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Notizie 1-15 settembre 2022


Israele e tre paesi arabi rafforzano i loro legami militari e commerciali

A due anni dalla firma degli Accordi di Abraham, Israele ha stipulato un accordo di libero scambio senza precedenti con gli Emirati Arabi Uniti e un altro militare con il Marocco.

di Paolo Battisti

L’uomo che ha dichiarato la creazione dello Stato di Israele, David Ben Gurion, si è lamentato negli anni ’50 del fatto che la Turchia trattasse il suo Paese “come un’amante” piuttosto che una “coppia in un matrimonio ufficiale e riconosciuto”, cioè con incontri segreti e tanto zelo nel non sapere. Il 15 settembre 2020, due Paesi del Golfo, Emirati Arabi Uniti (UAE) e Bahrain, si sono fatti vedere mano nella mano con Israele, dopo anni di subdola cooperazione, firmando alla Casa Bianca i cosiddetti Accordi di Abraham, per coloro che stabilirono relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.

Il 15 settembre 2020, due Paesi del Golfo, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, si sono fatti vedere mano nella mano con Israele
Sono stati i primi paesi arabi a farlo dopo la Giordania (1994), rompendo un paradigma fondamentale in Medio Oriente, evidenziato nell’Iniziativa di pace araba del 2002: senza un accordo di pace con i palestinesi non ci sarebbe riconoscimento. La fine del tabù ha aperto le porte ad altri: il Sudan si è unito un mese dopo e il Marocco a dicembre. Gli accordi, ideati dall’amministrazione Trump, non sono rimasti lettera morta: la cooperazione militare è stata rafforzata, il commercio è in rapida crescita e fino a 450mila israeliani sono volati negli Emirati.
  Lo scorso maggio Israele ha firmato il suo primo accordo di libero scambio con un Paese arabo con gli Emirati, che esenta dalle tariffe il 96% del suo commercio. Le aziende israeliane lo vedono soprattutto come una piattaforma per l’Asia. Gli scambi sono cresciuti del 117% nella prima metà dell’anno e gli Emirati sono già l’undicesimo partner commerciale di Israele, secondo il suo ambasciatore negli Emirati Arabi Uniti, Hayek Amir.
  I due Paesi e il Bahrain hanno partecipato lo scorso novembre a un’esercitazione navale guidata dagli Usa nel Mar Rosso. Nello stesso mese Israele e Marocco hanno firmato un accordo di cooperazione militare senza precedenti nel mondo arabo che apre le porte alla vendita di armi. I ministri degli Esteri di Israele, Usa, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Marocco hanno fatto un ulteriore passo lo scorso marzo con la creazione dell’embrione di una sorta di alleanza difensiva regionale contro l’Iran.
  Tre mesi dopo, Naftali Bennett è stato ricevuto dallo sceicco e presidente degli Emirati, Mohamed Bin Zayed, nella sua residenza privata ad Abu Dhabi. È stato il primo capo del governo israeliano a mettere piede negli Emirati, dove hanno aperto diversi ristoranti kosher e una sinagoga. Ci sono già voli diretti tra Tel Aviv e Abu Dhabi, Dubai, Manama, Casablanca e Marrakech.
  “Sono passati due anni a velocità di crociera”, dice al telefono Shlomo Ben Ami, ex ministro degli Esteri israeliano e vicepresidente del Centro internazionale per la pace di Toledo, che confronta “l’intensità” dei nuovi legami con la “pace fredda” che regna con Egitto e Giordania, i primi Stati arabi a riconoscere Israele, nel 1979 e nel 1994.
  “Gli accordi sono stati una battuta d’arresto strategica di dimensioni storiche per la causa palestinese […] Dovrà essere la parte araba a condizionare l’alleanza a cui, in qualche modo, si è fatto qualcosa con la questione palestinese”, aggiunge. Gli accordi hanno anche superato la prova della violenza. I firmatari arabi hanno criticato l’offensiva israeliana a Gaza nel 2021, in cui 252 persone sono morte nella striscia e 11 in Israele, ma la rottura non è mai stata toccata.

Gli Emirati e il Bahrain sottolineano spesso che la firma ha fermato l’annunciata annessione israeliana di parte della Cisgiordania

Gli Emirati e il Bahrain sottolineano spesso che la firma ha fermato l’annunciata annessione israeliana di parte della Cisgiordania. Gli Stati Uniti hanno premiato la loro firma con la vendita di tecnologie armate all’avanguardia; al Marocco, con il riconoscimento della sua sovranità sul Sahara occidentale; e al Sudan, con la cancellazione dell’elenco dei paesi che promuovono il terrorismo.
  La normalizzazione con il Sudan è ostacolata dall’instabilità (ha subito un colpo di stato militare lo scorso ottobre) e l’opinione pubblica è ora più critica, secondo un sondaggio di marzo del Washington Institute for Near East Policy. Quasi l’80% dei bahreiniti e il 71% degli Emirati considerano gli accordi negativamente o molto negativamente, mentre rispettivamente il 45% e il 47% li ha sostenuti nel novembre 2020. Il governo Biden mantiene anche paralizzata la vendita di caccia F-35 ad Abu Dhabi, che è stata la chiave del suo sì.
  In Medio Oriente li ha solo Israele, dal momento che Washington modula le sue vendite di armi in modo tale che il suo principale alleato non perda mai la superiorità tecnologica militare. Gli Usa temono che la Cina – che ha rafforzato i suoi legami con gli Emirati durante la pandemia – raccolga dati grazie alla rete 5G della compagnia Huawei che vi opera, ha riportato lunedì il quotidiano israeliano Haaretz.
  Gli Emirati si sono avvicinati allo Stato ebraico per mano dello sceicco Mohamed Bin Zayed, presidente da maggio e, prima, suo sovrano de facto. Condividono la sfiducia nei confronti dell’Iran, ma non il tono minaccioso riguardo al suo programma nucleare. Tre anni fa, infatti, Abu Dhabi ha deciso di riconfigurare le proprie alleanze e di avvicinarsi a Teheran, dopo aver percepito i limiti dell’ombrello statunitense, che – più preoccupato per Cina e Russia che per Medio Oriente – lasciava attaccare le petroliere al largo degli Emirati.
  La vicinanza geografica dell’Iran e degli Emirati, che Israele vede come un’opportunità per un ipotetico attacco all’Iran, è proprio ciò che porta gli Emirati Arabi Uniti a badare a se stessi nella cooperazione militare, affermano i ricercatori Leonardo Jacopo Maria Mazzucco e Kristian Alexander in un articolo su il think tank spagnolo Real Instituto Elcano. “Dal punto di vista israeliano, l’accesso alle strutture negli Emirati ridurrebbe la distanza tra Israele e l’Iran […]
  Dal punto di vista degli Emirati, consentire a Israele di bombardare l’Iran dal suo territorio esporrebbe il paese a potenziali attacchi di ritorsione”. Il promotore dei patti, il genero e consigliere di Trump Jared Kushner, ha assicurato lunedì in un evento a Washington di aver negoziato “attivamente” con altri sei paesi, a cui non ha specificato, per aderire. Gli accordi hanno rivelato la solitudine dei palestinesi, già rassegnati alla perdita di uno dei pochi elementi di pressione che avevano lasciato: l’unità araba intorno al prezzo del riconoscimento.
  Né hanno contribuito a rilanciare il dialogo di pace, interrotto dal 2014.”L’obiettivo di Israele nel firmarli era di distogliere l’attenzione del mondo dalla sua occupazione militare, non di metterla fine”, hanno criticato Zaha Hassan, analista ed ex consigliere della squadra negoziale palestinese, e Marwan Muasher, in un articolo sulla rivista Foreign Policy lo scorso giugno, ex ministro degli Esteri giordano. “Dare priorità agli accordi di Abraham mentre si rimandano i diritti dei palestinesi invia messaggi chiari a entrambe le parti. Agli israeliani: avete mano libera per conquistare la Cisgiordania. Ai palestinesi: siete soli”.

(nanopress, 15 settembre 2022)

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Aaron Fait interverrà alla Giornata europea della Cultura ebraica: «Un mondo che ha sete ha bisogno di seguire l’esempio di Israele»

Alla Giornata europea della Cultura ebraica, Aaron Fait, agronomo dell’università di Beer Sheva,  parlerà dell’innovazione israeliana che raccoglie l’attualissima sfida alla desertificazione e traccia una linea guida per la salvaguardia del pianeta. Lo abbiamo intervistato.

di Paolo Castellano

Aaron Fait
Che l’acqua sia una risorsa preziosa per il Medio Oriente lo si comprende benissimo anche attraverso la letteratura israeliana. Quattordici anni fa lo scrittore Assaf Gavron nel suo libro Idromania (pubblicato in Italia da Giuntina) ha creato una storia in cui Israele e il mondo sono in preda a una irreversibile siccità dove le multinazionali hanno il completo controllo delle sorgenti e della distribuzione dell’acqua fresca. Per Gavron questa emergenza ambientale può essere mitigata soltanto dall’ingegno dell’uomo, capace di sfruttare la sua intelligenza per creare nuove tecnologie in grado di dissetare un pianeta allo stremo.
  Uscendo dalla fiction e tornando alla realtà di oggi, non soltanto israeliana ma anche italiana, a inizio settembre il Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione europea ha dichiarato che la stagione estiva del 2022 è stata la più siccitosa dal 1450. La siccità ha colpito duramente l’Italia causando 6 miliardi di danni all’agricoltura nazionale, a cui si aggiungono gli effetti catastrofici legati alla mancanza d’acqua, alla diffusione degli incendi, allo scioglimento dei ghiacciai. Se c’è un Paese al mondo che sin dalla sua fondazione ha dovuto affrontare e adattarsi a questi fenomeni è sicuramente lo Stato di Israele, che negli ultimi anni ha persino iniziato a desalinizzare il mare per produrre acqua potabile.
  Per questa ragione Mosaico ha deciso di intervistare Aaron Fait, biochimico e docente alla Ben Gurion University del Negev (che di questi temi parlerà alla Giornata europea della Cultura ebraica a Milano) per comprendere quali siano le attuali politiche israeliane nella gestione delle risorse idriche.

- Quali sono gli strumenti che Israele ha messo in campo per limitare lo spreco dell’acqua?
  Rispetto all’Italia, in Israele si investe molto nelle campagne di sensibilizzazione per rimarcare il valore dell’acqua. Si comincia con i più giovani negli asili e nelle scuole; si insegna loro a evitare sprechi quando ci si fa la doccia e ci si lava i denti. Questa consapevolezza ha la stessa importanza delle ricerche universitarie e dell’invenzione di nuove tecnologie. Per esempio, un’altra differenza tra Italia e Israele sulla gestione idrica è il controllo delle tubature. Se un tubo israeliano ha un problema l’amministrazione municipale o privata lo ripara subito. Tale coscienza permette un risparmio enorme di acqua potabile su tutto il territorio nazionale di Israele.
  Inoltre, mi ricordo che durante i difficili anni di siccità, dal 2005 al 2009, per le strade erano comparsi dei cartelloni pubblicitari in cui si utilizzava il fotomontaggio di una modella che si sgretolava con la frase “Israele si asciuga”. In quel periodo le campagne di sensibilizzazione erano davvero martellanti e avevano come obiettivo quello di stimolare condotte responsabili per affrontare una situazione già esistente. Grazie a quegli sforzi, costati anni e anni di lavoro, oggi in Israele non si spreca quasi più acqua e questo tema è molto sentito sul piano sociale.
  Purtroppo, al contrario di Israele mi sembra che l’Italia non stia adottando efficaci precauzioni su questo problema. A livello nazionale, la rete idrica italiana ha una percentuale media di perdita del 39%, 39 litri d’acqua ogni 100 litri immessi nei tubi. Sicuramente si dovrebbe incominciare subito a migliorare queste infrastrutture idriche.

- In concreto quali sono le politiche dell’attuale amministrazione israeliana riguardo la gestione delle risorse idriche?
  Per molti anni in Israele si è discusso sulla politica riguardante la desalinizzazione del mare per produrre acqua potabile. Questa soluzione è abbastanza recente ed è stata impiegata per attingere risorse idriche dal Lago di Tiberiade e da altri bacini acquiferi della costa e della zona montuosa che attraversa il Nord e Sud di Gerusalemme. A parte ciò, Israele è il primo Stato al mondo nel riutilizzo delle acque reflue. Certamente, lo si fa anche in Europa – la Spagna è molto migliorata su questo tema – ma non a livello dello Stato ebraico. Israele riutilizza l’86% delle sue acque di scarto domestiche e le ricicla per uso agricolo. Tempo fa, l’agricoltura israeliana si basava su acquiferi, acqua piovana e acqua dolce ma oggi non è più così. Questo cambio di tendenza ha scongiurato ulteriori competizioni e conflitti sullo sfruttamento delle risorse idriche: nel 1967 c’è stata una guerra per l’utilizzo delle sorgenti del Giordano tra Libano e Israele.
  Tuttavia, in agricoltura si effettua un uso dell’acqua a vari livelli. La si può desalinizzare quasi completamente – il procedimento è costoso e lo si fa per la coltivazione della vite – oppure lasciare una certa quantità di salinità nel liquido per le coltivazioni che la tollerano. In passato, la desalinizzazione è stata molto criticata ma poi si è diffusa grazie al mercato privato trainato da compagnie francesi del settore. La desalinizzazione del mare è sicuramente una delle tecnologie che saranno più sfruttate in futuro. Fortunatamente abbiamo delle alternative più sostenibili economicamente. Come è noto, l’agricoltura è in crisi in tutto il mondo e gli agricoltori rischiano di indebitarsi se il costo dell’acqua dovesse aumentare vertiginosamente. Certamente, sono convinto che con il passare del tempo la tecnologia di desalinizzazione diventerà più abbordabile da un punto di vista economico: ci saranno più impianti e probabilmente più competizione.

(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2022)

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Torna in Israele una rara moneta di 2.000 anni fa ritrovata negli Stati Uniti

di Jacqueline Sermoneta

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Gli Stati Uniti hanno restituito alle autorità israeliane una rara moneta d’argento, risalente a 2.000 anni fa. La cerimonia di riconsegna ufficiale è avvenuta lunedì scorso a New York. Dopo vent’anni di indagini, il prezioso oggetto è stato ritrovato grazie alla collaborazione internazionale tra l’Israel Antiquites Authority (IAA) e la polizia investigativa americana, in particolare il District Attorney’s Office di Manhattan. Lo riporta il comunicato dell’IAA.
  Secondo gli esperti, la moneta da un quarto di shekel (siclo) fu coniata nel 69 e.v. durante la Grande Rivolta Ebraica contro Roma (66-73 e.v.). “Il conio di monete d’argento da parte dei capi della Grande Rivolta – ha spiegato Ilan Hadad, archeologo e ispettore responsabile dell’unità di prevenzione furto di antichità dell’IAA (ATPU) – rappresenta una dichiarazione d’indipendenza degli ebrei nella Terra d’Israele, una dichiarazione contro il potente impero che stavano affrontando”.
  “Molte delle monete d’argento dei ribelli furono coniate su monete imperiali, coprendo il volto dell’imperatore con motivi ebraici. – ha aggiunto Hadad – Ciò conferiva un valore simbolico molto maggiore rispetto a quello della moneta stessa”.
  L’oggetto è stato trafugato da un sito archeologico nella Valle di Elah nel 2002 e, passando attraverso traffichi illeciti, è stato ritrovato dalle autorità americane nel 2017, quando, corredato di documenti falsi, era stato messo all’asta a Denver, in Colorado.
  Il quarto di shekel è molto raro. Se ne conoscono esclusivamente altri tre coniati in quel periodo: uno è stato acquistato negli anni Trenta dal British Museum e altri due “circolano” nel mercato nero delle antichità e tra i vari collezionisti.
  Matthew Bogdanos, a capo dell’unità che si occupa del traffico illecito di antichità per l’ufficio del District Attorney di Manhattan, ha affermato che il rimpatrio della moneta “rappresenta un prezioso pezzo di storia che finalmente torna a casa”.

(Shalom, 15 settembre 2022)

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Riflessioni sulla APARTHEID

Riceviamo direttamente dall'autore, un caro amico che vive a Gerusalemme. NsI

di Fulvio Canetti

L'informazione mediatica della galassia antisemita fa un gran chiasso, accusando lo Stato di Israele di ''apartheid politica'', quando c'è un partito arabo che rappresenta questa minoranza al Governo (Knesset) di Gerusalemme, giudici arabi-palestinesi che amministrano la Giustizia nei Tribunali, medici arabi che svolgono la loro professione nei vari Ospedali dello Stato ecc. Noi sappiamo che l'accusa di apartheid è una colossale menzogna atta a screditare lo Stato ebraico democratico, tacendo invece sulla vera'' apartheid religiosa'' che vige sul Monte del Tempio, dove agli ebrei è vietato entrare e persino pregare. A questi divieti si aggiungono le mistificazioni storiche dei musulmani, che pretendono di essere i ''Custodi'' dei suddetti luoghi santi, dove un tempo sorgeva il Tempio ebraico, frequentato dallo stesso Gesù di Nazaret nel giorno della sua maggiorità religiosa (Bar mitsvà).
  Perché dunque questa disinformazione, fabbricata ad arte, per incolpare Israele di apartheid? Un ripasso storico può farci capire le radici velenose di questa accusa inventata e ripetuta all'ennesima potenza, nella maldestra speranza che diventi verità. Il termine apartheid che significa ''separazione'' venne utilizzato per la prima volta nel 1915 da Jan Smuts primo ministro Sud-africano, che introdusse nel Paese elementi di segregazione razziale, rafforzati durante la seconda guerra mondiale dall'ideologia nazista. Negli anni '60 circa tre milioni di Sud-africani di etnia Bantù furono deportati in territori separati chiamati Bantustan e privati di ogni diritto politico e civile. Se rapportiamo questa sciagurata realtà politica a quella degli ebrei nel corso della loro storia in Europa, le somiglianze saltano agli occhi. L'apartheid della Chiesa cristiana verso gli ebrei è stata una regola continua, senza possibilità di appello, fino alla creazione di ''ghetti'' in tutta Europa. Cosa è la ''Teologia della sostituzione'' se non apartheid? Volersi sostituire a Israele e dimenticare questa orribile storia è cosa degna di un negazionista, che proietta sullo Stato democratico d'Israele, le sue insopportabili e pesanti responsabilità, che hanno portato all'antigiudaismo e alla Shoà. L'apartheid contro gli ebrei è iniziato da secoli, con una sistematica ''pulizia'' della Chiesa da tutta la Tradizione ebraica di Gesù, trasformando il Sabato in Domenica, cambiando le date della Pasqua in modo che il legame con la Pasqua ebraica andasse perduto e alterando ad usum delphini la Scrittura, con traduzioni a dir poco errate.(Vulgata).
  Accusare Israele di apartheid è un crimine che deve essere perseguito, conducendo questi signori alla sbarra della Giustizia, per mettere uno stop alle loro menzogne storiche e sradicare il male dalla nostra società. Lo Stato d'Israele è una spina nella loro gola, un pericolo mortale che potrebbe soffocare le loro mistificazioni, per cui è imperativo combatterlo fino alla sua estinzione, ma non passeranno!

(Notizie su Israele, 15 settembre 2022)

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“In Pronto Soccorso vedo un aumento delle morti improvvise, delle ischemie e degli infarti nei giovani”

Agostino Ciucci, il medico chirurgo intervistato da Giorgio Bianchi

Giorgio Bianchi sta girando l’Italia alla ricerca delle storie invisibili, le storie di coloro che non hanno accettato la narrazione dominante della crisi Covid. In questa intervista incontra Agostino Ciucci, medico specializzato in chirurgia generale che da oltre 20 anni lavora in pronto soccorso ed è docente di medicina d’urgenza, un campo che definisce “la sua passione da sempre”.
  Da medico stimato e considerato un punto di riferimento nel proprio campo, il dottor Ciucci si è ritrovato ad essere prima emarginato e poi sospeso. In un primo momento perché i protocolli proposti da Ministero della Salute gli sembravano inefficaci:

    Nel momento in cui sono venuto a contatto con i pazienti mi sono reso conto che stavamo sbagliando qualcosa, perché molti pazienti morivano. Già il solo fatto di pensare a un protocollo basato su Tachipirina e vigile attesa mi sembrava assurdo. Nella mia esperienza di medico la ‘vigile attesa’ non l’ho mai sentita, è un ossimoro. Per me non poteva esistere una cosa del genere, quindi ho cominciato a pensare a come potevamo gestire questa pandemia. Quali potevano essere le cure migliori da dare a questi pazienti, almeno nelle prime fasi”.
Data la sua attività in pronto soccorso, durante l’intervista Ciucci risponde ad una specifica domanda sull’aumento delle morti improvvise:
    “Non è esagerato dire che c’è stato un aumento delle morti improvvise. La maggior parte di queste morti sono legate all’infiammazione del tessuto cardiaco, alle aritmie. Molti pazienti muoiono per questo. La proteina Spike e l’Ace2 si ritrovano un po’ dappertutto ma è chiaro che se colpiscono alcuni organi come il cervello e il cuore il rischio di morte diventa molto alto. Sto vedendo un aumento delle ischemie cerebrali sotto i 50 anni, infarti nei pazienti giovani, problemi di origine nervosa: retiniti, infiammazioni di altre strutture nervose. C’è stato un aumento di osservazione di alcune patologie che prima si vedevano molto meno”.
(Libertà, Diritti, Rispetto, 14 settembre 2022)

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La Germania è in trattativa con Israele per il sistema di difesa antimissile Arrow 3

di Aurelio Giansiracusa

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Il Primo Ministro d’Israele, Yair Lapid, in visita in Germania ha affermato che Berlino è in trattative con Tel Aviv per l’acquisto del sistema di difesa missilistica Arrow 3.   Tale acquisto sarebbe dettato dalla volontà tedesca di rafforzare le proprie forze armate a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia creando una difesa antimissile multistrato nei confronti dei missili balistici.
  La Germania, a seguito dell’invasione russa, ha aumentato le sue spese militari ed ha stanziato un fondo speciale di 100 miliardi di euro per l’ammodernamento e potenziamento della Bundeswehr.
  Da parte tedesca le parole del premier Lapid sono state confermate sostanzialmente anche se è stato specificato che, al momento, non è stato sottoscritto alcun contratto.
  Il programma Arrow-3 è cogestito da Israele e Stati Uniti le cui Agenzie di Difesa Missilistica collaborano nello sviluppo, perfezionamento ed impiego.
  L’Arrow-3 rappresenta al momento l’unico sistema in Occidente in grado di intercettare i missili balistici allorquando questi sono ancora al di fuori dell’atmosfera terrestre.
  Il sistema israelo-statunitense è accreditato della capacità di intercettare missili balistici ad una distanza stimata di 2.400 km e ad altezze superiori i 100 km.
  Ad oggi, i sistemi della famiglia Arrow non sono mai stati esportati al di fuori di Israele. L’Arrow-3 si differenzia dalle precedenti versioni Arrow-2 ed Arrow-1 perché ricorre all’energia cinetica con impatto diretto sul bersaglio e rinuncia alla testata esplosiva per ingaggiare e distruggere i missili balistici ed i veicoli di rientro nell’atmosfera.
  Per ottenere tali risultati il missile è dotato di un “kill vehicle” caratterizzato da altissima manovrabilità e dotato di un sistema di ricerca a copertura emisferica estremamente sofisticato per individuare ed ingaggiare il bersaglio.
  Il missile Arrow-3 rientra nella categoria degli ipersonici ed è dotato di motore a razzo a due stadi.
  Attualmente, le controparti israelo-statunitense lavorano allo sviluppo della versione Arrow-4.
  Per la Germania si stima che il costo del programma dovrebbe aggirarsi attorno i 2 mld di euro e, oltre i missili intercettori ed il centro di comando e controllo, comprenderebbe anche l’acquisto del radar Green Pine per la scoperta ed il tracciamento dei missili balistici.

(Ares Osservatorio Difesa, 14 settembre 2022)

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Si discute a New York sull’istruzione ebraica. Ne parliamo con Rav Riccardo Di Segni

di Ugo Volli

Una forte polemica politica e giornalistica sta investendo il sistema educativo delle comunità chassidiche di New York. Gli ebrei dello stato di New York sono circa due milioni, la metà a New York city: il 12 per cento della popolazione e la più grande concentrazione ebraica del mondo al di fuori dello stato di Israele. Di questi oltre il 10 per cento, circa 250 mila, con una tendenza demografica in forte aumento, sono ebrei “chassidici”, che cioè vivono secondo le regole tradizionali dell’ebraismo dell’Europa Orientale. Il gruppo di gran lunga più numeroso è quello di origini ungheresi che prende il nome da Satmar, una città che oggi appartiene alla Romania: così conservatore da rifiutare ogni legittimità allo Stato di Israele. Satmar e le altre comunità chassidiche  mantengono un sistema scolastico molto tradizionale, incentrato sullo studio del Talmud e dei suoi commenti, con pochissima istruzione generale. Una lunga inchiesta del New York Times, pubblicata qualche giorno fa, ha accusato queste scuole di non fornire ai loro allievi alcuna nozione di scienze e storia, di insegnare loro solo pochissima matematica, un inglese del tutto insufficiente (perché la lingua d’uso è lo yiddish), proibendo ogni contatto col mondo circostante e rendendoli così incapaci di vivere al di fuori della comunità. Se si usano i test di valutazione delle scuole pubbliche, ha sostenuto il giornale, quasi tutti gli allievi di queste accademie chassidiche risultano insufficienti. La commissione statale per l’istruzione di New York voterà in questi giorni una delibera per obbligarle a inserire nell’insegnamento le materie di interesse generale. L’iniziativa ha suscitato una forte protesta dei gruppi chassidici, i quali sostengono che una regolamentazione del genere violerebbe la loro libertà religiosa e, più in positivo, che l’insegnamento tradizionale è un successo, produce giovani integrati nella società e capaci di condurre una vita ricca di senso e di affermazioni anche professionali. I problemi di New York non sono però affatto isolati: questioni analoghe sono state sollevate anche in Israele e alcune comunità chassidiche, come quelle di Belz, hanno accettato di inserire nel curriculum dei loro studi l’acquisizione delle competenze di base in materie laiche (inglese, ebraico, matematica, scienze), richiesta dal ministero dell’istruzione.
  La questione è delicata, perché riguarda il rapporto fra la conservazione della tradizione ebraica con l’integrazione nel mondo contemporaneo. Shalom ne ha parlato con Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità di Roma.

- Rav, che cosa pensa di questa polemica?
  Non si tratta affatto di una questione nuova, se ne discute da secoli. La discussione fu caldissima, per esempio, nel periodo dell’emancipazione degli ebrei europei. Ma non vi è mai stato un modello univoco, si sono avute diverse posizioni, dalla concentrazione quasi totale delle scuole sulle materie ebraiche a diversi gradi di apertura. E non vi sono mai state scuole ebraiche che non insegnassero competenze di base come a far di conto. Anche quando l’ebraismo italiano era del tutto tradizionale, abbiamo per esempio un importante responso di un maestro rabbinico del Settecento, Laudadio Sacerdoti di Modena, che delinea una scuola a tempo pieno, dall’alba al tramonto, in cui l’insegnamento tradizionale è predominante, ma c’è spazio anche per altre competenze di interesse generale.

- Perché dunque questo attacco alle scuole ebraiche?
  Me lo chiedo anch’io. L’articolo del New York Times è uscito in prima pagina l’11 settembre, quando forse c’erano altre cose su cui riflettere.

- L’insegnamento nelle scuole ebraiche italiane è molto più simile a quello laico, lasciando uno spazio limitato allo studio della tradizione ebraica. Le sembra una soluzione accettabile? Potrebbe essere migliorata?
  Quando le leggi razziste obbligarono tutte le comunità ad aprire delle scuole per i ragazzi espulsi dal sistema pubblico, queste scuole erano ebraiche perché frequentate da ebrei, ma avevano solo due ore alla settimana di materie ebraiche. L’abbandono della cultura ebraica è durato a lungo. Da allora è passato molto tempo e la situazione è certamente migliorata, ma ancora l’insegnamento ebraico è insufficiente. Io credo che bisognerebbe fare uno sforzo in più.

- I rabbini italiani hanno tutti anche una formazione alta in materie non religiose. Lei per esempio è anche un medico, come lo furono molti grandi maestri dell’ebraismo, a partire dal Rambam. Secondo lei questa doppia cultura è importante o costituisce un limite rispetto all’approfondimento della tradizione?
  Ci sono vantaggi e svantaggi. Il vantaggio è che la compresenza di due culture permette di vedere meglio la complessità delle cose. Lo svantaggio è la difficoltà, dovendo dividere lo studio, a raggiungere un livello di eccellenza. L’obiettivo di chi propone uno studio esclusivamente talmudico è di raggiungere l’eccellenza, di far crescere dei grandi maestri. Il nostro modello è quello dei collegi rabbinici, nati per impulso dei sovrani illuminati nell’Europa centrale dell’Ottocento, che chiedevano di affiancare alla cultura rabbinica anche competenze generali. Ma almeno in Italia c’era già una tradizione in questo senso.

(Shalom, 14 settembre 2022)

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GECE 2022. Benny Morris: “I palestinesi devono riconoscere la legittimità di Israele prima che si possa arrivare a una pace”

di Francesco Paolo La Bionda

Benny Morris è considerato uno dei più influenti rappresentanti della scuola dei “Nuovi storici” israeliani, che a partire dagli anni Ottanta hanno rimesso in discussione alcune visioni tradizionali dei conflitti arabo-israeliani, con tesi molto dibattute che gli hanno portato sia critiche sia apprezzamenti da entrambi gli schieramenti.
  Morris sarà a Milano il 18 settembre prossimo per la XXIII edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, che si terrà presso la Sinagoga Centrale di via Guastalla. Alle 15, intervistato da Niram Ferretti, parlerà del passato, presente e futuro di Israele.

- Lei e altri storici israeliani, categorizzati come “nuovi storici”, avete offerto una ricostruzione diversa del passato del vostro paese, in particolare riguardo alla sua fondazione. Le vostre tesi sono state sia accolte sia criticate: a che punto è oggi il dibattito storico su questo tema?
  Quando io e altri storici abbiamo scritto e pubblicato le nostre revisioni storiche negli anni Ottanta e Novanta c’è stato un dibattito effettivamente molto acceso, in particolare riguardo alle nostre tesi riguardo alla guerra del 1948 tra Israele e gli stati arabi. Da allora, penso che molte delle nostre conclusioni, in particolare le mie sulla genesi del problema dei rifugiati palestinesi, siano state accettate dal mondo accademico, incluse alcune persone che inizialmente le avevano contrastate.
  Oggi le nostre tesi vengono insegnate anche nelle scuole, in particolare nei corsi universitari. All’interno del ministero dell’Educazione israeliano però negli ultimi vent’anni i titolari del dicastero, tutti di destra, hanno cercato di respingere le nostre nuove interpretazioni storiche a favore di quelle precedenti.

- Riguardo al problema dei rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno è diventato oggi uno dei nodi più spinosi nelle relazioni tra Israele e i palestinesi. Quanto pesa oggi sulla possibilità di trovare una soluzione permanente al conflitto?
  Il problema dei rifugiati esiste ormai da oltre settant’anni e il diritto al ritorno è la questione probabilmente più importante per i palestinesi, che la considerano una conditio sine qua non per il raggiungimento di un qualsiasi nuovo accordo, rifiutando anche l’ipotesi di un risarcimento come alternativa. Il problema però è che i 700.000 rifugiati del 1948 oggi sono diventati, tramite figli e nipoti, oltre 5 milioni, e se rientrassero in Israele, lo trasformerebbero istantaneamente in un paese a maggioranza araba. Questa è la ragione per cui tutti i governi israeliani si sono sempre opposti a questa eventualità.

- Secondo lei, è necessario che israeliani e palestinesi elaborino una versione condivisa della storia per arrivare alla pace o è possibile ottenere questo risultato anche conservando letture diverse degli eventi?
  Credo che in realtà il maggior ostacolo a una possibile pace sia il rifiuto dei palestinesi di accettare la legittimità del sionismo e di Israele. Anche prima del 1948, la leadership palestinese, che allora aveva ancora un’identità solamente araba, aveva rifiutato categoricamente che potesse esserci una sovranità ebraica su qualsiasi parte della regione palestinese. E questa posizione si è conservata fino a oggi: Hamas lo dichiara apertamente, Fatah invece in modo più sfumato, ma entrambi continuano a ritenere illegittima la presenza ebraica in Palestina.

- Le rivolte degli arabi israeliani lo scorso anno, dopo decenni di apparente pacificazione, hanno rivelato tensioni superiori a quello che si credeva. Che cosa è cambiato?
  Dopo il conflitto del 1948, i palestinesi rimasti in Israele erano una minoranza sconfitta. La loro leadership era quasi tutta fuggita all’estero e a rimanere erano stati soprattutto contadini poco istruiti. Hanno accettato la sovranità israeliana perché non avevano alternative. Oggi i giovani sono maggiormente affiliati al nazionalismo palestinese e sanno che la natura democratica di Israele pone un limite alla sua capacità repressiva. Le rivolte dello scorso anno rivelano un grosso problema, che non credo migliorerà: la presenza di una minoranza all’interno dello Stato che non nutre sentimenti di lealtà verso lo stesso.

- Mentre nei suoi primi trent’anni Israele ha dovuto combattere contro paesi arabi, oggi il suo avversario principale è l’Iran, di cultura persiana. Al contrario, con gli Accordi di Abramo diversi paesi arabi si sono riavvicinati allo Stato ebraico. Crede che il mutato atteggiamento da parte di un pezzo del mondo arabo verso Israele sarà permanente o si tratti solo di una fase temporanea?
  Lo sapremo con certezza solo tra cinquanta o cento anni. In generale, resto convinto che il mondo arabo e il mondo musulmano in generale continuino a rifiutare la legittimità e l’esistenza di Israele. Chi ha siglato una pace lo ha fatto sulla base di una considerazione pratica, avendo compreso di non poter battere militarmente lo Stato ebraico. I paesi che hanno stretto accordi nel corso degli anni, a partire dall’Egitto, non sono paesi democratici: la decisione è stata presa da élite dominanti, che non rispecchiano il sentimento generale della popolazione. Al contrario, ritengo che invece la maggioranza degli israeliani desideri sinceramente di arrivare a una pace vera con i paesi arabi.

