene Lorenz, «statisticamente assodato che gli individui che presentano degenerazioni morali raggiungono in media un tasso di riproduzione enormemente più alto degli individui di pieno valore». Ecco perché, per lui, bisognava eliminare nelle oche come nell'uomo, «i frutti in eccesso degli incroci» e favorire lo sviluppo degli «esemplari di sangue puro». Ne discende che sterilizzare la popolazione «dal germe della degenerazione», sottolinea Colombo, è «un passo necessario per la sopravvivenza di un popolo».
  Abbiamo detto che nel 1941 Lorenz indossò la divisa della Wehrmacht. Ma le sue attività, secondo Colombo, sono avvolte da «un inquietante velo di mistero». Nella sua autobiografia scrive «erroneamente» che già nel 1942 fu preso prigioniero dai russi, i quali invece lo catturarono solo nel 1944. Nel frattempo, ricostruisce l'autore, «sembra che abbia lavorato alla "selezione" del popolo polacco, per valutare chi poteva vantare una componente di sangue tedesco e quindi evitare i lavori forzati e i campi di concentramento». Dopodiché Lorenz finirà nei campi russi dove, come si è detto, si applicherà allo studio delle pulci. E farà anche amicizia con i carcerieri sovietici. Rientrato in Austria nel 1948, tacerà del tutto sul suo passato nazista e in breve diventerà un astro nell'ambito della ricerca zoologica. Nel 1973 riceverà il Nobel.
  I suoi trascorsi filo-hitleriani verranno alla luce solo nel 1977 grazie a un articolo di Leon Eisenberg sulla rivista «Science». Lorenz si difenderà, undici anni dopo, alla vigilia della morte, con un'intervista in cui si dichiarerà pentito e dirà di aver «ingenuamente» sperato che il nazionalsocialismo avrebbe portato «qualcosa di buono in particolare in rapporto alla preservazione dell'integrità biologica dell'uomo». Ma a questo punto della sua vita era da tempo un idolo degli ecologisti, si era messo alla testa dei manifestanti che si battevano contro il nucleare e si opponevano alla costruzione di una centrale idroelettrica sul Danubio. Sicché in pochi gli rinfacciarono le rivelazioni di Eisenberg.
  Del grandissimo poeta T. S. Eliot, Colombo ricorda l'editoriale che nel 1928 scrisse su «Criterion» per difendere le idee di Charles Maurras e dell'Action Française dagli attacchi del Vaticano. Riporta altresì in luce le conferenze che nel 1933 Eliot fece in un'università della Virginia in cui auspicava di vivere in una società senza «pensatori ebrei». In questi discorsi Eliot contrappone alla «modernità omologante» gli americani della Bible Belt, usciti sconfitti dalla guerra civile, ma portatori dei tradizionali valori cristiani. «Il conflitto», scrive, «è tra tutto ciò che è locale e spiritualmente vivace», in contrapposizione «all'uniformità del modello newyorkese». L'America dominante, quella dell'«industrializzazione senza freni», «distrugge prima di tutto le classi superiori»: un «presidente di un consiglio di amministrazione», afferma l'autore di Assassinio nella cattedrale, «non sarà mai un aristocratico». L'unico «artista che sopravvive» in una società yankee è il «produttore cinematografico». Eliot in queste allocuzioni universitarie è allarmato perché la società è sempre più «corrosa dal liberalismo». Il tarlo dell'industrializzazione, così come è stata imposta dal mondo nordista, si è rivelato come «il più grande disastro della storia americana». Dalla «tragedia della guerra di Secessione» l'America «non si è mai ripresa e forse non si riprenderà mai». Anche se, dice ancora Eliot, negli Stati del Sud, rimasti fedeli alle loro tradizioni, una rinascita è ancora possibile, se non altro in quanto «sono i più lontani da New York» e da tutto ciò che la grande città rappresenta. In primis «l'invasione di razze straniere», a cominciare dagli ebrei.
  L a tradizione, per Eliot, è questione di razza. Lo dice lui stesso esplicitamente: «La tradizione è nel sangue non nel cervello». È «il mezzo attraverso cui la vitalità del passato arricchisce la vita presente». È un «organismo vivente», non un «sentimento» o un' «astrazione politica». Parte importante di tale «organismo» sono la «stabilità», «l'omogeneità etnica» e «l'unità di un retroterra religioso comune». Per noi «l'unica tradizione giusta è quella cristiana». Ecco perché in questo tipo di società «gli ebrei liberi pensatori» non sono bene accetti. Nella società vagheggiata dall'autore di Quattro quartetti uno spirito eccessivamente tollerante «va deprecato». Dobbiamo condannare chi auspica una riconciliazione con il progresso, il liberalismo, la civiltà moderna. Il testo di riferimento, per Eliot, deve essere il Sillabo di Pio IX. Da queste conferenze verrà tratto un libro che Colombo definisce «in qualche modo maledetto», After Strange Gods, che Eliot «non vorrà mai più ristampare». Nel 1948 il poeta conquisterà il Nobel. A differenza di Hamsun e Lorenz, gli altri due premiati a Stoccolma, Eliot aveva però fatto in tempo a prendere le distanze dalle sue idee precedenti. E lo aveva fatto già alla vigilia della Seconda guerra mondiale: in un pamphlet del 1939 aveva sferrato un durissimo attacco al razzismo nazista. Nel 1940, poi, si era pubblicamente ricreduto sul suo appoggio all'Action Française e aveva biasimato Maurras per essersi schierato con Vichy e con i tedeschi. Anche per questo, nel secondo dopoguerra non si sentirà mai in dovere di dare spiegazioni approfondite circa le sue prese di posizione degli anni Venti e Trenta.
  Si può parlare di viltà? Colombo non si spinge a tanto, ma parla esplicitamente di «viltà» per l'assenza di Martin Heidegger ai funerali del suo maestro ( di origini ebraiche) Edmund Husserl, che si tennero a Friburgo il 29 aprile del 1938. L'autore loda invece il coraggio mostrato con la domanda di grazia per Robert Brasillach da parte di François Mauriac, Paul Valéry, Jean Cocteau, Albert Camus e alcuni altri. Domanda che verrà ignorata dal generale de Gaulle e non risparmierà allo scrittore trentacinquenne la fucilazione il 6 febbraio del 1945.

(Corriere della Sera, 19 settembre 2017)


Il Giro di Gino il Giusto. «A Gerusalemme per una tappa storica»

Presentata la corsa rosa. Lotti: Bartali orgoglio toscano

GERUSALEMME - Il campione che sui pedali ha scritto pagine indimenticabili nella storia del ciclismo, ma anche e soprattutto l'uomo che non ha esitato di fronte al pericolo e che non ha voltato indifferente lo sguardo in una stagione di scelte difficili. C'è un marchio indelebile sul Giro d'Italia che prenderà il via il prossimo 4 maggio da Gerusalemme. E il marchio è, e non poteva essere altrimenti, quello di Gino Bartali. La figura del ciclista «Giusto» come ponte ideale tra Italia e Israele nel nome dello sport, del dialogo, della Memoria.
I nipoti Gioia e Giacomo in prima fila, il nome del plurivincitore di Giro e Tour de France che è presenza costante negli interventi della spettacolare presentazione della corsa tenutasi ieri nella capitale israeliana. Prima tappa a cronometro, tutta interna a Gerusalemme. Quindi due tappe in linea: da Haifa a Tel Aviv, e poi da Be'er Sheva a Eilat. Il Giro d'Italia esce per la prima volta dai confini europei per approdare in una delle realtà più affascinanti e allo stesso tempo complesse al mondo. Una sfida cui si è iniziato a lavorare circa due anni fa, in un crescendo di concretezza.
   La corsa non passerà fisicamente dallo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah che dal 2013 ospita il nome di Bartali nel suo luogo più nobile. Ma il muro dei Giusti, il monumento in pietra che rende onore ai salvatori del popolo ebraico durante la Shoah, e il suo illustre ospite, tra le figure più celebri che hanno ottenuto questo riconoscimento, saranno comunque protagonisti. La forma andrà definita nel dettaglio, ma è facile immaginare una cerimonia al Memoriale con atleti, dirigenti, appassionati locali di ciclismo. E potrebbe non essere l'unica, visto che si rincorrono voci a proposito di un possibile arrivo in quella Assisi meta di Ginettaccio di incessanti viaggi per consegnare documenti di identità falsificati.
   «Quella di Bartali è una figura centrale nel nostro progetto», conferma il direttore del Giro Mauro Vegni, che dal palco della conferenza stampa allestita in un hotel a poche decine di metri dal luogo in cui prenderà il via la corsa (si partirà non lontano dalla porta di Jaffa, uno degli storici accessi alla Città Vecchia) ha parlato di edizione «storica», con Ivan Basso logica speranza di trionfo italiano ( «Questa corsa è il massimo, non finisce mai di stupire», ha detto lo Squalo siciliano). «Il fatto che questa edizione del Giro nasca nel ricordo di Bartali è un aspetto che, da toscano, mi rende particolarmente orgoglioso», sottolinea il ministro dello Sport Luca Lotti.
   «È bello - ha poi aggiunto - che la sua figura venga ricordata proprio qui, a Gerusalemme, perché Ginettaccio non è stato soltanto un grande campione dello sport. E stato anche uno straordinario campione nella vita, un uomo di virtù eroiche che vanno trasmesse soprattutto alle giovani generazioni». L'intenzione, ha poi annunciato al termine dell'evento, è quella di intensificare l'impegno a favore del Museo Bartali a Ponte a Ema.
   Gioia e Giacomo siedono accanto, visibilmente commossi. Un lungo applauso li avvolge quando lo speaker fa il loro nome e racconta alla platea chi fosse il loro nonno, i suoi indimenticabili meriti al servizio dell'umanità. È la seconda emozione di giornata per entrambi. Poche ore prima infatti la Israel Cycling Academy, la prima squadra professionistica israeliana di ciclismo, li aveva accompagnati allo Yad Vashem per una breve ma intensa visita sulle tracce di Gino. Prima il racconto dell'orrore, di vite infrante e sogni brutalmente spezzati. Quindi, l'atteso momento al Giardino dei Giusti. «Ciao nonno, eccoci finalmente qua», dice Gioia con voce spezzata, mentre la sua mano indica il nome di Gino sul grande muro del coraggio.

(Corriere Fiorentino, 19 settembre 2017)

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E il team israeliano punta tutto sul corridore turco. «Lo sport unisce»

La squadra ha indetto un bando su Facebook tre anni fa: ora ha 24 atleti di 17 nazionalità.

Ahmet Örken con la mezzaluna sulla maglia e i compagni con la stella di David
GERUSALEMME - Questa squadra fa sul serio. E non solo dal punto di vista sportivo. La Israel Cycling Academy tira fuori il colpo a sorpresa nel giorno giusto e presenta uno dei suoi nuovi corridori di punta, Ahmet Orken. Che è turco. E prima di chiedere un selfie a Ivan Basso posa per le foto con la mezzaluna di campione del suo Paese, accanto ai nuovi compagni che hanno la stella di David sul petto. Un messaggio fortissimo, per una squadra che probabilmente riceverà la wild card a gennaio per correre il Giro sulle strade di casa. «Se avessi paura di una reazione in patria per la mia scelta - dice il musulmano Orken, professione velocista - non sarei qui adesso. Ci sono stati dei problemi tra i nostri Paesi, ma qui non mi sento straniero. Ho visitato Gerusalemme per la prima volta e assomiglia a Istanbul. Adesso corro con gli israeliani e ci aiuteremo a vicenda per vincere le corse, perché credo che la fratellanza dello sport passi oltre i problemi politici. E fa capire al mondo quale deve essere la strada giusta da seguire».
   Questa allora è la squadra giusta su cui percorrere quel tragitto. Non solo perché «se saremo al Giro non ci accontenteremo di partecipare, ma vogliamo vincere delle tappe» come sottolinea Sylvain Adams, uno dei mecenati che sostiene l'unico team al mondo no profit. Ma anche perché «vogliamo fare la storia di una Nazione, non solo della nostra squadra».
   Il giovane manager della Cycling Academy, l'ex professionista Ran Margaliot, parla apertamente di «diplomazia sportiva per cambiare l'immagine di Israele». E racconta le peripezie in giro per il mondo dei suoi corridori, alcuni dei quali fanno ancora il servizio militare obbligatorio ( di tre anni) o sono cresciuti nei kibbutz: «Roy Goldstein al Giro dei Paesi Baschi è stato insultato per la questione palestinese da un tifoso. È un simbolo ed è orgoglioso di esserlo». Guy Sagiv, campione nazionale a cronometro, un anno fa ha disubbidito all'esercito israeliano, del quale faceva ancora parte, ed è andato lo stesso al Mondiale in Qatar: «Se voglio fare il corridore mi sono detto che non potevo mancare, anche se in quel Paese non potremmo entrare. Ma grazie al ciclismo non ci sono stati problemi e ho gareggiato. E poi ho evitato anche la galera in patria, anche se ci sono andato molto vicino. Lo sport non deve dividere».
   A cominciare dal meccanismo di reclutamento (tre anni fa agli albori del progetto) di una squadra che ha 24 corridori di 17 nazionalità, 5 continenti e 3 religioni differenti: un «bando» via Facebook che invitava i giovani di tutto il mondo a presentare la candidatura e a sottoporsi a un test di tre giorni a Peschiera del Garda. A Margaliot arrivarono 628 curriculum per 16 posti di lavoro. E oggi l'ossatura della squadra è più che dignitosa, dato che nel 2017 sono arrivate finora 22 vittorie. Il 28enne canadese Guillaume Bovin, secondo alla spalle dell'azzurro Colbrelli alla Bemocchi, la settimana scorsa, è il più competitivo del gruppo. Ma il turco Orken promette battaglia.

(Corriere della Sera, 19 settembre 2017)


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Ivan Basso e Alberto Contador, due amici incantati

I due corridori hanno pedalato sul percorso della prima tappa del Giro d'Italia 2018. Il varesino: «Il Giro non finisce di stupire, ogni volta questa corsa tocca un'altra vetta». Lo spagnolo: «Questa grande partenza è incredibile, è una cosa straordinaria per il mondo del ciclismo. La sicurezza non è un problema».

 
Da sinistra: Alberto Contador, Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme, Sylvan Adams, presidente onorario del comitato Grande Partenza Israele, e Ivan Basso
GERUSALEMME - Due amici, una stanza da dividere nell'ultimo Giro di Basso vinto da Contador nel 2015. Cinque trionfi rosa sulla strada (tre per lo spagnolo, uno revocato; due per il varesino) e adesso ... un lavoro insieme, fianco a fianco, per i giovani, per il futuro del ciclismo. Ivan, scherzo del destino, è ... dipendente della squadra Continental nata dall'evoluzione della Fundacion Contador, con Alberto ispiratore. È il team manager di un nuovo progetto che, tra i 12 corridori, comprende gli italiani Gazzoli e Moschetti.

 Ammirazione
  Non corrono più, ma negli occhi si vede l'ammirazione per questa Grande Partenza. Sentite Contador che, reduce dalle pendenze dell'Angliru, ha scalato, bici in spalla, il Muro di Gerusalemme per raggiungere il punto di osservazione più bello di tutta Israele: «Questa Grande Partenza è incredibile. È una cosa straordinaria per il mondo del ciclismo. Io ero venuto qui a pedalare già nel 2011, avevo fatto un ritiro con la mia Saxo, conosco queste strade, avevo anche visitato una scuola di ciclismo per i giovani». Ascoltate Basso: «Il Giro è nato nel 1909 ma non finisce mai di stupire. Pensi di aver visto tutto, di esserti sorpreso con un tracciato spettacolare, e invece ogni volta questa corsa tocca un'altra vetta».

 Pensieri
  Alberto è tra i più applauditi. Ritirato? Certo, però anche una semplice passeggiata sul percorso della crono è analizzata con l'occhio del supercampione. «Sarà una partenza bellissima, ma bisogna essere pronti. Sono solo 10 km? È vero, ma puoi perdere secondi importanti. Ci sono tante curve a gomito, e poi dipende da quanti rischi vuoi prenderti. L'asfalto è scivoloso. E' una cronometro impegnativa». Sulle altre due tappe: «La tensione sarà tanta, nessuno conosce come si corre qui. Si lotterà su ogni metro, ci sarà vento lungo il mare, e poi l'attraversamento del deserto». Sulla sicurezza: «Qui la sicurezza non è un problema. Questo è un posto sicuro. E' il mondo che è un po' pazzo».
  E sul nome che è sulla bocca di tutti, se deciderà di affrontare la sfida del Giro d'Italia: Chris Froome. «Certo, può fare benissimo il tris consecutivo con Tour e Vuelta, se si programma bene non ci sono problemi. La doppietta più difficile è quella Giro-Tour, perché è molto più stressante». Ma negli occhi, mentre scorrono le immagini del Giro 100, c'è sempre la corsa Gazzetta: «È quella a cui sono più legato. Soprattutto per i tifosi, eccezionali. Io ho sempre corso il Giro d'Italia con il sorriso. Ritornare? No, proprio no. Adesso ho chiuso con una parte della mia vita, e ho grandi progetti da realizzare. Tra questi la missione di aiutare i malati di ictus, che la mia Fondazione sostiene. Ho sempre questa cicatrice in testa, con le placche di titanio, a ricordarmelo ... Senza ciò che ho sofferto nel 2004, non avrei vinto quanto ho vinto».

(La Gazzetta dello Sport, 19 settembre 2017)


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Tre tappe in Israele, poi la Sicilia: come sarà il Giro d'Italia del 2018

Per la prima volta la corsa rosa fuori dall'Europa. Il via da Gerusalemme

di Paolo Brusorio

 
GERUSALEMME - Tre tappe in Terra Santa. Il Giro 2018 fa le cose in grande ed esporta per la prima volta in 101 edizioni la partenza oltre i confini dell'Europa. Non una scelta qualsiasi, ma Israele. Non una città qualsiasi, ma Gerusalemme. Tre tappe prima di traferire armi (biciclette), uomini e bagagli in Sicilia. La prima una cronometro che abbraccia Gerusalemme, 10 km a disegnare i saliscendi con vista sulla città vecchia con arrivo sotto le mura della città vecchia; la seconda da Haifa fino ad Tel Aviv, 167 km chilometri, con un arrivo sul lungomare e la terza, per il gran finale, da Be'er Sheva a Eilat, la più lunga con i suoi 226 chilometri verso sud e lo spettacolare attraversamento del deserto del Negev e l'arrivo sulle rive del Mar Rosso.
  Tre tappe disegnate con attenzione certosina, sia sportiva sia politica, che Rcs insieme con i ministeri dello sport e del turismo israeliani hanno messo nero su bianco dopo un anno e oltre di sopralluoghi. Un tracciato tutto da scoprire, un Paese che scoprirà la bicicletta, non questa sconosciuta o quasi, nella sua massima espressione. Un Paese che vorrà farsi scoprire. «Problemi di sicurezza? Non più che in qualsiasi altro Paese europeo in questo momento. Anzi» spiega Mauro Vegni direttore organizzativo del Giro.
  Partenza da Gerusalemme il 4 maggio, sbarco in Sicilia con la salita sull'Etna, giusto per un fil rouge nel segno della spettacolarità, e poi la risalita che culminerà nella penultima tappa a Cervinia, dopo tre probabili arrivi in Piemonte. Resta da svelare il traguardo, meglio, dove sarà piazzato l'ultimo striscione del Giro numero 101. Il sogno è piazza San Pietro, per unire le due citta sante nel segno della pace, ma se è complicato portare il Giro in Israele può esserlo pure trasportarlo in Vaticano. Ci proveranno.

(La Stampa, 18 settembre 2017)


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Giro d'Italia 2018: da Israele una storica grande partenza

Per la prima volta un grande giro partirà fuori dai confini del Vecchio Continente. Si tratta del 13o start dall'estero. Ecco tutti i dettagli.

Segnatevi questa data: 4 maggio 2018. Per la prima volta nella storia, un grande giro partirà fuori dai confini del Vecchio Continente. Si tratta della 13a partenza dall'estero. La Corsa Rosa - in programma fino al 27 maggio e organizzata da Rcs Sport e La Gazzetta dello Sport - scatterà con una cronometro individuale da Gerusalemme e proporrà tre tappe sul territorio israeliano, nel ricordo di Gino Bartali, il cui nome è impresso sul muro d'onore del Giardino dei Giusti nel Mausoleo della Memoria Yad Vashem a Gerusalemme.

 La partenza
  Si comincia venerdì 4 maggio con una prova contro il tempo individuale a Gerusalemme di 10,1 km. Percorso molto articolato all'interno dell'abitato, con l'arrivo a ridosso delle mura della città storica. Si affrontano in sequenza numerose svolte tra vie cittadine in un susseguirsi di saliscendi che costeggerà alcuni luoghi simbolo come il Parlamento (Knesset) e le mura storiche. Finale tutto in salita da leggera a impegnativa.

 Il percorso
  Sabato 5 maggio la prima frazione in linea che porterà il gruppo da Haifa a Tel Aviv dopo 167 km. Dopo la partenza si affrontano le uniche asperità di giornata con i saliscendi attorno ad Acri e in particolare con il GPM di Zikron Yakov. Nella seconda parte l'altimetria della corsa si addolcisce notevolmente fino a diventare sostanzialmente piatta su strade ampie man mano che ci si avvicina all'arrivo. Gli ultimi chilometri sono in parte all'interno dell'abitato di Tel Aviv con arrivo sul rettilineo del lungomare.

 L'arrivo
  Ultima tappa in terra israeliana di 226 km, in programma la domenica, da Be'er Sheva a Eilat sul Mar Rosso. Tappa interamente allineata in direzione sud. Dopo la partenza si affrontano le uniche asperità che portano al deserto del Negev e poi ancora sulle rive del Mar Rosso. Nello specifico, si attraversa tutto l'abitato di Mitzpe Ramon e poi ci si addentra in una lunga discesa che conduce fino all'arrivo di Eilat.

 Le dichiarazioni
 
Da sinistra: Alberto Contador, vincitore Giro d'Italia 2008 e 2015, Yariv Levin, ministro del turismo in Israele, Sylvan Adams, presidente onorario del comitato Grande Partenza Israele, Mauro Vegni, direttore Giro d'Italia, Paolo Bellino, direttore generale RCS Sport, Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme, Miri Regev, ministro della cultura e dello sport in Israele, Luca Lotti, ministro dello sport e Ivan Basso, vincitore Giro d'Italia 2006 e 2010
  "Per tutto il gruppo RCS e per il Giro d'Italia in particolare è un'opportunità unica portare un evento come il nostro in Israele, prima volta per un grande Giro fuori dall'Europa", ha dichiarato Paolo Bellino, direttore generale di RCS Sport. Fanno da eco le parole di Luca Lotti, ministro dello sport: "La partenza da Gerusalemme sottolinea l'esistenza di un ponte ideale, fatto di storia, cultura e tradizioni, tra le nostre terre". Entusiasta delle novità del giro anche Ivan Basso: "Questa corsa è il massimo, non finisce mai di stupire. Ogni anno il Giro presenta qualche novità, rendendola unica. Questa volta lo è ancora di più con la partenza dalla città più spirituale del mondo. Lo renderà ancora più speciale".