(Bet Magazine Mosaico, 14 settembre 2022)

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Nuovo premio Campiello, stereotipi antisemiti?

di Elisabetta Fiorito

Gli stereotipi antisemiti sono vecchi come il mondo, ma non ci aspettavamo di ritrovarli, anche magari involontariamente, nel romanzo di un ventisettenne, Bernardo Zannoni, “I miei stupidi intenti” edito da Sellerio, vincitore del premio Campiello. Una vittoria a sorpresa, ma ancora più eclatante è che tutti i giurati non se ne siano accorti fin dalle prime pagine.
  Il protagonista di questo mondo immaginario ma non troppo è una faina, Archy, che viene venduta dalla madre alla volpe, un usuraio di nome Salomon, ma guarda un po’ perché un usuraio deve avere un nome tipicamente ebraico? “Capitava che comprassero le cose da Solomon l’usuraio. Solomon segnava tutto quello che vendeva con una piccola macchia di colore”. Il povero Archy viene ceduto in quanto zoppo. “Una gallina, Annette, non ti darò di più. La vecchia volpe entrò in un’altra stanza e tornò con un pollo senza testa. In una delle cosce aveva un segno che conoscevo, quello di Solomon l’usuraio”.
  Archy comincia così la vita con Solomon e il suo guardiano, il cane Gioele, altro nome ebraico, di un profeta. Nel primo giorno di permanenza in schiavitù, Solomon lo porta fuori dalla tana su una collinetta dove ovviamente gli dice: “fin dove vedi è tutto mio”. Archy, terrorizzato dal cane Gioele e con una corda al collo, è costretto a fare buon viso a cattivo gioco. Ma Solomon è anche buono e dopo avergli dato da mangiare soltanto per sopravvivere quando non sbaglia gli dà perfino una coscia di pollo. Perché Solomon legge la Bibbia e dice ad Archy che Dio ha fatto quasi uccidere Isacco ad Abramo, che ha creato il mondo in sette giorni, ma non trascura gli affari. “Non gli sfuggiva un solo giorno di ritardo, né il benché minimo debito fosse stato solo un seme. Tutti pagavano con regolarità”.
  E qui l’eco si fa shakesperiana. “Prima di trattare, il cliente dava un ciuffo della sua pelliccia. Era importante, per l’odore. Scaduti i suoi giorni, se non aveva pagato, il cane prendeva quel ciuffo e spariva nel bosco tornava con le merci dovute o con il proprietario. Nessuno faceva il furbo con Solomon l’usuraio”. Libbra di carne o ciuffo? Questo il dilemma caro Shylock…
  Solomon, però, continua con il suo indottrinamento, spiega ad Archy che Dio agli egizi ha lanciato dieci piaghe, ma attenzione a non perdersi in inutili elucubrazioni perché “Solomon non avrebbe capito, mi avrebbe picchiato come gli ebrei con gli infedeli”. Di solito, la storia insegna che è successo il contrario… Gli affari, però, sono affari. “Il figlio del tasso sapeva che doveva pagare, cinque giorni dopo giunse nel prato con il pagamento dovuto. Come sta tuo padre? Molto male, Solomon grugnì. Gli interessi?”.
  C’è poi il coniglio Tito che non estingue il debito e il cane Gioele ammazza uno dei suoi figli o il maiale furbetto che, guarda il caso, si chiama David. Del resto, la Bibbia è severa e Dio spietatissimo, così Solomon chiede ad Archy: “Sai che fine ha fatto l’uomo che raccoglieva la legna di sabato?”.
  Ma come è arrivata la volpe a diventare Solomon l’usuraio? Prima era soltanto un brigante. “Non c’era bandito più sveglio di lui. Un giorno, vagabondando, incontrò un uomo appeso a un albero. Cercando di arrivare più in alto, qualcosa gli cadde sulla testa. Era il libro di Dio. Aveva iniziato a fare l’usuraio poco dopo aver scoperto Dio, grazie ai suoi insegnamenti”.
  Inutile dire che Solomon ad un certo punto morirà e vorrà essere seppellito, Archy continuerà a vivere e che incontrerà anche un vecchio amico di Solomon, la lince Gilles che accusa di essere stato derubato della famosa Bibbia che diventerà come l’anello di Frodo nel Signore degli Anelli. E che Solomon, anche se era volpe, usuraio e studioso della Bibbia, non era cattivo.

(Shalom, 13 settembre 2022)
  
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Zannoni e l'accusa di antisemitismo

di Stefania Vitulli

«Sono profondamente colpito che la rivista Shalom abbia intuito riferimenti antisemiti nel mio romanzo. Davvero, mi addolora. Ho sempre provato fascino per l'ebraismo, per le sue storie dense di significati, i nomi più belli che esistano a questo mondo. Certo, nel libro ci sono riferimenti a loro, non ne ho potuto fare a meno, nemmeno ho voluto». La replica è quella di Bernardo Zannoni - 27enne autore di I miei stupidi intenti, vincitore una decina di giorni fa del Premio Campiello all'accusa di Shalom.it, magazine online della comunità ebraica di Roma, di usare «stereotipi antisemiti» nel romanzo. «Perché un usuraio deve avere un nome tipicamente ebraico?», si chiede Shalom.it (il nome in questione è Solomon, volpe protagonista insieme ad Archy la faina del libro di Zannoni). «Gli stereotipi antisemiti sono vecchi come il mondo, ma non ci aspettavamo di ritrovarli, anche magari involontariamente, nel romanzo di un ventisettenne vincitore del premio Campiello... Ma ancora più eclatante è che tutti i giurati non se ne siano accorti fin dalle prime pagine». Se il Campiello afferma che i suoi giurati non rilasciano dichiarazioni in merito, Zannoni invece: «Non ho mai avuto intenzione di ridurre il mio personaggio a uno stereotipo: Solomon è anche colui che regala ad Archy la scrittura e la lettura, la capacità di interrogarsi sulla vita, sulla morte, la liberazione dalla ferinità. Se qualcuno si è sentito offeso non era mia intenzione e mi dispiace molto».
  La faina Archy conosce Solomon dopo essergli stato ceduto in schiavitù perché zoppo, in cambio di una gallina. Gli «stereotipi antisemiti» secondo Shalom includono anche un'eco dal Mercante di Venezia di Shakespeare: «Prima di trattare, il cliente dava un ciuffo della sua pelliccia. Era importante, per l'odore. Scaduti i suoi giorni, se non aveva pagato, il cane prendeva quel ciuffo e spariva nel bosco, tornava con le merci dovute o con il proprietario. Nessuno faceva il furbo con Solomon l'usuraio». «Libbra di carne o ciuffo? Questo il dilemma caro Shylock», sottolinea l'articolo, che prosegue citando Solomon pronto a picchiare Archy «come gli ebrei con gli infedeli», Solomon che diventa usuraio «poco dopo aver scoperto Dio, grazie ai suoi insegnamenti» o il cane Gioele spedito ad uccidere i figli di chi non estingue il debito.

(il Giornale, 14 settembre 2022)

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Iran e Israele litigano sul nucleare

Il Mossad: «Non prenderemo parte alla farsa di un accordo». Deluso da Biden, Lapid vola a Berlino. Rilanciando l'intesa, gli Usa rischiano di mettersi da soli in un vicolo cieco.

Resta alta la tensione per quanto riguarda il rilancio del controverso accordo sul nucleare iraniano. Il direttore del Mossad, David Barnea, ha reso noto ieri che, anche qualora l'intesa fosse ripristinata, l'agenzia di intelligence israeliana non cesserà le sue operazioni contro l'Iran. «Anche se viene firmato un accordo nucleare, non darà all'Iran l'immunità dalle operazioni del Mossad», ha detto Barnea, secondo quanto riportato dal sito Axios. «Non prenderemo parte a questa farsa e non chiudiamo gli occhi sulla verità provata», ha aggi unto. Il direttore del Mossad ha anche assicurato che Israele garantirà una «dolorosa rappresaglia» in caso di attacchi iraniani ai danni dello Stato ebraico o dei suoi cittadini. 
  Non va del resto dimenticato che il premier israeliano, Yair Lapid, ha manifestato profondissima preoccupazione per il tentativo di rilancio dell'accordo sul nucleare: un accordo che Gerusalemme considera (non senza ragione) un pericolo per la propria sicurezza. Quando a fine agosto sembrava che la firma fosse imminente, il governo israeliano ha trasmesso tutto il suo allarme e il suo disappunto a Joe Biden che, discostandosi nettamente dalla linea del predecessore, sta cercando di rilanciare l'intesa da oltre un anno. 

• FREDDEZZA CON BIDEN 
  Attriti su questo dossier tra il premier israeliano e il presidente americano si erano d'altronde palesati durante la visita di quest'ultimo in Israele lo scorso luglio. All'epoca, il Times of Israel parlò di «frustrazione» da parte dei funzionari di Gerusalemme nei confronti delle posizioni eccessivamente blande tenute da Biden verso l'Iran. Non è un caso che, domenica, Lapid si sia recato a Berlino, per cercare di convincere il governo tedesco a non sostenere il rilancio dell'intesa. 
  In tutto questo, nelle ultimissime settimane, i negoziati per il ripristino dell'accordo erano tornati in salita. A complicare ulteriormente la situazione è stato l'ultimo rapporto dell'Aiea, che ha dichiarato «di non essere in grado di fornire garanzie che il programma nucleare iraniano sia esclusivamente pacifico». Tra l'altro, secondo l'agenzia, le scorte di uranio arricchito dell'Iran superano di 19 volte i limiti consentiti dall'intesa del 2015. Se Teheran ha respinto le accuse definendole politicamente immotivate, tale rapporto ha senza dubbio creato più di un imbarazzo a Biden. In questo quadro, le relazioni tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica sono tornate a irrigidirsi: Washinton ha comminato infatti di recente delle nuove sanzioni a Teheran sia in riferimento al cyberattacco iraniano ai danni dell'Albania sia per quanto riguarda la questione della fornitura di droni ai russi. 

• COME STA KHAMENEI? 
  Infine un'ulteriore incognita è rappresentata dalla salute dell'ayatollah Ali Khamenei: domenica scorsa, il Daily Express ha riferito che il leader supremo sarebbe sul letto di morte a causa di un cancro. Non è al momento chiaro se ci siano riscontri di tale indiscrezione: tuttavia, se fosse confermata, una simile situazione determinerebbe degli impatti politici di vastissima portata, in grado di influenzare anche i negoziati sul nucleare iraniano. 
  Più in generale, va rilevato il paradosso di Biden nel suo tentativo di rilanciare questo accordo. Al di là del problema della sicurezza israeliana, uno dei principali fautori dell'intesa iraniana è sempre stata Mosca che, non a caso, è una stretta alleata di Teheran. L' accordo sbloccherebbe rilevanti fondi della Repubblica islamica e, secondo il Jerusalem Post, potrebbe garantire un accordo miliardario alla società statale russa Rosatom. Insomma, ripristinando quest'intesa, Biden rischia paradossalmente di fare un favore a Vladimir Putin, indebolendo indirettamente gli effetti delle sanzioni occidentali alla Russia. Senza dimenticare poi i rapporti sempre più stretti dell'Iran con altri storici avversari di Washington, come il Venezuela e la stessa Cina. Insomma, rilanciando l'accordo sul nucleare, Biden rischia di mettersi da solo in un vicolo cieco . 

(La Verità, 13 settembre 2022)

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Israele avverte l’ONU che l’Iran ha triplicato la capacità di arricchire l’uranio

Il ministro della Difesa cita l’intelligence israeliana secondo cui le capacità di arricchimento dell’uranio nel sito di Fordo sono triplicate e invita il Consiglio di sicurezza a preparare sanzioni contro Teheran
  In chiusura del suo viaggio negli Stati Uniti il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato nella tarda serata di lunedì che l’Iran ha triplicato le sue capacità di arricchimento dell’uranio.
  «Il numero di centrifughe avanzate in possesso dell’Iran è notevole», ha dichiarato Gantz agli ambasciatori che rappresentano i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prima della sua partenza per Israele.
  Il ministro della Difesa ha incontrato lunedì il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres e l’ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield.
  Il ministro della Difesa ha detto ai diplomatici che le agenzie di intelligence israeliane hanno scoperto che l’Iran ha fatto molti progressi nel suo programma nucleare.

«L’Iran ha triplicato la sua capacità di arricchire l’uranio nell’impianto di Fordow», ha detto, aggiungendo che, secondo il JCPOA, all’Iran è vietato arricchire l’uranio in quel sito.
«L’Iran attualmente arricchisce l’uranio al 60%, ma se decide di farlo può portarlo facilmente al 90%», ha dichiarato.
«Dobbiamo agire per preparare una risposta operativa ed economica e impedire un nuovo accordo che favorisca gli iraniani senza farli arretrare», ha detto Gantz. 
La questione deve essere affrontata anche attraverso le azioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite», ha aggiunto.
Gantz che ha accusato la Repubblica islamica di essere la principale responsabile della destabilizzazione del Medio Oriente.
«Può promuovere il terrorismo e una corsa agli armamenti. Credo che possa essere fermato e che il momento di agire sia adesso», ha dichiarato.
«L’Iran minaccia l’economia mondiale, le fonti energetiche, il prezzo dei prodotti alimentari e il commercio, nonché il libero flusso del traffico marittimo. Se otterrà un’arma nucleare, le cose peggioreranno ulteriormente», ha detto Gantz.

(Rights Reporter, 13 settembre 2022)

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Consegna alla Farnesina del Premio Rita Levi-Montalcini 2022 al genetista israeliano Assaf Distelfeld

Oggi 13 settembre 2022, a partire dalle ore 11.30, si svolgerà al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale la Cerimonia di consegna del Premio Rita Levi-Montalcini per la Cooperazione Scientifica. L’edizione 2022 è dedicata allo sviluppo delle tecnologie genomiche per un’agricoltura sostenibile. Il Premio sarà assegnato quest’anno al Prof. Assaf Distelfeld dell’Università di Haifa, Dipartimento di Biologia Evolutiva e Ambientale.
  Il conferimento di questo importante riconoscimento, finalizzato a promuovere l’interscambio di studiosi di prestigio tra Italia e Israele, è una delle iniziative di maggior rilievo nel quadro dell’Accordo di cooperazione industriale e scientifico-tecnologica tra i due Paesi. Il Premio – finanziato dalla Direzione Generale per la promozione del Sistema Paese del MAECI – sostiene il soggiorno di uno scienziato israeliano presso un’Università o un Centro di ricerca italiano per la realizzazione di un programma di ricerca congiunto della durata di 4 – 6 mesi.
  La cerimonia di consegna del premio rinnova annualmente l’impegno reciproco ad accrescere ulteriormente il dialogo bilaterale nella conoscenza e nell’innovazione, creando nuovi legami tra le comunità scientifiche e celebrando l’eredità scientifica della scienziata Rita Levi-Montalcini, figura di incredibile valore, la cui vita continua ad essere fonte di ispirazione.
  All’evento, moderato dal Vice Direttore Generale per la Promozione del Sistema Paese, Min. Plen. Liborio Stellino, interverranno la Vice Ministra agli Affari Esteri Marina Sereni, i Presidenti dei maggiori centri di ricerca italiani, i Rettori di diverse Università e altri rappresentanti del mondo accademico. È prevista altresì la presenza di alti rappresentanti dell’Ambasciata di Israele, della CRUI e del MUR, nonché della nipote della Prof.ssa Rita Levi-Montalcini, Ing. Piera Montalcini.

(Ministero degli Affari Esteri, 13 settembre 2022)

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Ebrei nel Rinascimento: partito il nuovo progetto di studio

di Sarah Tagliacozzo

È iniziato il convegno “Uncommon sources and where to find them: Jews in Politics in Long Renaissance Italy (13th- 17th century)”, un’iniziativa culturale volta ad affrontare temi legati alla partecipazione ebraica nel panorama politico rinascimentale, come veniva formulato il pensiero in materia, nonché l’esigenza della minoranza ebraica di continue negoziazioni politiche ed economiche rilevabili nelle fonti.
  È previsto un fitto programma con incontri in più sedi: l’Università Sapienza, l’École Française de Rome, una visita al Museo ebraico e all’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma “Giancarlo Spizzichino”. Queste giornate di studio si svolgono nell’ambito di un progetto ricchissimo che durerà 5 anni,  prevedendo intrecci di più prestigiose istituzioni e pubblicazioni.
  La professoressa Serena Di Nepi ha introdotto magistralmente il convegno facendo una panoramica sulla percezione, la rappresentazione e l’autorappresentazione degli ebrei nel tempo,  quando di volta in volta gli stereotipi influivano sui rapporti sociali e gli ebrei venivano trattati come minoranze da opprimere, come «esseri esotici» secondo la descrizione di Thomas Coryat, che nel 1600 visita e descrive per primo il ghetto di Venezia, ma anche come collaboratori del governo, come ben dimostra Daniele da Pisa che nel 1524 ebbe l’incarico di redigere i Capitoli che regolavano la gestione ed il governo della universitas di Roma, che poi vennero ufficialmente ratificati dal governo papale. Di Nepi ha insistito sul delicato equilibrio che gli ebrei dovevano mantenere per affermare o difendere i propri diritti ed i propri membri senza provocare reazioni e conseguenze negative per l’intera comunità, adottando strategie che possono apparire lente e prudenti.
  Il professor Giuseppe Veltri (Universität Hamburg) ha quindi aggiunto che l’intento del convegno è quello di proporre una diversa visione degli ebrei e dei loro rapporti con la politica.
  Secondo la professoressa Arianna Punzi, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia alla Sapienza Università di Roma, «siamo di fronte ad una questione nodale, strategica: riflettere su come e quale sia stato il ruolo attivo nella politica italiana della comunità ebraica in quello che viene chiamato il Lungo Rinascimento (dal Duecento al  Seicento). Questa è una riflessione che naturalmente sottrae ad una idea, forse  anche molto superficiale, di isolamento da parte di una minoranza», spiega la professoressa, secondo la quale si tratta di una indagine interessate per  «un’epoca durante la quale la riflessione politica è stata fondamentale, come mi sembra molto interessante il lavoro sulle fonti. Ci troviamo di fronte ad una occasione anche per riscrivere un pezzo di storia, e questo è qualcosa che non si può che salutare con grande entusiasmo».
   Il Vicedirettore Dipartimento SARAS, Sapienza Università di Roma, professore Alessandro Saggioro nell’intervento di ringraziamento ha evidenziato «l’amicizia e costante collaborazione, profonda e vera, con la Comunità ebraica» e l’importanza di un convegno come questo che «non è solo un convegno, uno scambio di opinioni, ma un  modo per vivere la città»
  Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma, ha elogiato la Sapienza, ricordando che «gli approfondimenti che l’Ateneo ha dedicato agli studi ebraici costituiscono un unicum nel panorama nazionale: un’attenzione destinata a valorizzare il rapporto sinergico, empatico, dinamico che il mondo ebraico ha avuto in questo paese  con la società civile. L’approfondimento specifico dedicato al Rinascimento e a come la politica delle universitas abbia influito nel contesto collettivo è particolarmente importante perché suggerisce quanto il pensiero ebraico nelle sue diverse forme abbia influenzato ed inciso nella storia del nostro paese e quanto questo, ben prima della emancipazione, sia stato un motore di crescita in un contesto in cui il mondo ebraico non era percepito come una minoranza ma come parte della cultura del nostro territorio. Si vede dai Responsa rabbinici, dalle prediche che avvenivano nelle sinagoghe  dai tanti documenti che attraverso i nostri archivi si possono vedere».
  Tra i numerosi interventi si può ricordare quello del Professore Todeschini che ha fatto un excursus su come gli studiosi nel tempo abbiano affrontato la suddetta tematica, rilevando quanto sorprendentemente gli ebrei siano stati presi in considerazione solo dal punto di vista economico, senza considerare invece le interazioni politiche tra la comunità ebraica e la società civile in cui viveva.
  Il convegno proseguirà nell’affascinante cornice della École Française de Rome.

(Shalom, 13 settembre 2022)

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Vettore aereo El Al Israel restituisce prestiti

Accordo aerolinea-ministero finanze per anticipare rimborso.

TEL AVIV - La compagnia di bandiera El Al Israel rimborserà entro la fine dell'anno un prestito di 45 milioni di dollari ricevuto dal governo di Tel Aviv durante la pandemia. Si tratta del frutto di un accordo raggiunto tra il vettore aereo ed il ministero delle finanze che prevede la restituzione della somma con due anni di anticipo. Al momento l'aerolinea non potrà ancora pagare dividendi o riacquistare azioni proprie fino al 2028.
"Sono sicuro che la mossa porterà a migliorare la capacità di El Al di crescere ed affrontare un mercato competitivo ed una realtà in evoluzione, consolidando la crescita dell'azienda e migliorando i suoi risultati, al fine di creare flessibilità di gestione, anche alla luce della crescente domanda di viaggi", ha affermato l'amministratore delegato dell'aviolinea Dina Ben Tal Ganancia. 
Il prestito dell'esecutivo faceva parte di un pacchetto governativo per aiutare la compagnia aerea a superare la crisi pandemica, che ha provocato un crollo delle entrate e dei profitti e 1900 licenziamenti, quasi un terzo del personale. Il rimborso del prestito allenterà una serie di restrizioni alla spesa, che consentirà all'aviolinea di aggiornare le rotte, assumere personale, noleggiare nuovi aeromobili e fare nuovi investimenti.

(AvioNews, 13 settembre 2022)

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Gli Ultras del PSG boicottano la trasferta di Champions League al Maccabi

Per protestare contro le misure di sicurezza “eccessive” dello Stato israeliano

di Oliver Barker

PARIS SAINT-GERMAIN - Gli ultras stanno BOICOTTANDO uno scontro in trasferta contro la squadra israeliana Maccabi Haifa a causa di restrizioni di sicurezza “eccessive”.
  Il club francese affronterà mercoledì sera i campioni d’Israele in Champions League. I fan hanno protestato contro le "eccessive" misure di sicurezza messe in atto dallo stato israeliano, Ma Lionel Messi e compagni non saranno acclamati dal gruppo fanatico Collectif Ultras Paris. I sostenitori del PSG hanno criticato le “restrizioni aggressive” che si dice siano state messe in atto dallo stato israeliano. E di conseguenza hanno deciso di non protestare non viaggiando per vedere la loro squadra in azione.
  In un comunicato si legge:
“Mercoledì 14 settembre, il nostro club Paris Saint-Germain si recherà ad Haifa per la nostra seconda partita del girone di Champions League contro il Maccabi.
Deploriamo le condizioni di sicurezza per la presa di libertà messe in atto dallo stato israeliano per recarsi nel paese. Ci opporremo sempre a restrizioni aggressive alle nostre libertà durante i nostri viaggi in trasferta.
In queste condizioni, ci sentiamo costretti a boicottare questa trasferta a fronte di queste restrizioni eccessive. Allez Parigi!!”
I campioni di Francia hanno battuto la Juventus 2-1 nella prima partita del girone di Champions League la scorsa settimana.
  Nel frattempo, oggi la polizia francese ha emesso avvertimenti di sicurezza ai tifosi dell’Eintracht Frankfurt diretti a Marsiglia per l’incontro di Champions League di domani.

(Tebegeek, 13 settembre 2022)

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Marocco - Israele aprirà un ufficio commerciale nel 2023

MAROCCO – A due anni dalla firma dell’accordo di normalizzazione tra Israele e Marocco, il ministro dell’Economia e dell’industria israeliano Orna Barbivai ha annunciato un ulteriore passo avanti nelle relazioni tra i due Paesi: l’apertura di un ufficio commerciale israeliano in Marocco nel 2023 per promuovere il commercio e gli investimenti tra due Paesi.
Intervenendo alla Morocco Israel business conference, Barbivai ha detto che “il legame con il Marocco sembra la cosa più naturale al mondo. C’è una volontà reciproca di promuovere processi economici efficaci. Gli accordi di Abramo testimoniano il fatto che Israele è aperto alla pace con chiunque lo desideri e le opportunità economiche sono straordinarie.
Il Marocco è solo l’inizio e il potenziale è enorme”. La futura apertura di un ufficio di addetto economico mostra che Israele vede nei nuovi rapporti diplomatici con il Marocco un potenziale commerciale ed economico consistente. L’ufficio ha lo scopo di realizzare il potenziale sia dei legami con il Marocco stesso sia dei suoi accordi commerciali con l’Europa e con i paesi africani.

(InfoAfrica, 12 settembre 2022)

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GECE 2022: la memoria della Shoah in Israele, fra passato, presente e futuro

di Ilaria Myr

“Vittime nel Paese degli eroi” è il titolo della conferenza che lo storico francese Georges Bensoussan terrà domenica 18 settembre alle 11.30 nella Sinagoga centrale di Milano durante la Giornata europea della cultura ebraica.
  «Voglio dimostrare al pubblico che l’impressione che la memoria della Shoah sia sempre stata centrale in Israele fin dalla sua nascita non è corretta – spiega Bensoussan a Mosaico -. Dal 1945-48 la memoria della Shoah in Israele era invece molto discreta: cercherò quindi di affrontare il tema del  perché i primi israeliani hanno parlato così poco della Shoah e perché lo consideravano un ricordo vergognoso e, soprattutto, come si è passati da una memoria vergognosa a una memoria centrale come è oggi».
  Fra le tappe che hanno portato a questa presa di consapevolezza c’è sicuramente il processo Eichmann del 1961, in cui per la prima volta i testimoni sono stati ascoltati. «Ma ci sono anche la Guerra dei Sei Giorni del 1967 e quella del Kippur del 1973 – continua lo storico -. Tutti momenti in cui è stato risvegliato il senso di precarietà dell’esistenza ebraica, che invece avrebbe dovuto essere finito con il sionismo e la nascita dello Stato di Israele. Cercherò quindi di spiegare perché si è arrivati a questa memoria della Shoah e l’effetto che ha sul futuro dello Stato di Israele: un effetto di delegittimazione del sionismo, nel momento in cui è sempre più diffusa la giustificazione che la nascita di Israele sia stata determinata dalla Shoah. Questo è totalmente falso storicamente, perché è il sionismo, con le varie alyiot che si sono seguite negli anni, a essere la vera radice dello Stato ebraico».
  Per quanto riguarda, poi, la differenza fra la memoria della Shoah in Israele rispetto alla diaspora, spiega: «In Israele essa fa parte della storia nazionale, come l’espulsione dalla Spagna, come grandi pogrom del XVII sec, come quelli russi del XIX sec, come la condizione dei dhimmi nel mondo arabo: fa parte della storia del popolo ebraico e costituisce l’identità ebraico-israeliana. Nella diaspora, invece, è ancora considerata, erroneamente, un fatto che riguarda solo gli ebrei, mentre è invece una tragedia che ha un valore universale, e proprio per questo motivo deve essere tramandata. La Shoah riguarda tutta la condizione umana perché gli ebrei sono stati uccisi in quanto rappresentavano il male sulla terra, eliminati come delle esistenze inutili. Quello che fa la dignità della persona umana è stato annientato a Treblinka, per gli ebrei di allora così come per gli uomini di oggi. Per questo motivo questa storia deve essere continuamente insegnata e commemorata».
  Attenzione però a non credere che l’insegnamento della Shoah possa frenare l’antisemitismo, ammonisce lo storico. «Non c’è alcun legame fra le due cose, perché l’antisemitismo è un sentimento di tipo paranoico, contro il quale l’insegnamento, che è basato naturalmente sulla razionalità, e il pensiero non possono fare niente. Anzi: insegnare la Shoah con toni compassionevoli e lacrimosi, dando l’immagine degli ebrei come vittime, rafforza il cliché antisemita che gli ebrei sono nati per soffrire e morire; si alimenta un nuovo ardore nel loro odio».

(Bet Magazine Mosaico, 12 settembre 2022)

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Con una griglia da forno sul petto colpisce i clienti di un bar gridando: “Sono il re di Israele”

Ieri sera, a Berlino, un uomo ha cominciato a colpire i clienti di un bar con delle sedie di metallo, presentandosi come “il re di Israele”. È stato arrestato dalla polizia tra le proteste di diversi residenti, cosa che fa pensare che sia noto nel quartiere.
Ieri sera, intorno alle 22.00, in Reichenberger Straße, nel distretto berlinese di Kreuzberg, un uomo ha aggredito i clienti di un bar colpendoli con delle sedie di metallo. L’aggressore aveva addosso una sorta di armatura artigianale, realizzata legandosi al petto una griglia da forno, e affermava di essere il re di Israele.
Le forze dell’ordine, allertate immediatamente, si sono precipitate sul posto e sono riuscite a fermare il sospetto vicino alla scena del crimine, ma a quel punto una gran parte dei presenti ha protestato. Anche alcune persone che assistevano alla scena dal balcone, hanno esortato gli agenti a non procedere all’arresto Evidentemente l’uomo è una figura nota, nel quartiere. Un testimone oculare ha riferito che alcuni hanno anche tirato fuori lo smartphone e hanno iniziato a filmare gli agenti. Quando un uomo ha fatto presente che l’uomo aveva in precedenza aggredito alcune persone, è stato aggredito verbalmente.
Alla fine l’aggressore è stato portato in ospedale su un’ambulanza dei vigili del fuoco e affidato a un medico. La polizia sta ora indagando per tentate lesioni personali gravi e danni alla proprietà. In base a quanto si sa al momento, fortunatamente nessuno sarebbe rimasto ferito in modo grave.

(Il Mitte, 12 settembre 2022)

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Il principale esportatore di datteri Medjool di Israele prevede un raccolto record nonostante l'inizio tardivo

Yaniv Cohen (Hadiklaim): "Inizialmente ci concentreremo sull'Europa centrale per poi espanderci in Estremo Oriente".

Yaniv Cohen
Il più grande esportatore israeliano di datteri Medjool, la cooperativa Hadiklaim, ha appena iniziato la stagione con circa un mese di ritardo rispetto al solito. Nonostante l'inizio tardivo, l'azienda punta a un raccolto record di 20.000 tonnellate e stima un record di oltre 50.000 tonnellate di datteri da raccogliere in Israele. Yaniv Cohen, direttore generale di Hadiklaim, sostiene:
"I mercati sono vuoti in attesa del nostro prodotto. Nelle prossime settimane Hadiklaim invierà datteri a 45 Paesi in tutto il mondo. I nostri mercati principali sono Regno Unito, Francia, Paesi Bassi, Turchia e India. All'inizio della stagione ci concentriamo sull'Europa centrale. Ci stiamo espandendo verso l'Estremo Oriente, ovvero Cina, India e Thailandia. Stiamo puntando molto su questi mercati".
Secondo lui, un grande vantaggio del ritardo nella raccolta è che quest'anno la qualità dei datteri è migliore e le dimensioni sono più grandi.
"La nostra raccolta è iniziata solo due settimane fa. È relativamente tardi rispetto alle stagioni precedenti. Di solito iniziamo all'inizio di agosto. Il ritardo ha permesso ai frutti di essere più grandi e più belli. La frutta ha avuto più giorni per crescere e sta maturando solo ora. Attualmente sto girando il Paese per visitare i frutteti. I datteri hanno un aspetto straordinario, grandi e lucidi, con una buccia di alta qualità. Ci aspettiamo una stagione molto buona".
"Credo che i volumi di datteri in Israele cresceranno fino a superare le 50.000 tonnellate. L'anno scorso gli alberi di datteri non hanno prodotto al massimo della loro capacità. In questi giorni gli alberi stanno compensando. È anche positivo che stiamo entrando nella stagione ora, senza alcuna eccedenza dalla stagione precedente. Negli ultimi 2-3 anni abbiamo avuto un'eccedenza", spiega Cohen.
L'aumento dei costi dei fattori produttivi e delle tariffe di spedizione, unitamente al rafforzamento dello Shekel israeliano, ha comportato un aumento dei prezzi di base dei datteri provenienti da Israele, secondo Cohen.
"Poiché stiamo iniziando in un mercato relativamente vuoto, cominciamo con un leggero aumento del nostro prezzo di base. Ciò è dovuto al tasso di cambio in Israele. Lo Shekel è molto forte rispetto all'Euro. Il valore è aumentato del 9%, ma siamo consapevoli che non potremo contare su tutto questo incremento. Siamo convinti che la nostra alta qualità sosterrà un aumento del 5-7% che è quello che vorremmo ottenere. Il costo commerciale da Israele è raddoppiato persino di più dell'aumento dei tassi. È ovvio che il rendimento che i coltivatori otterranno sarà inferiore a quello che si aspettano. Il nostro obiettivo è sul lungo termine. Speriamo che le tariffe di trasporto diminuiscano. Crediamo che la nostra qualità giustifichi il prezzo. Iniziamo l'anno ora e le vendite andranno avanti per tutto l'anno e l'anno prossimo venderemo il nuovo raccolto".
Hadiklaim è nota per i suoi datteri Medjool convenzionali e biologici a marchio King Solomon. Cohen afferma che i datteri non sono un prodotto molto conosciuto in tutto il mondo, ma stanno diventando sempre più popolari.
"In passato c'era un picco fino a Natale e Capodanno. Attualmente i datteri sono più apprezzati dagli atleti perché sono una fonte di energia naturale al 100%, senza coloranti e additivi artificiali. Vengono consumati da un maggior numero di persone salutiste e attive. Sempre più persone consumano i datteri. In passato erano riservati alle comunità etniche, ora vediamo che altre folle si uniscono alla famiglia dei consumatori di datteri in tutto il mondo", conclude Cohen.
(Fresh Plaza, 12 settembre 2022)

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Al voto, pensando all’inflazione

L'inflazione in Israele è ancora molto al di sotto dei tassi dell'8,5 e dell'8,9 per cento rispettivamente negli Stati Uniti e nell'Eurozona. A luglio, quando sono state diffuse le rivelazioni, l'inflazione israeliana si attestava al 5,2 per cento. Alta, ma gestibile, il commento di diversi analisti. Tenendo peraltro conto di quanto evidenziato dal Comitato della Banca centrale del paese nel diffondere questi dati e annunciare l'aumento dei tassi di interesse fino al 2 per cento (il più significativo aumento degli ultimi due decenni): "L'attività economica in Israele rimane forte e il mercato del lavoro rimane rigido e in un contesto di piena occupazione. Il Pil è cresciuto del 6,8 per cento nel secondo trimestre".
  E ora è tornato sopra ai livelli pre-crisi pandemica.
  In questo quadro il governatore della Banca d'Israele Amir Yaron ha dichiarato di essere determinato a riportare l'inflazione entro l'obiettivo annuale dell'1-3 per cento fissato dal governo. L'aumento dei tassi d'interesse, ha detto, è il modo giusto per farlo, anche se ci vuole tempo per vederne l'impatto sul mercato. "Comprendiamo il dolore di chi ha preso prestiti e mutui, ma il dolore di oggi serve a prevenire quello molto più grande di domani", il suo commento in un'intervista al Canale 13. Yaron ha poi menzionato un dato molto chiaro in Europa: l'aggressione russa dell'Ucraina è il fattore determinante per l'impennata dei tassi d'inflazione. "La guerra in Ucraina ha aggiunto benzina sul fuoco in tutto il mondo ed è stata la ragione per cui abbiamo accelerato gli aumenti dei tassi di interesse", ha quindi spiegato.
  Intanto i prezzi in rapido aumento hanno cominciato a far riemergere la rabbia degli israeliani. Qui infatti la questione del costo della vita è da tempo un tema caldo. I prezzi delle case continuano a salire (più 15 per cento in un anno) e in alcune zone del paese, per molti, pensare a un acquisto è diventato impensabile. A maggior ragione con i tassi d'interesse ulteriormente aumentati (come testimonia la vignetta in questa pagina di Yediot Ahronot - sul pallone c'è scritto "interesse"). Ma soprattutto la rabbia è concentrata sull'aumento dei costi di diversi beni di consumo. Spingendo il tema economico in cima ai pensieri della popolazione: un sondaggio dell'Israel Democracy Institute ha mostrato come il 44 per cento degli israeliani ritenga che le piattaforme dei partiti sulle questioni economiche e i loro piani per ridurre l'alto costo della vita siano attualmente il primo fattore per decidere per chi votare. Almeno questo sulla carta.
  Nello stesso sondaggio, attraverso gli intervistati, sono stati fatti alcuni conti. Per chi ha risposto le spese per la casa ad esempio sono aumentate in media dell'8,5 per cento quest'anno e per l'abitazione del 7. Secondo il report, il peso finanziario maggiore è rappresentato da cibo e casa (26 per cento e 25), seguiti dai costi energetici e fiscali (rispettivamente 15,5 e 13 per cento). Le spese per l'assistenza all'infanzia (6), i servizi medici (4), le tasse scolastiche (3) e i trasporti (3) sono state meno preoccupanti.
  Dall'altro lato gli economisti in Israele sembrano ottimisti. Alex Cukierman, che per 30 anni è stato docente di economia all'Università di Tel Aviv, ritiene ad esempio che i problemi della catena di approvvigionamento - che hanno causato l'impennata dei prezzi di molti beni per la casa - siano in via di guarigione. "Se la politica avrà successo, ritengo che torneremo alla normalità entro un anno o due. A patto - le parole di Cukierman - che non ci siano altre sorprese o circostanze impreviste”.