(La Gazzetta dello Sport, 18 settembre 2017)


Accordo tra Hamas e Fatah. Le prove di pace? Una farsa

Il movimento islamista dà l'ok a elezioni generali. I legami con l'Iran. Abu Mazen, successo di facciata I soldi degli ayatollah. La spiegazione di un accordo contro natura sta nell'arrivo di decine di milioni di dollari

di Fiamma Nirenstein

 
Il successo di facciata presentato da euronews
Abu Mazen deve dedurre dalla novità che è il capo riconosciuto di tutti i palestinesi? Per carità. Hamas deve mettersi la coda fra le gambe e uggiolare? Ma nemmeno per sogno. Israele e il mondo devono immaginare che adesso si parla di pace? Nemmeno per idea. Eppure Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas, ha annunciato che la sua organizzazione, il gruppo terrorista islamico che domina Gaza e fa capo alla Fratellanza Musulmana, campione di guerre e attacchi terroristici, è pronta a parlare di riconciliazione senza precondizioni e che dissolverà il suo governo. Si formerà un governo di coalizione, si indiranno elezioni legislative e presidenziali, si smetterà di ammazzarsi e di mettersi in galera a vicenda.
   Naturalmente la richiesta immediata è che Abu Mazen ponga fine a una serie di sanzioni economiche molto pesanti che si erano abbattute nei mesi scorsi sulla Striscia: gli stipendi dei funzionari amministrativi erano stati ridotti del trenta per cento, l'elettricità era stata tagliata, settemila persone erano andate in prepensionamento, ovvero le loro famiglie erano state condannate alla fame. Hamas non si è dato da fare quest'estate come in genere fa nella calura: incursioni terroristiche, tentativi di rapimenti, esplosioni omicide che negli anni passati sono finiti in guerre ... quest'anno non si sono viste. Hamas non ha fatto certo mancare i suoi terroristi all'attacco generalizzato con coltelli, veicoli, armi da fuoco, né le sue lodi e rivendicazioni. Del resto anche Abu Mazen ha glorificato il terrore. Ma non è stata l'attività centrale. Troviamo la spiegazione del nuovo accordo a Teheran: durante l'estate, mentre gli Hezbollah appoggiati con armi e denaro dall'Iran combattevano sul confine Siriano, Hamas cercava una grande prospettiva di rafforzamento nella riconquista di un rapporto con l'Iran. Nell'ambito di una sua larga visione egemonica del Medio Oriente, esso accettava nella grande famiglia anche Hamas col suo nuovo capo, Yahya Sinwar.
   Il capo ideologico del riavvicinamento è la primula rossa Muhammad Deif, che, capo militare, ha sempre visto il futuro di Hamas nel rapporto con l'Iran nonostante Teheran sia sciita, e i palestinesi sunniti. Ma gli Ayatollah hanno aperto il portafogli con decine di milioni di dollari, mentre l'Egitto sunnita considera Hamas un nemico del presidente al-Sisi, che ha destituito la Fratellanza musulmana. Dunque Hamas cerca nella quiete con Abu Mazen lo spazio, il tempo per una nuova prospettiva strategica, e per Abu Mazen, astuto ma bisognoso di una lucidatina il conto torna: Hamas, un lupo coi denti affilati, terrà per un po' chiusa la bocca, mentre lui rafforzerà la sua posizione internazionale.
   Intanto il suo nemico politico Mohammed Dahlan fa di tutto per mantenere Hamas nell'ambito sunnita, temendo la deriva sciita. Ma Abu Mazen vuole l'accordo per stare tranquillo: ora terrà uno dei suoi discorsi pieni di odio all'Onu, come sempre, mentre tuttavia porge la solita scaletta di corda ai pacifisti di tutto il mondo, e però paga lo stipendio ai terroristi. Niente di nuovo. Nemmeno il fatto che Abu Mazen non può dimenticare che i suoi uomini nel 2007, quando Hamas prese il potere, furono buttati dai più alti palazzi.

(il Giornale, 18 settembre 2017)


"Sono partito dall'Iraq per andare a vedere Israele. E vi dico che è un posto speciale"

"Soltanto lì ho visto arabi in spiaggia, moschee piene e in sicurezza, fedi diverse mescolate. E anche il 'muro' è meglio del terrorismo, credetemi".

da Jerusalem Post (10/9)

Recentemente sono stato in Israele nel quadro di un programma di studio all'estero dell'American University di Washington", scrive Diliman Abdulkader. "In quanto studente di un master focalizzato su pace e risoluzione dei conflitti e in quanto curdo originario dell'Iraq settentrionale, ero molto incuriosito dall'intensa ostilità verso gli ebrei così diffusa in medio oriente, dal pregiudizio negativo nei principali mass-media e dalle continue conferenze e iniziative antiebraiche nei campus universitari, compreso il mio. Il viaggio in Israele è stato unico. Sono riuscito ad arrivarci dalla regione autonoma del Kurdistan. Partendo dall'aeroporto internazionale Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno, sono stato salutato fra i sorrisi dei miei compagni curdi senza alcuna vergogna, nonostante il fatto che un viaggio in Israele sia un vero tabù per i mediorientali.
   Il mio primo incontro con un israeliano è stato quello con il tassista che mi ha portato all'hotel. Era un tipo dalla conversazione vivace e idee politiche pragmatiche. Ha detto che non gli importa in che religione si crede, che vuole solo vivere in pace. Ho sondato il terreno dicendogli che sono curdo e lui si è dimostrato entusiasta. A Tel Aviv sono rimasto poco tempo, poco più di una settimana. Ma quello che mi ha offerto quella città era per me senza precedenti, soprattutto in Medio Oriente. E' moderna, piena di giovani israeliani che si godono le spiagge, i locali, i ristoranti. Ha anche spessore storico e varietà di popolazione. Ho visto musulmani ed ebrei mescolati fra loro, moschee che chiamavano alla preghiera, famiglie arabe che trascorrevano il tempo libero sulle spiagge una volta finito il digiuno di Ramadan. Nessuno si preoccupava della presenza di altri diversi, ognuno si faceva i fatti propri. Ho cercato attentamente di cogliere casi di interazioni negative tra i due popoli, ma niente da fare: fumavano pure il narghilè insieme nei caffè del posto.
   Naturalmente ho ipotizzato che Tel Aviv fosse una sorta di bolla a parte, lontana dalla realtà di cui ci parlano ogni giorno stampa e tv. Così, insieme ai miei compagni di corso, abbiamo fatto una gita in autobus a Gerusalemme. Abbiamo visitato l'Università Ebraica, dove avremmo studiato per il resto del tempo. Ancora non riuscivo a capacitarmi e a far coincidere quello che vedevo con l'immagine che ne danno nel mondo arabo e sui media di più larga diffusione. Durante la mia permanenza a Gerusalemme ho avuto l'opportunità di parlare con abitanti comuni e rappresentanti eletti, arabi ed ebrei, nelle caffetterie, nei ristoranti, nei bar, nel quartiere musulmano, alla Knesset, nel shuk (bazar) e così via. Le mie interazioni con i palestinesi si sono svolte nel quartiere musulmano, nei ristoranti del posto e nelle sale da tè: sempre con uomini, giacché parlare con le donne viene mal visto. Entravo nella Città Vecchia attraverso la Porta di Damasco, anche se ero stato avvertito che era un luogo dove in quel periodo avvenivano aggressioni all'arma bianca. Pensavo tra me e me: 'Non avrò problemi, sono di Kirkuk, una città molto più pericolosa'.
   Ho visto anche il famoso muro costruito a ridosso dei territori palestinesi. Ne ho ricavato sensazioni contrastanti. Ma avendo sperimentato personalmente la guerra e i campi profughi ad opera di governi arabi, del presidente siriano Bashar Assad e dell'ex capo iracheno Saddam Hussein, un alleato dei palestinesi, ho pensato che, sebbene non sia la soluzione ideale per nessuna delle due parti, incolumità e sicurezza sono comunque meglio del terrorismo. Una conversazione che mi è rimasta impressa è stata quella con un soldato di poco più di vent'anni in uniforme delle Forze di difesa israeliane. L'ho avvicinato mentre era seduto da solo a pranzare, e lentamente sono passato dai convenevoli banali a discorsi più seri. Era orgoglioso di servire il suo paese ed era pronto a difenderlo, sia a parole che in senso letterale. Non era affatto un 'duro', semplicemente uno che ama la sua nazione. Era curioso di sapere da dove venivo. Quando ho risposto dal Kurdistan, ha scosso il capo tristemente convenendo che siamo senza uno stato, e mi ha ringraziato per la nostra gente che combatte l'Isis in Siria e in Iraq.
   Abbiamo avuto il privilegio di visitare la Knesset. Grazie al mio professore, che si è adoperato per mantenere equilibrati gli incontri con i parlamentari, abbiamo sentito le opinioni dall'estrema sinistra all'estrema destra e tutte quelle in mezzo. Le osservazioni più sorprendenti sono state quelle del parlamentare Taleb Abu Arar, della Lista Araba Comune, che ha apertamente definito Israele un paese terrorista antidemocratico, ha difeso Hamas e ha espresso fermo appoggio al presidente turco Erdogan, ignorando le mie domande sui doppi standard applicati a danno dei curdi in Turchia. Pensavo fra me e me: 'Definisci Israele non democratico? Intanto hai un seggio alla Knesset, sostieni apertamente Hamas e definisci terrorista il governo israeliano. Interessante'.
   Purtroppo, l'ultima sera del programma, mentre prendevo un caffè all'interno della Porta di Damasco, si è verificato un attacco terroristico. Una soldatessa israeliana di nome Hadas Malka, di soli 23 anni, è stata pugnalata e ha perso la vita mentre veniva trasportata d'urgenza in ospedale. Le porte sono state chiuse, la città è stata messa in allarme e i palestinesi sono scesi per le strade a protestare. Tel Aviv potrà essere nella sua bolla, ma Gerusalemme è fragile. La gente vuole la pace da entrambe le parti. Bisogna solo andare oltre quelli che fomentano il terrorismo. Israele non è il film horror che ci raccontano dotti e televisioni. E' semplicemente un paese che si sforza di sopravvivere in una regione ostile".

(Il Foglio, 18 settembre 2017)


Israele e il sogno del Giro. "Siamo come una start-up"

L'Israel Cycling Academy spera di partecipare. Nel mito di Bartali: "Per noi è un simbolo"

di Paolo Brusorio

 
GERUSALEMME - Chiedere a un israeliano se conosce il ciclismo è fiato sprecato. Chiedergli poi se ha mai sentito parlare del Giro d'Italia significa farsi del male da soli. Ci sono le piste ciclabili, il popolo delle due ruote messo tutto insieme arriva a seicentomila persone, ma trasformare la bicicletta in una competizione, questo no. Qui non si è mai visto. Il prossimo anno da Gerusalemme partirà il Giro d'Italia e c'è una squadra che farebbe carte false, senza esagerare, per essere al via. È il primo team israeliano di professionisti, si chiama Israel Cycling Academy, è nato nel 2014 ed è in via di svezzamento. Sogna il Giro, aspetta la chiamata dall'organizzazione con una wild card e intanto pedala e pedala. «Più che un team, siamo una start-up», racconta Ran Margaliot, 29 anni, che di lca è il manager. Lui ha importato il ciclismo, meglio ci sta provando in un Paese dove calcio e basket si mangiano una buona fetta dei giovani.
Margaliot ha tentato la carriera professionistica, un anno e mezzo in Italia nella Saxo Bank, «ho lasciato, è finita troppo presto ma proprio non ce la facevo».

 Il ds ex professionista
  Sceso dalla bici, Ran ha moltiplicato quelle forze che gli sono mancate sui pedali e si è messo in testa di reclutare giovani atleti e di formare una squadra. Ci sta riuscendo. Forse, c'è riuscito. «L'anno prossimo avremo un team di 24 atleti, dodici sotto i 25 anni». Sette saranno israeliani in una rosa che rappresenterà 17 Paesi. Quando Margaliot spiega il reclutamento, si capisce quanto sia difficile far salire un giovane in bicicletta: «Siamo un Paese giovane, i modelli da eguagliare sono quelli che abbiamo cresciuto in casa. A diciotto anni poi, un ragazzo parte per il servizio militare, tre anni di leva. Si interrompe la preparazione, ma è proprio lì che io vado a pescare i potenziali atleti. Se uno durante i permessi continua a correre, significa che non ha paura della fatica. E io ho trovato un corridore perché il ciclismo è fatica».

 Stipendio da 30 mila euro
  A Margaliot piace Contador, «è caduto e si è rialzato», ma è inutile portare modelli a un movimento così giovane. Sono 1500 i tesserati, un'élite che sfiora i 50 e qualcuno che butta fuori la testa. Roy Goldstein ha vestito la maglia del miglior scalatore nel Giro di Portogallo, Guy Sagiv si è messo in luce al Giro del Quebec. Trentamila euro l'anno, il minimo garantito dall'Uci, è lo stipendio. Estrazioni sociali diverse, uno (Aviv Yechezkel) è cresciuto in un kibbutz «ma è meglio che non si mettano in testa di gareggiare per i soldi o che non comincino a fare paragoni con i campioni e con le cifre che girano in Europa».
E poi c'è Bartali. L'uomo il cui nome è tra i Giusti tra le Nazioni per aver salvato almeno 800 ebrei dalle persecuzioni durante la guerra. Faceva la spola, Bartali, tra Assisi e Firenze e nella canna della bicicletta nascondeva i documenti falsi. Un documento, una persona salvata. «Per noi Bartali è un simbolo. Qualcuno che ha fatto qualcosa non per sé ma per gli altri. Gesti che oggi esistono sempre di meno». L'epica della vita, prima ancora che del ciclismo.

(La Stampa, 18 settembre 2017)


''L'islam è l'ultima utopia della sinistra. Benpensanti alleati coi bigotti del Corano"

Contro l'introduzione del reato di "islamofobia". "Si impone il silenzio agli occidentali e ai musulmani liberali. Perché non si parla di 'cristianofobia'?"

da "City Journal" (settembre 2017)

E' un nuovo arrivato nel campo semantico dell'antirazzismo, un termine che ha l'ambizione di rendere l'islam intoccabile e sullo stesso livello dell'antisemitismo". Così il filosofo e saggista Pascal Bruckner smonta la più micidiale accusa dei nostri giorni: "l'islamofobia". "A Istanbul, nell'ottobre 2013, l'Organizzazione della Conferenza islamica, finanziata da decine di paesi musulmani che perseguitano senza vergogna ebrei, cristiani, buddisti e indù, ha chiesto ai paesi occidentali di porre fine alla libertà di espressione sull'islam. L'intenzione dei firmatari era di fare della critica alla religione del Corano un crimine internazionale.
   Questa richiesta è sorta alla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo a Durban già nel 2001 e sarà riaffermata quasi ogni anno. Il primo obiettivo è quello di imporre il silenzio agli occidentali, colpevoli del colonialismo, della laicità e della ricerca dell'uguaglianza tra uomini e donne. Il secondo obiettivo, ancor più importante, è quello di forgiare un'arma di esecuzione contro i musulmani liberali che hanno osato criticare la loro fede e che hanno chiesto la riforma. Il concetto di 'islamofobia' maschera l'offensiva, guidata dai salafisti, dai wahhabi e dalla Fratellanza musulmana in Europa e in Nordamerica per islamizzare l'intero mondo occidentale.
   Una grande religione universale come l'islam include un vasto numero di popoli e non può essere assimilata a un particolare gruppo etnico. Il termine 'islamofobia', tuttavia, invita alla confusione tra un sistema di credenze specifiche e i fedeli che aderiscono a queste credenze. Dovremmo allora parlare di 'razzismo' o fobia anticapitalista, antiliberale o antimarxista? Non ostante le minoranze cristiane nelle terre islamiche siano perseguitate, uccise e costrette all'esilio, e siano ormai minacciate di estinzione entro la metà di questo secolo, la parola 'cristianofobia' non ha mai attecchito. In Francia, con la sua tradizione anticlericale, possiamo prenderci gioco di Mosè, di Gesù e del Papa, e li descriveremo in ogni posizione, anche la più oscena. Ma non dobbiamo mai ridere dell'islam. Perché questo doppio standard? Per aver criticato due gruppi islamici francesi per complicità ideologica con gli assassini di Charlie Hebdo, mi sono ritrovato davanti a un tribunale, accusato di diffamazione.
   Ed ecco dove emerge il più strano fattore di tutta la polemica sulla 'islamofobia': una parte della sinistra americana e europea a difesa della forma più radicale dell'islam. Dopo aver perso tutto - la classe operaia, il Terzo mondo - la sinistra si aggrappa a questa illusione: l'islam, ribattezzato come la religione dei poveri, diventa l'ultima utopia, sostituendo quelle del comunismo e della decolonizzazione per i militanti disincantati. Il musulmano prende il posto del proletario. Ora è il credente del Corano che incarna la speranza globale per la giustizia, che si rifiuta di conformarsi all'ordine delle cose, che trascende i confini e crea un nuovo ordine internazionale, sotto l'egida del Profeta: un Comintern verde. Peccato per il femminismo, l'uguaglianza femminile, il dubbio salvifico, lo spirito critico. Questo atteggiamento politico è evidente sul velo islamico: il velo è lode ai cieli, tanto che per alcuni commentatori di sinistra una donna musulmana svelata e che sostiene questo diritto può solo essere una traditrice, una rivoluzionaria, una donna in vendita.
   L'ironia di questa fascinazione neocoloniale per gli uomini barbuti e le donne velate - e per tutto ciò che suggerisce un bazar orientale - è che il Marocco stesso, il cui re è il 'comandante dei fedeli', ha recentemente proibito l'uso, la vendita e la fabbricazione del burka nel suo paese. Chiameremo la monarchia marocchina 'islamofobica'? Saremo più lealisti del re? Generazioni di sinistra hanno visto la classe operaia come il lievito messianico di un'umanità radiosa; adesso, disposti a flirtare con la bigotteria più oscurantista e a tradire i propri principi, hanno trasferito le loro speranze agli islamisti.
   Secondo il punto di vista dei fondamentalisti islamici e di molti progressisti, il musulmano dovrebbe sostituire l'ebreo, che ha disonorato il suo status ed è diventato a sua volta un colonizzatore con la creazione dello Stato di Israele. La giudaizzazione dei musulmani comportava la nazificazione degli israeliani. C'è il buon ebreo di ieri, eternamente perseguitato, e il cattivo israeliano che si è impadronito del medio oriente, imperialista e razzista. Il vero ebreo di oggi porta il copricapo e parla arabo; l'altro è un impostore e un usurpatore.
   Una volta stabilita l'equivalenza tra la giudeofobia e l'islamofobia, il passo successivo è quello di mettere in atto il principio di eliminazione. In questo modo l'islam è in grado di presentarsi come creditore dell'umanità nel suo complesso: siamo in debito a causa dei torti inflitti dalle Crociate, dalla ferita della colonizzazione e dall'occupazione della Palestina da parte dei sionisti, e infine per la cattiva immagine di cui soffre la religione del Profeta.
   La Francia è attaccata non perché opprime i musulmani, ma perché li libera dalla presa della religione. Offre loro una prospettiva che terrorizza il devoto, quella dell'indifferenza spirituale, il diritto di credere o di non credere, come gli ebrei e i cristiani sono in grado di fare. Passeggiate per le strade di qualsiasi grande città europea o americana e passerete vicino a innumerevoli chiese battiste, cattoliche, luterane e evangeliche, templi indù, sinagoghe, moschee, pagode. Questa pacifica convivenza di diverse espressioni del divino è una meraviglia dell'occidente. Il meglio che possiamo desiderare per l'islam non è 'la 'fobia' o la 'philia' ma un'indifferenza benevola in un mercato spirituale, aperto a tutte le fedi. Ma è proprio questa indifferenza che i fondamentalisti vogliono sradicare".

(Il Foglio, 18 settembre 2017)


«Spese del Vaticano fino al 1997». E' un giallo il dossier su Emanuela

Riportiamo questo articolo del Corriere della Sera perché il mondo, in particolare quello “cristiano”, dovrebbe porsi il problema della legittimità internazionale morale e spirituale di uno “stato” come quello del Vaticano, invece di continuare a chiedersi se lo Stato di Israele ha o no il "diritto all’esistenza". NsI

Verifiche sull'autenticità di un carteggio che circola nella Santa Sede La famiglia: «Abbiamo diritto a sapere, il Papa ha detto che la verità non si negozia»

di Fiorenza Sarzanini

LA VICENDA
Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia, scompare a Roma il 22 giugno 1983, all'età di 15 anni. Il pomeriggio della sua sparizione, Emanuela andò a lezione di musica in una scuola in piazza Sant'Apollinare vicino a Palazzo Madama. All'uscita telefonò a casa, dicendo a una delle sorelle di aver ricevuto una proposta per un lavoro di poche ore per promuovere prodotti cosmetici. Alla fermata dell'autobus, incontrò due compagne di corso che furono le ultime due persone a vederla.
La scomparsa di Emanuela resta ancora un mistero. Negli anni le diverse ricostruzioni si sono intrecciate con l'attentato a Giovanni Paolo II, lo scandalo lor, i collegamenti con la banda della Magliana, la pista della pedofilia, il caso di Mirella Gregori, adolescente scomparsa il mese prima.

ROMA - Un nuovo, inquietante mistero segna la ricerca della verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983. E avvalora l'ipotesi che i «corvi» siano tornati in Vaticano. Perché un dossier che circola negli uffici della Santa Sede chiama in causa le gerarchie ecclesiastiche sulla fine della giovane sparita a 15 anni nel 1983 e sembra voler accreditare la possibilità che sia morta nel 1997. Elenca le spese che sarebbero state sostenute Oltretevere proprio per gestire la vicenda. L'esame del carteggio non fornisce alcun riscontro che si tratti di un documento originale perché non contiene timbri ufficiali, ma appare verosimile che venga utilizzato nell'ambito dei ricatti incrociati che hanno segnato la vicenda Vatileaks ed evidentemente non sono ancora terminati. Per questo la famiglia Orlandi torna a chiedere alla Segreteria di Stato di «sgomberare il campo da ogni dubbio» e attraverso le avvocatesse Annamaria Bernardini De Pace e Laura Sgrò insiste «per avere accesso a tutti i documenti e comunque poter incontrare il segretario di Stato Pietro Parolin: il caso non è e non può essere chiuso».

 Il furto nella cassaforte
  Si torna alla notte tra il 29 e il 30 marzo 2014 quando viene scassinata la cassaforte che si trova nella Prefettura vaticana e contiene l'archivio della commissione Cosea, della quale facevano parte monsignor Balda e Francesca Chaouqui, entrambi finiti sotto processo con l'accusa di aver divulgato documenti segreti relativi alle finanze vaticane. Nel libro Via Crucis di Gianluigi Nuzzi, che svela una parte di quelle carte segrete, vengono pubblicate le fotografie della misteriosa irruzione.
Durante le indagini su Vatileaks il promotore di giustizia della Santa Sede interroga il capo ufficio monsignor Alfredo Abondi che a verbale dichiara: «Nella sezione riservata della Prefettura venivano conservati i documenti sulla sicurezza e sulle situazioni rilevanti relative all'Amministrazione. Nei giorni successivi al furto nel dicastero ci fu recapitato un plico con i documenti sottratti». Non entra nel dettaglio ma specifica che «si tratta di materiale che riguarda pratiche risalenti a 10 o anche 20 anni fa». Poco dopo comincia a circolare l'indiscrezione che tra quei dossier ce ne sia anche uno sulla scomparsa della ragazza.

 I milioni di Apsa
APSA è l'acronimo dell'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, l'organismo del Vaticano che gestisce il patrimonio economico, una sorta di «banca centrale» della Santa Sede. E' stata istituita da papa Paolo VI nel 1967, riformata nel 1988 da Giovanni Paolo li e nel 2014 da papa Francesco che le ha lascialo le funzioni più strettamente finanziarie.

  Sei mesi fa Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, rilancia questa possibilità, entra nel dettaglio parlando di «cinque fogli, mostrati anche a papa Francesco che proverebbero che non sarebbe morta subito, perché datati fino al 1997». È il plico che viene adesso fatto circolare. Si intitola «Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi».
È datato 28 marzo 1998, firmato dal cardinale Lorenzo Antonetti, all'epoca presidente dell'Apsa, l'amministrazione del Patrimonio della sede Apostolica, e indirizzato al sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato il cardinale Giovanni Battista Re e al sottosegretario Jean Louis Tauran. Elenca spese per circa 500 milioni di lire sostenute tra gennaio 1983 e luglio 1997. Si chiude con il pagamento di 21 milioni di lire per «attività generale e trasferimento presso città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali».

 Ricatto o depistaggio
  Le «voci» e i relativi pagamenti accreditano la possibilità che la giovane sia stata ospitata in alcuni conventi e appartamenti in Italia e all'estero, ricoverata in almeno due strutture sanitarie in Gran Bretagna, trasferita più volte. Specifica che una parte dei soldi è stata versata a «fonti investigative», e cita il pagamento per l'attività relativa a un episodio di «depistaggio».
Il documento - dattiloscritto con un carattere risalente a vent'anni fa - contiene nomi e luoghi realmente esistenti, parla dell'attività investigativa svolta anche dall'allora responsabile della gendarmeria, si riferisce ad «allegati» su «quantità di denaro autorizzate e prelevate per spese non fatturate». Il fatto che la prima data sia gennaio 1983, cioè sei mesi prima della sparizione, sembra voler avvalorare la possibilità che Emanuela fosse sotto il controllo di autorità vaticane già da quel periodo. Potrebbe trattarsi di un documento che contiene circostanze vere, fatto circolare proprio da chi continua ad esercitare il proprio potere di ricatto contro le gerarchie ecclesiastiche, visto che mai è stato fugato il sospetto sul loro ruolo in questa vicenda. Oppure un depistaggio. «In ogni caso - chiariscono le due avvocatesse - la famiglia ha diritto a ottenere chiarimenti e per questo torniamo ad appellarci direttamente a papa Francesco affinché voglia ascoltare la loro supplica. Lui stesso ha detto che "la verità non si negozia"».