((Pagine Ebraiche, settembre 2022)
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E' semplicistico e giornalisticamente scorretto scrivere che "l'aggressione russa dell'Ucraina è il fattore determinante per l'impennata dei tassi d'inflazione". All'«aggressione russa» (i giornali della maggioranza benpensante sanno parlare con grande facilità di aggressione, per esempio quando parlano di «aggressione israeliana» a Gaza) si poteva rispondere in tanti modi. L'occidente atlantico (a cui l'Israele attuale sembra volersi legare per la vita e per la morte) ha scelto di rispondere con la contro-aggressione finanziaria a colpi di ingiunzioni. La responsabilità delle conseguenze allora potrebbe essere suddivisa tra aggressività di azione e stupidità di reazione. M.C.

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Salmo 109 (5)

  1. Per il maestro del coro. Salmo di Davide.
    O Dio della mia lode, non tacere,
  2. perché bocca di malvagio e bocca d'inganno si sono aperte contro di me; hanno parlato contro di me con lingua di menzogna.
  3. Mi hanno circondato con parole d'odio, mi hanno fatto guerra senza motivo;
  4. in risposta al mio amore mi accusano. E io resto in preghiera.
  5. Mi hanno reso male per bene, e odio in cambio d'amore.
  1. Costituisci un empio sopra di lui, un accusatore si tenga alla sua destra.
  2. Sia giudicato ed esca condannato; la sua preghiera gli sia imputata a peccato.
  3. Siano pochi i suoi giorni: un altro prenda il suo ufficio.
  4. Siano orfani i suoi figli e vedova sua moglie.
  5. Vadano errando i suoi figli e accattino; cerchino pane lontano dalle loro case in rovina.
  6. Getti l'usuraio le sue reti sui suoi beni; facciano preda gli estranei delle sue fatiche.
  7. Nessuno mostri a lui benevolenza, e non si trovi chi abbia pietà dei suoi orfani.
  8. Sia distrutta la sua progenie; nella seconda generazione sia cancellato il loro nome!
  9. Sia ricordata dall'Eterno l'iniquità dei suoi padri, e il peccato di sua madre non sia cancellato.
  10. Restino sempre davanti all'Eterno quei peccati e faccia Egli sparire dalla terra la sua memoria.
  11. Perché non ha voluto aver pietà, ma ha perseguitato il povero e bisognoso, chi aveva il cuore spezzato, per ucciderlo.
  12. Ha amato la maledizione, ricada essa su di lui; non ha gradito la benedizione, resti essa lontana da lui.
  13. Si è avvolto di maledizione come di un vestito, penetri essa come acqua in lui,come olio nelle sue ossa.
  14. Sia per lui come un manto che lo ricopre, come una cintura che sempre lo cinge!
  15. Tale sia da parte dell'Eterno la ricompensa dei miei accusatori, e di quelli che proferiscono del male contro l'anima mia.
  1. Ma tu, Eterno, o Signore, opera in mio favore, per amore del tuo nome; poiché buona è la tua misericordia, liberami!
  2. Perché povero e bisognoso io sono e il mio cuore è ferito dentro di me.
  3. Me ne vado come un'ombra che s'allunga, sono scosso via come una locusta.
  4. Le mie ginocchia vacillano per il digiuno, la mia carne deperisce e dimagra.
  5. Son diventato un obbrobrio per loro; mi guardano e scuotono il capo.
  6. Aiutami, o Eterno, Dio mio, salvami secondo la tua benignità.
  7. E sappiano essi che questa è la tua mano, che sei tu, o Eterno, che agisci.
  8. Essi malediranno, ma tu benedirai; s'innalzeranno, ma saranno confusi, e il tuo servo esulterà.
  9. I miei accusatori saran vestiti di vituperio e avvolti nella vergogna come in un manto!
  10. Ad alta voce io celebrerò l'Eterno con la mia bocca, lo loderò in mezzo a molti;
  11. perché Egli sta alla destra del povero per salvarlo da quelli che lo condannano a morte.

"Si può immaginare un Gesù che usa i salmi con versetti  'scandalosi' per rivolgersi al Padre nelle sue preghiere?"
  Con questa domanda termina la puntata precedente di questa serie di riflessioni. Il modo stesso in cui è formulata vuol mettere in evidenza che una spiegazione valida della singolare presenza dei salmi imprecatori nella Bibbia non può prescindere dal fare riferimento esplicito alla persona di Gesù.
  L'apostolo Paolo fa sapere ai credenti di Colosse che sta pregando per loro affinché "ottengano tutta la ricchezza della piena intelligenza per la perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti" (Colossesi 2:3). Comprendere meglio il posto e il valore delle urtanti violenze verbali di certi salmi significa incamminarsi verso la perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo. Chi s'incammina per altre vie è libero di farlo, ma può capitare che i luoghi in cui arriva siano più strani di quelli da cui è partito. E se così non gli appare, vuol dire che è arrivato in posti sbagliati e non lo sa.
  Dopo il Concilio Vaticano II la presenza di salmi imprecatori nella liturgia cominciò a creare qualche fastidio nelle autorità ecclesiastiche, anche perché alcuni di questi potevano essere usati, e lo furono effettivamente in molti casi, in chiave antigiudaica. Dopo diverse discussioni fatte nelle opportune sedi ecclesiastiche, fu lo stesso Papa Paolo VI a disporre che nelle celebrazioni liturgiche fossero interamente omessi tre salmi: 58, 83, 109.
  Nel commentario ai salmi di Spirito Rinaudo citato nella puntata precedente se ne dice il motivo: "L'omissione di questi testi si spiega per una certa qual difficoltà psicologica, sebbene questi salmi imprecatori si ritrovino nella pietà del Nuovo Testamento, per esempio in Apocalisse 6:10". E più avanti si ribadisce che "il motivo per cui furono omessi i brani in discussione è puramente psicologico".
  Il problema insomma nascerebbe dal fatto che con tutta probabilità l'orante "disconosce il genere letterario del salmo", e nel suo pregare potrebbe essere indotto ad esprimere sentimenti cattivi con le sue parole. Si aggiunge però una precisazione: "Sarebbe tutt'altra cosa, se in una orazione - con il suo genere letterario del tutto diverso - si pronunciasse una maledizione contro i nemici della Chiesa". Quelli, evidentemente, possono essere maledetti.
  Contro questa decisione di carattere ecclesiastico-pastorale si è alzata la voce, sempre in ambito cattolico, di alcuni biblisti, tra cui quella di Erich Zenger. Nel suo libro Un Dio di vendetta? - Sorprendente attualità dei "salmi imprecatorii (Àncora, 2005) difende la presenza di questi salmi nella liturgia ecclesiastica con una trattazione in stile storico-critico che alla fine fa più male che bene perché i motivi per mantenere quei salmi sono peggiori di quelli che li hanno spinti ad ometterli.
  Il libro di Erich Zenger viene poi citato anche in un libro più recente di André Wénin, presente in italiano dal 2017: Salmi censurati - Quando la preghiera assume toni violenti, EDB. Il libro inizia con queste parole:

    «È difficile non essere colpiti, leggendo i salmi, dal gran numero di empi, malvagi o nemici che vi si incontrano. I termini che servono a indicare questo genere di personaggi sono incredibilmente ricchi. Abbondano le metafore, derivanti soprattutto dal mondo animale. È impossibile contare tutte le grida, le lamentazioni o le lacrime che strappano ai salmisti. Per lo più essi pensano che Dio arda di collera contro di loro, li disperda, li schiacci, li riporti nel nulla dal quale non avrebbe dovuto trarli. Questo perché egli è immancabilmente a fianco di coloro che, quando non gridano verso di lui, celebrano la sua vittoria e la sua salvezza: il messia, gli umiliati, i poveri o il suo popolo Israele. In realtà, il mondo dei salmi è un mondo molto conflittuale, teatro di una guerra permanente che contrappone i giusti e i malvagi e in cui Dio è vittorioso a favore dei giusti.»

E più avanti, continuando nell'introduzione, l'autore aggiunge:

    «Sia come sia, bisogna riconoscere che, più di altri, alcuni salmi sono particolarmente inaccettabili. O perché mostrano di Dio l'immagine arcigna di un essere intollerante, vendicativo e violento, o perché trasudano da ogni parte vendetta, o ancora perché con evidente piacere invitano a godere della sconfitta cocente subita da altri esseri umani, queste preghiere (!) producono uno scontro frontale con ciò che ci si aspetta normalmente da una religione: essere fattore di pace e di concordia fra gli esseri umani. Esse contraddicono anche la morale più elementare. Soprattutto sono sottese da una visione di Dio che la grande maggioranza dei credenti giustamente rifiuta. Oggi non si potrebbe forse dire che preghiere del genere riflettono la mentalità di un terrorista che, convinto di essere religioso, tira Dio dalla sua parte nella sua rabbia assassina? Decisamente questi salmi di vendetta, di imprecazione o di esecrazione, comunque li si voglia chiamare, restano di traverso nella gola.»

Continuando nella lettura si può accertare che in tutto il libro non compare mai, neppure una volta, neppure nelle citazioni o nelle note, il nome "Gesù". Per essere più precisi si può dire che se ne fa una citazione indiretta nell'ultima frase del libro, espressa in forma di domanda:

    «La rivolta, tanto violenta quanto orante, dei salmi di maledizione non conferisce forse tutto il peso di umanità alla domanda del Padre nostro: "Liberaci dal male"?»

Un po' poco come contributo teologico. All'inizio l'autore ha ammesso che i salmi di vendetta gli sono rimasti di traverso nella gola, e a conti fatti rimane quello il suo problema. In quei salmi vede per gli uomini una valvola di sfogo, «uno spazio di preghiera dove liberare la belva della loro aggressività, perché possa mostrarsi e quindi essere riconosciuta, essere detta». E qui siamo a Freud. Sul piano ecclesiastico invece ricorda che

    «nella grande tradizione cristiana i salmi sono stati considerati non una preghiera individuale, bensì preghiera della  Chiesa, addirittura una scuola di preghiera. [...] Se la preghiera dei salmi è quella della Chiesa, è giusto, mi sembra, che i suoi membri portino insieme la preghiera e la sofferenza di coloro il cui corpo e la cui anima sono straziati dall'ingiustizia e dalla violenza al punto che l'unica preghiera che può ancora salire alle loro labbra è questo grido rabbioso che reclama da Dio il rinvio di coloro che compiono il male al loro nulla».

E qui siamo ad una religiosità umanistica psico-sociale, caratteristica di un approccio letterario cattolico che vede Dio come un problema, più che una soluzione. E questo naturalmente è di grande soddisfazione per gli esteti intellettuali, perché in quest’ottica il centro del problema sta nella reazione dell'uomo che legge, non nella rivelazione di Dio che parla.
  Ma affrontare in forma religiosa, anche biblicamente religiosa, problemi che in realtà nascono da interessi puramente umani è la forma più sottile di inganno idolatrico. Ed è  quello che inevitabilmente avviene quando si vuol esaminare la rivelazione biblica con strumenti culturali che esprimono, già nei loro principi e nei loro metodi, la hybris dell'uomo, cioè la sua ferma volontà di mantenere la piena autonomia in fatto di bene e di male.
  E' sorprendente allora la quantità di interrogativi fondamentali che sorgono da un esame esteso dei passi della Scrittura in cui si vede all'opera un Dio che manifesta uno standard di moralità apparentemente inferiore a quello degli uomini. I salmi imprecatori ne costituiscono un'intera antologia di esempi. Ma è anche dal modo in cui sono trattati questi testi che si vede qual è la considerazione che si ha del Dio della Bibbia. Da una parte quei salmi "scandalosi" rivelano agli uomini chi è il Dio che parla, e dall'altra rivelano a Dio chi sono gli uomini che leggono.
  La chiesa cattolica ha cancellato alcuni salmi dalla sua liturgia perché inadatti ad essere recitati come "preghiera della Chiesa". Ma chi ha detto che tutti i salmi debbano essere  recitati? E perché in quella forma e in quel contesto? Inoltre, sono soltanto i salmi imprecatori ad essere difficili da recitare come preghiera? Prendiamo il salmo 126:

    "Quando l'Eterno fece tornare i reduci di Sion, ci pareva di sognare. Allora la nostra bocca fu piena di sorrisi e la nostra lingua di canti di gioia".

Qui non c'è vendetta, non si vede un Dio torvo e vendicativo, dunque il salmo si potrebbe recitare come preghiera. Lo possono recitare tutti? Proprio tutti? Posso recitarlo anch'io? Non mi dite di no, perché è così bello! Dopo essermi commosso fino alle lacrime cantando il "Va' pensiero sull'ali dorate" di Giuseppe Verdi, partecipando con languore al pianto nostalgico degli esuli lontani dalla loro terra, volete privarmi dei sorrisi e dei canti di gioia di coloro che vedono tornare in patria i reduci di Sion? Certo però che se torno indietro col pensiero agli esuli piangenti presso i fiumi di Babilonia e mi rendo conto che quei profughi, oltre che piangere, scagliano maledizioni sulla città che li tiene prigionieri e proclamano "Beato chi piglierà i tuoi piccoli bambini e li sbatterà contro la roccia" (Salmo 137:9), l'immedesimazione con loro mi diventa più problematica.
   Con ironia si vuol dire che è vano cercare immedesimazioni emotive o attualizzazioni forzate su testi che hanno il loro senso primario in una precisa serie di concreti avvenimenti. Perché i salmi, come tutta la Bibbia, nella loro essenza non sono in primo luogo né moralità né devozione: sono storia. Storia di Dio, innanzi tutto, cioè narrazione dei Suoi interventi in mezzo agli uomini in un continuo e tempestoso rapporto con loro. Soltanto questa sacra storia, compresa ed accolta in uno spirito di riverente disponibilità, può generare forti spinte morali e favorire sincere devozioni. Perché sono frutto dell'azione di Dio verso l'uomo, e non slanci dell'uomo verso un Dio variamente immaginato.
  La Bibbia rivela all’uomo il Dio che agisce, ma noi ci soffermiamo ad osservare l'uomo che reagisce. E dopo un po' le cose nel panorama cambiano: è l’uomo che per primo agisce e si sorprende perché Dio non reagisce come lui vorrebbe. Di qui nascono tutti i problemi. Anche la comprensione dei salmi imprecatori. Perché al Dio che agisce si sostituisce il Dio che insegna. E ci si interroga e si discute su quale sia l'insegnamento migliore, se quello dato agli ebrei o quello dato ai cristiani. E si confronta la legge sul Sinai di Mosè col sermone sul monte di Gesù. Per arrivare a concludere, da parte cristiana, che l'insegnamento di Gesù è moralmente superiore a quello di Mosè. Anche se adesso alcuni cristiani, soprattutto tra gli ebrei messianici, reagiscono e tentano  in vari modi di recuperare spezzoni di legge mosaica da inserire nell'insegnamento ai cristiani. Se non proprio a tutti, almeno a quelli che si considerano e vogliono restare ebrei.
  Ma è questo il problema? Dobbiamo continuare a cercare nei salmi e in tutta la Bibbia i migliori insegnamenti da estrarre per poterli applicare a noi? Se è così, allora i salmi imprecatori sono destinati a rimanere di traverso nella gola a tutti: ebrei e cristiani.
  Per gli ebrei il problema gira intorno all'interpretazione di quello che richiede la Halakhah, dove "con questo termine si indica il materiale giuridico dell'insegnamento tradizionale, trasmesso in origine oralmente e successivamente codificato nella Mishnah e nel Talmud" (Piccolo dizionario dell'ebraismo", ed. Gribaudi). E' interessante allora quello che scrive in proposito "un gigante dell'ebraismo del XX secolo, il rabbino e pensatore di origine lituana Joseph Dov Beer Soloveitchk", nel suo libro La solitudine dell'uomo di fede, tradotto in italiano da Salomone Belforte pochi anni fa:

    «Il principale scopo della Rivelazione, secondo la Halakhah, è collegato al dono della Legge. Il dialogo tra l'essere umano e Dio è finalizzato a uno scopo didattico. La Halakhah, da tempo immemore, ha guardato a Dio come all'insegnante per eccellenza. Questo compito educativo è a sua volta stato affidato al profeta, la cui massima ambizione è quella di insegnare alla comunità di alleanza. In breve, la parola di Dio è ipso facto la norma e la legge di Dio.»

Comunque la si intenda, la raffigurazione di un Dio docente che trasmette le sue istruzioni in modo prioritario al suo popolo, il quale a sua volta ha l'onore e l'onere di trasmettere istruzioni agli altri popoli, fa nascere una quantità di problemi ed è stato smentito dalla storia. Tremenda a questo riguardo è la parola che un ebreo colto di antica origine rivolge a un suo ipotetico connazionale:

    "Ora, se tu ti chiami Giudeo, e ti riposi sulla legge, e ti glori in Dio, e conosci la sua volontà, e discerni la differenza delle cose essendo ammaestrato dalla legge,  e ti persuadi di esser guida dei ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre,  educatore dei semplici, maestro dei fanciulli, perché hai nella legge la formula della conoscenza e della verità, come mai, dunque, tu che insegni agli altri non insegni a te stesso? Tu che predichi che non si deve rubare, rubi? Tu che dici che non si deve commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che hai in abominio gli idoli, saccheggi i templi? Tu che ti glori della legge, disonori Dio trasgredendo la legge?"

E' l'apostolo Paolo (Romani 2:17-23), il quale con queste parole non vuole disprezzare il posto che occupa i suo popolo e l'insegnamento della legge nell'opera di Dio, ma ribadisce con fermezza che l'insegnamento morale in sé, sia ricevuto che dato, non può compiere appieno quella che è la volontà originaria di Dio. Non è il "peso di moralità" del precetto, valutato con bilance tutte da registrare, che può far capire qual è la volontà dell'unico Dio che ha creato i cieli e la terra e quel che ne è seguito.
  Per i cristiani abbiamo già detto qualcosa sul "problema liturgico" che i salmi di vendetta pongono alla chiesa cattolica.
  Quanto  agli evangelici, tra i quali anche chi scrive si riconosce, la questione dei salmi imprecatori si presenta in modo articolato, sfumato, quasi sfuggente si potrebbe dire. Poiché per loro la Bibbia. oltre a essere integralmente ispirata da Dio. è anche autosufficiente, non è ammesso che per la spiegazione di elementi biblici fondamentali si faccia ricorso in modo determinante a puntelli esterni. Si possono ricevere da fuori utili supporti e avere all'interno differenti e legittime interpretazioni, ma si deve comunque restare lì: dentro i testi.
  Sarà per questo che di solito il problema degli spinosi salmi imprecatori viene risolto semplicemente non parlandone, o liquidandolo con poche battute. Ma quando si prova seriamente a prenderlo in esame, come ha fatto onestamente Charles Spurgeon nel suo commentario ai salmi, i problemi non mancano ad emergere.
  Il tipo di spiegazione più diffusa tra gli evangelici conservatori forse è quella presentata con qualche esitazione da William MacDonald nel suo commentario alla Bibbia:

    «La spiegazione che più mi convince è che i salmi della vendetta corrispondono a uno spirito che si adatta ad un ebreo che vive sotto la legge, ma non ad un cristiano che vive sotto la grazia. Il motivo per cui i salmi ci appaiono scostanti sta nel fatto che noi li consideriamo alla luce del Nuovo Testamento.»

Prosegue poi citando un altro autore:

    «Sarebbe bene riconoscere subito che la precedente "Dispensazione " [della legge] è inferiore alla presente [della grazia]. La legge non è contraria al vangelo, ma non è nemmeno uguale ad esso. Quando Cristo è venuto per adempiere la legge, è venuto anche per superarla.»

Convincente? Ci si può chiedere innanzi tutto se il dualismo superiore-inferiore applicato a questioni in cui si fanno pesate di moralità è adatto ad esprimere il fondamentale passaggio storico da una fase all'altra del programma salvifico di Dio avvenuto con Gesù. Quello che comunque si può dire è che anche da questa interpretazione emerge che non si può dare una risposta soddisfacente al problema dei salmi imprecatori senza coinvolgere elementi fondamentali della rivelazione biblica. In linguaggio teologhese si potrebbe dire che il problema dei salmi imprecatori, come quello di Israele, appartiene alla cristologia.
  Bisognerà dunque continuare a parlarne, perché resta sempre aperta la domanda: "Si può immaginare un Gesù che usa i salmi con versetti 'scandalosi' per rivolgersi al Padre nelle sue preghiere?"

M.C.
(5. continua)

(Notizie su Israele, 11 settembre 2022)


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L’International Fellowship of Christian and Jewish aiuta gli olim sudamericani a trovare una nuova vita in Israele

Con l’aiuto della Fratellanza internazionale di cristiani ed ebrei, 84 nuovi olim (immigrati) sono rientrati in Terra Santa. Questa volta, l’olim è arrivato dal Messico e da 6 diversi paesi del Sud America, tra cui Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Paraguay e Perù. Questo gruppo comprende famiglie, pensionati e giovani che emigrano da soli per studiare o prestare servizio militare in Israele.
  “Particolarmente con le numerose sfide che il nostro mondo deve affrontare, compresi gli ostacoli finanziari e logistici che possono rendere l’aliyah (immigrazione) in Israele molto più difficile, essere in grado di assistere a persone provenienti da tutto il mondo che cambiano questa vita è molto significativo”, ha affermato Yael Eckstein , presidente e CEO di The Fellowship. “Ci sentiamo privilegiati di poter svolgere la nostra parte nel facilitare la crescita dell’aliyah dall’America Latina e onorati di avere sostenitori il cui cuore per Israele e il suo popolo rendono possibile questo lavoro. Lavorando insieme, speriamo di aiutare più persone a tornare in Israele”.
  Ariel Kessler e Barbara Bernstein sono una coppia sposata che ha vissuto ad Asunción, in Paraguay, fino al loro recente viaggio nell’aliya. Sebbene nati a Buenos Aires, si sono trasferiti ad Asunción in cerca di opportunità economiche dopo essere falliti a causa della crisi finanziaria in Argentina. In Paraguay si unirono alla piccola comunità ebraica, dove risiedono circa 1.000 ebrei in un paese di 7,1 milioni di persone.
  L’ambasciata israeliana nel Paese ha chiuso alla fine del 2018, in risposta alla decisione del governo paraguaiano di riportare la sua ambasciata a Tel Aviv da Gerusalemme, dove era stata trasferita all’inizio di quell’anno. I Kessler fecero un’aliya con i loro quattro bambini piccoli, dai 4 ai 12 anni, per fornire loro quella che considerano una vita ebraica più piena .
  Bernstein ha detto a The Fellowship: “Sebbene non ci siano altre organizzazioni nel paese, tutto era estremamente ben organizzato. Abbiamo preso la decisione poco più di un mese fa perché vogliamo che i nostri figli vivano una vita ebraica completa. Non è possibile in Paraguay per mantenere uno stile di vita kosher, osservare lo Shabbat come una comunità o per garantire che i nostri figli incontrino un partner ebreo in futuro per creare una famiglia.In Israele possono crescere orgogliosi del loro ebraismo.
  “Ho anche avuto esperienze antisemite in Paraguay e non lo voglio per i miei figli”, ha aggiunto Bernstein. “Piangevo di commozione ogni giorno mentre si avvicinava la data del volo. Abbiamo sempre sentito un forte legame con Israele e abbiamo trasmesso quel legame ai nostri figli. Non riesco a pensare a nessun altro paese che accoglie immigrati come Israele, come se fossimo una famiglia. La borsa di studio è stata determinante nel farci sentire a nostro agio durante tutto il processo e ci ha fornito preziosi consigli professionali per aiutarci dopo il nostro arrivo in Israele”.
  Gli 84 olim comprendono un certo numero di giovani che vengono in Israele per perseguire i propri sogni, anche a costo di dire addio alla propria famiglia in giovane età. È il caso di Pedro Guinzburg, che ha 21 anni e vive nella città argentina di Bahía Blanca, una città di meno di 300.000 abitanti con una piccola comunità ebraica.
  Guinzburg ha parenti e amici lontani che vivono in Israele, ma ha fatto l’aliya da solo. Sebbene lo scorso anno l’edificio principale della sua comunità ebraica sia stato dipinto a spruzzo con minacce antisemite, la sua decisione di trasferirsi in Israele è dovuta più al suo grande amore per il Paese che alla paura della violenza. “Ho preso la decisione perché sento che come ebreo devo vivere in Israele. Non mi muovo per le migliori condizioni economiche o perché voglio trovare un lavoro migliore, ma perché sento un legame con il paese che ho. Non mi sono mai sentito ebreo in Argentina”.
  Quando Guinzburg ha visitato Israele nel 2020, ha detto a The Fellowship di sentirsi parte della società israeliana. “Ho visto la materializzazione delle storie e delle emozioni che avevo sentito dalla mia famiglia e nella mia scuola ebraica. Vado principalmente perché voglio prestare servizio nell’IDF. Credo che gli ebrei di tutto il mondo abbiano un debito con i soldati israeliani per la sicurezza che abbiamo oggi e voglio fare la mia parte per pagarla. Ho intenzione di unirmi a un’unità di combattimento. Sono orgoglioso di diventare un soldato israeliano e la mia famiglia ovviamente si preoccupa per me ed è triste vedermi andare via. Ma supportano la mia decisione”.
  La International Fellowship of Christians and Jewish (The Fellowship) è stata fondata nel 1983 per promuovere una migliore comprensione e cooperazione tra cristiani ed ebrei e per generare un ampio sostegno per Israele. Oggi è una delle principali forze che aiutano Israele e gli ebrei bisognosi in tutto il mondo ed è il più grande canale di sostegno cristiano per Israele. Fondata dal rabbino Yechiel Eckstein, The Fellowship ha raccolto oltre 200 milioni di dollari nel 2021, principalmente da cristiani, per aiutare Israele e il popolo ebraico. Dalla sua fondazione, The Fellowship ha raccolto oltre 2,6 miliardi di dollari per questo lavoro. L’organizzazione ha uffici a Gerusalemme, Chicago, Toronto e Seoul. Per ulteriori informazioni, visitare www.ifcj.org .
  Yael Eckstein è Presidente e CEO dell’International Fellowship of Christians and Jewish (The Fellowship). In questo ruolo, Eckstein sovrintende a tutti i programmi ministeriali e funge da portavoce internazionale dell’organizzazione. Può essere ascoltata nel programma radiofonico quotidiano di The Fellowship che va in onda su 1.300 stazioni in tutto il mondo, nei suoi podcast, Nourish Your Biblical Roots e Conversations with Yael. Prima dei suoi ruoli attuali, Yael ha ricoperto il ruolo di Global Executive Vice President, Senior Vice President e Director of Program Development and Ministerial Outreach. Con sede a Gerusalemme, Yael è uno scrittore pubblicato, un importante sostenitore internazionale delle minoranze religiose perseguitate e un rispettato professionista dei servizi sociali. In qualità di presidente e CEO di The Fellowship, ha anche la rara distinzione di essere una donna a capo di una delle più grandi organizzazioni religiose senza scopo di lucro negli Stati Uniti.

(Gglam.it, 10 settembre 2022)

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Un partito arabo-ebraico alle elezioni in Israele

di Giorgio Gomel

Diversi osservatori, che registrano con sconcerto e amarezza la debolezza del centro-sinistra in Israele, ritengono che l’unico modo per una riscossa di tale schieramento sia un’intesa con la minoranza araba nel paese: un’alleanza, anche politica, per costruire una società fondata su principi di eguaglianza e democrazia, in base alla quale da un lato, i partiti ebraici si battano per modificare la legge dello “Stato-nazione ebraico” – approvata nel 2018, che codifica uno stato di non eguaglianza fra cittadini ebrei ed arabi di Israele e per includere alla pari gli arabi nel body politico del paese – e dall’altro, gli arabi israeliani accettino che il loro paese sia uno Stato democratico a maggioranza ebraica.

• Il declino della Lista araba unita 
  La Lista araba unita – partito che storicamente federava quattro formazioni di diverso orientamento, comunista, nazionalista, islamista – ottenne il suo maggiore successo nel 2020 giungendo a 15 seggi. Agì la forte partecipazione al voto dei cittadini arabi, giunta in quelle elezioni al 65%; la loro volontà di incidere sul corso politico del paese in parallelo al loro processo di integrazione nella società israeliana, in particolare nei settori della sanità e dell’innovazione tecnologica; la priorità assegnata alla riduzione delle diseguaglianze che  gravano sulla minoranza araba nell’istruzione, nel mercato del lavoro, nella disponibilità di abitazioni ed infrastrutture.
  Nel marzo 2021 ha subito un collasso di suffragi fino a 6 seggi, ma uno dei partiti, il Ra’am, di orientamento islamista, legato alla Fratellanza musulmana e conservatore in materia di diritti civili e sociali, è fuoriuscito dall’alleanza ed entrato un anno fa nella coalizione di governo retta dal duo Bennett-Lapid. Ciò ha coinciso con l’esplodere di violenze interetniche fra arabi ed ebrei, con aggressioni, profanazioni di luoghi di culto, incendi appiccati a case e cose in molte città del paese.
  Il Ra’am ha insistito su un programma di investimenti in infrastrutture ed edilizia e su un’azione diretta contro il crimine organizzato che inquina larghi strati della comunità araba. Tale sviluppo ha rimosso un tabù paralizzante per il sistema politico del paese sin dalle origini: soltanto il governo guidato da Yitzhak Rabin fra il 1992 e il 1995 si era avvalso infatti del sostegno dei partiti arabi, che fu rilevante nelle trattative che condussero agli accordi di pace di Oslo fra israeliani e palestinesi.

• La campagna di “Tutti i cittadini”
  Nel contesto attuale, con una sinistra vieppiù debole, un centro frammentato in più partiti ed una destra che resta egemone, si è affermato uno sviluppo nuovo, la formazione di un partito arabo-ebraico su base paritaria, chiamato Kol Ezracheya (Tutti i cittadini).  Appena fondato, sotto la leadership di Avraham Burgb – ex Presidente della Knesset nonché dell’Agenzia ebraica e di Faisal Azaiza, sociologo dell’Università di Haifa – candiderà per le elezioni del 1 novembre 10 membri su base paritaria. Nel suo manifesto fondativo:

    “noi offriamo un’alternativa reale e radicalmente innovativa. Proponiamo una partnership politica sostanziale e profonda tra ebrei e arabi, di tutti i generi, su basi civiche, costituzionali ed egualitarie. Insieme, ebrei e arabi, uomini e donne, costituiamo una rappresentanza politica unica, che rispecchi la piena collaborazione tra i componenti delle due comunità nazionali di Israele”.

Nei suoi  programmi:

    “Impegno senza compromessi in vista della fine dell’occupazione e di una soluzione politica tra Israele e Palestina, che sia basata sulla giustizia e sulla dedizione al principio che ogni individuo e ogni comunità nazionale che risieda tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo merita uguali diritti. Posizione intransigente contro la violenza e contro chiunque cerchi di negare o cancellare gli altrui diritti e libertà. Impegno per la promulgazione di una costituzione civile e di una serie di leggi fondamentali basate sulla democrazia per tutti, che garantiscano la completa uguaglianza per tutte le persone, per tutte le donne e gli uomini, indipendentemente dalle differenze tra israeliani. Giustizia sociale, che dovrà esprimersi nell’equa distribuzione delle risorse pubbliche”. 