(Corriere della Sera, 18 settembre 2017)


Il carteggio


Sarà una ditta israeliana ad essere coinvolta nella costruzione del muro Usa anti-immigrati

Il premier Benjamin Netanyahu e' atterrato nei giorni scorsi in Messico, ultima tappa - dopo Argentina e Colombia - di un tour in America Latina volto a rilanciare i rapporti di cooperazione. Ma la notizia che un'azienda israeliana si occupera' della costruzione del muro anti-migranti potrebbe essere fonte di imbarazzo durante il suo colloquio col presidente Enrique Pena Nieto.
Il quotidiano 'Jerusalem Post' spiega che la Elta North America, un'azienda israeliana con sede negli States, e filiale della Israel Aerospace Industries, si e' aggiudicata l'appalto per la realizzazione di prototipi "intelligenti" di muro insieme ad altre sette societa', in un affare che ha un valore complessivo di 25 miliardi di dollari. Quattro aziende sono incaricate di presentare progetti per il muro di cemento, mentre le restanti quattro dovranno impiegare un materiale "smart" che consentira' di vedere attraverso le pareti. E' di quest'ultimo che la Elta si occupera'.
   La Elta e' ben nota sia all'esercito americano che israeliano, in quanto fornisce loro sistemi radar. Altro motivo di imbarazzo per Netanyahu il fatto che, all'indomani dell'annuncio del presidente Trump di voler innalzare un muro di mattoni il confine col Messico, il premier da Tel Aviv ha espresso il proprio appoggio: "Il presidente ha ragione" twitto' il primo ministro. "Anch'io ho costruito un muro al confine meridionale. Ha bloccato l'immigrazione irregolare, e' stato un grande successo. E' una grande idea". Questa dichiarazione suscito' la risposta del ministero degli Esteri messicano, che si disse "sorpreso e offeso". Ondata di proteste anche all'interno del Paese, e anche durante la visita di oggi sono attese manifestazioni pubbliche. Come ricorda la stampa latino-americana, Israele vanta con il Messico un accordo di libero scambio, che lo scorso anno ha prodotto 905 milioni di dollari di introiti.

(Controlacrisi, 17 settembre 2017)


Ebrei nella Grande Guerra, le immagini dal fronte

L'ultima conquista del Risorgimento, come molti vollero credere illudendosi amaramente, o l'inizio della catastrofe che condusse infine al tradimento dell'Italia nei confronti dei propri cittadini ebrei e agli anni bui della persecuzione e della Shoah. Furono centinaia di migliaia e combatterono su tutti i fronti, gli ebrei che vestirono la divisa durante la Prima guerra mondiale. E furono migliaia gli ebrei italiani che obbedirono, in molti casi entusiasticamente, alla chiamata per difendere l'Italia e donare al nostro Paese la vittoria al costo di un devastante contributo di sangue.
Il dramma del conflitto che aprì il Novecento fu anche un dramma ebraico, e nel caso degli ebrei italiani costituì il preludio del loro infamante tradimento da parte del regime che avrebbe presto preso il potere.
Una mostra, curata dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) e oggi esposta nella Sala d'onore del palazzo municipale di Ferrara, ripercorre le loro storie e mette in luce il contributo di civiltà, di patriottismo, di coraggio e spesso di eroismo dimostrato dagli ebrei coinvolti nel conflitto.
   L'esposizione, ideata da Paola Mortara e Annalisa Bemporad e curata da Gadi Luzzatto Voghera e Daniela Scala, ricchissima di materiale documentario e di suggestive immagini provenienti dagli archivi della Fondazione ebraica, è stata aperta, nel quadro della Festa del libro ebraico organizzata dal Meis, dallo stesso primo cittadino della città estense Tiziano Tagliani, che era accompagnato dai presidenti di Meis e Cdec Dario Disegni e Giorgio Sacerdoti e dai rispettivi direttori dei due enti Simonetta Della Seta e Gadi Luzzatto Voghera.
   Un'occasione importante, ha ricordato il presidente Disegni subito prima di accogliere il ministro della Pubblica istruzione Valeria Fedeli e di firmare con lei un accordo strategico d'azione comune, che resterà aperta alla popolazione fino al 10 novembre e ci porterà quindi in prossimità con l'inaugurazione del museo dell'ebraismo italiano di metà dicembre. Ma soprattutto è un'occasione per comprendere un passaggio fondamentale della storia italiana e per capire, proprio quando si stanno per celebrare gli 80 anni dalla proclamazione delle leggi razziste antiebraiche del 1938, le sofferenze e le ingiustizie patite dagli ebrei italiani, la degradazione dell'onore della nazione e la perdita inestimabile di ingegni e valori.
   "Gli anni della Grande Guerra - spiegano i curatori - determinano anche per la società italiana un passaggio epocale. In un contesto di profonde trasformazioni, la popolazione ebraica è coinvolta da protagonista e viene profondamente segnata dagli eventi. In tutta Europa, per la prima volta nella storia, gli ebrei si trovano a combattere su fronti contrapposti. Questi i numeri: circa 600.000 soldati ebrei in Russia, 350.000 nell'esercito Austro-ungarico (compresi numerosi triestini e fiumani), 100.000 fra i tedeschi, 50.000 ebrei inglesi, 50.000 francesi, decine di migliaia nell'esercito degli Stati Uniti. In Italia furono circa 5.400 gli ebrei che combatterono, interpretando il conflitto come l'ultima delle guerre risorgimentali, che consegnava definitivamente anche agli ebrei lo status di cittadini.
   Le comunità ebraiche e i singoli si adoperano sia nelle organizzazioni che operavano sul territorio, sia organizzandosi in comitati e tentando di sopperire alle esigenze religiose legate alla tradizione religiosa, fornendo cibo e oggetti d'uso per le pratiche rituali (libri di preghiera e arredi).
   "La mostra 1915-1918 Ebrei per l'Italia intende portare l'attenzione sulle principali dinamiche del coinvolgimento degli ebrei italiani nella Grande Guerra proponendo un percorso fondato in gran parte su materiale fotografico conservato presso l'archivio della Fondazione CDEC di Milano. Un itinerario per ragionare sull'origine del concetto di cittadinanza nell'Italia a cavallo fra Ottocento e Novecento".

(moked, 17 settembre 2017)


Tra eros ed eroismo. Louise Bourgeois a Tel Aviv

Gordon Gallery, Tel Aviv - fino al 28 ottobre 2017.

di Antonello Tolve

 
Prima personale di Louise Bourgeois in Israele, con un ventaglio di opere su carta realizzate tra il 2000 e il 2010, che disegnano un percorso inconfondibile e avvincente tra le emozioni umane.
Una nuova mostra di Louis Bourgeois (Parigi, 1911 - New York, 2010), ma questa volta solo carte e tessuti (vecchi fazzoletti, biancheria da letto, vestiti), disegni e stampe (litografie, serigrafie), che mostrano un mondo fatto di sogni, di desideri erotici ed eroici, di ansie, di solitudini, di rabbie, di gioie e di dolori. Con Pink Days / Blue Days la Gordon Gallery di Tel Aviv centra il bersaglio e propone non solo la prima personale in Israele di una figura dell'arte tra le più importanti e influenti del XX secolo, ma anche un itinerario visivo su carta - meravigliose le sessualità in "blu" (Tryptic for the Red Room, 1994) o la serie delle "ore" che rende circolare l'esposizione - la cui freschezza salta il fosso del tempo e dello spazio per porre l'accento sull'acutezza miocinetica, sul fare e sul pensare.
Come due sentieri cromatici che si incrociano e si confondono, Pink Days / Blue Days (mostra luminosa la cui ritmica interna evidenzia le varie anime dell'artista) è un viaggio nel prato espressivo di Bourgeois, in un perimetro linguistico dove il calore eretico e la freddezza erotica della mano tessono una tela "familiare" che stuzzica e stordisce lo sguardo, che sequestra la riflessione alla riflessione, che mostra il precipizio irresistibile del tempo.

(Artribune, 17 settembre 2017)


Hamas si dice pronto ad un accordo con al Fatah, elezioni e governo unitario

L'annuncio arrivato dopo anni di durissima contrapposizione tra i due movimenti. Alla base la gravissima situazione umanitaria della striscia di Gaza, per il blocco imposto da Israele
Con una iniziativa che è giunta a sorpresa, anche se i timidi segnali in questo senso si coglievano da qualche tempo, Hamas si è detto pronto ad una riconciliazione con al Fatah, guidato da Mahmud Abbas. Al potere a Gaza nel 2007, Hamas, con un comunicato di questa mattina, ha dato la sua disponibilità a discutere la formazione di un governo di riconciliazione con i suoi rivali di Fatah e tenere le elezioni generali.
   La svolta giunge dopo che Hamas è stata indebolita da anni di blocco israeliano e dal deterioramento dei suoi rapporti con l'Egitto dopo la cacciata, nel 2013, dell' ex presidente egiziano Mohamed Morsi, islamista, grande protettore del movimento.
   Il raffreddamento dei rapporti con l'Egitto, con la presa del potere da parte del generale al Sisi ha comportato un netto cambio di atteggiamento nei confronti di Hamas. Infatti, dopo la caduta di Morsi, quasi il 90% dei tunnel che venivano usati per contrabbandare merci tra Egitto e Gaza (un sistema vitale per l'economia di sopravvivenza della striscia) sono stati distrutti dal Cairo.
   Hamas ha dovuto anche arretrare dalle sue posizioni a causa della gravissima crisi umanitaria a Gaza, che ha giustificato l'offensiva diplomatica dell'Autorità palestinese per indurre il movimento islamista a comporre le fratture ideologiche ed a negoziare il varo di un governo di unità nazionale. Secondo le Nazioni Unite Gaza. una delle aree più densamente popolate al mondo (vi risiedono due milioni di persone), potrebbe diventare "invivibile" entro il 2020.

(globalist, 17 settembre 2017)


Così Israele ha anticipato tutti nella prevenzione

di Francesco Palmas

 
IDF - Oketz Unity
L 'ondata di terrorismo inedito che sta investendo l'Europa con attacchi ali' arma bianca, lupi solitari, ordigni non sempre efficienti e veicoli-killer ha risvegliato in molti l'interesse per il "savoir faire" israeliano, modello per antonomasia di gestione quotidiana del rischio terroristico.
   Sul territorio nazionale ebraico, nei confini del '67, a Gerusalemme est e sul Golan, l'esercito è invisibile. Non ci sono militari che pattugliano le strade, come in Francia, in Italia e in Belgio. Tranne rare eccezioni, la protezione dei luoghi sensibili è affidata a società di sicurezza private, onnipresenti anche sui mezzi di trasporto pubblico. Le telecamere fioccano, come gli occhi esperti. Sorvegliano le anomalie e le segnalano tempestivamente, si tratti di una valigia abbandonata o di un contenitore sospetto. I civili collaborano. È il concetto di "resilienza totale", arma preziosa contro il terrore. L'antiterrorismo interno è un affare del servizio d'intelligence Shabak, dell'unità d'elite Yasam, della polizia civile (Mishtarat) e della sua branca paramilitare (Magav). L'Home Front di Tsahal c'entra poco o nulla. Si occupa di difesa passiva, in caso di attacchi missilistici massicci. Al check point di Kerem Shalom, porta di Gaza, i "vigilantes" armati hanno fisionomia est-africana. Vengono da lì, reclutati e pagati per servire Israele e ovviare al sequestro di soldati autoctoni. Ci sono cani anti-esplosivo, in dotazione alla polizia e a un'unità molto speciale dell'esercito: l'Oketz, i cui cani, pastori tedeschi e belgi, sono addestrati per compiti di antiterrorismo e per l'individuazione di armi o esplosivi. Parliamo di una delle più antiche forze speciali israeliane, oggi aperta anche al personale femminile.
   La società civile partecipa alla prevenzione antiterroristica, come visto prima. Il porto d'armi è concesso facilmente, in un Paese in cui tutti gli uomini servono per tre anni nelle forze armate e le donne per due. Siamo nel sancta sanctorum dei sensori e delle tecnologie innovative, che stanno fruttando. Un gran numero di dati catalizzato da Internet è setacciato dall'Israel Security Agency per sviluppare indicatori d'intenzioni. L'esercito ha introdotto un sistema d'allerta che segnala gli individui potenzialmente pericolosi, indicando in certi casi perfino il luogo dove prevedano di attaccare, con quale mezzo e quali attività abbiano in itinere. Sembra che fra l'anno scorso e quello in corso siano stati identificati così più di 2.200 sospetti, pronti ad uccidere con coltelli o veicoli-killer. Il Paese ha dovuto adattarsi a una minaccia mutevole nel tempo. È entrato nell' era dei "lupi solitari". Dall' ottobre 2015 a fine 2016, la Giudea, la Samaria e Israele hanno temuto l'emergere di una terza Intifada, con individui radicalizzati che hanno sferrato attacchi all'arma bianca, sparato fucilate, scagliato pietre, bottiglie incendiarie e lanciato sulla folla veicoli-killer. Sono spuntate barriere in cemento alle fermate dei bus. Le zone di raduno e di assembramento sono state spesso interdette alla circolazione, con barriere filtranti e barricate. Ronen Horowitz, ex capo della divisione d'information technology all'Israel Security Agency, parla di maglie ancora più strette, grazie ai Big Data e al Cloud.
   Mezzi che permetteranno la gestione comune di enormi database e l'elaborazione di analisi predittive, sincronizzando i dati di chi si sposta con quelli di chi fa acquisti sospetti (leggi grandi quantitativi di acetone o bombole a gas). e soprattutto di chi noleggia furgoni dal peso inferiore alle 3 tonnellate e mezzo, prediletti dai terroristi.
   Nel frattempo, l'esercito ha inasprito i controlli "oltreconfine". Ha imposto il pugno di ferro in Cisgiordania e smantellato le reti nascenti. Ma qui il gioco è facile. L'Anp collabora e Israele ha forze di occupazione, con abbondanza di informatori, di human intelligence e di tecnologie di monitoraggio. Ha in mano l'amministrazione civile e un altro atout: gli anelli stradali che avvolgono i villaggi cisgiordani permettono la circolazione rapida dei soldati di Tsahal e l'eventuale accerchiamento. Metodi draconiani, in parte irreplicabili altrove.

(Avvenire, 17 settembre 2017)


Putin cerca di spezzare l'Occidente

Le mosse del Cremlino

di Maurizio Molinari

Dal Mar Baltico alla Nord Corea fino al Medio Oriente: la mappa delle crisi vede la Russia di Vladimir Putin nel ruolo di protagonista, con la costante intenzione di portare scompiglio nel campo dell'Occidente al fine di allontanare l'America dai suoi alleati.
  È l'evoluzione delle crisi regionali a descrivere la miscela di aggressività militare ed abilità diplomatica grazie alle quali Mosca guadagna terreno, praticamente ovunque, ai danni dell'Occidente. Nel Mar Baltico sono iniziate le manovre militari Zapad- 2017, le più imponenti dalla fine della Guerra Fredda, che vedono Putin schierare un'armata convenzionale, con l'appoggio di reparti bielorussi, lungo i confini di Lettonia, Lituania ed Estonia, a cui si aggiunge il posizionamento nell'enclave di Kaliningrad di missili a medio raggio. Se a ciò aggiungiamo le pressioni esercitate da Mosca su Finlandia e Svezia affinché non aderiscano alla Nato, è facile dedurre che Putin ha scelto questo angolo d'Europa per mostrare i muscoli all'Alleanza. Recapitando alle minoranze russofone - a cominciare dalla Lettonia - il messaggio che Mosca è pronta a proteggerle, come già fatto nel marzo 2014 con l'annessione della Crimea ai danni dell'Ucraina. I timori di invasione russa che rimbalzano da Varsavia a Riga lasciano intendere come Putin abbia già raggiunto l'obiettivo di mettere sulla difensiva la Nato lungo la sua frontiera più avanzata, i Paesi ex comunisti.
  Anche in Estremo Oriente Putin è all'offensiva, ma con armi più sofisticate di tank e missili. Nei confronti del Giappone di Shinzo Abe esercita un tentativo di seduzione basato sulla possibilità di restituire le isole Kurili occupate negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale. Per almeno tre volte Putin ha fatto balenare tale ipotesi, senza dargli mai seguiti concreti ma limitandosi ad incassare un canale privilegiato con Tokyo. In maniera altrettanto disinvolta il Cremlino si muove nella partita nordcoreana: fa quadrato con Pechino nell'opporsi al cambio di regime a Pyongyang e propone la «simultanea sospensione» dei test atomici di Kim Jong-un e delle manovre militari Usa-Sudcorea all'evidente fine di rovesciare la responsabilità dell'escalation sulla Casa Bianca. Per fare breccia, a Seul come a Tokyo, fra quei leader politici locali che perseguono l'appeasement con la spietata dittatura nordcoreana. Dall'Accademia di Scienze Sociali di Liaoning, il politologo cinese Lu Chao, riassume così quanto sta avvenendo: «Mosca e Pechino vogliono difendere lo status quo dal tentativo Usa di stravolgerlo». Ovvero, è il patto Putin-Xi a garantire la stabilità. Se a questo aggiungiamo gli incontri fra il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e gli inviati di Kim, il moltiplicarsi dei traffici illeciti fra Vladivostok ed i porti nordcoreani, come a cavallo del fiume Tumen che separa i due Paesi, ne esce l'immagine di una Russia che non vuol far cadere Kim e cerca spazio politico in Giappone e Sudcorea, ovvero sfida gli interessi americani su entrambi i fronti.
  E ancora: sullo scacchiere della Siria, dove è riuscita a far sopravvivere il regime di Bashar Assad grazie all'intervento militare del settembre 2015 a fianco dell'Iran, la Russia sta ora tentando di accreditarsi come garanzia di sicurezza per Israele, il maggior alleato di Washington nella regione. Se in meno di due anni il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha incontrato
  Putin almeno cinque volte è perché Gerusalemme oramai considera la Russia un «Paese confinante» in ragione della presenza delle sue truppe in Siria dove possono creare un cuscinetto strategico di separazione con Hezbollah e milizie sciite pro-iraniane. In maniera analoga Lavrov si è recato in Arabia Saudita e Giordania per recapitare un messaggio inequivocabile: proprio perché la Russia è alleata dell'Iran, dopo la vittoria in Siria, può garantire - assai meglio di Washington - gli interessi dei sunniti. Infine, ma non per importanza, l'Egitto: Putin gli offre aiuto in Cirenaica contro i jihadisti e lo spinge a sostenere Assad suggerendogli come tornare protagonista nel mondo arabo.
  Ciò che tiene assieme tali e tante mosse è la strategia di Putin di voler portare scompiglio in Occidente, ovvero indebolire il legame fra Washington ed i suoi alleati tradizionali fino a spezzarlo del tutto. Intimorire i Paesi Baltici significa fiaccare la deterrenza della Nato in Europa, difendere il regime di Kim serve a incunearsi nella partnership di Washington con Seul e Tokyo in Estremo Oriente, giocare la carta siriana consente di creare una relazione inedita con Israele e sunniti in Medio Oriente, sempre in alternativa alla Casa Bianca. Scompaginando ovunque il fronte americano. È una strategia che nasce dalla volontà russa di privare Washington della rete di alleanze costruite durante la Guerra Fredda - strumento della dimensione globale del potere americano - per ridisegnare i rapporti internazionali sulla base di relazioni fra singole nazioni, consentendo così a Mosca di riacquistare un ruolo di leadership.

(La Stampa, 17 settembre 2017)


I Ritchie Boys, gli ebrei tedeschi che aiutarono a sconfiggere Hitler

Arruolati dagli americani per operazioni speciali e interrogatori

di Mirella Serri

Tre dei Ritchie Boys
Nell'autunno del 1942 una notizia volò di bocca in bocca nella valle del Maryland dove l'esercito aveva attivato il campo militare di Fort Ritchie: i nazisti erano arrivati in America e si stavano esercitando proprio da quelle parti. Un paio di operai che si erano addentrati nell'area top secret del campo raccontavano di aver visto un plotone con l'uniforme della Wehrmacht che marciava spedito: «Links, zwei, drei». Non era un miraggio ma non si trattava di fedelissimi di Hitler negli Usa, bensì di giovani militari ebrei tedesco-americani la cui vicenda è stata per decenni dimenticata e che adesso è stata ricostruita sulla base di diari ritrovati dallo scrittore e giornalista Bruce Henderson in Fratelli e soldati. La vera storia degli ebrei che sconfissero Hitler (in uscita da Newton Compton).
   I giovani che procedevano al passo dell'oca furono ribattezzati i Ritchie Boys, combattevano sotto la bandiera a stelle e strisce e si stavano esercitando per trasformarsi in perfetti soldati tedeschi pronti a infiltrarsi nelle linee nemiche. Ma si stavano allenando anche ad apprendere nuove tecniche di guerra, ovvero gli interrogatori dei prigionieri messi in atto per la prima volta dagli americani e dai britannici dopo lo sbarco in Nord Africa. Erano tutti ebrei nati in Germania da dove erano fuggiti verso la fine degli Anni Trenta lasciandosi alle spalle amici e parenti che non avrebbero mai più rivisto. Dopo l'addestramento di otto settimane nel Maryland, i circa duemila ragazzi che frequentarono i 31 corsi ottennero la cittadinanza americana e poi furono paracadutati in Francia: al seguito del generale Patton conquistarono Nantes, Orléans, Nancy e parteciparono nel dicembre del 1944 alla battaglia delle Ardenne.
   Il loro intervento fu decisivo nella sconfitta tedesca. Un rapporto a lungo tenuto riservato dell'esercito americano ha rivelato che quasi il 60 per cento delle informazioni attendibili sul nemico raccolte in Europa furono frutto del lavoro svolto dai Ritchie Boys addestrati dal Military Intelligence Training Center (Mite). Il loro segreto? I Ritchie Boys erano a conoscenza delle abitudini, del modo di esprimersi, della mentalità e della psicologia dei connazionali nazisti. Ma soprattutto operavano spinti da un drammatico e personale coinvolgimento.
   Racconta Martin Selling, uno dei più famosi Ritchie Boys divenuto abilissimo nello «spremere» i prigionieri, che un ufficiale appena catturato gli chiese con arroganza dove aveva imparato così bene il tedesco. «Nel lager di Dachau», rispose Martin. A questo punto il graduato non svenne ma per la paura se la fece letteralmente addosso.
   Ma era proprio vero: Martin era stato chiuso in quel campo di concentramento e ne era uscito vivo per miracolo. Non aveva comunque nessuna intenzione di applicare torture analoghe a quelle che gli erano state inflitte. Al contrario. Doveva agire sui prigionieri con grande velocità: le informazioni sui movimenti delle truppe, sulle postazioni difensive, sui campi minati e sul morale dei tedeschi diventavano rapidamente obsolete. E poi Martin e gli altri ragazzi che si chiamavano Werner Angress, Stephan Lewy, Guy Stern proprio per aver subito l'orrore della sopraffazione nazista non amavano la violenza.
   Erano a conoscenza, per esempio, che i tedeschi temevano di essere catturati dai sovietici e di finire in Siberia. Allestirono così una pittoresca tenda russa dove Guy si fingeva un isterico Commissario sovietico con alle spalle una gigantesca fotografia di Stalin. L'espediente fu molto efficace nel convincere i nazisti a vuotare il sacco. Solo in alcuni casi, rammenta ancora Martin, si dovette ricorrere alle maniere forti. Così costrinse un detenuto assai reticente a scavarsi la fossa. E ottenne le notizie che desiderava.
   Nel febbraio 1945 quando Guy fu informato che Marlene Dietrich avrebbe portato in scena il suo show per la Uso (United Service Organizations) nei pressi della sua armata, convinse la celebre attrice e cantante berlinese a fare un'escursione. La portò a visitare le gabbie dove erano chiusi i soldati della Wehrmacht. Voleva dare un segnale di pace e informare i detenuti che la loro collaborazione sarebbe stata preziosa per evitare un ulteriore spargimento di sangue.
   Il momento più tremendo per i Ritchie Boys fu quando si imbatterono per la prima volta in un lager, nel sottocampo di Wòbbelin, Capirono così l'indicibile orrore che aveva inghiottito genitori, fratelli, amici. Ma i Ritchie Boys non chiedevano vendetta e non cambiarono nemmeno allora i loro metodi di interrogatorio. Furono eroi dissimulati e protagonisti di azioni che non finirono sotto la luce dei riflettori anche perché l'America postbellica non era pronta per ricordare le loro imprese. Molti di loro persero la vita ma la loro storia esemplare è caduta nel dimenticatoio fino ai nostri giorni.