• Il futuro dello “Stato degli Israeliani”
  L’esigenza, secondo la filosofia ispiratrice degli animatori del partito, è di un’azione politico-culturale di lungo termine che trasformi la psicologia dominante nel paese dal nazionalismo “etnico” di un Israele “Stato degli ebrei” ad un’identità civile ed egualitaria dello “Stato degli israeliani”. 
  Nel breve periodo, riuscirà il partito a superare la soglia elettorale del 3,25% perché sia rappresentato in parlamento e a non sottrarre voti ai partiti della sinistra – laburisti e Meretz – che in queste elezioni non hanno inserito nelle loro liste candidati arabi e che nei sondaggi superano appena la soglia stessa?

(affarinternazionali. it, 10 settembre 2022)

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Scritta antisemita al Mercato, sdegno e condanna unanime: "Sconcertante"

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Ebreo. E accanto la stella di David "impiccata" al patibolo. Queste le scritte antisemite che sono comparse oggi, venerdì 9 settembre, sulla saracinesca di un bancone al Mercato centrale di Livorno. Purtroppo non è la prima volta che accade visto che già l'anno scorso e nel 2019 furono disegnate delle svastiche nella stessa zona.
  Grande la rabbia tra gli altri esercenti che condannano duramente il gesto: "Vorremmo sapere il gusto che questa gente prova nel commettere questi atti. Tra l'altro i proprietari di questo bancone non sono neanche ebrei quindi non si capisce proprio il motivo di queste scritte". Sul posto si sono recati gli agenti della polizia per fare un controllo e cercare di risalire agli autori.
  Parole di disapprovazione anche da parte della Cgil: "Esprimiamo rabbia e sdegno per la sconcertante scritta. Episodi del genere non devono essere affatto sottovalutati. L'auspicio è che le autorità competenti facciano chiarezza il prima possibile. I folli anni del nazifascismo hanno rappresentato uno dei periodi più bui e tristi della storia umana. Qualsiasi atto inneggiante o semplicemente ammiccante agli ideali di quell'ideologia criminale dev'essere stroncato sul nascere".
  Su quanto accaduto si sono espressi anche Francesco Gazzetti e Andrea Romano (Pd): "L'antisemitismo continua a intossicare le nostre comunità, ognuno di noi deve continuare a battersi contro ogni forma di intolleranza. Le scritte sono qualcosa di inaccettabile e gravissimo e che offendono i valori e la storia di un'intera città". Dello stesso tenore le parole di Stella Sorgente (M5s): "Ancora una volta la nostra città rimane sconvolta e turbata di fronte ad orrende scritte antisemite al Mercato. A Livorno non dovrebbe esserci spazio per simili gesti vergognosi, che lanciano un messaggio antisemita, razzista, profondamente violento. Spero che i responsabili di questi atti vengano individuati dalle autorità competenti quanto prima".

(Livorno Today, 9 settembre 2022)

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Riportata in Israele un’antica lettera ebraica risalente al primo tempio

di Michelle Zarfati

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Mercoledì è stata restituita allo Stato Ebraico un’antica lettera risalente al periodo del Primo Tempio dunque intorno al VI o VII secolo aEV. Probabilmente il ritrovamento ha avuto luogo nelle grotte del deserto della Giudea. Gli archeologi hanno constato che la lettera potrebbe essere coeva ad altri due documenti appartenenti ad una collezione di Rotoli del Mar Morto ritrovati dall’Israel Antiquities Authority.
  Secondo quanto riportato, la lettera è stata restituita grazie a un'operazione congiunta dell’Israel Antiquities Authority, il Ministero della cultura e dello sport, il Ministero degli affari e del patrimonio di Gerusalemme. Ada Yardeni, studiosa di scrittura ebraica antica, aveva lavorato per molto tempo al documento, ma è morta però nel giugno 2018. Il professor Shmuel Ahituv è stato delegato a completarne la pubblicazione. “Il nome Ismaele, menzionato nel documento era un nome comune nel periodo biblico, che significa 'D-o ascolterà'", ha detto Ahituv. “Appare per la prima volta nella Torah come il nome del figlio di Abramo e Agar, diventando però un nome molto comune nella Torah.”
  Il Professor Joe Uziel ha aggiunto: “Verso la fine del periodo del Primo Tempio, la scrittura era molto diffusa. Ciò è evidente da numerosi reperti, tra cui gruppi di ostraca (documenti scritti su frammenti di ceramica) e sigilli di francobolli con scritte rinvenuti in molti antichi insediamenti urbani. “Ogni nuovo documento rinvenuto getta ulteriore luce sull'alfabetizzazione e l'amministrazione durante il periodo del Primo Tempio”, ha aggiunto Uziel. La storia del documento sarà presentata alla Prima Conferenza del Deserto della Giudea che si terrà al Bible Lands Museum di Gerusalemme la prossima settimana.

(Shalom, 9 settembre 2022)

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Saluto di S.E. Alon Bar, Ambasciatore designato d'Israele in Italia e San Marino
Presentazione dell'Ambasciatore Alon Bar

Alon Bar (Kibbutz Sasa, 1957) è un diplomatico israeliano, da settembre 2022 Ambasciatore designato di Israele in Italia e San Marino.
Nel suo ultimo incarico a Gerusalemme, Bar ha ricoperto il ruolo di Direttore Generale Politico del Ministero degli Affari Esteri, occupandosi di un’ampia varietà di ​questioni delicate e seguendo da vicino alcuni dossier strategici cruciali per la diplomazia israeliana.

• Biografia personale
  Alon Bar è nato nel kibbutz di Sasa, nell’Alta Galilea, nel 1957. Si è diplomato alla Saint Lewis Park High School di Minneapolis, negli Stati Uniti, nel 1975. Dopo il servizio militare dal 1975 al 1979 ha studiato all’Università ebraica di Gerusalemme laureandosi in Relazioni internazionali e Formazione nel 1984. Nello stesso anno è entrato al ministero degli Affari Esteri. Alon Bar è sposato e ha tre figli (ora adulti).

• Carriera diplomatica
  Negli anni 1989-2000, Alon Bar ha ricoperto vari incarichi sia nelle sedi centrali sia nelle ambasciate di Israele all’estero. Tra questi, ha ricoperto ruoli in Guatemala e nell’Ufficio del Vice Ministro degli Esteri. Inoltre, Bar ha assunto la posizione di Consigliere presso l’Ambasciata d’Israele a Madrid e il Dipartimento per l’Egitto presso il Ministero degli Affari Esteri.
Tra il 2000 e il 2006, Bar è stato il Direttore del Dipartimento per il Controllo degli Armamenti presso il Ministero degli Affari Esteri Israeliano. Tra il 2007 e il 2022, l’Ambasciatore Bar ha ricoperto vari incarichi di rilievo: in particolare, tra il 2007 e il 2009, l’Ambasciatore Bar è stato Capo dell’Ufficio politico dell’allora Ministro degli Affari Esteri israeliano Tzipi Livni; tra il 2009 e il 2010, Vice Direttore Generale dell’Ufficio Affari Strategici; tra il 2010 e il 2011, Vice Direttore Generale facente funzione presso l’Ufficio Affari Scientifici e Culturali; tra il 2011 e il 2015, Ambasciatore di Israele in Spagna; tra il 2015 e il 2016, ha lavorato presso il Dipartimento Organizzazioni Europee; tra il 2016 e il 2020, ha ricoperto la carica di Vice Direttore Generale per le Nazioni Unite e le Organizzazioni Internazionali; e tra il 2020 e il 2022, Bar è stato Direttore Generale Politico del Ministero degli Affari Esteri.
A settembre 2022 Alon Bar ha iniziato il suo incarico come Ambasciatore designato in Italia e a San Marino.​

(Ambasciata d'Israele in Italia, 8 settembre 2022)

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L’Iran potrebbe ricevere dalla Russia i nuovi caccia Sukhoi Su-35

di Darya Nasifi 

Teheran potrebbe averli in breve tempo in quanto riceverebbe quelli ordinati dall’Egitto
  Le forze aeree iraniane potrebbero ricevere dalla Russia i caccia Sukhoi Su-35, originariamente destinati all’Egitto.
  Teheran sta negoziando l’acquisto di nuovi caccia da oltre un decennio, e l’ultimo candidato è il caccia multiruolo Sukhoi Su-30.
  Tuttavia, il generale di brigata Hamid Vahedi, capo delle forze aeree iraniane, ha dichiarato all’agenzia di stampa Borna che l’acquisto del Su-30 non è più in programma e che si sta discutendo invece dell’acquisto di caccia da superiorità aerea Su-35.
  “La questione è all’ordine del giorno e speriamo di poter ottenere questi caccia di generazione 4+ in un futuro molto prossimo“, ha dichiarato Vahedi.
  Nel gennaio 2022 sono emerse voci secondo cui l’Iran potrebbe ricevere rapidamente 24 caccia Sukhoi Su-35SE dalla Russia, in quanto prenderebbe in consegna aerei originariamente costruiti per l’Egitto. Il Cairo aveva effettuato un ordine per i Su-35 nel 2018, ma l’accordo sarebbe stato abbandonato a causa delle pressioni degli Stati Uniti.
  Nel luglio 2022, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti del presidente Joe Biden, Jake Sullivan, ha dichiarato ai giornalisti che la Russia stava per acquistare dall’Iran una serie di droni da ricognizione e da combattimento.
  Citando informazioni open-source non confermate, l’Institute for the Study of War, un think tank con sede negli Stati Uniti, ha suggerito che i droni potrebbero essere utilizzati come forma di pagamento per gli Su-35, insieme a un più ampio sostegno alla Russia nell’invasione dell’Ucraina.

• L’aeronautica iraniana sotto pressione
  L’Aeronautica militare della Repubblica islamica dell’Iran (IRIAF) ha un disperato bisogno di nuovi aerei, soprattutto di caccia. Attualmente gestisce una serie di pezzi d’antiquariato acquisiti prima della rivoluzione islamica, come l’F-4 Phantom II, il Mirage F1, il Northrop F-5 e il Grumman F-14 Tomcat. L’Iran è stato l’unico cliente straniero del Tomcat e, dal momento che la Marina statunitense ha ritirato l’aereo nel 2006, è l’ultimo a utilizzare l’iconico caccia da superiorità aerea di Top Gun.
  Poiché l’IRIAF non ha avuto modo di procurarsi i pezzi di ricambio per 42 anni a causa delle sanzioni internazionali, non è chiaro il numero di jet ancora in grado di volare. Il 18 giugno 2022, un caccia Grumman F-14 Tomcat iraniano si è schiantato a causa di un guasto al motore, pochi minuti dopo il decollo da Isfahan, nell’Iran centrale.
  Sia l’Iran che la Russia sono inseriti nel Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA) e quindi le nazioni coinvolte in acquisizioni di difesa con uno dei due Paesi si espongono a sanzioni da parte degli Stati Uniti. Le sanzioni hanno reso particolarmente difficile il rinnovo della flotta di caccia dell’Islamic Republic of Iran Air Force (IRIAF).
  Il 27 marzo 2021 l’Iran e la Cina hanno firmato uno storico accordo commerciale che prevedeva l’acquisto di 30 caccia multiruolo Chengdu J-10C di fabbricazione cinese per un contratto del valore di 2 miliardi di dollari. Da allora, però, Pechino sembra aver dato il benservito a Teheran su questo fronte, probabilmente per non gettare benzina sul fuoco nelle già tese relazioni con Washington.

(Rights Reporter, 9 settembre 2022)

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Il lungo rapporto tra la Regina Elisabetta e la comunità ebraica

di Loren Raccah

La notizia della morte della regina Elisabetta d’ Inghilterra ha inevitabilmente commosso il mondo e dopo 70 anni di reame “The London Bridge has fallen”.
  Durante il regno più lungo di tutta la storia britannica, la regina è riuscita a costruire un durevole legame di grande stima e lealtà da parte della comunità ebraica inglese che è stata onorata più volte con titoli di cavalierato concessi a capi rabbini e personalità come Rav Jonathan Sacks, nominato baronetto e lord dalla Regina.
  I leader della comunità ebraica hanno espresso il loro cordoglio e ricordato Elisabetta con grande affetto.
  In una dichiarazione di dispiacere Il consiglio dei deputati degli ebrei inglesi ha detto: “Non ci sono parole per descrivere la perdita che ha subito la nostra nazione”.
  Il primo ministro israeliano, Isaac Herzog, ha affermato “La regina Elisabetta era una figura storica: ha vissuto la storia, ha fatto la storia e ci lascia una magnifica eredità di grande ispirazione”
  Mentre Ephraim Mirvis, l’attuale rabbino capo del Regno Unito, ha dedicato un video messaggio emozionante alla regina in cui ha affermato: “il suo affetto per gli ebrei era profondo ed il rispetto per i nostri valori palpabile. Ricordiamo con grande apprezzamento il rapporto caloroso che aveva con la comunità ebraica, caratterizzato da un impegno verso i rapporti interreligiosi e la commemorazione dell’Olocausto”; ha poi continuato rievocando un’occasione in cui la regina ha mostrato al rabbino oggetti d’interesse e grande valore ebraico che facevano parte della sua collezione privata nel Castello di Windsor, tra cui una Torah in pergamena salvata durante l’olocausto in Cecoslovacchia.
  E’ vero che la regina Elisabetta durante il suo lungo periodo al trono non ha mai visitato Israele. E’ stata in altri paesi del Medio Oriente come ad esempio la Giordania e l’Egitto, ma mai nella terra degli ebrei. Entrambe i figli, Carlo e Edoardo, sono stati in Israele ma non in vesti di rappresentanza, il primo viaggio ufficiale da parte della famiglia reale è arrivato nel 2018 quando il Principe William fece una visita pubblica senza precedenti mettendo fine all’assenza da parte della famiglia reale.
  Il marito, principe Filippo duca di Edimburgo, nel 1994 andò in Israele durante una visita privata per onorare la madre sepolta nel monte degli Ulivi a Gerusalemme. Ricordiamo che la madre di Filippo, la principessa Alice di Battenberg, onorata come Giusta fra le nazioni, salvò una famiglia ebraica, i Cohen, facendoli nascondere nella soffitta del convento dove si trovava e sfruttando la sordità per fingere di non capire le domande all'interrogatorio dei nazisti.
  Nonostante la mancata visita in Israele, la regina ha sempre mantenuto rapporti stretti fatti di lealtà e rispetto con gli ebrei britannici e durante i suoi decenni al trono, ha ospitato tanti dignitari e leader Israeliani, tra cui gli allora presidenti Ephraim Katzir, Chaim Herzog, che ha anche contraccambiato invitando la regina in Israele, Ezer Weizman e infine Shimon Peres a cui è stato conferito il titolo di Cavaliere onorario del Regno Unito dalla Regina su invito del governo inglese.
  I Windsor hanno sempre circonciso i propri figli, un uso che va indietro almeno di un secolo probabilmente perché convinti dei benefici medici che questa pratica porta. Quando toccò al neonato Carlo, la Regina volle un esperto e contattò il mohel Jacob Snowman per fare il lavoro. Questa fiducia per un compito così delicato ha caratterizzato la vicinanza tra l’allora principessa del Regno Unito e la comunità ebraica, una vicinanza che continuò anche una volta salita al trono.
  Il rabbino Sacks descrisse l’incontro con la Regina nel 2005, durante un evento che onorava i 60 anni dalla liberazione degli ebrei da Auschwitz, dicendo: “è rimasta ad ascoltare le storie di tutti i sopravvissuti dando attenzione ad ognuno di loro. Quando era arrivato il suo momento di andare, è rimasta ancora.” Nel 2015 durante la sua quinta visita in Germania la regina visitò il campo di concentramento a Bergen Belsen, dove ha portato una corona di fiori e di nuovo parlato con i sopravvissuti.
  Nel salutare la Regina Elisabetta II, le parole del rabbino capo Mirvis arrivano dritte al cuore: “La Regina ha incarnato i valori più nobili della società inglese. Durante il suo regno straordinario si è comportata con grazia, dignità e umiltà ed è stata un modello globale nella sua distinta leadership e devozione altruista verso la società. In un mondo in continuo cambiamento, era una roccia di stabilità e una campionessa di valori senza tempo.”

(Shalom, 9 settembre 2022)

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Svezia: medico licenziato perché aveva lamentato antisemitismo. Il Tribunale gli dà ragione

di Michael Soncin

Siamo a Solna, a pochi chilometri da Stoccolma, nell’ospedale universitario del prestigiosissimo Istituto Karolinska. Proprio qui, un neurochirurgo ebreo è stato ingiustamente licenziato per essersi lamentato dell’antisemitismo che ha dovuto subire ripetutamente per anni sul luogo di lavoro. 
  Per chi non lo conoscesse il Karolinska è uno dei più importanti centri universitari biomedici nel mondo, dove ogni anno un comitato dell’istituto svedese seleziona i futuri vincitori del Premio Nobel per la medicina. 
  La vicenda verificatasi lo scorso anno, come ha riportato da poco il Jerusalem Post, ha visto l’ospedale protagonista di due sconfitte legali, dovute alla ritorsione d’impronta antisemita. In seguito alla sentenza emanata alla fine del mese di agosto, il tribunale svedese ha stabilito che non sussisteva alcuna ragione secondo la legge per giustificare il licenziamento del dottore, vittima di un antisemitismo profondamente radicato nei propri confronti.
  Sulla triste vicenda è intervenuto The Lawfare Project, una ONG con sede a New York che si occupa di tutelare legalmente gli ebrei di tutto il mondo per la salvaguardia dei diritti civili e umani. “La confessione del Karolinska di avere ingiustamente licenziato un medico ebreo che si lamentava dell’antisemitismo che aveva più volte subito è sbalorditiva”, ha affermato Gerard Filitti, consulente dell’organizzazione americana.
  Secondo quanto scritto dal Lawfare Project, il centro ospedaliero, in risposta all’antisemitismo lamentato, ha presentato una denuncia infondata contro il dipendente all’ispettorato della sanità svedese, sostenendo che la sua identità ebraica rappresentava un rischio per la sicurezza dei pazienti. Una “scioccante dimostrazione di odio verso gli ebrei, istituzionalizzato da parte del Karolinska”. 
  “In apparenza – ha continuato il Lawfare Project -, il Karolinska pensa che essere ebreo comprometta la sicurezza del paziente. Ciò rispecchia direttamente l’ideologia razzista del periodo nazista che considerava gli ebrei dei ‘parassiti’ degni solo di essere sradicati. Segnalare l’identità ebraica come “informazioni rilevanti” per la sicurezza dei pazienti non è solo moralmente spregevole, ma sembra anche essere illegale secondo la legge svedese”.
  Non solo non è stato tutelato e difeso, ma umiliato per avere legittimamente dichiarato un abuso, una discriminazione razziale di triste memoria. Secondo uno studio presentato dall’EJA (European Jewish Association), che analizza il paese europeo in cui gli ebrei vivono meglio, la Svezia si trova al VII posto della classifica. Se tanto è stato fatto nell’ultimo periodo, tanto altro c’è ancora da fare. Fra i vari tipi di antisemitismo, quello ‘inconsapevole’, che aleggia nelle menti in cui vige l’incoscienza, è forse il più difficile da debellare e preventivamente da circoscrivere. 

(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2022)

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In Iran dovevamo declamare “morte a Israele”, ma sognavamo la libertà

"Quando ho avuto l'opportunità di raccontare al primo ministro israeliano qualcosa del mio paese di nascita, ecco ciò che ho scelto di condividere con lui".

“Mi dica qualcosa che non so sull’Iran”. La domanda mi ha molto colpito visto che arrivava da Yair Lapid, il primo ministro ad interim d’Israele, mentre ci trovavamo nella piccola sala conferenze accanto al suo ufficio a Gerusalemme. Lapid è alla guida di un paese molto concentrato sulla Repubblica Islamica d’Iran. E per ottime ragioni....

(israele.net, 9 settembre 2022)

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Scrivo del mondo ebraico con le migliori intenzioni

Alessandro Piperno, intellettuale, scrittore, direttore della collana dei “Meridiani”, dialoga con Riflessi su identità, comunità, scritture e letteratura.

di Massimiliano Boni

- Alessandro Piperno, i suoi lettori la conoscono come scrittore poliedrico e di successo (vincitore del premio Strega nel 2012 con "Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi"), letterato raffinato – una delle sue passioni accademiche è Proust e la letteratura francese, che insegna all’università – firma di punta de “La Lettura”. Ai nostri lettori interesserebbe sapere qualcosa in più delle sue origini ebraiche.
  Sono figlio di matrimonio misto: madre cattolica, padre ebreo. I miei genitori hanno avuto la lungimiranza e il buonsenso di non imporci (parlo di me e mio fratello) alcuna educazione religiosa. Siamo stati circoncisi laicamente e non siamo stati battezzati. Finché i miei nonni sono stati in vita ho partecipato alle festività di ciascuna delle due confessioni: a onor del vero, senza troppa convinzione, attratto più dagli aspetti esteriori, folcloristici e gastronomici che da quelli dottrinari o spirituali. Direi che niente mi è più estraneo di una visione religiosa dell’esistenza. Ciò detto, non posso negare che il mio legame con il giudaismo sia complesso e irrisolto.

- Può aiutarci a capire?
  Diciamo che tale complicata identità ebraica – ammesso che abbia un senso definirla così – si basa dell’interazione di cose molto diverse tra loro, alcune di una tragicità intollerabile, altre molto divertenti. Partirei dalla Shoah (anche se parlarne mi imbarazza): da che ho memoria gli echi di quel massacro inconcepibile hanno agito pesantemente, e direi, irrimediabilmente, sul mio immaginario e sulla mia psiche, con tanto di sogni ricorrenti che continuano a perseguitarmi.
  In questa storia c’è spazio anche per Israele: un paese che, a dispetto dei benpensanti di destra e di sinistra, mi suscita uno strano sentimento di vicinanza che, in determinate circostanze, può degenerare in una forma un po’ melensa di patriottismo (una cosa ridicola tenuto conto che sono stato in Israele tre o quattro volte in tutto). Ma se proprio devo dirla tutta, ciò che più mi avvina all’ebraismo è un contegno che in realtà non appartiene solo agli ebrei: esso deriva dal convincimento che la vita sia una faccenda troppo dolorosa e insensata per essere presa seriamente. Pur non disponendo dell’armamentario culturale sufficiente per poter giustificare un’idea di ebraismo così vaga e generica, non posso fare a meno di aderirvi. Del resto, ciò che assimila gli scrittori, i pensatori, i cineasti, i drammaturghi, i pittori, i musicisti e persino i comici ebrei che amo e su cui mi sono formato – da Montaigne a Nora Ephron – è la perplessità di vivere che li affligge, e la voglia di scherzarci su.

- Il libro con cui si fece conoscere al grande pubblico, "Con le peggiori intenzioni", ha avuto un clamoroso successo, ma forse, come scrive lei stesso, non un’accoglienza altrettanto positiva nel mondo ebraico romano. Ce ne vuole parlare?
  Ho un ricordo vivido del pomeriggio di parecchi anni fa in cui fui invitato a presentare Con le peggiori intenzioni in una scuola ebraica romana. Gli studenti mi sottoposero domande di ogni tipo, alcune anche stimolanti.  Eppure, per tutto il tempo, ebbi la sensazione che sotto sotto non riuscissero ad accettare l’idea che un estraneo avesse scritto un libro così insolente sulla loro comunità. Nel corso degli anni, diversi ebrei romani, anche appartenenti alla mia famiglia, mi hanno mosso rimproveri analoghi. Benché non possa escludere che abbiano ragione, non ritengo tali obiezioni degne di nota, o almeno non da un punto di vista letterario. Non sta a me prendermi cura del buon nome di una confessione, di una comunità, di una famiglia. Ci sta che il milieu ebraico messo in scena dai miei libri abbia qualcosa di personale, di capzioso e di mitico. Ma è esattamente questo che fa di me uno scrittore. Finché avrò voglia di scriverne continuerò a farlo.

- Nella sua scrittura si trovano tracce abbondanti di un’ironia a volte corrosiva. Philip Roth – anche lui uno scrittore al centro di forti polemiche nella comunità ebraica americana – è un autore che può averla influenzata?
  Credo di averne parlato e scritto a sufficienza attraverso la mia attività di saggista e pubblicista. Mi lasci chiarire che, sebbene il mio debito nei confronti dei libri di Philip Roth sia sconfinato, sempre più nel corso degli anni sono riuscito a prenderne le distanze.

- La famiglia sembra essere al centro del suo mondo narrativo (come moltissimi altri scrittori, e come Tolstoj insegna). Anche in questo crede di essere stato influenzato dal suo ambiente familiare? E se sì, in che modo? 
  In effetti, la famiglia borghese – un’istituzione ancora in auge sebbene in declino – è il nucleo della mia ispirazione letteraria. Una passione cui hanno contribuito entrambi i rami della mia famiglia, sebbene in apparenza io dia maggiore rilevanza a quello paterno. La mia ossessione si nutre di un’avversione per ogni tipo di appartenenza settaria, sia essa religiosa, politica, patriottica o per l’appunto dettata dalla consanguineità. Trovo i conflitti familiari interessanti e spaventosi a un tempo, per questo degni di essere indagati e messi in scena.

- Vivendo un po’ a margine, per così dire al confine, del mondo ebraico romano, che idea si è fatto in generale dell’ebraismo italiano?
  Su questo argomento non so che dirle. Noto – ma così, da spettatore inquieto – che da qualche anno a questa parte le grandi religioni monoteiste hanno preso una deriva fondamentalista.

- Esiste una letteratura ebraica italiana? Se esiste, che caratteri distintivi possiede? Lei pensa di farne parte?
  Data la natura sostanzialmente indefinibile dell’ebraismo, sarei tentato di risponderle che non ha senso porre una manciata di scrittori nella stessa categoria solo perché condividono ascendenze ebraiche. Ciò detto, ritengo che esista una linea ideale che unisce alcuni grandi scrittori italiani del secolo scorso, una linea che non posso fare a meno di definire “ebraica”: Svevo, Saba, Levi, Sereni, Ginzburg, Debenedetti, Bassani e via dicendo.

- Attualmente lei è anche curatore della collana “I Meridiani”, forse la più prestigiosa collana editoriale italiana. Lungo quali linee editoriali sta svolgendo questo ruolo?
  Vorrei attenermi ai principi che hanno ispirato questa collana sin da quando più di mezzo secolo fa venne fondata da Vittorio Sereni. Non è facile raccogliere un’eredità pesante come quella lasciata da Renata Colorni. È stata lei, sbaragliando la concorrenza, a trasformare “I Meridiani” nella più “prestigiosa collana editoriale italiana”. Per quanto mi riguarda, vorrei dare meno spazio agli scrittori viventi, e concentrarmi su quelli che il mio professore di greco chiamava i “classici immortali”: Dickens, George Eliot, Apollinaire, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in testa.  Allestire un “Meridiano” è un’operazione molto più complessa di quanto immaginassi. Le difficoltà sono anzitutto di carattere tecnico: i diritti, gli agenti, i traduttori, i curatori, i revisori. Tutto il resto è poesia.

- Agnon sarà presto uno degli autori ospitati nei Meridiani. Ci sono altri autori ebrei in vista?
  Come le dicevo, ho difficoltà a dividere i grandi artisti per categorie religiose. La scelta di Agnon è stata dettata da ragioni editoriali ed estetiche. Si tratta di uno scrittore imprescindibile che in Italia non gode ancora di grande popolarità. Mi auguro che i “Meridiani” possano contribuire a una più larga diffusione delle sue opere.

- Sta lavorando a un nuovo romanzo?
  Non riesco a concepire una vita priva di un cantiere in fermento.

(Riflessi, 9 settembre 2022)

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Gaza, la resistenza delle donne tra pregiudizi, limiti e violenze

di Laura Tangherlini

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Lina, col suo velo a fiori nero, è una studentessa di giornalismo. Nel presentarsi alla delegazione di attivisti italiani ci tiene a sottolineare che il suo è un popolo che ama la vita. Nonostante la loro di vita sia a Gaza, una prigione a cielo aperto. Una manciata di chilometri quadrati sovrappopolati e su cui Israele ha imposto un blocco quasi totale su merci e persone da 15 anni, in risposta all’insediamento del governo di Hamas. Qui alla Al Azhar University il sessanta per cento dei tremila studenti sono donne. Soprattutto per loro, trovare poi lavoro è quasi impossibile. Come fosse stata una perdita di tempo aver studiato legge, scienze mediche applicate, business administration o tecnologia. Neppure Fatiha che le siede accanto ha trovato un’occupazione, un titolo da infermiera che da due anni tiene in tasca mentre resta a casa. Sedute nell’aula altre due ragazze che sognano di trasferirsi negli Stati Uniti e diventare traduttrici di lingua inglese. Molte e molti studiano giornalismo, alcuni già collaborano per delle agenzie di stampa da qui, dalla Striscia. Non ancora Shadah, che ha solo 14 anni ed è qui insieme alla sorella Duah. Lei sì che studia da reporter in questo ateneo nato solo nel 2014. Entrambe sono figlie di un 'martire' – così lo definiscono – ucciso da un drone israeliano. Incontro queste ragazze entrando nella Striscia assieme a una settantina di altri italiani attraverso il valico di Erez, con quella che è ormai la settima edizione della carovana del Gaza Free Style, la prima post Covid.
  Uno scambio umano, sociale e culturale promosso dal Gaza Freestyle in collaborazione con il Centro Italiano Vittorio Arrigoni e ACS Italia. Tra gli obiettivi della spedizione, rivolta anche quest’anno alle fasce più vulnerabili della popolazione, il primo forum internazionale delle donne. A prendervi parte oltre 300 lavoratrici o beneficiarie dei servizi di alcune ong operanti a Gaza (We are not numbers, Union of Palestinian women Commettee, Palestinian development women association, Aisha - association for women and child protection, Creative women, Democracy & worker rights Centre). Tre giorni di incontri con la delegazione italiana. Il terzo, aperto alla presenza maschile. Lo scopo, partecipare a numerosi workshop tematici e condividere grandi o piccole battaglie, testimonianze di violenza domestica o dell’occupazione israeliana. Dal forum è emerso ad esempio come, per le donne della Striscia, sia quasi impossibile immaginare di scegliere o arredare una propria casa o di vivere una vita indipendente da un qualsiasi uomo. Si sentono oppresse da un sistema patriarcale che le limita nella questione dell’eredità e in molte attività sociali.
  Come in Italia, seppure in modalità e contesti differenti, è una questione ben presente ma difficile da denunciare quella della violenza di genere. Anche qui si combatte una lotta per i diritti dei lavoratori. Ancor più per le lavoratrici cui andrebbe dato quindi supporto materiale e psicologico. In un contesto di alta disoccupazione dovuta all’embargo israeliano, alle donne non sono concessi permessi per uscire dalla Striscia e lavorare in Israele. Inoltre, la maggior parte dei lavoratori preferisce assumere uomini per evitare di dover concedere congedi di maternità. Anche sotto le bombe emergono dinamiche di diseguaglianze di genere. È la donna a doversi far carico e ad essere considerata responsabile dell’evacuazione dei bambini e degli oggetti tenuti in casa. Anche le donazioni e gli interventi governativi che seguono ai bombardamenti non tengono conto delle specifiche esigenze femminili. È in casa e vicino al mare che le donne si sentono al sicuro, lontano dai confini con Israele. Spesso però è una questione di tempo più che di luogo: qualsiasi senso di sicurezza scompare dopo le 21 se si è fuori dalla propria abitazione. È emerso infine che essere donna a Gaza significa soprattutto forza e pazienza. Le donne gazawi sono e sentono di essere le radici e il frutto della società. Fonti di ispirazione e di resistenza, che anche nella violenza e nella guerra hanno bisogno di dare sfogo alla propria creatività, seppure essa stessa spesso esprima l’ansia provata e il peso sopportato nella quotidianità.
  La 22enne Marah Assouna da due anni ha un diploma in business administration, che è quasi carta straccia da queste parti. Dietro i grossi occhiali da sole, il velo e le tante storie che pubblica su TikTok, nasconde una vita il cui corso è stato deviato dalle poche opportunità. Ora passa gran parte del suo tempo sui pattini a rotelle. Avrebbe voluto seguire i suoi sogni, legati allo sport. Ma a Gaza i corsi di studio gratuiti erano altri, e non ha potuto scegliere. «Se potessi, andrei all’estero per rendere il mio hobby una professione. Poi però tornerei qui. Vorrei poter allenare altre ragazze. Il problema è che se a Gaza il lavoro non si trova, per noi femmine è ancora peggio. Ci vogliono a casa a cucinare e questo spesso ci rende depresse. Anche frequentare le rampe da skate e rotelle all’aperto per noi ragazze, in mezzo a tanti maschi, è considerato disdicevole! Ma poter incontrare in questi giorni tante italiane e sentirsi dire da loro che abbiamo tutto il diritto di portare avanti i nostri hobby è stato di gran sollievo!». La sua amica Shahdu Heidi ha solo 16 anni ma le idee già chiare. Sui social è ancora più attiva di Mariah. «Gioco a scacchi, a ping pong, mi diletto nel doppiaggio. Pubblico podcast e video per mostrare al mondo intero che a Gaza non ci sono solo le bombe.
  La vita nella Striscia non è semplice, ma negli ultimi cinque anni abbiamo portato avanti una grossa battaglia per far capire a chi ci governa che avere interessi e passioni è un diritto anche di noi ragazze. Le cose pian piano stanno migliorando!». Anche Amal Abid Monem ha avuto coraggio. Sessant’anni, di Gaza city, è una mukhtar, una sorta di capo-villaggio che risolve le controversie. Un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini. Dopo il 2011, nonostante le resistenze di suo marito, è riuscita anche lei a indossare questi panni. Sacrificio, determinazione, senso del dovere, voglia di giustizia. Anche lei ha partecipato al forum. «La vita a Gaza – racconta – è molto difficile soprattutto per le donne. Spesso dipendono economicamente dai loro uomini, che non di rado abusano di loro. Questo forum ci ha permesso di raccogliere le esperienze di altre donne straniere e di poterle mutuare e adattare alla nostra società». Andare sullo skate e pattinare su una delle due rampe presenti a Gaza, costruite negli anni dal Gaza Free Style, è uno dei pochi passatempi consentiti ai giovani della Striscia. Meno, alle giovani che vi accedono comunque, pattini o skateboard in mano, ma velate, quasi mimetizzate e negli orari meno affollati, per sottrarsi al rischio di sguardi indiscreti, rimproveri, molestie. Rajab al Reefi da queste parti è una sorta di idolo per gli appassionati di rotelle. È un giovane insegnante di skateboard, che pratica dal 2014. Inizialmente insegnava anche a delle ragazze. Il tutto era nato proprio grazie al contatto con le attiviste italiane entrate a Gaza. «Dopo il loro rientro a casa però – racconta – per me è diventato quasi impossibile continuare a insegnare a sette femmine che nel giro di un mese erano diventate 21. Le allenavo alla rampa del porto ma solo il venerdì mattina, quando per strada non c’è quasi nessuno. Poi però il governo di Hamas per una questione religiosa e di tradizioni ha fatto storie, e le famiglie ci hanno chiesto di trovare per loro un luogo chiuso. Per ora aspettiamo...».