(La Stampa, 17 settembre 2017)


Merano ricorda i duecento ebrei deportati

Elisabetta Rossi Innerhofer, presidente della comunità ebraica di Merano
La sera del 16 settembre gli ebrei meranesi terrorizzati furono caricati sul camion della ditta di autotrasporti Fracaro e portati attraverso il passo del Giovo e del Brennero nel campo di rieducazione al lavoro di Reichenau, a Innsbruck. Dei quasi 200 ebrei catturati a Merano , nessuno tornò». A ricordare il tragico anniversario, ricorso ieri, la presidente della comunità ebraica di Merano, Elisabetta Rossi Innerhofer. «Il 9 settembre 1943 i treni con le truppe tedesche della Wehrmacht attraversarono il Brennero - ricorda Rossi Innerhofer -. I membri della comunità ebraica di Merano capirono subito di aver perso il loro ultimo rifugio. Il rastrellamento e la cattura degli ebrei di Merano avvenne il 16 settembre 1943 . Vennero rinchiusi nella casa del Balilla , in via Otto Huber 36. Verso le 17, spostati nel cinema dietro la casa del Balilla, furono tutti schedati».

(Corriere dell'Alto Adige, 17 settembre 2017)


Molodowsky, che liriche!

di Giulio Busi

Merkavah, «carro», è la parola ebraica che indica il segreto divino. Il carro celeste è il simbolo della dottrina mistica, l'essenza misteriosa dell'ordine del cosmo. Non un'imponente cattedrale di luce, ma un veicolo, in continuo, fulmineo movimento. Il Dio inconoscibile si muove, sfugge allo sguardo, corre le nuvole, s'inabissa nei cuori, si avvolge dei cieli dei cieli. Srotola l'orizzonte, scuote il proprio manto di lettere, lo agita, lo raccoglie, lo stende. Dio di nomadi, che rifugge dagli agi sedentari, diasporica divinità di diaspora, il cui Esilio precede ogni esilio. «Persino i cieli non possono contenerlo» (1 Re 8:27). Troppo smisurato per l'immobilità, il Dio d'Israele vive della distanza. E la distanza, l'anelito a guadare il fiume dell'essere, a dislocarsi per trovare e trovarsi, rimane anche quando i riti impallidiscono, nei tempi - lunghi, drammatici - in cui la Shekinah, la Presenza divina, si eclissa. Sono una vagabonda. È la firma di Kadye Molodowsky, tra le più grandi poetesse yiddish di metà Novecento. Vagabonda per vita, dalla Bielorussia in cui nasce nel 1894, alla Varsavia dell'impegno politico, della letteratura e delle speranze sioniste, agli Stati Uniti dell'esilio, a Israele, amata e non trovata, e di nuovo al rifugio statunitense, sino alla morte, a Filadelfia, nel 1975. Soprattutto, Molodowsky è vagabonda perché la letteratura la trascina, la spinge, la strattona. Sono i suoi versi a portarla con loro, dove c'è bisogno di qualcuno che dica e sogni al posto di chi non può più farlo. Versi-angeli, mattinieri, servizievoli, instancabili:
    «Arrivano gli angeli a Gerusalemme
    ancor prima che il sole sorga,
    ancor prima, ancor prima.
    Vestono abiti
    incisi e ricamati -
    la Shekinah illumina
    i loro vestiti rappezzati».
Non si fermano mai a lungo. Giungono alla spicciolata, ripartono assieme. Nessun secolo ha mai avuto altrettanta sete di poesia. Nel Novecento la poesia è morta. Poi è rinata, col volto pallido di chi torna dalla Terra del Non. Col volto gioioso di chi, nonostante tutto, vuole ricominciare. Per questo gli angeli di Kadye Molodowsky si vestono da muratori, danno una mano, manovali della speranza:
    «Arrivano gli angeli a Gerusalemme
    e camminano sulle vie non ancora lastricate.
    Portano la sabbia,
    trasportano le pietre».
Forse, come narra il Talmud, gli angeli non conoscono l'aramaico, ma certo possiedono ogni segreto dell'yiddish. Gli angeli dello sterminio conoscono a menadito la lingua degli sterminati. I messaggeri di morte parlano la lingua dei milioni di morti della Shoah, e sanno trasformarla in vita. Questo libro di poesie è anche un omaggio ad Alessandra Cambatzu, fine traduttrice e intellettuale vivacissima, scomparsa prematuramente dopo aver portato in italiano, assieme a Sigrid Sohn, le parole-carri della Molodowsky. Per ogni angelo che arriva, un altro riparte.
    «Ancor prima che il sole sorga,
    ancor prima, ancor prima».
- Kadye Molodowsky, «Sono una vagabonda», Liriche scelte, a cura di Alessandra Cambatzu e Sigrid Sobn. Nota di Katbryn Hellerstein, Free Ebrei, Torino, pagg. 221, e 7,84

(Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2017)



"Voi cercate Gesù il Nazareno che è stato crocifisso"

Passato il sabato, Maria Maddalena e Maria madre di Giacomo e Salome comprarono degli aromi per andare a ungere Gesù. E la mattina del primo giorno della settimana, molto per tempo, vennero al sepolcro sul levar del sole. E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà la pietra dall'apertura del sepolcro? E alzati gli occhi, videro che la pietra era stata rotolata; ed era pure molto grande. Ed essendo entrate nel sepolcro, videro un giovinetto, seduto a destra, vestito d'una veste bianca, e furono spaventate. Ma egli disse loro: Non vi spaventate! Voi cercate Gesù il Nazareno che è stato crocifisso; egli è risuscitato; non è qui; ecco il luogo dove l'aveano posto. Ma andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro, che egli vi precede in Galilea; quivi lo vedrete, come v'ha detto. Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro, perché erano prese da tremito e da stupore, e non dissero nulla ad alcuno, perché avevano paura.
Dal Vangelo di Marco, cap. 16


 


«Io ebreo del Pd boccio la legge Fiano»

L'ex vicepresidente della Comunità ebraica: «Testo controproducente»

di Alberto Giannoni

MILANO - Daniele Nahum, ex vicepresidente della Comunità ebraica di Milano e dirigente Pd ( ex responsabile cultura), il suo giudizio sulla legge Fiano sull'apologia di fascismo?
  «Lele Fiano è mosso da opinioni nobili e io capisco il punto di vista suo e di chi è favorevole alla legge, davvero. Ma devo dire che io reputo controproducente una legge del genere. Lo penso anche del reato di negazionismo: hanno un effetto opposto, possono far scaturire un meccanismo negativo. Uno dei rischi più grossi è che, vietando un'opinione, la rendi ... più attraente? Le dai appeal? Vietandola rischi di renderla appetibile. E rischi di produrre una cultura del sospetto. È chiaro che quelle idee sono sbagliate ma per me, che vengo da una scuola pannelliana-radicale, la cultura liberaldemocratica deve avere la forza di batterle dibattendole, non vietandole. Abbiamo tutti gli strumenti per farlo, parliamone.»

- Cita Marco Pannella, che andò a un congresso Msi a dire: i vostri elettori vi ascoltano grazie alla nostra «Radio Radicale».
  «Sì, lui incarnava questo andando ospite di un movimento all'epoca illiberale, per fare lì una battaglia di idee. Poi avrei un'altra perplessità. Questa: chi è che giudica?».

- Chi giudica sul fascismo?
  «Se andiamo a vedere, uno potrebbe alzarsi e dire: "Allora perché questa idea può circolare?". Ci sono in Italia partiti che si rifanno alla storia del comunismo. Il Pci stava dentro un sistema democratico ma insomma, se qualcuno si richiama a quella storia, magari di altri Paesi ... ecco forse anche altre idee si potrebbero vietare».

- Nelle comunità ebraiche c'è dibattito sulla legge Fiano?
  «La maggior parte sono favorevoli. Capisco, ma io credo che le comunità dovrebbero aprire un grande cantiere delle idee su queste dottrine oscurantiste».

- Enrico Mentana andrà a discutere con CasaPound. Fa bene?
  «Benissimo. Intendiamoci, politicamente li disprezzo, sono fuori dalla realtà ma farei con loro un dibattito tv, per metterli all'angolo. È un momento delicato ma nel Pd c'è molta timidezza nel far uscire un'idea di società aperta».

- Sa che l'Anpi non vuole una targa per Giuseppina Ghersi, 13enne violentata e uccisa dai partigiani nel 1945?
  «Aberrante. La lotta partigiana, gloriosa, stava dalla parte giusta, ciò non vuol dire che non abbia commesso crimini. E Sergio Ramelli? È stato ucciso a 18 anni con una chiave inglese, perché "era fascista". Io dico che è aberrante».

- Tornando a Fiano, forse non condivide perché lei è liberale.
  «Non credo. Spesso siamo d'accordissimo, Lele ha una visione liberal, si discute sul fatto che questo strumento sia giusto o no».

- Ma lei si sente a casa nel Pd?
  «È casa mia e spero che lo resti, ma per essere una sinistra moderna ed europea deve iniettarsi una dose di liberaldemocrazia, di culture che gli sono mancate, come quella radicale, laica, repubblicana e socialista».

(il Giornale, 16 settembre 2017)


La lettera: "On. Fiano, mio padre fascista salvò tre famiglie ebree"

Lettera aperta che il giornalista e sindacalista Massimo Visconti ha inviato all'onorevole Emanuele Fiano in merito alla sua proposta di legge sulla propaganda fascista.

Onorevole Fiano,
 
Emanuele Fiano
chi Le scrive è un semplice cittadino che ha sempre pensato che la politica, quella con la P maiuscola, fosse la rappresentazione della vera democrazia ovvero di quella democrazia, anch'essa con la D maiuscola, che è in grado di rappresentare le volontà del popolo italiano attraverso libere elezioni e soprattutto grazie alla circolazione del libero pensiero. Purtroppo da molti anni ho dovuto ricredermi su questa mia convinzione alla luce di scandali e malversazioni che hanno visto politici corrotti inquinare anche le nostre Istituzioni. Onorevole Fiano, chi Le scrive è anche figlio di un padre che simpatizzava per il regime fascista, riconoscendo a Benito Mussolini il fatto di aver portato in Italia tutte quelle innovazioni sociali che hanno costruito quello Stato Sociale che oggi si sta distruggendo legge dopo legge. La mia famiglia abitava a Roma in via Grotta Pinta 19 e ai due piani sopra il nostro appartamento vivevano due note famiglie di religione ebraica molto famose nella capitale e di cui non faccio il nome per riservatezza. Ebbene mio padre, simpatizzante del fascismo, il 13 ottobre del 1943, giorno della famigerata retata nazista nel ghetto, non esitò a nascondersi dentro la sua casa un'intera famiglia composta da padre, madre in attesa di un figlio, e altri tre figli adolescenti per salvarli dalla deportazione. Quando i tedeschi vennero nel palazzo bussarono anche nella nostra casa per chiedere notizie di queste due famiglie che non risultavano più nelle loro abitazioni. Mio padre disse che erano giorni che non li vedeva e i tedeschi credettero a mio padre e andarono via. Questa famiglia rimase nascosta per tre giorni in casa nostra e poi riuscì a fuggire fuori Roma.
  Immagini, Onorevole Fiano, cosa sarebbe successo se i soldati tedeschi fossero entrati in casa nostra e avessero trovato l'intera famiglia ebrea cui la mia famiglia diede rifugio? Mi scusi la premessa forse troppo lunga ma vorrei farLe una domanda: Lei pensa che quella famiglia ebrea accettando l'aiuto di "un fascista" si sia preoccupata del fatto che mio padre fosse simpatizzante del regime e di Mussolini? Quando mio padre morì, nel 1986, venne nella nostra casa il capofamiglia di quella stessa famiglia di ebrei che piangeva come un bambino, e abbracciandomi non faceva altro che dire "grazie a tuo padre siamo tutti vivi".
  Ecco, Onorevole Fiano, questo per dirLe che la legge che porta il Suo nome non solo è contraria ad ogni principio di democrazia e di libertà ma, mi permetta di dirLe, offende anche quella famiglia ebrea, un cui membro è attualmente un alto dirigente della Comunità ebraica romana, perché quell'odio la Sua proposta sta fomentando, una volta diventata legge dello Stato, potrebbe non permettere più certi gesti Eroici come quello di mio padre in nome di un razzismo intrinseco presente nella Sua legge.
  Onorevole Fiano, so che questo mio appello non servirà a nulla ma Le chiedo, in nome della Libertà e della Vera Democrazia di far si che in Senato quello scellerato disegno di legge che porta il Suo nome sia fermato.
  Onorevole Fiano, capisco che con i problemi che affliggono il nostro Paese questo "diversivo" sposta l'attenzione dell'opinione pubblica dalle storie di politici corrotti, da una sanità che non funziona, da una politica che ormai non rispetta più il popolo permettendo, per la sopravvivenza del potere, a parlamentari di farsi eleggere da una parte e passare disinvoltamente dall'altra, che vede Istituzioni ormai troppo distanti dalle esigenze dei cittadini. Capisco tutto questo ma non accetto che i principi Costituzionali che garantiscono il libero pensiero vengano cancellati da una minoranza parlamentare (261 deputati su 630). Altro effetto che pongo alla Sua attenzione è il fatto che Lei e i suoi 260 seguaci, volendo impedire quei pochi saluti romani che giravano per l'Italia, domani potrebbero ritrovarsi centinaia di migliaia di persone che, per convinzione o per protesta, alzeranno la mano tesa o esporranno gadget del ventennio. Lei e i suoi 260 seguaci state amplificando una forma di manifestazione esteriore di un periodo che ormai appartiene alla Storia. Non mi risulta che i Francesi abbiano vietato di parlare di Napoleone o di De Gaulle, anzi custodiscono il ricordo di due dittatori che comunque hanno fatto del bene alla Francia.
  Onorevole Fiano, a me non fanno paura i saluti romani o i pugni chiusi (anch'essi sono la rappresentazione esteriore di un regime dittatoriale che però ha provocato milioni di morti), a me fa paura il sistema delle tangenti che nonostante "mani pulite" oggi non arricchisce più i partiti ma i singoli deputati, fa paura il Jobs Act che ha precarizzato il mondo del lavoro soprattutto quello giovanile, fa paura il futuro dei nostri giovani che non so come potranno mantenere non le loro famiglie ma le loro singole persone, fa paura il fatto che ci sono 130 mila giovani che lo scorso anno hanno lasciato l'Italia perché il nostro Paese non offre loro prospettive, fa paura il fatto che un parlamento non riesce a darsi una legge elettorale decente solo per garantire a chi nel 2018 sarà eletto di poter fare il contrario di ciò che ha promesso in campagna elettorale, fa paura vedere le nostre strade piene di prostitute di colore che vengono "importate" e schiavizzate, fa paura vedere il nostro paese invaso da chi non vuole integrarsi ma pretende che siano gli italiani ad adeguarsi alle loro culture.
  Di fronte a tutto questo Lei Onorevole Fiano, e i suoi 260 seguaci, non avete trovato di meglio di cui discutere se non del saluto romano o dei gadget fascisti? Triste ma è così. Io, e con me penso tanti italiani, mi auguro che qualche "crisi di coscienza" in Senato spunti prima del voto definitivo di una legge che uccide la libertà di pensiero ma non ucciderà la Storia riuscendo, però, solo ad offendere le tante coscienze, non solo nostalgiche, che ancora in Italia rappresentano la maggioranza della popolazione. Prima di chiudere questa mia forse troppo lunga esternazione, Le rinnovo, Onorevole Fiano, l'invito a far si che questa legge in Senato non abbia i voti per passare in caso contrario, come penso, Lei sarà considerato il responsabile di un atto discriminatorio senza precedenti. Colgo l'occasione non per inviarLe i soliti e scontati saluti ma per invitarLa ad un momento di seria riflessione prima di mettere veramente in pericolo la caduta dei Valori Democratici del nostro Paese.
Massimo Visconti