(Avvenire, 6 settembre 2022)


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A proposito della condizione di Gaza (e della vita delle donne che l'abitano)

Precisazione dell’Ambasciatore di Israele al Direttore del giornale

Gentile direttore,
dopo aver letto l'articolo di Laura Tangherlini: «Donne tra pregiudizi, limiti e violenze» pubblicato martedì 6 settembre nell'edizione cartacea e in quelle digitali di "Avvenire", ho sentito la necessità di precisare alcuni punti.
  In contrasto con quanto affermato dal suddetto articolo, la politica di Israele verso Gaza non può essere attribuita al fatto che la Striscia sia governata da Hamas, ma piuttosto al fatto che Hamas e altri gruppi terroristici usano questo territorio come una rampa di lancio per missili e razzi che hanno come bersaglio le città israeliane e la popolazione civile.
  Vale anche la pena ricordare altri due fattori che non sono stati menzionati nell'articolo: Israele nell'ultimo anno ha autorizzato un crescente numero di palestinesi di Gaza a entrare nel suo territorio per motivi di salute, di lavoro e per scopi commerciali ed è determinato a continuare con questa politica fintanto che il lancio di missili si fermi; inoltre la Striscia di Gaza confina anche con l'Egitto, quindi quando si descrive questo territorio come una "prigione a cielo aperto'' si adotta, anche inconsapevolmente, una terminologia tipica della propaganda antiisraeliana e non riflette necessariamente la realtà.

Raphael Schutz
Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede

(Avvenire, 9 settembre 2022)

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Covid: Israele, trovati due anticorpi potenti contro infezione

Ricerca, in grado di eliminare necessità booster

Scienziati israeliani hanno annunciato di aver scoperto due anticorpi così potenti (95%) nel neutralizzare il covid e tali da poter eliminare la necessità di vaccini booster.
  Secondo uno studio di ricercatori dell'Università di Tel Aviv, i due anticorpi si sono mostrati in prove di laboratorio in grado di neutralizzare tutte le varianti conosciute, incluse Delta e Omicron.
  La dottoressa Natalia Freund - che ha diretto lo studio - ha detto che la ricerca "ha provato che i due anticorpi, Tau-1109 e Tau-2310" sono efficaci nel primo, al 92% per quanto Omicron e al 90% per Delta. Il secondo, Tau-2310, neutralizza all'84% la variante Omicron e al 97% la Delta.

(ANSA, 8 settembre 2022)

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Israele, grande affluenza di passeggeri all’aeroporto Ben Gurion per le festività

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Saranno oltre 4 milioni i passeggeri che nei mesi di settembre e ottobre, soprattutto per le imminenti festività, transiteranno all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Questo è quanto emerso dai dati pubblicati domenica scorsa dall’Autorità aeroportuale israeliana.
  Nel mese di agosto la compagnia aerea israeliana El Al ha effettuato la maggior parte dei voli, per l’esattezza 2.775 con oltre 510mila passeggeri. Seguono Turkish Airline con 744 voli e 143mila viaggiatori, Israir con 746 voli e 117mila passeggeri, infine Arkia con 112mila passeggeri su 719 voli. Wizz Air chiude la top five con 669 voli e 140mila viaggiatori.
  Il trand aumenterà nel mese di settembre. Il picco è previsto per i giorni 8, 15 e 22 con 87mila persone registrate sui voli internazionali. Solo domenica 25 settembre, vigilia di Rosh Hashanà, circa 80mila passeggeri passeranno dall’aeroporto israeliano.
  A ottobre, giorno di grande affluenza sarà martedì 4, vigilia di Yom Kippur, con 45mila passeggeri, mentre il 6 e il 13 dello stesso mese arriveranno 83mila persone, la maggior parte di ritorno dalle vacanze. Domenica 9 ottobre, vigilia di Sukkot, si prevede il transito di 81mila passeggeri.
  L’Autorità aeroportuale ha annunciato il progetto di digitalizzazione dell'aeroporto Ben Gurion, allo scopo di semplificare lo svolgimento delle procedure del check-in e dei controlli di sicurezza, riducendo i tempi d'attesa.
  “Stiamo continuando a migliorare il servizio. – ha detto Hagai Topolansky, Ceo dell’Autorità aeroportuale israeliana – All’inizio dell’estate abbiamo fatto una promessa e l’abbiamo mantenuta, ma c’è del lavoro da fare per diminuire il tempo trascorso in fila”.
  Oltre ai sistemi digitalizzati, afferma Topolansky, “i passeggeri saranno in grado di gestire in autonomia le procedure. Assisteremo ogni persona nell’uso di questi sistemi. Il nostro obiettivo è migliorare i servizi grazie a una nuova strategia e a un investimento di oltre 50 milioni di NIS (quasi 15 milioni di euro). La digitalizzazione migliorerà ogni aspetto dell’aeroporto Ben Gurion”.

(Shalom, 8 settembre 2022)

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Prosegue il riavvicinamento tra Israele e Turchia in ambito civile e militare

di Francesco Paolo La Bionda

Le linee aeree israeliane potranno presto fare di nuovo tappa negli aeroporti turchi, dopo quindici anni di assenza, mentre una nave da guerra della marina del paese anatolico, impegnata in un’esercitazione NATO, ha ormeggiato nel porto israeliano di Haifa, per la prima volta in un decennio. Sono gli ultimi due sviluppi nel riavvicinamento tra i due paesi avvenuto da un anno a questa parte, dopo una decade abbondante di relazioni pessime. Riavvicinamento che lo scorso 17 agosto si è sostanziato nell’annuncio  di un prossimo ripristino delle piene relazioni diplomatiche, incluso il ritorno in sede degli ambasciatori.
  Nello specifico, il parlamento israeliano ha ratificato il nuovo accordo bilaterale sull’aviazione civile stretto con la Turchia il 7 luglio, che sostituisce quello originale del 1951. Il primo ministro dello Stato ebraico, Yair Lapid, domenica 4 settembre ha commentato l’approvazione del patto, affermando che contribuirà al miglioramento dei rapporti bilaterali e andrà a beneficio dei cittadini israeliani.
  Sabato 3 settembre inoltre la fregata Kemalreis ha attraccato al porto di Haifa durante un’esercitazione NATO nel Mediterraneo, dopo che la Turchia aveva richiesto preliminarmente l’autorizzazione per far sbarcare a terra l’equipaggio.
   
  • Nonostante i progressi, il nodo di Hamas resta insoluto
  A guastare le relazioni tra Israele e Turchia negli anni Dieci è stata principalmente la questione palestinese. Dopo l’ascesa al potere ad Ankara del governo islamista di Erdoğan, lo stato turco è diventato uno dei maggiori sponsor delle formazioni palestinesi, grazie anche ai soldi degli alleati del Qatar. Particolarmente problematico per Gerusalemme è la forte presenza di Hamas sul suolo turco, dove l’organizzazione terrorista opera sostanzialmente indisturbata e gode anzi di riconoscimenti ufficiali.
  La questione resta ancora insoluta. Nonostante il miglioramento dei rapporti bilaterali, Ankara non ha finora intrapreso misure repressive nei confronti della rete islamista palestinese, mentre crescono le aspettative israeliane in tal senso. Lo scorso 27 agosto, il canale israeliano Makan ha citato una dichiarazione dell’incaricata d’affari dello Stato ebraico Irit Lillian, la quale ha affermato che “Hamas è un’organizzazione terroristica. Non è un segreto che Israele si aspetti che la Turchia chiuda i suoi uffici ed espella i militanti dal suo territorio”.
  L’ambiguità turca nel rapportarsi con Israele da una parte e i palestinesi dall’altra evidenzia come il riavvicinamento tra i due paesi sia soprattutto figlio di esigenze pratiche, in particolare della necessità di Ankara di contenere la gravissima crisi economica che sta portando alla rovina il paese e dall’interesse di Israele di sottrarre i movimenti palestinesi dalla più pericolosa influenza iraniana.

(Bet Magazine Mosaico, 8 settembre 2022)

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Eitan, il nonno rapitore si consegna ai giudici di Pavia. Arrestato e scarcerato, divieto di avvicinamento al nipote

Shmuel Peleg si è presentato spontaneamente: rilasciato, è già tornato in Israele. Interrogato dal Gip si è difeso così: «Pensavo di aver diritto a stare con il piccolo».

di Maria Fiore

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Si è consegnato alla giustizia italiana a un anno di distanza da quella fuga con sequestro a Tel Aviv. E dopo l’arresto e l’interrogatorio, durato oltre cinque ore in tribunale a Pavia, è stato rilasciato e ha potuto riprendere, già in serata, un volo per tornare in Israele. Shmuel Peleg, 59 anni, nonno materno del piccolo Eitan, il bambino di sei anni unico sopravvissuto alla strage del Mottarone, dove persero la vita anche i genitori e il fratellino, è stato arrestato non appena atterrato a Malpensa, ieri mattina alle 11, e scarcerato al termine di una giornata in cui sono confluiti, in maniera concentrata, mesi di indagini, attacchi e difese, trattative legali e diplomatiche.
  Su Peleg pendeva un mandato di arresto internazionale - a fronte del quale Israele non ha mai concesso l’estradizione - con l’accusa di avere sequestrato il bambino prelevandolo la mattina dell’11 settembre dall’abitazione della zia paterna Aya Biran, a Travacò, all’epoca tutrice del piccolo, e di averlo imbarcato a Lugano su un volo privato, con la collaborazione del 50enne Gabriel Abutbul Alon, che guidò la macchina fino all’aeroporto. Un viaggio non autorizzato, con al centro un mistero, legato al controllo da parte della polizia di frontiera svizzera del passaporto del bambino, che era stato dichiarato smarrito. In accordo con i suoi legali (ieri erano presenti in tribunale gli avvocati Paolo Sevesi, Sara Carsaniga, Paolo Polizzi, e i due avvocati israeliani Sivan Russo e Uri Curb), il nonno ha deciso di consegnarsi alle autorità italiane. L’arresto è stato eseguito dagli agenti della squadra mobile, che da Malpensa hanno portato Peleg in tribunale, per l’interrogatorio di garanzia davanti al giudice Pasquale Villani.

• Scarcerato ma con prescrizioni
  Il gip, al termine dell’interrogatorio, ha disposto la sostituzione della misura in carcere con il divieto di dimora nella provincia di Pavia, Milano e Varese e il divieto, in ogni caso, di avvicinarsi al bambino senza autorizzazione. Questo significa che per ogni eventuale incontro o visita Peleg dovrà ottenere un permesso dal giudice. Anche in caso di incontro fortuito, ha stabilito il gip, dovrà stare a una distanza di almeno 300 metri.
  Il giudice ha valutato con favore la scelta di consegnarsi alla giustizia italiana, «elemento apprezzato quale sintomo dell’attenuazione del pericolo di commissione di altri reati della stessa indole», ma ha sottolineato la gravità del comportamento e del reato commesso da Peleg, che dovrà per questo subire un processo.

• «Era consapevole»
  Per il giudice da parte dell’indagato c’era «piena e lucida contezza del tenore illecito del programmato espatrio del bambino», come dimostrato dalla «segretezza, l’impiego di mezzi strumentali, logistici e di uomini, tra cui un complice capace di garantire un’esfiltrazione del piccolo Eitan con metodiche e tecniche di intelligence e non certamente da tour operator». Metodi, secondo quanto scrive il giudice nel provvedimento, «assolutamente esorbitanti rispetto al paventato intento di assicurare un mero ritorno in Israele del bambino lontano da riflettori e comunque elusivo della sfera di controllo della zia».

• «Pensavo fosse un mio diritto»   

Due dei legali di Shmuel Peleg
Peleg, dal suo canto, ha voluto dare la sua versione dei fatti. «Pensavo di avere fatto una cosa lecita, che fosse mio diritto stare con mio nipote – ha spiegato al gip –. Eitan è sempre stato bene con me, quando siamo partiti era felice, appena siamo arrivati a Tel Aviv ho informato subito la zia Aya e le autorità locali». All’uscita dal tribunale si è limitato a dire: «È andata bene, ma parli con i miei avvocati».
  L’avvocato Sevesi precisa che le prescrizioni del giudice non rappresentano un «divieto assoluto: il gip ha dato la possibilità di vedere il bambino specificando che questa però è soggetta a doppia autorizzazione, sia dell’autorità civile che penale. Non c’è più però l’ostacolo del mandato di arresto. Peleg ha dato prova di ravvedimento, onestà e fornito un racconto coerente, quindi le esigenze cautelari sono venute meno».
  Peleg ha ricostruito le tappe di quella mattina, spiegando che l’unico controllo a cui lui e il bambino furono sottoposti fu eseguito dalla polizia elvetica di frontiera. Il bambino venne riconosciuto come il piccolo vittima della tragedia della funivia ma fatto imbarcare con il nonno sull’aereo perché in possesso di un passaporto ritenuto valido. «Siamo soddisfatti della decisione del giudice – si limita a dire l’avvocata Carsaniga al termine dell’udienza –. La scelta del consegnarsi alla giustizia italiana è nata dalla necessità per Shmuel Peleg di poter dare la sua versione dei fatti anche a un giudice italiano».

(La Provincia Pavese, 8 settembre 2022)

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Mosca, Conferenza straordinaria dei rabbini. “Preghiamo per la pace. Aiutare bisognosi e rifugiati”

“Preghiamo che non venga più versato sangue e invitiamo ovunque persone di buona coscienza ad aiutare i bisognosi, compresi i rifugiati, e porre fine alle sofferenze”: lo si legge nella risoluzione approvata dalla Conferenza straordinaria dei rabbini della Russia che si è tenuta lunedì 5 settembre a Mosca. Gli oltre 75 rabbini in rappresentanza delle più grandi comunità ebraiche della Federazione russa hanno discusso della “situazione straordinaria in cui si trova la comunità ebraica russa e sul ruolo di leadership vitale svolto da rabbini ed ebrei capi comunali”, si legge nel comunicato diffuso dopo l’incontro. “Le relazioni tra la Russia e il resto del mondo si sono rapidamente deteriorate dall’inizio dell’invasione a febbraio, provocando incertezza economica e, cosa che preoccupa in modo particolare la comunità ebraica, un senso di paura e isolamento che non si sentiva da decenni”. La risoluzione approvata intende ribadire che i rabbini non vengono meno al loro impegno nei confronti delle comunità ebraiche e “hanno anche lanciato un appello congiunto per la pace e la cessazione dello spargimento di sangue” dice il comunicato, sottolineando che “i principali rabbini della conferenza lo hanno fatto costantemente dalla fine di febbraio”.
  Tra i partecipanti alla conferenza il rabbino capo della Russia Berel Lazar, l’ambasciatore di Israele in Russia Alexander Ben Zvi e il presidente della Federazione delle comunità ebraiche della Russia, il rabbino Alexander Boroda. “Noi leader ebrei abbiamo sempre affermato che la pace è uno dei valori più alti dell’ebraismo, mentre il conflitto e lo spargimento di sangue ne sono l’esatto opposto, distruggendo i destini umani, costringendo le persone a lasciare le proprie case e a perdere i legami tra loro” ha dichiarato Boroda, invitando a “pregare ogni giorno per la pace e cercare di ristabilire un dialogo rispettoso tra le persone nel miglior modo possibile”.
   (SIR, 7 settembre 2022)

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L’ambasciatore Alon Bar a Roma pronto per rappresentare Israele

di Daniel Reichel

Alon Bar
Arrivato a Roma, il nuovo ambasciatore d’Israele Alon Bar è pronto per la sua missione in Italia. Nelle prossime settimane presenterà ufficialmente le sue credenziali al Capo dello Stato Sergio Mattarella. Nel frattempo ha incontrato l’ambasciatore capo del protocollo diplomatico italiano Inigo Lambertini, a cui ha presentato copia delle credenziali firmate dal Presidente d’Israele Isaac Herzog (nell’immagine). “Mazal tov” il messaggio di Lambertini, che a fine agosto ha salutato calorosamente il predecessore di Bar, Dror Eydar. “In tre anni ha imparato in modo eccellente l’italiano ed è stato un vero e proprio costruttore delle relazioni tra i nostri due Paesi”. Su questa scia dunque si avvia la missione di Bar, a lungo a capo dell’establishment politico-strategico del ministero degli Esteri.
  Diplomatico di lungo corso, Bar ha seguito da vicino diverse questioni delicate per Gerusalemme. Esempio più recente la sua missione, il 9 maggio scorso, in Turchia per incontrare la controparte di Ankara e preparare – come ha raccontato il giornalista Barak Ravid – la visita in Israele del ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu. Una missione portata a termine a fine maggio.
  Sul piano dei rapporti con l’Europa, Bar è intervenuto nella crisi tra Polonia e Israele, criticando Varsavia per la controversa legge che ha reso molto difficile ai sopravvissuti alla Shoah ottenere la restituzione delle proprietà sequestrate dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Al diplomatico era stato affidato l’incontro con l’ambasciatore polacco in Israele Marek Magierowski, convocato per protestare formalmente contro la norma. In quell’occasione Bar, si leggeva in una nota, aveva evidenziato come il provvedimento interessasse “il 90 per cento delle richieste presentate dai sopravvissuti o dai loro discendenti per recuperare le proprietà depredate”. Si chiedeva quindi a Varsavia di tornare sui propri passi e modificare la norma. Appello inascoltato, con la conseguente crisi diplomatica tra i due paesi e con la norma varata dal parlamento polacco.
  Prima di tornare agli Esteri a Gerusalemme, Bar ha avuto un’altra esperienza europea, guidando l’ambasciata a Madrid dal 2011 al 2015. In un’intervista a El Mundo, a conclusione del suo mandato, aveva valutato positivamente quell’esperienza. “Penso di essere stato in grado di avere una parte importante nell’agenda spagnola. Abbiamo ampliato i legami tra i due Paesi e l’atmosfera in Spagna è molto migliorata nei confronti di Israele rispetto a prima del mio arrivo”. All’ambasciatore El Mundo aveva chiesto anche la sua posizione sul conflitto con i palestinesi. “Resto ottimista sul fatto che la soluzione più logica sia la creazione di uno Stato palestinese”, aveva spiegato all’epoca. “Sono a favore della soluzione dei due Stati”, aveva poi aggiunto. “Israele riconoscerà lo Stato (palestinese), purché all’interno di un accordo e non al di fuori”. Aveva poi ricordato come “il rifiuto di questo accordo è più forte da parte palestinese che da parte israeliana. Negli ultimi negoziati, Israele ha accettato il 90% delle richieste palestinesi, che invece hanno rifiutato l’intesa”.
  Rimanendo in tema di rapporti con l’Europa, pochi giorni prima che scoppiasse il conflitto innescato da Hamas nel maggio 2021, l’ambasciatore aveva incontrato tredici colleghi europei – tra cui i rappresentanti di Francia, Germania e Italia. Un’occasione per ribadire loro che Israele non aveva intenzione di ostacolare in nessun modo le elezioni palestinesi e di non prestare ascolto all’Autorità palestinese che sosteneva il contrario. “Durante l’incontro, Alon Bar ha sottolineato agli ambasciatori che le elezioni nell’Autorità Palestinese sono una questione interna palestinese e che Israele non ha intenzione di intervenire o impedirle”, si leggeva in un comunicato del ministero degli Esteri di Gerusalemme. “Israele sta agendo con cautela e responsabilità per evitare il deterioramento della situazione sul campo e si aspetta che i Paesi europei si comportino allo stesso modo”. Abbas, preoccupato per un’eventuale sconfitta elettorale, aveva poi deciso di far saltare le elezioni, generando ulteriori attriti con il movimento terroristico di Hamas. Rispetto agli scenari internazionali, Bar ha molta esperienza per quanto riguarda i temi Onu. È infatti stato vicedirettore generale per le Nazioni Unite e le Organizzazioni Internazionali presso il Ministero degli Affari Esteri israeliano.
  Nel marzo scorso, a poche settimane dalla visita del Presidente del Consiglio Mario Draghi, aveva incontrato a Gerusalemme il direttore generale alla Farnesina Pasquale Ferrara. Tra i due, si leggeva in una nota diplomatica israeliana, c’era stato un “ottimo scambio su questioni internazionali, regionali e bilaterali”.

(moked, 7 settembre 2022)

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Siria: tre morti ad Aleppo dopo l’attacco all’aeroporto attribuito a Israele

Lo ha riferito l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), organizzazione non governativa con sede a Londra, citando fonti locali, le quali hanno precisato che sono stati sei i missili lanciati.

L’attacco condotto ieri sera contro l’aeroporto di Aleppo, nel nord della Siria, attribuito a Israele, ha causato tre morti e cinque feriti. Lo ha riferito, oggi, l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), organizzazione non governativa con sede a Londra, citando fonti locali, le quali hanno precisato che sono stati sei i missili lanciati da Israele. Secondo la stessa fonte, le forze aeree e l’intelligence militare di Damasco avrebbero condotto raid e avviato ricerche che hanno portato all’arresto di almeno cinque individui accusati di aver comunicato con le “parti nemiche”. Questo è avvenuto nel quartiere di Al Malikiyah e nelle zone residenziali nei pressi dell’aeroporto internazionale di Aleppo, obiettivo dell’attacco di ieri e dove si pensa vi siano magazzini appartenenti a gruppi filo-iraniani.
  La notizia del Sohr è giunta dopo che il ministero dei Trasporti siriano, citato dall’agenzia di stampa filogovernativa “Sana”, ha fatto sapere che l’aeroporto di Aleppo è fuori servizio dopo i presunti attacchi aerei israeliani. I voli diretti verso Aleppo saranno dirottati verso Damasco, ha aggiunto il dicastero. A detta di fonti militari citate da “Sana”, diversi missili sono stati lanciati intorno alle 20:16, ora locale, dal Mediterraneo, a ovest di Latakia, verso Aleppo, provocando danni materiali nella pista dell’aeroporto e bloccandone successivamente il servizio. Gli attacchi giungono a meno di una settimana da altri due raid, sempre attribuiti allo Stato di Israele, che hanno preso di mira l’aeroporto internazionale di Aleppo e la capitale Damasco, dove sono stati colpiti sia lo scalo aereo e altri siti considerati, anche secondo la stampa israeliana, depositi di armi provenienti dall’Iran.

(Nova News, 7 settembre 2022)

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Dror Eydar, ambasciatore israeliano in Italia: “Contrari all’intesa con l’Iran, restiamo liberi di difenderci”

Parla il diplomatico, rappresentante uscente: "L’accordo sul nucleare non blocca Teheran, è imperativo evitare che abbia l’atomica"

di Gabriella Colarusso

“L’Italia ha lasciato le sue tracce sul mio cuore”, dice sottovoce l’ambasciatore Dror Eydar tradendo l’emozione per la fine di una intensa avventura politica: il 4 settembre ha lasciato l’incarico di rappresentante di Israele a Roma.

- Ambasciatore, al termine dei suoi tre anni, quali sono le maggiori opportunità e quali i maggiori ostacoli allo sviluppo delle relazioni con Israele?  
  "Una grande opportunità di collaborazione è nel campo dell’energia, delle rinnovabili come del gas".

A Luglio il premier Draghi è stato a Gerusalemme proprio per parlare di gas. Il progetto EastMed, però, un gasdotto che da Israele a Cipro porti il gas fino alle coste pugliesi, è fermo.   
  "In questi tre anni ho lavorato in molti modi per persuadere il governo italiano a sostenere questo progetto, adesso so che ne vede l’utilità".  

- Quali sono gli altri settori in cui la collaborazione con l’Italia può essere rafforzata? 
  "L’acqua. I problemi di siccità e desertificazione legati al cambiamento del clima riguardano ormai anche l’Europa. Israele ha una grande esperienza nel campo della desalinizzazione, i 2 terzi del nostro Paese sono fatti di deserto, ma siamo riusciti, grazie alla nostra tecnologia, a far fiorire il deserto. Il 90% dell'acqua potabile in Israele è desalinizzata.  L’altro settore è l’agricoltura di precisione, dove si possono duplicare le produzioni senza aver bisogno di aumentare la superficie coltivata. E ovviamente la sanità. Durante la pandemia abbiamo condiviso informazioni e competenze, continueremo".  

- Lei è stato anche critico con il nostro Paese: frizioni superate?
  "Siamo una democrazia, accettiamo la critica. Ma ogni anno all’assemblea generale delle Nazioni Unite va in scena il teatro dell'assurdo. Dal 2015 a oggi, l’assemblea ha votato sei risoluzioni contro l'Iran, sette contro la Corea del Nord, nove contro la Siria, Paesi dove non ci sono diritti, non c’è libertà, e 125 contro Israele. Dove era l'Italia? 89 volte ha votato contro Israele. Le altre volte si è astenuta. Lo stesso è successo al consiglio dei diritti umani nelle Nazioni Unite a Ginevra: 40 risoluzioni contro la Siria, 15 contro con la Corea del Nord, 12 contro l'Iran, 99 contro Israele. L’Italia al massimo si è astenuta.  La Commissione per i diritti umani a Ginevra ha votato per aprire una commissione d'inchiesta per crimini di guerra per il conflitto del maggio 2021 quando Hamas ha lanciato 4mila razzi su Israele. Hamas, una organizzazione terroristica che ha come scopo, nello statuto, la distruzione di Israele, messa sullo stesso piano di uno stato democratico che difende il proprio diritto ad esistere. Cosa ha fatto l'Italia? Si è astenuta tra noi e Hamas".

- La maggior parte delle risoluzioni di condanna votate all’Onu riguardano la politica degli insediamenti di Israele che per l’Ue, Italia compresa, e l’Onu sono illegali, e un ostacolo al processo di pace.  
  "A Gaza abbiamo demolito i nostri insediamenti, ci siamo ritirati, per favorire la pace. Abbiamo lasciato anche le nostre serre lì. Risultato? Sono state usate per produrre razzi contro Israele. Cosa è successo a Gaza? Un’organizzazione neonazista, Hamas, che ha nello statuto la distruzione di Israele e l’uccisione di tutti gli ebrei, ha scacciato l'Autorità palestinese, ha costruito un'entità islamistica fondamentalista pro-iraniana che ha dichiarato guerra a Israele".  

- La Cisgiordania non è Gaza, a Ramallah governa l’autorità palestinese con cui collaborate.  
  "Israele presidia i confini per difendersi dai terroristi e difendere anche l'Autorità palestinese dal controllo di Hamas. Non vogliamo che diventi un’altra Gaza".  

- Da 16 mesi gli Stati Uniti negoziano per riportare in vita il trattato nucleare con l'Iran. Il governo israeliano è contrario ma nella stessa Israele, soprattutto in ambienti militari, ci sono molte voci che sostengono che sia meglio un cattivo accordo con l’Iran che nessuno accordo.  
  "C'è un consenso trasversale in Israele contro l’accordo, a destra e a sinistra. Per Israele è un imperativo categorico impedire che l’Iran diventi uno Stato nucleare. La bomba è la polizza assicurativa del regime iraniano, un regime che nega i diritti umani, la libertà di espressione, finanzia i suoi proxy in tutto il Medio Oriente, ovunque c'è instabilità nella regione ci sono le tracce di Teheran. L'Iran è un'entità islamista sciita che non minaccia solo Israele, ma minaccia il mondo libero. Questo accordo non parla dello sviluppo dei missili balistici iraniani, che possono colpire fino 3000 chilometri e consentirà all’Iran di disporre di miliardi di miliardi di dollari per finanziare tutte le organizzazioni terroristiche in Medio Oriente, in Libano, in Siria, in Yemen, a Gaza. Se l’accordo verrà firmato Israele non sarà vincolato. Ci difenderemo".   

- Dal 2018, da quando Trump ha deciso di uscire dall'accordo e di imporre nuove sanzioni, l’Iran è andato avanti col programma nucleare arrivando ad arricchire l’uranio oltre il 60%. La “massima pressione” non è servita a bloccare il programma nucleare.   
  "Molte sanzioni dell’era Trump sono state cancellate e altre non sono mai state veramente implementate. Come è possibile di fare un accordo con un'entità che dice “morte all’America”, “Morte a Israele”? Servono le sanzioni e anche essere pronti al confronto militare".   

- Gli accordi di Abramo sono stati una importante svolta politica per Israele. Possiamo aspettarci l’allargamento dell’intesa ad altri Paesi arabi?  
  "I Paesi del Golfo hanno capito bene qual è la minaccia rappresentata dall’Iran nella regione e nel mondo, meglio dell’Occidente. Gli accordi di Abramo hanno cambiato il vecchio paradigma per cui non si poteva fare la pace con Israele se prima non si fosse risolta la questione palestinese. Stiamo lavorando per allargarli. Abbiamo rapporti non ufficiali con l’Arabia Saudita. Speriamo che diventino presto ufficiali". 

(la Repubblica, 7 settembre 2022)

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Erdogan mediatore? Nessuno si fida di lui, ma tocca farci i conti

Intervista allo storico israeliano Benny Morris

di Barbara Uglietti

Benny Morris non è uno che le manda a dire: tra i più influenti storici israeliani, ha sempre pensato (e scritto) con la sua testa, senza alcun timore di sostenere opinioni scomode che gli sono valse critiche da destra e sinistra. E stato un refusenik (un obiettore di coscienza) durante la prima Intifada, quando considerava legittima la lotta "non letale" dei palestinesi contro l'occupazione; durante la seconda, quando li ha visti ricorrere a una violenza estrema, e quindi chiudere a ogni proposta di compromesso, si è convinto che non vogliano davvero la pace. Con il suo ultimo libro - Il genocidio dei cristiani 1894-1924. La guerra dei turchi per creare uno stato islamico puro, scritto con B. Dror Ze'evi e pubblicato nel 2019 per La Grande Storia, Rizzoli- ha scavato le radici della nazione turca, individuando il progetto anti-cristiano che ha portato al genocidio degli armeni.

- Da quelle radici è nata la Turchia moderna, un Paese che, sotto la guida del presidente Recep Tayyip Erdogan, sta manovrando su molti teatri di crisi. E' un interlocutore credibile?
  Erdogan è molto abile a perseguire i suoi interessi. Lo sta facendo in Ucraina, in Siria. Lo ha fatto rimanendo nella Nato, non certo per convinzione atlantica ma per pura convenienza. Tutto questo non deve trarci in inganno: Erdogan odia l'Occidente. E odia Israele.

- Eppure a metà agosto Israele e Turchia hanno ristabilito le relazioni diplomatiche dopo anni di gelo.
  Israele ha importanti questioni di sicurezza che coinvolgono la Turchia. Non vuole che il Paese diventi un alleato degli iraniani. Non vuole si trasformi in una base per il terrorismo palestinese. E ci sono in ballo molte relazioni economiche. L'obiettivo di Israele è che Ankara sia almeno neutrale. Ma sono sicuro che il governo continui a nutrire una profonda sfiducia nei confronti di Erdogan.

- Ankara ostacola Israele anche sul fronte dell'approvvigionamento energetico. Contesta il gasdotto EastMed, progetto già complicato di suo, rivendica l'utilizzo delle infrastrutture turche per gli scambi fra il Mediterraneo e l'Europa.
  C'è un evidente collisione di interessi. Per quel che ne so, non è stata risolta.

- C'è poi il tema del riconoscimento ufficiale del genocidio armeno da parte di Israele.
  E' necessario operare una distinzione. Gli israeliani non hanno alcuna difficoltà a riconoscere il genocidio degli armeni. Il governo è chiamato invece ad affrontare delicate questioni politiche, collegate, appunto, alle relazioni con la Turchia.

- Erdogan si è sempre presentato come un paladino della causa palestinese. Dopo il caso della Mavi Marmara, i muri di Gaza City erano tappezzati con le sue foto. Lo stesso a Ramallah, dopo il riconoscimento di Gerusalemme capitale voluto da Trump. Perché adesso tutto questo interesse a riallacciare i rapporti con Israele?
  L'iniziativa, va precisato, è stata della Turchia. E l'ha fatto per puro interesse geopolitico: le ambizioni di Ankara richiedono ora un miglioramento dei rapporti con gli americani. E riavvicinarsi a Israele è un modo per arrivare a Washington. O almeno così la pensano loro. Quanto ai palestinesi, Erdogan è dalla loro, li sosterrà sempre. Solo che adesso gli conviene non enfatizzarlo.

- Lei ha assunto posizioni molto critiche sulle politiche di Israele verso i palestinesi. Dal 2000 in poi si è invece dichiarato pessimista sulla loro volontà di arrivare alla pace.
  La mia prospettiva storica non è mai cambiata. Ma quando negli anni 2000 è stata offerta una possibilità di pace basata sulla soluzione dei due Stati, e i palestinesi hanno detto no, e poi ancora no, ritenendo che tutto appartenesse a loro e niente agli ebrei, ho smesso di sperare che potessero davvero accettare un' intesa. Certo la politica di espansione di Israele nei Territori non ha aiutato. Ma bisogna capire se i palestinesi si oppongono a questo, o all'esistenza stessa di Israele, o a tutte e due le cose insieme.

- Cosa ci possiamo aspettare per il futuro?
  Guerre e guerre, purtroppo. Come è stato sinora. Israele continuerà a controllare i palestinesi e i palestinesi continueranno a fare attacchi.
  Lentamente si scivolerà verso un soluzione che non prevede due Stati ma un solo Stato, dal Giordano al Mediterraneo, con una maggioranza araba controllata da una minoranza ebrea. Una situazione insostenibile. Ma siamo dentro un circolo vizioso: è impossibile lasciare la Cisgiordania senza mettere in pericolo Israele, perché quello diventerà un territorio nemico da cui arriveranno solo missili e problemi. Ma è impossibile tenere la Cisgiordania senza mettere in pericolo la maggioranza ebrea, confrontata numericamente dalla maggioranza araba.