(Il Secolo d’Italia, 16 settembre 2017)


Russia e Israele distanti sul futuro della Siria

Secondo il giornale israeliano Haaretz, Israele avrebbe chiesto alla Russia di garantire una zona cuscinetto, profonda tra i 60 e gli 80 Km, dalle alture del Golan ad Ovest della strada che collega Damasco alla città di Al - Suwayda nel Sud Ovest della Siria.
   Nella richiesta israeliana, l'area in questione, dovrebbe essere interdetta alle forze iraniane, agli Hezbollah e alle milizie sciite operanti sotto il coordinamento iraniano. I russi in realtà si sono limitati a promettere che gli iraniani ed i loro alleati resteranno ad una distanza di circa 5 Km dal confine israeliano.
   Lo stesso Premier Benjamin Netanyahu, così come i più alti funzionari iraniani, hanno più volte manifestato preoccupazione rispetto alla possibilità di ritrovarsi gli Hezbollah e gli iraniani sul confine. Ad oggi la stessa intelligence israeliana non avrebbe riscontrato elementi utili a dimostrare questa tesi, ma si ritiene che nel lungo periodo gli iraniani, insieme agli Hezbollah intendano posizionarsi lungo il confine con Israele e poter così disporre delle alture del Golan come un secondo fronte di guerra in caso di conflitto tra le IDF e gli Hezbollah in Libano.
   Tenendo ben presente questo scenario si comprende la guerra condotta, quasi sempre in silenzio, da Israele in Siria, sin dalle prime fasi delle rivolte anti - Assad del 2011. Sebbene confermati in una sola circostanza, sarebbero centinaia i raid e le operazioni speciali condotte dalle IDF contro gli Hezbollah e gli iraniani in territorio siriano.
   Una guerra segreta, con dinamiche differenti dall'insorgenza e dal confronto tra milizie, formazioni jihadiste e forze governative, che ha caratterizzato in questi fasi il conflitto siriano.
   Una guerra, che nelle intenzioni israeliane, serve ad impedire trasferimenti di armi dalla Siria al Libano e soprattutto prevenire possibili trasferimenti di tecnologia nelle mani degli Hezbollah. Sebbene le autorità israeliane abbiano a più riprese denunciato un incremento quantitativo dell'arsenale del Partito di Dio, confermato in più di un'occasione dalle minacce dello stesso leader Hassan Nasrallah, l'intelligence israeliana non ritiene che gli Hezbollah, nonostante gli sforzi iraniani, siano entrati in possesso di missili e razzi ad alta precisione.
   Questo tuttavia non limiterebbe il livello della minaccia e non garantirebbe l'assoluta capacità del sistema anti missile israeliano Iron - Dome, di intercettare tutti i razzi degli Hezbollah, lanciati contro Israele, in un possibile conflitto.
   Per queste ragioni il contenimento delle milizie sciite resta per Israele prioritario, soprattutto alla luce dello scenario che sembra delinearsi in Siria. La decisione di Donald Trump di interrompere il sostegno alle milizie anti - Assad, viene sempre più vista dai media israeliani come una pericolosa concessione alla Russia e all'Iran.
   Per questo motivo, molti analisti hanno interpretato il raid, non confermato né smentito dalle IDF, contro il Syrian Scientific Researches Centre di Masyaf, nella provincia di Hama, un preciso segnale sia agli Stati Uniti sia alla Russia.
   Un messaggio, inviato da Israele a Stati Uniti e Russia che, proprio lo scorso luglio al G20, hanno trovato un accordo su un limitato cessate il fuoco in Siria. Un messaggio al quale ha risposto, senza far riferimenti ad Israele, il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, che qualche giorno fa, ha accusato tutti coloro che operano in Siria, sul suolo o nello spazio aereo e senza l'approvazione delle autorità di Damasco, di violare il diritto internazionale. Lavrov ha quindi ribadito che la Russia sta collaborando con Damasco per sconfiggere il terrorismo, creare le condizioni per la fine della guerra civile e per assicurare la risoluzione politica della crisi. La Russia, sempre secondo Lavrov, insieme agli iraniani e gli Hezbollah, starebbe operando su invito del governo siriano.
   Una stoccata, quella del Ministro degli Esteri russo, che sembra anticipare la ridefinizione dei rapporti di forze nell'area in uno scenario in cui Mosca, da attore militare determinante per l'andamento delle operazioni sul campo al fianco di Assad, dovrà saper gestire il processo di dialogo nel prossimo 6o incontro delle trattative ad Astana, previsto per il mese di ottobre. Una formula, all'interno della quale operano Russia, Turchia ed Iran e che potrebbe non essere sufficiente a disinnescare le possibili e future tensioni tra Israele ed Iran.

(Gli Occhi della Guerra, 16 settembre 2017)


"Le reti dei nuovi antisemiti"

MILANO - Lunedì 18 settembre - alle ore 18 - presso la sala Toscanini a Palazzo delle Stelline in corso Magenta 61, si terrà la presentazione del libro "Le reti dei nuovi antisemiti", un'accurata indagine sul tema degli attuali antisemitismi a cura del giornalista Alberto Giannoni e di Davide Romano, assessore alla Cultura della comunità ebraica di Milano.
   Promotore dell'evento l'Eurodeputato di Forza Italia Stefano Maullu: "Mettere e rimettere al centro dell'attenzione il tema degli antisemitismi è di fondamentale importanza per prevenire ogni tipo di ritorno di fenomeni che hanno segnato tragicamente la storia in modo indelebile. Fenomeni che in varie forme, purtroppo, non scompaiono: per questo il libro di Giannoni e Romani è un punto di riferimento utilissimo. L'amicizia tra Italia e Israele, tra Milano e la sua comunità ebraica sono valori da tutelare e da difendere quotidianamente, partendo dal contrasto di certe tendenze di ritorno, anche semplicemente striscianti, che non devono trovare spazio per svilupparsi e diffondersi".
   All'evento prenderanno parte anche il consigliere regionale di Forza Italia Vittorio Pesato, Enrico Mairov dell'associazione Lombardia-Israele e Raffaele Besso, Presidente della comunità ebraica milanese.
La partecipazione è gratuita e al termine della presentazione è previsto un piccolo rinfresco.

(Milano Post, 16 settembre 2017)


La 'Festa del libro ebraico' a Ferrara si apre con la musica

Dibattito e concerto di Yakir Arbib alla Sala Estense

Yakir Arbib
FERRARA - Si apre questa sera, sabato 16 settembre, la 'Festa del libro ebraico a Ferrara', promossa dal Museo nazionale dell'Ebraismo italiano e della Shoah - Meis e quest'anno dedicata al tema 'Ebraismo, partecipazione e cittadinanza'.
Presso la Sala Estense (piazza del Municipio 2), alle 21 il sipario si alzerà sui saluti di Tiziano Tagliani, sindaco di Ferrara, Daniele Ravenna, consigliere del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per la tutela e la valorizzazione della memoria storica, Massimo Mezzetti, assessore alla cultura della Regione Emilia-Romagna, Rav Luciano Caro, rabbino capo della comunità ebraica di Ferrara, e Dario Disegni, presidente del Meis.
La scena passerà poi al pianista e compositore Yakir Arbib, vincitore di premi internazionali come il 'Montreux International Piano Jazz Competition'. Arbib si esibirà in 'Machloket: controversie musicali', una rivisitazione, tra jazz e classica, dei temi della musica ebraica italiana. Il concerto, introdotto dal direttore del museo, Simonetta Della Seta, è organizzato in collaborazione con il Jazz club Ferrara ed è a ingresso gratuito.
La festa è patrocinata dal MiBact, dalla Regione Emilia-Romagna, dal comune di Ferrara, dall'unione delle comunità ebraiche italiane e dalla comunità ebraica di Ferrara.

(estense.com, 16 settembre 2017)


Israele e Messico rilanciano i rapporti

CITTA DEL MESSICO - «Accordi nell'ambito di un percorso verso maggiore prosperità e sviluppo per le nostre società»: così il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha commentato i risultati degli incontri avuti ieri in Messico, terza tappa della sua visita in America latina, iniziata in Argentina e proseguita in Colombia. Il presidente Enrique Peña Nieto, ha accolto Netanyahu con parole di particolare soddisfazione sottolineando il «legame forte» esistente tra i due paesi. Quella di Netanyahu è la prima visita di un capo di governo israeliano in Messico da quando, nel 1952, sono state stabilite relazioni diplomatiche.
   Nel corso degli incontri a Città del Messico è stato deciso l'aggiornamento dell'accordo di libero scambio in vigore dal 2000 - l'unico finora siglato da Israele in America latina — che al momento non contiene alcun capitolo di servizi o investimenti. Inoltre, è stato stabilito che Israele appoggerà gli accordi di cooperazione esistenti tra il Messico e i tre paesi del triangolo settentrionale: El Salvador, Honduras e Guatemala. Sono stati anche firmati memorandum di intesa su temi inerenti all'innovazione tecnologica, su questioni urgenti che riguardano l'acqua e l'agricoltura. Nel 2016, le esportazioni del Messico in Israele ammontavano a 198 milioni di dollari statunitensi e le importazioni a 704 milioni. Con 150 società coinvolte, l'investimento diretto di Israele in Messico dal 1999 a oggi risulta essere stato di 2.202 miliardi di dollari.

(L'Osservatore Romano, 16 settembre 2017)


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