- Tra due mesi ci saranno le elezioni in Israele. Come pensa andrà a finire questa volta (la quinta in tre anni)?
  Temo che Netanyahu finirà per vincere. Anche qui c'entra la demografia israeliana: le comunità religiose, legate alla destra, crescono molto più delle comunità secolarizzate. È naturale che il blocco che sostiene Netanyahu sia il più consistente. E nonostante i suoi guai giudiziari, Bibi potrà governare: la legge israeliana non lo impedisce.


L'EVENTO DEL 18 SETTEMBRE A MILANO

Protagonista della Giornata europea della Cultura ebraica

Benny Morris sarà protagonista della 23esima Giornata europea della Cultura ebraica, in programma domenica 18 settembre a Milano. «Rinnovamento» è il tema dell'evento, che porterà nel capoluogo lombardo alcune delle voci più significative del mondo ebraico in Europa. Parteciperanno il rabbino Capo di Milano Alfonso Arbib, Georges Bensoussan, tra i massimi esperti di Shoah, l'esperto di mondo arabo Mordechai Kedar, i rabbini Avichai Apel (Francoforte) e Michael Joseph Schuldrich (Varsavia). La giornata si aprirà in Sinagoga alle 10.00 con rav Arbib, Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano, Sara Modena, Assessore alla Cultura Cem, e Davide Romano. Alle 18.00, chiusura con lo scienziato Aaron Fait e il giornalista Marco Merola, per parlare di ambiente e risorse. La sera, appuntamento al Teatro Menotti per il concerto di musica ebraica a cura del Progetto Davka. Altri eventi nella giornata di lunedì.


(Avvenire, 7 settembre 2022)

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La Comunità ebraica di Milano commemora il 50esimo anniversario della Strage di Monaco ’72

di Paolo Castellano

Un’aula magna gremita di studenti ed esponenti del mondo ebraico milanese e nazionale per rendere omaggio alle vittime del massacro di Monaco. Esattamente 50 anni fa, un commando palestinese fece irruzione nel villaggio olimpico tedesco e uccise 11 atleti israeliani. Un evento tragico che ancora oggi si ricorda anche in sede internazionale.
  Il 6 settembre, la Comunità ebraica di Milano ha voluto organizzare una celebrazione in memoria degli undici israeliani dei quali il Rabbino capo di Milano, Rav Alfonso Arbib, ha letto i nomi prima dell’accensione delle 11 candele in loro ricordo.
  Durante la cerimonia – condotta dall’Assessore alle Scuole Dalia Gubbay – sono intervenuti Rav Alfonso Arbib, l’assessore ai Giovani e vicepresidente CEM Ilan Boni, il preside della Scuola ebraica Marco Camerini, Il vicepresidente UCEI Milo Hasbani, il vicepresidente di Maccabi Italia Jonathan Avrilingi e il presidente di Maccabi Italia Vittorio Pavoncello. In sala erano inoltre presenti personalità istituzionali e politiche come il presidente CEM Walker Meghnagi, l’On. Emanuele Fiano, Cristina Rossello, Alan Rizzi, Daniele Nahum, il presidente CONI Lombardia Marco Riva, Fabrizio De Pasquale e Alfonso Sassun.
  «Avevo 14 anni quando avvenne questo massacro. Mi stupì il fatto che le Olimpiadi non vennero interrotte dopo quel tragico evento», ha dichiarato Rav Arbib durante il suo discorso inaugurale. Il rabbino capo di Milano ha poi sottolineato che negli anni ’70 è iniziato un processo di demonizzazione nei confronti di Israele che oggi ha raggiunto il suo apice con l’antisionismo e le mistificazioni sulla Shoah dove le vittime ebree sono paragonate ai carnefici nazisti.
  «Molto spesso si distingue tra attacco a Israele e attacco agli ebrei. Voglio ricordare che negli attacchi terroristici non c’è questa distinzione. Si colpiscono indiscriminatamente israeliani ed ebrei. Quando si dice che l’antisionismo non ha niente a che vedere con l’antisemitismo credo che sarebbe bene fare un bagno di realtà e raccontare semplicemente i fatti», ha esclamato Rav Arbib.
  I discorsi degli oratori che si sono avvicendati sul palco hanno sottolineato i valori di unione e condivisione che lo sport rappresenta. Inoltre, è stato lanciato un appello alle giovani generazioni affinché combattano l’antisemitismo e difendano fieramente la propria identità culturale e religiosa anche nelle difficoltà e di fronte all’aumento dell’odierno antisemitismo.
  Per di più, è pervenuto un caloroso messaggio da parte dell’ex-judoka israeliana Yael Arad, la prima atleta israeliana a vincere una medaglia olimpica nella storia dello Stato d’Israele, in cui ha ringraziato la Comunità ebraica per l’affetto dimostrato.
  Nella parte finale dell’evento commemorativo sono stati letti i nomi delle 11 vittime israeliane e accesi dei lumi in loro ricordo. La cerimonia è terminata quando il preside Camerini ha suonato lo Shofar.

(Bet Magazine Mosaico, 7 settembre 2022)

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Il pogrom di Norwich: le origini dell’antisemitismo giuridico e della calunnia del sangue

• La scoperta

Nel 2004, durante i lavori di costruzione delle fondamenta di un centro commerciale nella città di Norwich che si trova un centinaio di chilometri a nordest di Londra, in un pozzo medievale furono trovati i resti di una ventina di individui. Uno studio recentemente concluso ha mostrato che si tratta di ebrei appartenenti a un paio di famiglie, per la maggior parte bambini, che furono massacrati nel XII secolo. Shalom ha dato notizia della scoperta nei giorni scorsi, ma vale la pena di riparlarne, perché quelle salme sono la testimonianza di un episodio fondamentale della storia del popolo ebraico, o meglio di quella dell’antisemitismo.

• Il contesto storico
  Per capire l’importanza di questa scoperta, bisogna fare una breve premessa storica: l’ostilità del cristianesimo nei confronti del popolo ebraico è molto precoce, se ne trovano tracce chiare già nelle lettere di Paolo di Tarso, dunque alla metà del primo secolo e poi nei vangeli e nei Padri della Chiesa. Questa ostilità si tramuta presto in invettiva e istigazione all’odio. Quando l’impero romano si cristianizza produce discriminazione giuridica e sociale. Ma per i primi dieci secoli della loro era, mentre i cristiani eliminano pagani ed “eretici” (cioè dissidenti dai loro dogmi), non vi è un tentativo sistematico di eliminare gli ebrei: gli episodi di sangue non mancano, la discriminazione è pesante, ma non vi sono tentativi di genocidi. Sono i musulmani i primi a cercare di eliminare gli ebrei, prima dall’Arabia, già durante il tempo di Maometto e poi da altre parti del loro territorio, per esempio con il massacro di Granada in Andalusia del 1066. Le prime grandi stragi di ebrei nel mondo cristiano avvennero durante la prima crociata (1096-99) soprattutto nelle comunità della Renania, che furono sterminate, ma poi anche in Terra di Israele e soprattutto a Gerusalemme. Si trattò però di pogrom eseguiti dalle masse crociate su istigazione di predicatori e anche per rapina, che furono in parte contrastate dalle autorità.

• La calunnia del sangue
  Il caso di Norwich è differente. Nel 1155 una delle più antiche cronache del regno di Inghilterra (la Anglo Saxon Chronicle di Peterborough) scrive che nel 1144, due generazioni dopo le crociate, “gli ebrei di Norwich presero un bimbo cristiano prima di Pasqua e lo torturarono con tutti i tormenti che subì nostro Signore e al venerdì santo lo appesero a una croce come immagine del nostro Signore e lo bruciarono”. E’ la prima apparizione della “calunnia del sangue” che servì da pretesto per centinaia di persecuzioni antisemite durate fino al secolo scorso in Europa e nel Medio Oriente (anche in Italia, a Trento, a Marostica e altrove) e ancora riprese dalla propaganda islamista. Perché gli ebrei “colpevoli” di non credere alla narrazione cristiana avrebbero dovuto riprodurre su un bambino innocente la narrazione cristiana della morte di Gesù, non se lo chiesero né il monaco che redasse le cronache, né soprattutto i giudici di Norwich che fecero sterminare la piccola comunità ebraica di Norwich, lasciando in un fosso le salme recentemente ritrovate. Come nessuno si chiese per secoli perché gli ebrei, che rispettano la proibizione biblica dell’omicidio e l’interdizione, ripetuta spesso nelle Scritture, a cibarsi di ogni tipo di sangue e anche delle sue piccole tracce nella carne, avrebbero dovuto impastare il pane azzimo col sangue delle loro vittime - un dettaglio che si aggiunse alla calunnia nei decenni immediatamente successivi a Norwich, quando l’accusa di uccidere bambini cristiani dilagò come un’epidemia.

• La congiura mondiale degli ebrei
  Vi è ancora un testo che dev’essere citato per capire l’importanza di questo episodio. Nel 1177 Thomas di Manmouth, il monaco che più lavorò per santificare William, il bambino ucciso a Norwich e condannare gli ebrei, scrisse un libro, in cui raccontò che Theobald [un ebreo convertito, che avrebbe incontrato a Cambridge, di cui non sappiamo altro] gli disse che gli ebrei di Spagna si radunavano ogni anno a Narbonne, per disporre “il sacrificio annuale prescritto” perché “negli antichi scritti dei nostri Padri è scritto che gli ebrei, senza spargimento di sangue umano non potevano né ottenere la loro libertà, né potevano mai tornare in patria. Perciò anticamente era stabilito che ogni anno si doveva sacrificare un cristiano in qualche parte del mondo e dimostrare disprezzo per Cristo, per vendicarli perché la morte di Cristo li aveva resi schiavi in esilio. Ogni anno gli ebrei di Narbonne tiravano a sorte per determinare il paese in cui si sarebbe svolto il sacrificio.” Anche questo brano velenoso costituisce una prima volta: la più antica ricorrenza di quell’idea della “congiura mondiale degli ebrei” che nel secolo scorso troviamo nei famigerati “Protocolli dei Savi di Sion” e nella propaganda nazista e che ancora oggi è diffusissima in ambienti islamisti e integralisti cristiani. Insomma le povere vittime di Norwich ci testimoniano, dopo nove secoli, del momento in cui l’antisemitismo, da pregiudizio religioso e pretesto per saccheggi si trasforma in accusa legale e oggetto di pubblica persecuzione.

(Shalom, 7 settembre 2022)

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Israele, a due mesi dal voto Netanyahu corre sul filo della vittoria

di Alfredo De Girolamo

Tra meno di due mesi Israele torna al voto. I sondaggi propendono leggermente in favore del polo al quale con meticolosità sta lavorando l’eterno Netanyahu, pur tuttavia con una certa cautela. Tutto gira intorno a quota 61, numero di parlamentari in grado di garantire la maggioranza nella Knesset, l'uscita dallo stallo e un nuovo esecutivo. Il 61 nella smorfia napoletana è il cacciatore, significato che bene si addice sia all'abile Bibi Netanyahu che allo sfidante Yair Lapid.
  Il territorio di caccia dei due contendenti è un elettorato che gradualmente si è spostato a destra (62% dei votanti di religione ebraica), trattasi, comunque, di una destra tutt'altro che unita e pacificata. Divisa in tre generiche categorie: quella del mai con Netanyahu, quella del vediamo e i Rak Bibi, solo con il leader del Likud. La prima e la terza raccolgono posizioni polarizzate e costituiscono i gruppi dominanti, ma è la seconda tipologia quella dei possibilisti (in un sistema proporzionale con sbarramento al 3,25%) su cui si costruisce il futuro governo di Israele.
  Una coalizione di governo che avrà, a prescindere, una trazione a destra, più o meno spinta. Come spiega Or Anabi, dell'Israel Democracy Institute (IDI) nello studio “Political Affiliation of Jewish Israeli Citizens”, l'attuale trend elettorale non è assolutamente una novità del panorama politico, già nella seconda metà degli anni '80 il 39% degli elettori ebrei israeliani si definiva di destra, il 25% di centro e il 23% di sinistra. Da allora ai giorni nostri abbiamo assistito una unica volta ad un ribaltamento delle percentuali. Nel 1995 sull'onda emotiva dell'assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin l'affiliazione alla sinistra era balzata al 36% dei consensi, staccando di 7 punti la destra e 8 il centro. Dal 2000 in poi il campo centrista-liberale ha costantemente sorpassato la sinistra, diventando il secondo polo. Con l'eccezione di un breve periodo nel 2011 durante l'estate calda delle proteste socioeconomiche nelle piazze.
  A destra comunque oltre ai likudnik c'è di più, nel 2021 si consideravano conservatori il 72% degli elettori di Yisrael Beytenu di Avigdor Liberman e il 70% dei votanti per Gideon Sa'ar, oggi sponda di Benny Gantz e dell'ex capo di stato maggiore Eizenkot nel National Unity Party. Anche all'interno delle forze centriste l'identificazione con la destra risulta consistente. In Yesh Atid di Lapid le componenti si ripartivano in 55% di centro, 21% sinistra e 24% destra. Mentre, nel partito Blu e Bianco di Gantz il sentimento di destra saliva al 33%, a scapito ovviamente della sinistra. Elettori dunque sempre più in fuga dal passato di stretta osservanza socialdemocratica, e in scia di Bibi. Chi non segue il flusso è la minoranza araba di Israele (1/5 della popolazione), con la sua propria rappresentanza, “teoricamente” né di destra né di sinistra. I partiti arabi se uniti costituiscono il terzo polo nella Knesset. Se invece disuniti e puniti da una scarsa affluenza alle urne ad avvantaggiarsi andrebbe Netanyahu, che amplificherebbe il successo. Al contrario, da una spaccatura della lista United Torah Judaism, partito religioso di riferimento della comunità degli ortodossi haredim ashkenaziti, beneficerebbe di più il laico Lapid.
  I sociologi Tamar Hermann, Or Anabi e Yaron Kaplan per IDI hanno elaborato un'approfondita mappatura demografica dell'intenzione di voto degli israeliani. Il primo dato utile è che la metà degli intervistati non è incline a cambiare opinione politica (Israeli Voice Index). Mentre, non sanno ancora cosa scriveranno nella scheda circa un quarto degli aventi diritto. Indecisione che è maggiore tra le fila dei sostenitori dei partiti della coalizione del governo Bennett-Lapid (25%) e minore per quelli dell'opposizione (12%). L'effetto Lapid nel consenso si poggia su un elettorato fluido rispetto a quello di Netanyahu, la cui base è sostanzialmente inamovibile. Tra coloro che invece hanno cambiato opinione, e intenzione di voto, incide negativamente per il blocco anti-Bibi il ruolo di Yamina, la percezione è che i suoi elettori sembrano decisi ad approdare su altre sponde della destra nazionalreligiosa. Per Yamina, confluito nella formazione Zionist Spirit, la via per entrare in parlamento è ardua, ma se passa Ayelet Shaked, che ha preso le redini dopo Bennett, diventa un potenziale ago della bilancia.
  Nella lunga campagna elettorale a influenzare la scelta di voto sono principalmente le tematiche economiche e sociali (44%), seguono l'importanza della figura del leader, le questioni sulla laicità dello stato, politica estera e sicurezza, e solo in minima parte la crisi climatica (2%). In sintesi, poco interesse per l'ambiente e tanto per il caro vita.
  Sebbene in Israele le elezioni siano oramai una costante praticamente stagionale, e l'affluenza alle urne è in calo (67,4% nel 2021), l'approccio verso la politica è tenuto in seria considerazione, anche tra i giovani. Due terzi della fascia compresa tra 18 e 24 anni infatti rifiuta il qualunquismo. L'avvicinamento alle urne incomincia a farsi sentire e la macchina propagandistica scalda i motori. Prossimamente, nulla vedrete sarà risparmiato per colpire l'avversario.

(L'HuffPost, 7 settembre 2022)

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Germania, i tedeschi chiedono perdono per le vittime israeliane di Monaco ’72

di Paolo Castellano

Il 5 settembre si è svolta a Monaco, in Germania, una cerimonia per ricordare il 50esimo anniversario dell’attacco terroristico avvenuto nel 1972 durante i Giochi Olimpici. Un commando palestinese chiamato Settembre Nero uccise 11 atleti israeliani presso l’aeroporto di Monaco a causa dell’impreparazione delle forze di sicurezza tedesche.
  All’evento commemorativo ha partecipato anche il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier che ha chiesto perdono per il fallimento del suo paese nel proteggere la delegazione israeliana e per aver risarcito le famiglie delle vittime dopo molti anni. Steinmeier ha sottolineato che la Germania deve assumersi le proprie responsabilità. Alla cerimonia hanno partecipato anche il presidente israeliano Isaac Herzog, il capo del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) Thomas Bach e altri funzionari.
  Come riporta il Jerusalem Post, nel suo discorso il presidente tedesco ha detto che “non si può aggiustare quello che è successo”. «Mi vergogno. Come capo di stato di questo paese e a nome della Repubblica federale tedesca chiedo perdono per l’insufficiente protezione agli atleti, per l’insufficiente risoluzione di questa questione».
  Le bandiere di tutti gli edifici della capitale bavarese hanno sventolato a mezz’asta. Durante la cerimonia il presidente israeliano Isaac Herzog e Steinmeier hanno deposto una corona di fiori nel luogo dell’attentato.
  La commemorazione è stata accolta positivamente dai parenti delle vittime e dal governo israeliano.

(Bet Magazine Mosaico, 6 settembre 2022)

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A Gerusalemme si illuminano le mura del Monte del Tempio

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Una nuova attrazione turistica è stata inaugurata lo scorso 28 agosto nella Città Vecchia di Gerusalemme: il Parco Archeologico di Gerusalemme, adiacente alla piazza di preghiera del Muro Occidentale, sarà illuminato come mai prima.
  Visitatori e turisti potranno vivere un’esperienza nuova ed emozionante al Monte del Tempio durante le ore serali, con tour notturni gratuiti disponibili prenotandosi anticipatamente.
  Il progetto è stato guidato dalla Israel Antiquities Authority e dalla Society for the Development and Rehabilitation of the Jewish Quarter, con il finanziamento del Ministero del Turismo israeliano e della William Davidson Foundation.
  Migliaia di lampadine a LED, che sono state installate sul sito, si illumineranno contemporaneamente, dando luce al Muro Sud, così come molti altri elementi tra cui rari fatti storici del glorioso passato di Gerusalemme. Tra l’altro, i visitatori rimarranno colpiti dalla via principale che conduceva al Monte del Tempio ai tempi del Secondo Tempio, dove gli scavi archeologici hanno portato alla luce un viale di botteghe a testimonianza del commercio e della routine quotidiana degli antichi pellegrini. Inoltre, sono stati ritrovati enormi massi caduti dalle mura del Tempio a seguito della distruzione del Secondo Tempio da parte dei romani, testimonianza dei drammatici eventi storici che Gerusalemme visse nell’anno 70 d.C .
  Il progetto fa luce anche sulle antiche iscrizioni ebraiche che vengono illuminate per la prima volta – “e tu hai visto e il tuo cuore si è rallegrato” e “alla casa del suono dello shofar…” Quest’ultimo, può, secondo l’interpretazione, indica il luogo in cui i rabbini Kohen suonarono lo shofar, annunciando l’inizio e la fine dello Shabbath.
  Il piano di illuminazione è stato preparato dall’artista  Amir Brenner ed è stato realizzato da specialisti in forza presso l’Autorità per le antichità israeliane, che hanno installato le lampade a LED in un modo che si adattassero alle antiche rovine, allo stesso tempo preservandole.
  Il sito è stato dotato di un’innovativa illuminazione a LED che utilizza un concetto “verde”, con un’enfasi speciale sugli angoli di illuminazione e sulle variazioni delle temperature della luce.
  Sotto la guida e la tutela della Società per lo Sviluppo del Quartiere Ebraico, l’area del Muro Sud e il Parco Archeologico di Gerusalemme stanno attraversando una vera trasformazione. Il nuovo Davidson Center, attualmente in fase di sviluppo con il finanziamento della William Davidson Foundation, sarà aggiornato e includerà un tour audio educativo ed esperienziale raccontato attraverso gli occhi dei personaggi del periodo del Secondo Tempio, con un’ attività di realtà virtuale e oltre e programmi di sviluppo e conservazione aggiornati.
  Sotto la guida della Società per lo Sviluppo del Quartiere Ebraico, l’area del Muro Sud e il Parco Archeologico di Gerusalemme stanno attraversando una vera trasformazione. Il nuovo Davidson Center, attualmente in fase di sviluppo con il finanziamento della William Davidson Foundation, sarà aggiornato e includerà un tour audio potente, educativo ed esperienziale raccontato attraverso gli occhi dei personaggi del periodo del Secondo Tempio, attività di realtà virtuale e oltre – programmi di sviluppo e conservazione aggiornati.

(Italiavola, 6 settembre 2022)

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Israele: molto probabilmente abbiamo ucciso la reporter Shireen Abu Akleh

«Ma impossibile determinarlo in modo inequivoco». L'Anp attacca.

Shireen Abu Akleh
TEL AVIV. È molto probabile che sia stato l'esercito israeliano a colpire la reporter di al Jazeera «ma non si può determinarlo con certezza». La morte di Shireen Abu Akleh - la reporter di al Jazeera uccisa lo scorso 11 maggio a Jenin, in Cisgiordania, durante scontri tra i soldati e miliziani palestinesi armati - resta dunque senza una risposta definitiva sulle responsabilità, almeno secondo l'inchiesta ufficiale condotta dall'esercito israeliano (Idf), che ha ribadito una tesi già largamente anticipata subito dopo i fatti.
  Ma le conclusioni sono state respinte dai palestinesi, che ancora una volta hanno addossato «il crimine» a Israele. C'è «un'alta possibilità», ha stabilito l'indagine, che la giornalista sia «stata colpita accidentalmente» da spari dall'esercito, anche se «non è possibile determinare in modo inequivoco la fonte» dei colpi. E resta «rilevante» la possibilità, ha proseguito l'esercito, che Abu Akleh «sia stata colpita da pallottole sparate dai palestinesi armati». Per questo la Procura militare israeliana non aprirà un'indagine penale contro soldati visto che «non c'è alcun sospetto che sia avvenuto un atto criminale» tale da giustificarla.
  L'Idf ha ricordato inoltre che «va enfatizzato e chiarito che durante l'intero incidente, il fuoco dei soldati era indirizzato con l'intento di neutralizzare i terroristi che sparavano ai militari, anche dall'area dove si trovava Shireen Abu Akleh». L'indagine - sollecitata anche a livello internazionale e dagli Usa, visto che la reporter aveva anche la cittadinanza americana - ha avuto inizio nei mesi scorsi ed è avvenuta con la revisione «delle circostanze» della morte della giornalista attraverso una task force, anche tecnica, designata dal capo di Stato maggiore Aviv Kochavi.
  L'inchiesta ha ascoltato «i soldati coinvolti nell'incidente» (si parla di un'unita del battaglione Dudvedan), la cronologia degli eventi, i rumori sul posto, dall'area dell'incidente e in particolare da quella dello sparo. Oltre ad esaminare vari risultati forensi e balistici e materiale dei media stranieri, video ed audio. Parte importante, ha ricordato ancora l'esercito, è stata data all'esame della pallottola che ha ucciso la giornalista palestinese. Pallottola data in consegna dall'Anp agli Usa e poi ad Israele. Ad inizio luglio si è svolto un esame balistico in un laboratorio forense alla presenza di rappresentanti tecnici degli Usa e della stessa Anp. Ma «le cattive condizioni del proiettile» hanno reso «difficile - ha sottolineato l'Idf -l'identificazione della fonte da cui è stato sparato», ovvero se «sia stato sparato o meno da un fucile» in dotazione all'esercito israeliano. Le conclusioni sono state rigettate da Ramallah, la cui Procura Generale subito dopo i fatti accusò Israele. Ed oggi Nabil Rudeinah, portavoce del presidente palestinese Abu Mazen, è tornato all'attacco: «Un nuovo tentativo di Israele di evadere la propria responsabilità per l'omicidio di Shireen Abu Akleh. Tutte le prove, i fatti e le indagini condotti finora - ha denunciato - provano che Israele è responsabile di questo crimine». 

(La Stampa, 6 settembre 2022)

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La scuola ritrovata per nove ex alunni ebrei vittime delle leggi razziali

di Daniele Toscano

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Manca ancora qualche giorno prima che tutti i ragazzi italiani tornino in classe, ma ieri a Rondine Cittadella della Pace si sono seduti sui banchi degli studenti particolari: si sono ritrovati fianco a fianco ex alunni ebrei espulsi da scuola nel 1938 a seguito delle Leggi Razziali insieme agli alunni del Quarto Anno Rondine. Esattamente 84 anni da quel 5 settembre la campanella è tornata a suonare per un’ora di lezione straordinaria, un gesto simbolico come si intuisce dal titolo dell’evento “La Scuola Restituita”, un’iniziativa realizzata da Rondine Cittadella della Pace in collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
  A salutare l’iniziativa anche un video messaggio del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi: “La scuola è il battito di una comunità, e una comunità è consapevole se ha Memoria, che è la capacità di conoscere le cose e di educare. […] La possibilità per coloro che allora vennero espulsi, senza più il diritto di essere parte di una comunità, di essere presenti oggi a ridare il senso e il ritmo della nostra comunità, è un segnale fortissimo per tutti coloro che sono esclusi; testimoniano, con le difficoltà di questo momento, i valori dell’inclusione e dell’apertura, elementi fondanti della nostra scuola. Una scuola che lavora per costruire la pace”.
  Dopo la parte istituzionale, è iniziata la lezione. Tutti presenti all’appello: Miriam Cividalli, fiorentina, poetessa e autrice, fra l’altro, del memoir “Perché qualcosa resti”; Lello Dell’Ariccia, uno dei testimoni del rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 e oggi presidente di “Progetto Memoria”; Fabio Di Segni, da anni impegnato nella testimonianza in particolare nelle scuole; Claudio Fano, il cui padre fu ucciso alle Fosse Ardeatine e che all'epoca delle leggi razziali aveva nove anni; Ugo Foà, che aveva dieci anni e viveva a Napoli al tempo in cui vennero promulgate le leggi razziali; Carla Neppi Sadun, classe 1931, originaria di Ferrara; Gianni Polgar, nato a Fiume nel 1936 e residente a Roma dal 1939; Nando Tagliacozzo, romano, classe 1938, molto attivo nelle attività di testimonianza nelle scuole e di formazione degli insegnanti sui temi della Memoria. Infine la Senatrice a vita Liliana Segre, collegata da remoto.
  La “scuola restituita” è divenuta occasione per raccontare alle generazioni più giovani cosa abbia rappresentato per ciascuno dei testimoni l’esclusione dalla scuola avvenuta dal 1938, ricordandoci proprio che questa prima legge razziale abbia colpito la scuola, escludendone i bambini come Nemici. 
  “Maestro” d’eccezione è stato Francesco Bei, vicedirettore di Repubblica. Con un approccio attivo ha stimolato i giovani di oggi a porre domande di fronte alle diverse testimonianze. E dai ragazzi di allora sono arrivate risposte cariche di significato e di emozione. Ugo Foà ha voluto sottolineare le ferite della propria storia di fanciullo di dieci anni al tempo in cui vennero promulgate le leggi razziali in un racconto commovente; Lello Dell’Ariccia ha sottolineato l’importanza del ricordo affinché non vengano più violati diritti e libertà individuali. La Senatrice a vita Liliana Segre ha richiamato il ricordo della maestra: “Ho mica fatto io le leggi, rispose a mia madre, e se ne andò senza abbracciarmi”. La “scuola restituita” ha dato agli studenti l’opportunità di confrontarsi con la storia per parlare di uguaglianza, di fratellanza, di non discriminazione: gli studenti si sono stretti attorno a questi emozionanti racconti, toccando con mano quella che è stata la realtà, di cui hanno avuto una percezione ancor più nitida di quello che si può percepire dai testi scolastici.
  Al termine della giornata sono stati consegnati gli attestati di partecipazione a ciascuno dei testimoni.

(Shalom, 6 settembre 2022)

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Cycling Route in Ben Shemen Forest

La Foresta di Ben Shemen
La Foresta di Ben Shemen è uno dei luoghi di Israele più rinomati e popolari tra i ciclisti. Nel fine settimana, centinaia di appassionati affollano l'area boschiva per percorrere una varietà di tracciati, che consentono ai ciclistici di ogni livello di trascorrere dei momenti meravigliosi. La foresta si estende su una superficie totale di circa 2.100 ettari (più o meno 4.250 acri), su entrambi i lati della Route 443. I ciclisti sono soliti riferirsi al lato meridionale come Mitzmod (abbreviazione di Mitzpe Modiin) e a quello settentrionale come Tel Hadid, per via della collina (tel) che si eleva ad un'altitudine di 147 metri e domina l'intera area.
  Il Fondo Nazionale Ebraico (KKL-JNF) ha costruito tre percorsi ciclistici per mountain bike all'interno della Foresta di Ben Shemen: il single track Herzl (segnalato in blu), che si estende per circa 10,5 km ed è adatto ai ciclisti di livello base; il single track Anava (segnalato in rosso), che si sviluppa per circa 24 km e presenta un dislivello cumulativo di 450 metri; e il single track Hadid (con segnaletica in verde), sul lato settentrionale della foresta, oltre la Route 443.
  Il single track Herzl permette ai ciclisti alle prime armi di scoprire lo sport del mountain biking con tranquillità, rendendo tutto più facile. Poiché il percorso inizia in un punto in cui i ciclisti sono soliti riunirsi nei fine settimana, i principianti avranno la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con i ciclisti più esperti, che li accompagneranno durante la loro avventura nel sentiero. Il percorso non è difficile dal punto di vista fisico, ma presenta alcune difficoltà tecniche. Ciononostante, conduce il ciclista lungo un tragitto suggestivo, che permette di scoprire tutto ciò che offre la Foresta di Ben Shemen.
  Il single track Anava è destinato ai ciclisti più esperti, con almeno un livello di abilità intermedio, e la lunghezza e il dislivello totale del percorso richiedono uno sforzo fisico e capacità tecniche maggiori. Durante l'attraversata della foresta, il sentiero conduce i ciclisti nel mezzo della campagna, negli spazi all'aperto a est dell'antico insediamento ebraico di Gimzo (oggi Moshav Gimzo) e nelle vicinanze delle rovine di Hurvat Regev, da cui è possibile ammirare una magnifica vista sulla piana costiera di Israele.
  I ciclisti che desiderano affrontare un percorso più lungo e impegnativo possono combinare i due single track (Herzl e Anava) per creare un'impegnativa e piacevole escursione di 35 chilometri.
  Il single track Hadid, nella parte settentrionale della foresta, oltre la Route 443, è il più nuovo tra i percorsi creati dal Fondo Nazionale Israeliano (KKL-JNF) nell'area, ed è caratterizzato da passaggi tecnici impegnativi, che risultano adatti ai ciclisti di livello intermedio. Il tragitto si sviluppa per 11 km e numerosi ciclisti scelgono di combinarlo con il single track Herzl, al fine di poter approfittare della varietà di esperienze che queste due diverse aree della Foresta di Ben Shemen offrono.

(Godendo Israele, 6 settembre 2022)

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Le insidie del rinnovamento

di Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Il tema del rinnovamento è molto presente nella cultura e nella tradizione ebraica ma spesso con aspetti contraddittori. Nella preghiera del mattino benediciamo, con una formula molto antica, il Signore che crea la luce e le tenebre, che illumina la terra e coloro che la abitano, che “rinnova [con] la sua bontà ogni giorno l’opera della creazione”. La creazione si rinnova ogni giorno per mano divina. Ma che vuol dire? Sono due le possibili risposte: che vi sia una novità, una nuova creazione quotidiana, o che vi sia la garanzia che la creazione originaria non venga mai meno, che il sole sorga ogni giorno, grazie alla costante vigilanza divina. Il rinnovamento c’è sempre, ma non è chiaro se sia novità o resistenza al logorio. La radice ebraica che indica il rinnovare, chet-dalet-shin, è la stessa da cui derivano le parole chadàsh, “nuovo”, chiddùsh, “innovazione”, “novità” e chòdesh, “mese”. Il mese ebraico è lunare e la novità, sottolineata dal nome, sta nel fatto che la luna dopo essere scomparsa si rinnova. Anche nel linguaggio corrente si dice “luna nuova”. Ma attenzione: la luna quando ricompare ripete con il suo ciclo quello che era prima. Non è la comparsa di qualcosa di differente ma la ricomparsa di qualche cosa che si presumeva scomparso, e che torna a essere come era prima. Il popolo di Israele si identifica per molti aspetti con la luna. Uno di questi aspetti è il fatto che, dopo che si presume che sia scomparso sotto i colpi della storia, ricompare, torna a vivere. Il rinnovamento diventa una resurrezione, ma nella resurrezione non c’è un nuovo essere ma una nuova vita per lo stesso essere. Alla fine del libro biblico delle Lamentazioni (per la distruzione di Gerusalemme) il penultimo versetto dice: “Facci tornare o Signore a Te e torneremo, rinnova i nostri giorni come prima.” Ossimoro fantastico: rinnova/come prima. Il chiddùsh, la “novità”, è un requisito essenziale in una attività che a sua volta è essenziale nella cultura ebraica, lo studio della Torà. Non c’è studio valido se non c’è chiddùsh, se non si scopre un significato nuovo nel testo antico. Se non ci si riesce vuol dire che non abbiamo studiato abbastanza e che non abbiamo esercitato il necessario spirito critico e creativo. Ma anche qui si noti che la novità non è assoluta, è legata al testo classico che assume grazie al chiddùsh nuove vite e nuovi significati.
  L’ambiguità del concetto di rinnovamento emerge in un famoso detto, che è un gioco di parole, attribuito al Chatam Sofer (Moshe Schreiber, 1769-1832), strenuo oppositore della riforma ai suoi inizi. La Torà (Lev. 23:14), in una delle sue regole agricole, stabilisce che il prodotto cereale nuovo (chadàsh) di ogni anno sia proibito al consumo prima che ne sia presentata un’offerta al Tempio il secondo giorno della festa di Pèsach. Fino a quel momento “il nuovo è proibito”. Di qui il gioco di parole: “il nuovo è proibito dalla Torà”. In realtà lo slogan è anch’esso ambiguo perché dal secondo giorno il nuovo è permesso … ma tutto questo la dice lunga sul rapporto contraddittorio con il concetto di nuovo.
  Non a caso oggi vari movimenti riformisti si intitolano con questa parola, prendendo espressioni e citazioni bibliche: shir (canto) chadàsh, al femminile shirà chadashà, lev (cuore) chadàsh ecc.; chi ha un minimo di fiuto capisce dal nome di che si tratta e si regola di conseguenza. Tutto questo ha precedenti antichi e illustri: la “nuova alleanza” annunciata dal profeta Geremia (31:30) è stata intesa dalla tradizione cristiana come annuncio di una novità che l’ebraismo non ha accettato. Nuova alleanza, o Nuovo Testamento (che in latino significa alleanza), è il nome che i cristiani danno ai loro testi sacri canonici.
  Dunque attenzione al nuovo e al rinnovamento. Eppure il nuovo va salutato ed esiste anche una importante frase rituale, una benedizione, che lo saluta e lo consacra: indossando un abito nuovo, o comprando un oggetto nuovo o solo mangiando un frutto stagionale per la prima volta su deve dire: “Benedetto sia Colui che ci ha fatto vivere e mantenuto e fatti arrivare a questo tempo”. Il rinnovamento è una benedizione.

(moked, 4 settembre 2022)

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Israele colpisce la presenza iraniana in Siria e si prepara a fermare il nucleare di Teheran

I negoziati sul nucleare iraniano sembrano sempre più vicini a una conclusione e Israele, che si oppone fermamente a un nuovo accordo, ritenendo che non fermerà la corsa di Teheran all’atomica, manda segnali colpendo le milizie sciite in Siria e preparandosi all’eventualità di azioni militari in Iran.

di Francesco Paolo La Bionda

• LA CAMPAGNA CONTRO GLI AEROPORTI SIRIANI
  Lo scorso 31 agosto, l’agenzia di stampa governativa siriana SANA ha comunicato che aerei israeliani avevano colpito l’aeroporto di Aleppo. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, quattro missili hanno centrato la pista d’atterraggio e alcuni magazzini che si ritiene contenessero missili di fabbricazione iraniana.
  Fotografie satellitari scattate da Planet Labs PBC hanno poi confermato la presenza di un cratere da esplosione sulla pista dello scalo siriano, che è utilizzato sia per il traffico aereo civile sia per quello militare.
  L’attacco, seguito da un altro contro l’aeroporto della capitale Damasco, è solo l’ultimo di centinaia condotti in questi anni dall’aviazione dello Stato ebraico in territorio siriano per impedire che l’Iran, maggior sostenitore del regime di Bashar al-Asad assieme alla Russia, radichi la sua presenza al punto da poter minacciare Israele.
  Secondo fonti raccolte da Reuters, Gerusalemme starebbe in particolare intensificando le azioni contro gli aeroporti per contrastare il ricorso crescente al trasporto aereo da parte dell’Iran per trasportare armi sia all’esercito siriano sia ai miliziani di Hezbollah.
  I danni causati dalle incursioni israeliane sarebbero tali che, secondo fonti del quotidiano A-Sharq Al-Awsat, sia il regime siriano sia l’alleato russo avrebbero chiesto all’Iran di far sloggiare i propri uomini e mezzi dalle infrastrutture locali e di non lanciare attacchi, diretti o per procura, allo Stato ebraico dal territorio siriano.

• I PREPARATIVI PER COLPIRE IN IRAN
  Nel frattempo, i vertici militari dello Stato ebraico stanno preparando l’opzione militare per provare a fermare il programma nucleare iraniano, che sotto l’egida di un nuovo accordo potrebbe riprendere e dotare Teheran di un arsenale atomico.
  L’aeronautica militare israeliana ha siglato un contratto con la Boing per acquistare quattro aerei cisterna KC-46A, con i quali potrebbe rifornire in volo i propri caccia consentendo loro di raggiungere il territorio iraniano. I velivoli saranno consegnati comunque solo nel 2025-2026. Il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato che l’acquisto fa parte di un più ampio programma di spesa militare che includerà anche caccia F-35, sottomarini ed elicotteri.

(Bet Magazine Mosaico, 5 settembre 2022)

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Il Generale Herzi Halevi nuovo capo di Stato Maggiore dell’IDF

Benny Gants e Hertzi Halevi
GERUSALEMME - Il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha scelto il prossimo capo di Stato Maggiore dell’IDF  (Israel Defense Forces), Generale Herzi Halevi. Si tratta del 23° capo di Stato Maggiore dell’IDF.
  Attualmente Hertzi Halevi è vice capo di Stato Maggiore ed è stato in precedenza Comandante del Comando meridionale (aree di Gaza, Egitto e Giordania meridionale), capo dell’Intelligence militare, Comandante del Collegio interarmato per il Comando e di Stato Maggiore, Comandante della formazione della Galilea, capo della Brigata operativa di Stato Maggiore, Comandante della Brigata paracadutisti e Comandante dell’Unità d’élite “Sayeret Matka”.
  Le IDF sono state fondate nel 1948 “per difendere l’esistenza, l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato di Israele, proteggere i suoi abitanti e combattere ogni forma di terrorismo che minacci la vita quotidiana”.
  Le Forze armate israeliane organizzarono, sostituirono e fusero tra loro le varie organizzazioni armate come la Haganah e la sua sezione operativa chiamata Palmach, di cui facevano parte anche ex-membri della Brigata ebraica (che combatté sotto bandiera britannica durante la seconda guerra mondiale), Etzel (o Irgun) e Lehi, a cui sino alla fine della guerra di indipendenza del 1948, fu concessa una vigilata libertà d’azione.
  Tutti i rami dell’IDF sono subordinati all’unico capo di stato maggiore generale. Il capo di Stato Maggiore generale è l’unico ufficiale di servizio avente il rango di Tenente Generale e riferisce direttamente al ministro della Difesa e indirettamente al primo ministro d’Israele e al gabinetto di governo.

(Report Difesa, 5 settembre 2022)

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Dio ‘supera’ la guerra: migliaia di ebrei ultraortodossi in Ucraina

di Paolo Battisti

• Dio fa superare qualsiasi paura.
  I governi israeliano e ucraino stanno facendo ripetuti appelli per impedire il viaggio annuale alla tomba del rabbino Nachman, situata nel centro del Paese invaso dalla Russia.
  Shalev Levi teme più il cielo che la terra. È un Haredi, un timorato di Dio – come vengono chiamati gli ebrei ultra-ortodossi in ebraico – e ha appena fatto il check-in all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv in rotta verso la Moldova per poi attraversare la strada per Uman, nell’Ucraina centrale.

• La fede in Dio conduce anche nelle zone di guerra
  Lì si unirà agli oltre mille ultraortodossi che sono già in città per adempiere alla tradizione annuale, nata due secoli fa, di celebrare il nuovo anno – secondo il calendario ebraico – presso la tomba del rabbino Nachman di Breslev. Mancano ancora tre settimane alla celebrazione, ma Levi teme che i ripetuti appelli dei governi israeliano e ucraino a rinunciare al pellegrinaggio quest’anno si trasformino poi in un divieto assoluto.
  “Non hai paura di andare in un’Ucraina in guerra? “Anche qui c’è la guerra. Gerusalemme mi spaventa più di Kershon. E l’autorità che ascolto non è loro [i governanti], è del mio rabbino. I cinquanta voli charter da Tel Aviv a Chisinau, capitale della Moldova, fino alla celebrazione, che inizierà il 25 settembre, sono già pieni, secondo il canale Keshet 12 della televisione israeliana.
  È troppo presto per azzardare quanti faranno finalmente il pellegrinaggio, anche se nessun calcolo supera i 15.000. Gli altri anni tendono ad essere circa 30.000 (praticamente tutti uomini), principalmente da Israele e, in misura minore, dagli Stati Uniti. “Molti di quelli che non ci vanno quest’anno sono più per il viaggio che per la guerra. Sono quasi tre ore di volo, poi altre tre in autobus fino al confine e altre tre fino a Uman. Ora volo perché non posso rischiare che chiudano. E più tempo ci metto, più soldi mi costerebbe, e non me lo posso permettere".
  Sono rimasti solo posti sugli aerei per la Romania [anche al confine con l’Ucraina]. Mia moglie continua a prendersi cura dei cinque figli”, dice Levi, 30 anni, la cui kippah bianca ricamata e il grande sorriso rivelano la sua appartenenza a Breslev, il movimento chassidico fondato nel 18° secolo dal rabbino sepolto a Uman, a cui la maggior parte di quelli che ci vanno in queste date. Najman, che considerava un comandamento “essere sempre felici” (alcuni suoi seguaci si distinguono per ballare una sorta di techno-pop religioso per le strade), chiese che nessuno dei suoi discepoli si perdesse gli incontri da lui organizzati in occasione della Capodanno ebraico.
  Morì nel 1810, senza voler designare un successore, e l’anno successivo il nuovo capo del movimento organizzò la prima congregazione davanti alla tomba. La tradizione è rimasta (anche clandestinamente durante lo stalinismo) e dopo la disgregazione nel 1991 dell’Unione Sovietica, di cui l’Ucraina faceva parte, è diventata un fenomeno di massa a cui partecipa anche una minoranza di “religiosi di altre correnti, cercatori di spiritualità e opportunisti, alcuni dei quali commettono atti criminali”, spiega Benjamin Brown, professore di Pensiero ebraico all’Università Ebraica di Gerusalemme.

• Gli attriti tra i pellegrini e la gente del posto, anche le risse, sono comuni
  Giovedì, il primo ministro israeliano Yair Lapid ha invitato i suoi compatrioti a non recarsi a Uman “alla luce del pericolo per la vita di entrare nella zona di combattimento“, secondo la dichiarazione che riporta la sua conversazione telefonica con Israele, tra lui e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Quello stesso giorno, il ministero degli Esteri israeliano ha emesso un nuovo avviso di viaggio in Ucraina (lo aveva già fatto a febbraio) in cui ricordava che pochi giorni prima “sono stati lanciati missili nell’area di Uman, uccidendo un cittadino e ferendone diversi più”.
  Ha anche esortato i suoi cittadini a lasciare immediatamente il paese e ha sottolineato che Israele non ha una presenza diplomatica permanente in Ucraina. Già all’inizio di luglio, l’ambasciatore dell’Ucraina a Tel Aviv, Yevgen Korniichuk, ha ricordato su Facebook che Kiev non consente l’ingresso “a turisti e visitatori” né può “garantire la sicurezza dei pellegrini”. “Immagina che ci sia una folla di 50.000 o anche più persone che prega a Uman e che [la Russia] decide di lanciare missili. Potete garantire che non accadrà, dopo che hanno bombardato centri commerciali, asili e scuole?
  Korniichuk ha anche concesso interviste sull’argomento alla stampa ultra-ortodossa, poiché questo gruppo – che rappresenta circa il 13% della popolazione israeliana – ignora i media generalisti. Daniel Cohen, un Haredi, afferma di non essere a conoscenza dell’avviso di viaggio. “Non ho tempo per guardare il telegiornale. Sono preoccupato per cose più importanti”, dice mentre si prepara a imbarcare quattro enormi bagagli con piatti e posate monouso per un gruppo di 120 pellegrini all’aeroporto di Tel Aviv. "Mentre Israele è un paese molto piccolo, l’Ucraina è così grande che una guerra che si sta svolgendo principalmente nel sud e nell’est non si fa sentire nemmeno a Uman. Ashkelon è stato recentemente attaccato qui. Hai sentito qualcosa a Gerusalemme? Ebbene, la distanza tra Uman e il bombardamento è molto maggiore di quella tra Ashkelon e Gerusalemme [circa 60 chilometri]”, dice riferendosi a una città costiera israeliana attaccata con razzi dalla Striscia di Gaza durante i tre giorni di scontri tra Israele e la Jihad islamica il mese scorso, in cui sono stati uccisi 44 palestinesi.
  Quando la Russia ha invaso l’Ucraina lo scorso febbraio, a Uman erano rimaste solo poche dozzine di ebrei e la sinagoga è stata utilizzata come rifugio antiaereo. Decine di ucraini stavano scendendo al mikveh, il bagno rituale ebraico sotterraneo, quando suonarono le sirene antiaeree, secondo la stampa israeliana dell’epoca.

(nanopress, 5 settembre 2022)

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Strage di Monaco del ‘72, il ricordo di Dino Meneghin: “Ci sembrava di vivere dentro un film, la libertà è finita quella notte”

A Monaco il 5 settembre ’72 l’assalto di un commando palestinese alla palazzina olimpica di Israele. Il mito del nostro basket era ai Giochi con l’Italia: «Un silenzio irreale, stava franando tutto».

di Giulia Zonca

Quattro medaglie, due ori scintillanti e due bronzi promettenti in una Monaco che sapeva come esaltare il mondo. L’ultimo giorno delle Olimpiadi come non le avremmo viste mai più è una felicità azzurra fatta di emozioni che si sbriciolano contro il 5 settembre 1972. Oggi, 50 anni fa: quando l’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero invade il Villaggio, occupa la palazzina israeliana, uccide due atleti e rapisce nove persone. È l’alba ed è l’inizio di un massacro che cambia i Giochi.
  Dino Meneghin ha 22 anni, diventerà il cestista più amato d’Italia e quella mattina lo travolge: «Fino a lì era una meraviglia. Impianti pazzeschi, lo stadio avveniristico e l’atmosfera vibrante. Noi sportivi mescolati ai visitatori, io salutavo i miei genitori alla sbarra di ingresso. Eravamo sereni, coinvolti: concentrati sulle gare però immersi in una festa che ci arrivava vicino e ci esaltava. Fino al 4 settembre non ho visto una sola divisa militare».

- Come vi è arrivata la notizia del sequestro?
  «Le notizie si rincorrevano frammentarie, si capiva poco eppure è stato subito evidente che stesse franando tutto. Un pugno nello stomaco. Ce lo hanno detto al rientro da un allenamento, mi pare».

Vi hanno fatto spostare?
  «No. La palazzina dell’Italia era a 300 metri dalla prima strada chiusa, ma non avevamo sentito nulla. Eravamo più sorpresi che impauriti. Ci siamo ammutoliti».

- Sono iniziate le discussioni: continuare o fermarsi L’Italia nel basket ha affrontato la domanda in privato?
  «Sì, ovvio. Guardavamo quella fetta di Villaggio chiuso e ci chiedevamo come reagire. Qualcuno deve aver detto: “Chiunque può entrare qui e fare quello che vuole”. Portavamo i dubbi in faccia, sapevamo poco però è stato giusto andare avanti. L’unica risposta da dare alla violenza è impedirle di fermare la vita».

- Oggi, con un flusso costante di informazione, si arriverebbe alla stessa scelta?
  «Non lo so, mi auguro davvero sia una domanda che nessuno si dovrà porre, però credo che la scelta del 1972 fosse sensata e quindi l’unica possibile. Un conto è interrompere o ritardare per il lutto, come è successo dopo i fatti del Bataclan, per esempio, un altro è chiudere e scappare. Andare avanti è il segnale da dare a chi crede di poterti terrorizzare e lo sport ha il potere di portare un messaggio di unità e globalità. Si muove contro i gesti osceni»

- Perché allora lo sport non ha mai saputo come onorare quei morti. Per anni il Cio, come ogni altra organizzazione, li ha rimossi.
  «Hanno provato a normalizzare, a tranquillizzare. Si temeva che la macchia indelebile avrebbe condizionato la magia delle Olimpiadi, ma la memoria è fondamentale. Se oggi, dopo 50 anni, ne stiamo parlando vuol dire che il modo di ricordare è stato trovato».

- Come avete saputo del massacro?
  «Davanti alla televisione, con il cuore spezzato. Seguivamo come fosse un film, convinti che ci sarebbe stato uno scambio di prigionieri, che il commando sarebbe partito senza altri morti, poi l’epilogo brutale, impossibile da metabolizzare. Il tempo lo ha anestetizzato però resta un concetto ingestibile. Così come il terrorista incappucciato sul balcone, l’immagine di quel 1972 purtroppo. L’ho vista in tv eppure mi è entrata in testa come se l’avessi guardato dal vivo».

- Il 6 settembre si gioca Usa-Italia e due giorni dopo la partita contro Cuba che valeva il terzo posto. Due sconfitte. Con che spirito avete affrontato quelle sfide?
  «Non eravamo condizionati. Onestamente non so più dire con che spirito siamo scesi in campo, di sicuro era sparita la bellezza. In quel Villaggio poi c’erano persino i teatri, i locali notturni e di colpo il silenzio. La mattina prima ti sedevi a colazione tra un cinese e un australiano e quella dopo ognuno tra le proprie tute. Per nazioni. Stretti. Una claustrofobia iniziata quando il nostro bus si è spinto contro il muro per lasciare lo spazio tra noi e i convogli con i fedayn in uscita. Un impatto a lungo termine».

- Quattro anni dopo non avrebbe più potuto salutare i suoi genitori alla sbarra.
  «Proprio no. A Montreal, nel 1976, era quasi opprimente. Polizia ovunque, metal detector a ogni spostamento minimo. Andavamo a giocare con la scorta con la mitraglietta».

- E nelle edizioni successive che ha vissuto o visto?
  «L’era della preoccupazione. A Mosca ’80 mancavano gli Usa; nel 1984, a casa i Paesi sovietici. E sempre più sicurezza ostentata e ansie nascoste. Solo ad Atene 2004, anno in cui ero dirigente, ho rivisto la calma. Non la festa di Monaco, ma il compromesso tra il bisogno di regole e protezione e il fascino di una Olimpiade. Oggi i la tecnologia aiuta a gestire i controlli in modo meno invadente, ma quella libertà è rimasta là, al 4 settembre 1972». 

(Corriere della Sera, 5 settembre 2022)


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Monaco ’72: le parole da ricordare

di Ariela Piattelli

Per ricordare il massacro di Monaco ’72 a cinquant’anni dalla strage, Shalom ha raccontato le storie degli atleti uccisi dai terroristi di Settembre Nero, di quelli che miracolosamente si sono salvati grazie alla fortuna, non certo all’ingegno di chi avrebbe dovuto proteggerli, e la difficile trattativa tra il governo tedesco e i parenti delle vittime, che chiedevano oltre ad un risarcimento accettabile un’indagine adeguata e l’assunzione delle responsabilità da parte della Germania Federale. In questo mezzo secolo i fatti di Monaco ’72 sono tornati sulle pagine dei giornali per motivi differenti, soprattutto perché al rifiuto sordo ad ogni richiesta, agli 11 atleti israeliani è stato per lunghi anni negato il ricordo. Ci sono alcune parole importanti, dette e negate, che costellano questa storia. Eccone alcune.

• Il silenzio
  Non possiamo dimenticare certamente che per quasi cinquant’anni il comitato olimpico come i governi di tanti paesi, hanno cercato di smarcarsi dal dovere della memoria del massacro, rifiutando, spesso, di celebrarla in occasione di anniversari ed eventi. Per molti anni non sono bastate le voci dei famigliari degli atleti uccisi da Settembre Nero, degli israeliani e degli ebrei della diaspora che hanno lottato, rimanendo inascoltati, per ricordare le vittime del massacro con un minuto di silenzio ai Giochi olimpici.

• Il ricordo tardivo
  Soltanto il 23 luglio del 2021, alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo, è arrivato quel ricordo, che ha commosso il mondo e più di tutti, chiaramente, gli israeliani. Un minuto di silenzio che hanno chiesto per quasi 50 anni. Dobbiamo ricordare che proprio loro, gli israeliani, sin dal momento in cui si consumava la strage hanno assistito a chi girava le spalle alle vittime del terribile delitto compiuto verso un paese e un popolo, e a chi ha voluto distogliere lo sguardo dai veri colpevoli, i terroristi palestinesi che avevano scelto le Olimpiadi e l’Europa come campo di battaglia. Proprio quell’Olimpiade che doveva cancellare la memoria di quelle uncinate del ’36 a Monaco, quando i soldati sfilarono facendo il saluto nazista: tornare in Germania per gli israeliani significava affrontare un tabù della storia, ma tutto si è trasformato in un incubo senza risveglio.

• Acrobazie
  Sin dalle prime ora dopo il massacro, una buona parte della stampa italiana si è impegnata operosamente in acrobazie ideologiche, “equidistanti”, alla ricerca delle “radici” della strage, dunque, di giustificazioni. “I guerriglieri” palestinesi, così chiamavano i terroristi, erano, in sintesi, spinti dalla “disperazione” del loro popolo, come se il massacro fosse una forma di protesta. Quell’idea secondo cui le radici del terrore palestinese portano sempre ad Israele anche nel ’72 tornò con forza in superficie: un male latente, che arriva sino ad oggi. Il papa di allora, Paolo VI, nel suo discorso di condanna della strage pronunciava queste parole: “E poi, andiamo, sì, al di là, ancora, col pensiero. Perché? Quali le cause? E anche queste non possono non rattristarci. Se c’è questa smania di esplodere in simili episodi, è segno che c’è un grande male, una grande sofferenza negli animi, che diventano ciechi e si concedono queste esplosioni di vendetta, di risentimento”. Il massacro, dunque, anche per il pontefice è “segno”, sintomo, della sofferenza dei palestinesi.

• Filoarabismo
  Una voce fuori dal coro sulla stampa italiana quella di Indro Montanelli, che in un fondo sul Corriere della Sera, metteva in guardia l’opinione pubblica da ciò che chiamava “il lento avvelenamento delle coscienze” con il “subdolo” filoarabismo di allora. Montanelli invitava così l’opinione pubblica a portare sul banco degli imputati il vero responsabile del massacro di Monaco, il terrorismo palestinese “i suoi proprietari, i suoi manutengoli e i suoi complici morali, tra cui ci sono tanti intellettuali europei e nostrani”. Soltanto Israele, secondo lui, avrebbe dovuto valutare e giudicare le responsabilità tedesche. “Se Israele avesse sempre fatto ciò che noi europei ci auguravamo che facesse, - scriveva - a quest’ora non sarebbe che un’immensa Auschwitz”. Montanelli, dunque, si scagliava contro chi cercava le ragioni, in un gioco di equilibrismi, che giustificassero la strage. A tal proposito memorabile l’editoriale di Lia Levi, che sulla prima pagina del numero di Shalom sul massacro scrive che chi chiede agli ebrei di accettare Monaco ’72 “è nostalgico di pogrom, è complice di assassini”.

• Ritardo e diniego
  Il ritardo all’appuntamento con la storia è arrivato anche ai giorni nostri. A Berlino, poche settimane fa.  L’immagine di Olaf Scholz che stringe, seppur visibilmente provato, la mano di Abu Mazen, dopo che il leader dei palestinesi incalzato da un giornalista, ha negato di scusarsi per il massacro di Monaco, di cui lui stesso fu complice, e ha calunniato lo Stato ebraico, resta indelebile. Certo, sono seguiti comunicati e reazioni di sdegno apprezzabili da parte del cancelliere tedesco, ma ciò è avvenuto in ritardo. Perché la storia la scrivono anche le immagini.

• Giustizia e vergogna
  Gli israeliani e gli ebrei della diaspora hanno chiesto giustizia per mezzo secolo sul massacro di Monaco. Hanno chiesto un’indagine, perché sono ancora tanti i punti oscuri sulle responsabilità della strage. Alcune vedove degli atleti israeliani uccisi hanno speso la loro vita per chiedere la verità. Perché seppur i primi responsabili sono i terroristi di Settembre Nero, la Germania non garantì una sicurezza adeguata alla delegazione israeliana, gestì male l’operazione di salvataggio, e rifiutò la collaborazione di Israele. Ma un primo passo verso una svolta è arrivato proprio ieri, a Berlino durante l’incontro tra il Presidente dello Stato d’Israele Isaac Herzog e il Presidente tedesco Walter – Frank Steinmeier. "Per troppo tempo non abbiamo voluto accettare di condividere le responsabilità: era nostro compito garantire la sicurezza degli atleti israeliani" ha detto Steinmeier, aggiungendo che l’attesa di 50 anni per un accordo sulle richieste degli israeliani “è una vergogna”.

(Shalom, 5 settembre 2022)

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Spari sul bus: 7 feriti. E Hamas giustizia 5 "collaborazionisti"

Sette israeliani sono rimasti feriti ieri in un attacco condotto da militanti palestinesi, che hanno aperto il fuoco contro un autobus nei pressi di Hamra, nella valle del Giordano. Lo ha reso noto l'Esercito israeliano, secondo cui i feriti - tra cui uno grave - sono sei militari israeliani e l'autista del mezzo. Due palestinesi sono stati arrestati nei pressi del luogo dell'attacco e sono a disposizione del servizi segreti israeliani per essere interrogati. L'esercito ha anche sequestrato le armi usate per l'aggressione, mentre continuano a rastrellare la zona alla ricerca di possibili altri sospetti. Sull'autobus sono stati rilevati dodici colpi d'arma da fuoco. «Continueremo a dare la caccia ai terroristi, a chiunque voglia colpire i cittadini e i soldati israeliani», ha scritto su twitter il premier Yair Lapid.
  Ieri intanto da Gaza Hamas ha annunciato di aver messo a morte cinque palestinesi, due dei quali con l'accusa di «collaborazionismo» con Israele. «Domenica mattina la sentenza di pena di morte è stata eseguita contro due condannati per collaborazione con l'occupazione e altri tre per vicende penali», ha fatto sapere in un comunicato il movimento islamico palestinese, che è al potere nella Striscia di Gaza, aggiungendo che agli imputati di fronte alla giustizia locale è stato offerto il «pieno diritto alla difesa». I condannati per «collaborazionismo con il nemico» sono stati fucilati, mentre gli altri sono stati impiccati.
  Oggi inoltre dovrebbero entrare in vigore le nuove regole messe a punto dal Cogat, il Coordinamento delle attività di governo nei Territori che dipende dal Ministero della difesa israeliano. Uno straniero che intende entrare in Cisgiordania deve dichiarare a Israele se «ha formato una coppia» con un palestinese o se i due hanno avviato «una relazione» sentimentale. In base alle nuove procedure - pubblicate inizialmente a febbraio scorso e contestate dalla Ue e anche dagli Usa - uno straniero sposato a un palestinese, o che sia in procinto di matrimonio, o sia in relazione, deve dichiararlo al Cogat per avere il visto di ingresso. In più se lo straniero ha iniziato una relazione (fidanzamento, promessa di matrimonio o coabitazione) durante il suo soggiorno, ha l'obbligo di informare il Cogat entro 30 giorni dall'arrivo. In caso contrario, il permesso di ingresso viene ritirato e potrebbero esserci problemi nell'eventuale rinnovo.

(il Giornale, 5 settembre 2022)

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Salmo 109 (4)

  1. Per il maestro del coro. Salmo di Davide.
    O Dio della mia lode, non tacere,
  2. perché bocca di malvagio e bocca d'inganno si sono aperte contro di me; hanno parlato contro di me con lingua di menzogna.
  3. Mi hanno circondato con parole d'odio, mi hanno fatto guerra senza motivo;
  4. in risposta al mio amore mi accusano. E io resto in preghiera.
  5. Mi hanno reso male per bene, e odio in cambio d'amore.
  1. Costituisci un empio sopra di lui, un accusatore si tenga alla sua destra.
  2. Sia giudicato ed esca condannato; la sua preghiera gli sia imputata a peccato.
  3. Siano pochi i suoi giorni: un altro prenda il suo ufficio.
  4. Siano orfani i suoi figli e vedova sua moglie.
  5. Vadano errando i suoi figli e accattino; cerchino pane lontano dalle loro case in rovina.
  6. Getti l'usuraio le sue reti sui suoi beni; facciano preda gli estranei delle sue fatiche.
  7. Nessuno mostri a lui benevolenza, e non si trovi chi abbia pietà dei suoi orfani.
  8. Sia distrutta la sua progenie; nella seconda generazione sia cancellato il loro nome!
  9. Sia ricordata dall'Eterno l'iniquità dei suoi padri, e il peccato di sua madre non sia cancellato.
  10. Restino sempre davanti all'Eterno quei peccati e faccia Egli sparire dalla terra la sua memoria.
  11. Perché non ha voluto aver pietà, ma ha perseguitato il povero e bisognoso, chi aveva il cuore spezzato, per ucciderlo.
  12. Ha amato la maledizione, ricada essa su di lui; non ha gradito la benedizione, resti essa lontana da lui.
  13. Si è avvolto di maledizione come di un vestito, penetri essa come acqua in lui, come olio nelle sue ossa.
  14. Sia per lui come un manto che lo ricopre, come una cintura che sempre lo cinge!
  15. Tale sia da parte dell'Eterno la ricompensa dei miei accusatori, e di quelli che proferiscono del male contro l'anima mia.
  1. Ma tu, Eterno, o Signore, opera in mio favore, per amore del tuo nome; poiché buona è la tua misericordia, liberami!
  2. Perché povero e bisognoso io sono e il mio cuore è ferito dentro di me.
  3. Me ne vado come un'ombra che s'allunga, sono scosso via come una locusta.
  4. Le mie ginocchia vacillano per il digiuno, la mia carne deperisce e dimagra.
  5. Son diventato un obbrobrio per loro; mi guardano e scuotono il capo.
  6. Aiutami, o Eterno, Dio mio, salvami secondo la tua benignità.
  7. E sappiano essi che questa è la tua mano, che sei tu, o Eterno, che agisci.
  8. Essi malediranno, ma tu benedirai; s'innalzeranno, ma saranno confusi, e il tuo servo esulterà.
  9. I miei accusatori saran vestiti di vituperio e avvolti nella vergogna come in un manto!
  10. Ad alta voce io celebrerò l'Eterno con la mia bocca, lo loderò in mezzo a molti;
  11. perché Egli sta alla destra del povero per salvarlo da quelli che lo condannano a morte.

Spiegare un passo difficile della Bibbia significa riuscire a collocarlo all’interno di un tutto di cui si è individuato il centro. In questo caso il tutto è l'intera rivelazione dell’opera di Dio nella creazione e nella storia; il centro è la persona e l’opera di Gesù, Messia d’Israele e Signore del mondo.
  I tentativi di spiegazione operati all'interno di questa cornice sono diversi, e quindi molti saranno sbagliati, ma tuttavia legittimi come tentativi, perché non esiste un'autorità umana che possa dire l'ultima parola. Quelli invece operati al di fuori di questa cornice restano fuori della realtà e sono da prendere come semplici esercizi letterari, atti al più a stimolare qualche riflessione.
  In letteratura si possono trovare anche elenchi di "brani difficili" della Bibbia con relative spiegazioni. In molti casi possono effettivamente servire a togliere dubbi fornendo informazioni non a disposizione di chi legge, ma qualche volta appaiono come un maldestro tentativo di inserire forzatamente il brano in questione nella propria visione biblica, mentre invece potrebbe essere proprio quella particolare visione a doversi modificare e adattarsi meglio al testo biblico nella sua totalità.
  Si parla qui di "visione biblica", più che di dottrina biblica, perché spesso non è la formulazione dottrinale ad essere in gioco ma il peso e il posto che occupano certi elementi particolari nella comprensione del tutto. 
  Uno di questi elementi è la "pia violenza" verbale di Davide (ma non solo) in certe preghiere.
  Per non girare intorno al problema, dichiariamo subito la tesi di questo studio: il salmo 109 è nella sua interezza un salmo messianico, al pari del salmo 22, cioè prefigura nelle sofferte parole di Davide re d'Israele, le sofferenze di Gesù Messia d'Israele.
  La disturbante violenza del salmo 109 è contenuta nei quindici "versetti scandalosi" compresi tra il 6 e il 20. A ragione si possono chiamare scandalosi, perché sono un intoppo su cui alcuni inciampano. Uno di questi è Charles Spurgeon, perché non riesce a capacitarsi che quelle violente parole possano essere passate per la mente di Gesù. Quindi inciampa, si blocca, non riesce più ad andare avanti per quella via.  
  Un passo del Nuovo Testamento a cui forse non si dà il dovuto peso è quello in cui si parla della sostituzione di Giuda con Mattia:

    "In quei giorni, Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli (il numero delle persone riunite era di circa centoventi), disse: Fratelli, bisognava che si adempisse la profezia della Scrittura pronunciata dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, che fu la guida di quelli che arrestarono Gesù. Poiché egli era annoverato fra noi, e aveva ricevuto la sua parte in questo ministero [...] Poiché è scritto nel libro dei Salmi: Divenga la sua dimora deserta, e non vi sia chi abiti in essa; e: Un altro prenda il suo ufficio" (Atti 1:15-19). 

Pietro considera le parole "un altro prenda il suo ufficio" del Salmo 109 come anticipazione profetica delle parole di Gesù; dunque vede in Giuda un'attualizzazione della figura di quell'empio contro cui si scaglia Davide.
  Cita poi come parole profetiche anche il salmo 69, contenente anch'esso dei versetti "scandalosi":

  1. Sia la mensa, che sta davanti a loro come un laccio; e sia per loro un tranello quando si credono sicuri.
  2. Gli occhi loro si offuschino, sì che non vedano più; e fa' che i loro lombi continuamente vacillino.
  3. Riversa su di loro la tua ira, e li colga l'ardore del tuo furore.
  4. La loro dimora sia desolata, nessuno abiti nelle loro tende,
  5. poiché perseguitano colui che tu hai percosso, e si raccontano i dolori di quelli che tu hai feriti.
  6. Aggiungi iniquità alla loro iniquità, e non abbiano parte alcuna nella tua giustizia.
  7. Siano cancellati dal libro della vita, e non siano iscritti con i giusti.

Leggendo il Salmo 69 con attenzione, si potrebbe dire che è una parafrasi del Salmo 109. Anche in esso sono presenti, e ampliati, tutti gli elementi che mettono in relazione Davide col Servo sofferente dell'Eterno. C'è perfino un probabile riferimento alla crocifissione di Gesù:"Mi hanno dato fiele per cibo, e nella mia sete mi hanno dato a bere dell'aceto" (v. 21). Come si spiega allora la presenza in entrambi i salmi, accanto a lamentazioni e palpitanti suppliche al Signore, di un ardente desiderio di vedere colpiti da Dio i propri avversari. Com'è possibile, nel salmo 69, che nella stessa preghiera Davide chieda l'aiuto di Dio per sé: "Salvami, o Dio, poiché le acque mi sono giunte fino alla gola" (v. 1) e l'ira di Dio per i suoi nemici: "Riversa su di loro la tua ira, e li colga l'ardore del tuo furore" (v. 24); che Dio abbia comprensione per i suoi peccati: "O Dio, tu conosci la mia follia, e le mie colpe non ti sono nascoste" (v. 5), ma sia spietato coi suoi nemici: "Aggiungi iniquità alla loro iniquità, e non abbiano parte alcuna nella tua giustizia" (v. 27).
  Si potrebbe anche pensare che in entrambi i salmi in una parte si ode la voce del Messia sofferente e in un'altra quella del Messia trionfante. La congettura sarebbe legittima perché salti di significato di questo tipo sono presenti nella Bibbia. Nella seconda parte del libro di Isaia, per esempio,l'espressione "mio servo" può indicare, con salti di significato senza preavviso, sia il popolo d'Israele sia la persona del Messia.
  Particolarmente importante è un passo del profeta Isaia:

    "Lo spirito del Signore, dell'Eterno è su di me, perché l'Eterno mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore rotto, per proclamare la libertà a quelli che sono in schiavitù, l'apertura del carcere ai prigionieri,  per proclamare l'anno di grazia dell'Eterno, e il giorno di vendetta del nostro Dio" (Isaia 61:1-2).

In queste parole di chiaro riferimento messianico sono accostati due modi opposti dell'agire di Dio: la grazia e la vendetta. Gesù cita questo passo nella sinagoga di Nazaret:

    "E venne a Nazaret, dov'era stato allevato; e com'era solito entrò in giorno di sabato nella sinagoga; e alzatosi per leggere, gli fu dato il libro del profeta Isaia; e aperto il libro trovò quel passo dov'era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra me; per questo mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato ad annunciare liberazione ai prigionieri, e ai ciechi ricupero della vista; a rimettere in libertà gli oppressi, e a predicare l'anno accettevole del Signore.»  Poi, chiuso il libro e resolo all'inserviente, si pose a sedere; e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi in lui.  Ed egli prese a dir loro: Oggi, s'è adempiuta questa scrittura, e voi l'udite" (Luca 4:16-21).

Nella sua citazione Gesù si ferma alla grazia (l'anno accettevole del Signore) evitando di nominare il giorno di vendetta del nostro Dio. Come mai? Qualcuno potrebbe pensare che col suo silenzio Gesù annunci l'abolizione del giorno di vendetta e quindi metta fuori legge ogni ricorso a qualsiasi forma di vendetta. Sarebbe l'annuncio del passaggio dal Dio severo e spietato degli ebrei al Dio comprensivo e misericordioso dei cristiani.
  Ma non è così: è solo questione di tempo. Sia per gli ebrei, sia per i cristiani. Dicendo "Oggi si è adempiuta questa scrittura, e voi l'udite", Gesù annuncia che nel programma di Dio è cominciato oggi il tempo della grazia, senza che con ciò sia stato abrogato per il domani il tempo della vendetta. 
  E' la parola "vendetta" che disturba. Suona male. Se proprio si deve punire qualcuno, si preferisce parlare di "giustizia". Ogni tanto si sente l'appello di persone che hanno subito un torto: "Non vogliamo vendetta, vogliamo giustizia". Questo è buono, nei rapporti fra uomini, ma vale anche nei rapporti fra uomini e Dio? Possiamo rimproverare a Dio il suo annunciato proposito di fare vendetta? E' soltanto il Dio dell'Antico Testamento che parla così? Ai credenti in Roma l'apostolo Paolo scrive: 

    "Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all'ira di Dio; poiché sta scritto: «A me la vendetta; io darò la retribuzione», dice il Signore" (Romani 12:19).

La vendetta appartiene a Dio, è una sua esclusiva. Quando gli uomini "fanno le loro vendette" manifestano il desiderio di sostituirsi a Dio. 
  E' bene allora dirlo con chiarezza: chi ha accolto la grazia del perdono dei peccati e della salvezza eterna in Cristo Gesù ha accolto anche l'obbligo di abbandonare non soltanto ogni proposito, ma anche ogni pensiero di fare vendetta per sé. E neppure può chiedere a Dio di fare vendetta per lui, perché sarebbe una forma di maledizione.
  La vendetta è distinta dalla giustizia. Se non si può chiedere a Dio di fare vendetta, si può chiedergli di fare giustizia (Salmo 26:1, Luca 18:1-8). Attenzione però, perché mentre la vendetta mira a un preciso obiettivo, la giustizia si estende su tutto; e chi chiede a Dio di fare giustizia non può poi pretendere di essere trattato come caso a parte.
  Per togliere infine dalla figura di Gesù quella patina caramellosa che la tradizione religiosa gli ha appiccicato, è bene ribadire che se la vendetta appartiene a Dio, allora appartiene anche al programma di Gesù. L'apostolo Paolo consola con queste parole i credenti di Tessalonica che per la loro fede subiscono afflizioni:

    "E' cosa giusta presso Dio rendere a quelli che vi affliggono, afflizione;  e a voi che siete afflitti, riposo con noi, quando il Signore Gesù apparirà dal cielo con gli angeli della sua potenza, in un fuoco fiammeggiante, per fare vendetta di coloro che non conoscono Dio, e di coloro che non ubbidiscono al Vangelo del nostro Signore Gesù" (2 Tessalonicesi 1:6-8).

  Gesù un giorno farà vendetta, su questo non c'è dubbio.
  Quello che nel salmo 109 può disturbare (come anche nel salmo 69) è che il pensiero della vendetta non è rinviato a un tempo futuro, quando sarà compiuto il tempo della grazia, ma è invocato dal Messia durante la preghiera, nel tempo stesso della sua sofferenza. I versetti terribili si trovano infatti non alla fine del salmo, ma nel mezzo, per concludersi poi con parole di celebrazione a Dio. 
  Si può immaginare allora un Gesù che usa i salmi con versetti "scandalosi" per rivolgersi al Padre nelle sue preghiere? 
  E' questa la forma che ha assunto adesso il problema. 

M.C.
(4. continua)

(Notizie su Israele, 4 settembre 2022)


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Perché Israele attacca sempre più spesso gli aeroporti siriani

Gli attacchi aerei israeliani contro obiettivi iraniani in Siria hanno preso sempre più di mira gli aeroporti per contrastare il crescente uso di voli commerciali da parte di Teheran per portare rifornimenti militari nel Paese, ha riferito venerdì la Reuters, citando fonti diplomatiche e di intelligence.
  Una fonte dell’intelligence occidentale e un disertore militare siriano hanno dichiarato all’agenzia di stampa che Teheran ha iniziato a trasportare piccole armi e altre forniture militari su voli civili regolari. Le forniture trasferite includono missili a guida di precisione, apparecchiature per la visione notturna e UAV, tutti abbastanza piccoli da poter essere caricati su aerei civili.
  L’Iran si è affidato sempre più ai voli perché le sue precedenti rotte via terra attraverso l’Iraq sono diventate inaffidabili a causa delle guerre locali e dei conflitti interni.
  Israele considera l’espansione dell’Iran in Siria come una minaccia continua alla sua sicurezza nazionale e ha condotto attacchi su un’ampia gamma di obiettivi nel tentativo di contenere le forze iraniane nella regione.
  Una fonte diplomatica regionale ha riferito a Reuters che l’intelligence israeliana ha notato il crescente utilizzo da parte dell’Iran di aeroporti civili per far entrare attrezzature militari e che i recenti attacchi aerei contro gli aeroporti sembrano segnalare un cambiamento nella strategia israeliana nella regione.
  “Hanno iniziato a colpire le infrastrutture utilizzate dagli iraniani per le forniture di munizioni al Libano”, ha detto la fonte alla Reuters. “In passato, si trattava solo dei rifornimenti, ma non dell’aeroporto. Ora hanno colpito la pista”.
  Secondo la Reuters, anche i recenti attacchi agli aeroporti di Aleppo e Damasco sembrano essere stati condotti per impedire l’arrivo di specifici aerei che trasportano armi.
  Sebbene Israele si sia rifiutato di commentare specifici attacchi aerei, funzionari militari dello Stato Ebraico hanno riconosciuto di averli condotti durante gli undici anni di guerra civile in Siria.
  All’inizio di quest’anno, gli attacchi aerei attribuiti a Israele hanno causato gravi danni all’aeroporto internazionale di Damasco, bloccando tutto il traffico aereo per due settimane. Il disertore siriano ha dichiarato alla Reuters che, di conseguenza, l’Iran ha dirottato le sue spedizioni verso l’aeroporto di Aleppo, provocando il presunto attacco israeliano di mercoledì.
  Nawar Shaaban, analista dell’Omran Center for Strategic Studies, ha dichiarato a Reuters che la posizione degli attacchi aerei israeliani getta luce sull’espansione dell’influenza iraniana in Siria. Mentre in precedenza gli attacchi avevano come obiettivo Damasco e le zone militari circostanti, gli attacchi in destinazioni più lontane, come Aleppo e la costa siriana, mostrano quali regioni Israele valuta come potenziali minacce.
  “La cosa pericolosa è che quando guardiamo a queste aree che vengono colpite quello che gli attacchi ci dicono è che l’Iran si è diffuso di più in Siria”, ha detto Shaban.
  “Ogni volta che vediamo un attacco che colpisce una nuova area, la reazione è: ‘Wow, Israele ha colpito lì’. Ma quello che dovremmo dire è: ‘Wow, l’Iran è lì'”, ha aggiunto.
  Il portavoce dell’IDF ha rifiutato di commentare eventi specifici, in linea con la politica israeliana, ma ha riconosciuto numerosi attacchi nella regione.
  Un’immagine satellitare scattata giovedì ha mostrato i danni all’aeroporto internazionale di Aleppo, nel nord della Siria. L’immagine, scattata da Planet Labs PBC e fornita da Aurora Intel, sembra mostrare un’area bruciata vicino alla fine della pista.
  Il raid israeliano ha aperto un varco nella pista e ha innescato un incendio nell’aeroporto. Tuttavia, gli aerei hanno continuato ad atterrare all’aeroporto per tutta la giornata di giovedì.
  Secondo Aurora Intel, un aereo cargo iraniano soggetto a sanzioni era atterrato all’aeroporto di Aleppo alcune ore prima dell’attacco. Non è chiaro se l’aereo o il carico che trasportava siano stati colpiti nell’attacco.
  Sempre giovedì, il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad ha lanciato un duro avvertimento a Israele in merito agli attacchi aerei. Secondo i media arabi, Israele starebbe “giocando con il fuoco” e rischierebbe un conflitto militare più ampio.
  Venerdì, un giornale arabo ha riferito che la Russia ha chiesto all’Iran e alle sue milizie di ritirarsi dalle posizioni in Siria, in seguito all’apparente aumento degli attacchi aerei attribuiti a Israele.
  A-Sharq Al-Awsat, un quotidiano di proprietà saudita pubblicato a Londra, ha citato funzionari siriani secondo cui gli ufficiali russi avrebbero chiesto alle loro controparti iraniane, durante un incontro di mercoledì all’aeroporto militare di Hama, nella Siria centrale, di lasciare diversi siti nel Paese.
  Il rapporto afferma che con queste richieste la Russia cerca di mantenere la stabilità in Siria e di privare Israele di obiettivi da bombardare in aree che la Russia considera importanti. Il mese scorso un attacco aereo attribuito a Israele ha colpito diversi siti iraniani vicino alla principale base navale russa in Siria, nella città portuale di Tartus.

(Rights Reporter, 3 settembre 2022)

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Ex alunni ebrei tornano in classe "Rivivrò una grande emozione"

Il 5 settembre l’iniziativa voluta da Rondine cittadella della pace: fra gli otto testimoni, una ferrarese. Carla Neppi Sadun: "Le guerre sono devastazione, la discriminazione subita non va dimenticata mai".

di Matilde Gravili

FERRARA - Era il 5 settembre del 1938 quando veniva promulgato il primo di quelli che vennero poi definiti i“decreti della vergogna“ - le leggi razziali - in cui si stabiliva l’espulsione di tutti gli studenti ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado. Esattamente ottantaquattro anni dopo, otto di quegli studenti estromessi dalle classi torneranno sui banchi di scuola insieme agli studenti di Rondine Cittadella della Pace per iniziare le lezioni con trentuno studenti e studentesse del quarto anno delle superiori nella Cittadella della Pace di Arezzo: fra questi,oltre a Ugo Foà, Miriam Cividalli, Lello Dell’Arriccia, Claudio Fano, Fabio Di Segni, Gianni Polgar e Nando Tagliacozzo, spunta anche il nome di Carla Neppi Sadun, ferrarese classe 1931, che venne estromessa dalle scuole all’età di sette anni: "Tornare sui banchi è per me una grande emozione. Per tutta la mia vita, in realtà, ne sono stata circondata perché sono stata un’insegnante. Il ricordo è molto vivo e altrettanto lo sarà andando avanti con l’età", spiega Carla raggiunta al telefono.
  Quando le venne vietato di andare a scuola, i suoi genitori ebbero la lungimiranza di farle continuare gli studi privatamente alla scuola ebraica, ma non tutti i bambini e le bambine ebbero questo privilegio."Nel passaggio di estromissione dalle scuole– prosegue il racconto Neppi Sadun– i miei genitori furono molto delicati nel non farmi capire cosa stesse succedendo, sembrava che mi volessero trasferire in un’altra scuola. Anche i maestri, quando andavamo a dare gli esami di ammissione, erano molto dolci". Il ministero della pubblica istruzione, infatti, aveva permesso agli ex frequentati di poter comunque sostenere, alla fine di ogni anno scolastico, l’esame di ammissione alle classi successive, sempre però separati da tutti gli altri ragazzi.
  L’iniziativa del 5 settembre è realizzata da Rondine Cittadella della Pace in collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L’incontro inizierà al suono della campanella, alle 9, con i saluti del presidente e fondatore di Rondine cittadella della pace, Franco Vaccari e della Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni. Durante l’incontro porterà il proprio saluto il Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, in collegamento da remoto, e sarà proiettato un videomessaggio della Senatrice a vita, Liliana Segre che nel 2020 ha scelto di fare la sua ultima testimonianza pubblica proprio a Rondine, affidando ai giovani della cittadella la sua memoria perché possa essere trasformata in azioni concrete di pace. Parteciperanno alla lezione anche i licei aretini Vittoria Colonna, Francesco Redi e Francesco Petrarca con le classi della’sezione Rondine’, il nuovo progetto formativo, sviluppato con l’ufficio scolastico provinciale di Arezzo, che porta il’metodo Rondine’ direttamente nelle scuole d’Italia.
  "Quello che voglio far capire alle nuove generazioni - conclude Carla Neppi Sadun - è la loro fortuna: hanno vissuto per quasi ottant’anni senza guerra e senza conflitti. Non hanno provato quello che abbiamo provato noi: le guerre sono semplice e pura devastazione, la discriminazione che abbiamo subìto è qualcosa che non si dimentica mai e mai va dimenticata".

(il Resto del Carlino, 3 settembre 2022)

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La principessa indiana vendeva i suoi gioielli per salvare ebrei nella Parigi occupata

In un museo di Mumbai l’autrice reduce da un lutto si imbatte in una foto di Amrit Kaur, bellissima e misteriosa Punjabi di origine sikh, in Francia fu arrestata dalla Gestapo e mandata in un campo di concentramento

di Federica De Paolis

Dopo la morte inaspettata del fratello, Livia Manera Sambuy, si reca in India per scrivere un ritratto sul romanziere Vikram Chandra. Il lutto si aggiunge a un’altra ferita, la fine del matrimonio con «l’amore della sua vita», dal quale ha avuto due figli; più le intemperie di una crisi economica che hanno portato il giornale per il quale lavora, a fare dei tagli. Confusa e spezzata da un inanellarsi di perdite importanti, si ritrova a Mumbai in un museo, dove decide di passare le ultime ore che le restano in oriente. Ed ecco che si imbatte in un una foto, un’immagine folgorante che cattura la sua attenzione: una donna giovane, di bellezza abbagliante, l’indiana Amrit Kaur. Una piccola didascalia recita che si tratta di una principessa punjabi, di origine sikh, la quale si era ritrovata nella Parigi occupata ed era riuscita a salvare le vite di alcuni ebrei vendendo i suoi preziosi gioielli, e in seguito era stata arrestata dalla Gestapo e mandata in un campo di concentramento, dove un anno dopo era morta uccisa dai nazisti. «Che storia straordinaria, ricordo di aver pensato, facendo un passo indietro per osservare meglio quella figura dalla carnagione bruna. Com’era possibile che una vicenda simile fosse passata inosservata?».
  La storia incredibilmente anomala accende la curiosità della scrittrice. Così Livia torna a Parigi, dove si è appena trasferita da Milano con sua figlia, e mentre cerca di ambientarsi (non parla francese e ha pochissime conoscenze), continua a rimuginare sulla vita della principessa tanto da cominciare delle ricerche. «Desideravo saperne di più. Desideravo capire che cosa avesse spinto una principessa del Raj a lasciare l’India per Parigi negli anni trenta; e soprattutto desideravo scoprire che cosa l’avesse trattenuta là finché era stato troppo tardi». Oltre alla curiosità e all’ostinazione, Livia è avvolta in una nebbia «emotiva», sembra che la storia della principessa l’aiuti a focalizzare la sua attenzione altrove, anche se l’altrove che ci cattura (in fondo) parla sempre di noi.
  I dettagli della vita di Amrit Kaur cominciano ad affiorare aprendo una serie interminabile di interrogativi. Fin quando la scrittrice non riesce a mettersi in contatto con la figlia della principessa, un’elegantissima indiana ottantenne, ormai quasi cieca, dalla quale vola a Pune, in cerca di risposte. Livia è cauta nell’approccio, Bubbles è una donna che è stata abbandonata dalla madre nel lontano 1933, esclusa da un asse ereditario sfavillante, cresciuta sola e senza risposte. Da quel primo incontro si crea un legame imprescindibile e toccante. Alcuni mesi dopo la prima visita, dopo il rientro di Livia a Parigi, in una lettera Bubbles la saluta dicendole «non ti scordare di noi». «Non che nel frattempo l’avessi mai dimenticata. E anche se le circostanze che mi avevano tenuto lontana dall’India dipendevano da impegni improrogabili, quel “non scordarti di noi” diventò una spina che a poco a poco si scavò una strada fino a un punto al centro del mio corpo, dove creò un bozzolo capace di resistere al tempo». È in quel momento che capisce di dover scrivere quella storia.
  Per ricucire la vicenda, per scoprire il segreto di Amrit Kaur, viaggia tra gli Stati Uniti, l’India e l’Europa, rovesciando i fatti del Raj britannico, mettendosi sulle tracce dei memorabili gioielli della principessa, ricostruendo la sua vita, - inclusi i terribili giorni di prigionia (tra le pagine più commoventi del libro) - incontrando le avventure di banchieri, Maharaja, esploratori, gioiellieri, agenti segreti e intervistando chiunque abbia avuto anche lontanamente un contatto con lei. Sembra che Amrit Kaur nel corso della sua vita abbia attratto come un magnete figure mitiche, abbracciando un destino assolutamente «rivoluzionario» per una donna del suo rango e del suo tempo. Mentre i tasselli cominciano a trovare una collocazione, un nuovo sentimento esplode: «Al desiderio di scoprire se Amrit Kaur avesse davvero aiutato degli ebrei a mettersi in salvo, s’era aggiunto un altro scopo, altrettanto urgente, quello di riavvicinare una madre a una figlia che ancora, a ottant’anni, chiedeva di sapere». Il risultato è un mosaico storico imponente, un romanzo scritto in maniera mirabile capace di descrivere un mondo a molti sconosciuto, trascinandoci in una storia struggente, piena di colpi di scena: quelli che incontriamo nel passato e quelli che si susseguono nella ricerca della scrittrice.
  Livia Manera Sambuy si è imbattuta in una vicenda «magnifica» che parla di donne, rivoluzione, guerra, amore: attraverso «un’altra vita» ha incontrato sé stessa (proprio come Emmanuel Carrère in Limonov). Insieme al segreto della principessa è stata capace di sciogliere il suo. Con una voce precisa e una lingua impeccabile, ha assunto uno dei compiti capitali della letteratura: incantare il lettore resuscitando un’immensa storia sepolta.

(La Stampa - tuttolibri, 3 settembre 2022)

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Tzedakà: aiutare gli altri per trovare il proprio posto nel mondo e “salvare” se stessi (forse)

Non solo pietà o carità ma autentica norma etica, atto di giustizia e pietra angolare della società civile. La Tzedakà e la ghemilut hasadim sono una costante di tutte le feste ebraiche, specie a Rosh haShanà e Yom Kippur. A livello spirituale è la scoperta dell’Altro, è lo sforzo per uscire da se stessi e dalla prigione dell’Io, è il grado più alto dell’empatia: aiuto economico e benevolenza, per alleviare i bisogni materiali e spirituali degli altri.

di Ilaria Myr

Tzedakà tatzil mimmavet”, la tzedakà salva dalla morte: è quanto recita un proverbio della tradizione ebraica (10: 2), la cui forza è molto evidente. Che sia, come si discute, morte fisica o piuttosto esclusione dal mondo a venire in un senso spirituale (Peà 1,1), il messaggio che ne emerge è uno: se vogliamo assicurare la vitalità della persona e della società tutta dobbiamo garantire la tzedakà, uno dei principi fondanti dell’ebraismo, che va inteso in un senso ampio e globale di giustizia sociale (Tzadik in ebraico non indica forse il Giusto?).
  Non solo, dunque, pietà o carità, come spesso si crede, ma vera e propria norma etica che, partendo dalle azioni del singolo, costituisce le fondamenta della società civile. Un principio tanto basilare quanto antico nell’ebraismo. «C’è una massima all’inizio del IV cap dei Pirké Avot che dice, a nome di Ben Zomà: ‘Eizehu ‘ashir? Hassameach behelkò’, ovvero ‘chi è il ricco? colui che è soddisfatto della sua parte’ – spiega a Bet Magazine Rav Alberto Somekh -. Uno dei commenti sostiene che l’affermazione ‘colui che è contento della sua parte’ presuppone che nel momento della creazione Dio abbia dato a ciascuno di noi beni in parti uguali. Nel tempo questo equilibrio si è rotto e si sono create forti disuguaglianze. Ben Zomà quindi dice che il vero ricco è colui che si accontenta della sua parte, intendendo con questo la parte originaria: si rende cioè conto che c’è un di più nei suoi averi che dovrebbe essere proprietà di un’altra persona.
  La ragione profonda della tzedakà consiste dunque nel cercare di tornare all’equilibrio originario che rispondeva alla volontà del Creatore. Ecco perché non è solo carità o beneficenza, ma un atto dovuto. Tanto che si arriva ad affermare – ovviamente solo con conseguenze morali, non giuridiche – che chi nega la tzedakà è un ladro.
  Già Maimonide e le fonti talmudiche riconoscono l’esistenza di diversi livelli di tzedakà: quello più basso, in cui si aiuta economicamente chi si conosce, e uno più alto, in cui la si pratica senza sapere chi è il destinatario, basato su un principio dei proverbi che dice ‘donare in segreto trattiene l’ira divina’. Ma la modalità più alta in assoluto è procurare al prossimo un lavoro, in modo da garantirgli un avvenire.
  Un maestro del Medio Evo, Rav Yehiel di Roma arriva a dire nel suo Sefer Maalot hamiddot che, come la povertà, anche la ricchezza costituisce una prova per chi la detiene: chi dispone di mezzi maggiori deve dimostrare come sa utilizzarli, aiutando i più bisognosi».
  Tutti però per l’ebraismo, devono fare tzedakà, in proporzione alle proprie possibilità, fino a un quinto dei propri averi. Occuparsi del prossimo diventa dunque un dovere, una responsabilità che ognuno di noi ha e alla quale nessuno può sottrarsi, che sia povero o ricco. «Questo è un aspetto fondamentale: la responsabilità è prima di tutto personale – spiega Rav Alfonso Arbib -. In un mondo organizzato come quello attuale, in cui esistono realtà, istituzioni comprese, che si occupano del prossimo, il grande pericolo è la de-responsabilizzazione individuale: pensando che qualcun altro farà per noi, non ci assumiamo le nostre responsabilità individuali».
  Eloquente, a questo proposito, è un racconto chassidico, riportato da Martin Buber. «Un maestro sta spiegando ai suoi allievi che tutto ciò che Dio ha creato è buono. Ma i discepoli gli chiedono: ‘Nel mondo c’è l’ateismo, e cosa c’è di buono nel non credere in Dio?’. Il maestro risponde: ‘A volte arriva un povero e chiede a un buon ebreo un aiuto e lui gli risponde Dio ti aiuterà. In quel momento bisogna essere atei, Dio non esiste: esisti solo tu’. Questo per dire che Dio ha delegato ognuno di noi a fare del bene».

• Non solo aiuto economico, ma benevolenza
  L’aiuto economico, però, è solo uno degli aspetti basilari del concetto di giustizia sociale: fondamentali, infatti, sono anche tutte quelle buone azioni nei confronti della persona, che rientrano nel concetto di ghemilut hasadim, la benevolenza, che non sono necessariamente legate al denaro. Prima di tutto vi deve essere l’immedesimazione nel prossimo, la partecipazione alle sue tristezze, così come anche alle sue gioie. Una visita a un malato o a chi ha perso un caro, recitare il kaddish per un parente di un amico, fare compagnia a chi è solo: sono solo alcuni degli innumerevoli esempi che si possono fare di “buone azioni” che rientrano in questo quadro e senza le quali non vi può essere tzedakà.
  «Si pensi al pidion hashvuim, il riscatto dei prigionieri, una delle mitzvot considerate più importanti durante il Medio Evo, per le quali le comunità ebraiche spendevano moltissimo – continua Rav Arbib -. Lo dimostra quello che successe dopo la rivolta dei cosacchi nella Confederazione polacco-lituana avvenuta nel 1648-1657, che causò grandi tragedie nelle comunità ebraiche locali: molti ebrei furono fatti prigionieri e venduti come schiavi. Ma nessuno di loro restò in schiavitù: furono tutti riscattati dalle comunità». Si deve però andare indietro fino al primo patriarca, Avraham, la cui tenda era aperta su quattro lati in modo da accogliere i viaggiatori, per trovare l’esempio per eccellenza di benevolenza nei confronti del prossimo. «Quando fece la milà, nella Parashà di Vaerà si dice che egli stava fuori dalla tenda ‘al caldo del giorno’. Un Midrash racconta che faceva molto caldo perché Dio non voleva disturbarlo con visite di viandanti. Ma da uomo giusto qual era, Avraham sta fuori ad aspettare chiunque passi di lì per ospitarlo».

• Tzedakà e feste ebraiche
  Pilastro, dunque, della concezione di giustizia dell’ebraismo, la tzedakà e la ghemilut hasadim sono un fil rouge di tutte le feste ebraiche, prime fra tutte Rosh haShanà e Yom Kippur, le prime festività dell’anno ebraico. «Rosh haShanà è l’inizio degli yamim noraim, i giorni solenni, in cui l’obiettivo della persona deve necessariamente essere fare teshuvà – spiega Rav Paolo Sciunnach -. Non si può però fare teshuvà di fronte a Dio se non si è disposti a riappacificarsi con il prossimo. Nella 1° Mishnà del Trattato di Yomà su Yom Kippur, si dice che nel giorno dell’espiazione vengono perdonate solo le azioni verso Dio, ma non quelle verso il prossimo, a meno che non ci si sia riappacificati prima». Una festività in cui la tezdakà è esplicitamente richiesta è Purim, che nelle mitzvot prevede i doni ai poveri (matanot laevionim), mentre la ghemilut hasadim è evidente in altre due mizvot: il banchetto (seudà) e la lettura pubblica della Meghillat Ester. Ma anche a Pesach: “chi è affamato venga e mangi”, si legge nel brano HaLachma anià con cui si apre l’Haggadà. «E poi l’invito a ‘ricordare che schiavo fosti in terra d’Egitto’ e ad agire di conseguenza ‘perché conosci l’anima dello straniero’ – continua Rav Sciunnach -: anche questo fa capire quanto nell’ebraismo il rapporto con Dio sia strettamente legato a quello con il prossimo. Non è un caso che le Tavole della Legge siano due: una dedicata alle norme verso HaShem, e l’altra alle norme verso l’uomo».
  Eloquente a questo proposito, è anche il noto Midrash su un pagano che “si presentò dal maestro Shammai e gli disse: ‘Fa’ in modo che io possa entrare nella fede ebraica, a condizione però che tu mi insegni l’intera Torah mentre io sto su una gamba sola’. Shammai lo cacciò via con lo strumento da misura dei costruttori, che aveva in mano. Quello allora andò da Hillel, che invece lo fece entrare nella fede ebraica dicendogli: ‘Ciò che su di te è odioso, al tuo prossimo non farlo’. Questa è tutta la Torah, il resto è interpretazione. Ora va’ e completane lo studio”. «Non viene cioè detto ‘osserva lo shabbat’ o un’altra regola nei confronti del Signore, ma viene data una regola nei confronti degli altri esseri umani: questo è la Torà».

• Una giustizia sociale oggi
  Ma quanto questi concetti possono essere applicati oggi in una società come quella contemporanea, in cui le ingiustizie certo non mancano? «A maggior ragione devono essere applicati, ricordandoci sempre che il primo che attua una giustizia sociale è HaShem – è convinto Rav Sciunnach -. In un mondo come il nostro, in preda a un relativismo etico galoppante, è importante affermare un’etica religiosa, basata su valori universali, primi fra tutti la tzedakà e la ghemilut hasadim».

(Bet Magazine Mosaico, 2 settembre 2022)

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Joe Biden vende gli Stati Uniti all’Iran

di Oliver Barker

Nel 2015, quando l’allora presidente Barack Obama era sul punto di firmare l’accordo nucleare con l’Iran, Israele ha cercato di ribaltare l’imminente errore di Obama denunciando pubblicamente l’accordo. L’allora primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, è arrivato al punto di usare un invito per rivolgere a tutti una riunione congiunta del Congresso, ma ha implorato i rappresentanti del popolo di fermare la pacificazione di Obama nei confronti della Repubblica islamica. Nonostante la maggioranza dei senatori statunitensi si fosse opposta all’accordo, l’accordo con l’Iran è stato firmato e Teheran è stata immediatamente arricchita e autorizzata da miliardi di dollari e dall’accesso ai mercati globali. Negli anni successivi, l’Iran non ha mai aderito completamente all’accordo, ma il regime ha comunque raccolto i frutti dell’accordo.
  Più di un anno dopo essere entrato in carica, l’allora presidente Donald Trump è uscito dall’accordo con l’Iran e si è impegnato in una campagna di massima pressione diplomatica ed economica volta a mettere in ginocchio il principale stato mondiale sponsor del terrorismo. Le azioni dell’amministrazione Trump hanno avuto un impatto significativo sull’economia iraniana, diminuendo drasticamente l’influenza dell’Iran in qualsiasi futuro negoziato sul suo programma nucleare illecito, il sostegno al terrorismo in tutto il mondo e una miriade di violazioni dei diritti umani. Sfortunatamente, il presidente Joe Biden ha sperperato la posizione di forza lasciatagli dal suo predecessore. E nonostante le precedenti promesse di Biden di un accordo “più lungo e più forte”, il presidente è ora pronto a ripetere gli errori di Obama.
  Il presidente Biden sembra essersi rassegnato all’acquisizione da parte dell’Iran di una capacità di armi nucleari, anche se dopo aver lasciato l’incarico. L’accordo che sta cercando di firmare è sia più breve che più debole di quello negoziato dal presidente Obama, rilascia immediatamente miliardi di dollari in beni congelati, altera le designazioni di terroristi non nucleari, revoca alcune sanzioni secondarie e in meno di sei mesi cancella le convenzioni embargo sulle armi contro la Repubblica islamica. Nonostante tutto questo, l’Iran fa concessioni temporanee e incomplete e rilascerà ostaggi americani, ma non garantirà che altri ostaggi non saranno presi, o che altri americani non saranno presi di mira da terroristi sostenuti dall’Iran. Né l’Iran abbandonerà la sua sponsorizzazione statale del terrorismo in tutto il mondo.
  Si tratta, in breve, di una vittoria quasi totale per l’Iran sugli Stati Uniti.
  Per quanto insondabile possa essere, questo è solo l’atto di apertura della tragedia che sta per svolgersi. Senza alcuna estensione alle clausole di decadenza arbitraria dell’accordo originario, nel 2025 morirà la disposizione che abilitava le sanzioni di snapback. Negli anni successivi, i limiti allo sviluppo da parte dell’Iran di centrifughe avanzate svaniranno. E nel 2030, l’accordo scadrà completamente, liberando l’Iran a finire impunemente la sua decennale ricerca di un’arma nucleare.
  Non c’è da stupirsi, quindi, che vi sia una diffusa preoccupazione bipartisan sul percorso che sta prendendo l’amministrazione Biden. Il Congresso, che è stato a lungo messo da parte dalla Casa Bianca, deve affermarsi. L’impatto del potere legislativo può essere enorme, ma solo se agisce.
  A maggio, una maggioranza di senatori ha votato su una disposizione non vincolante che chiedeva al presidente Biden di affrontare il sostegno dell’Iran al terrorismo nei negoziati con lo stato paria, mentre si opponeva anche alle richieste iraniane che gli Stati Uniti revocassero la loro designazione di terrorista dal Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane. che è responsabile dell’omicidio di centinaia di militari statunitensi. L’amministrazione Biden ha ignorato la prima preoccupazione e ha ammesso il secondo punto. Più tardi, quello stesso mese, il principale negoziatore di Biden per l’Iran, Robert Malley, ha assicurato alla commissione per le relazioni estere del Senato che qualsiasi accordo con l’Iran sarebbe stato sottoposto alla revisione del Congresso. Quella revisione, e le azioni che i responsabili politici intraprendono per sostenere le capacità dei nostri alleati, è molto probabilmente la nostra ultima speranza di evitare il disastro.
  Non riuscire a fermare questo accordo consegna generazioni di americani in una vita in cui un regime iraniano incoraggiato ha una capacità di armi nucleari chiavi in mano legittimata a livello internazionale, o un programma di armi nucleari dimostrato, che gli consente di agire con sicurezza sul suolo degli Stati Uniti e contro gli alleati degli Stati Uniti. La costante minaccia del terrore iraniano, del ricatto nucleare o di una guerra catastrofica penderà su tutte le nostre teste, in perpetuo.
  I membri del Congresso devono quindi affrontare una delle decisioni più importanti della loro vita. Per alcuni, potrebbe essere politicamente opportuno sostenere la capitolazione del presidente Biden. Per altri, potrebbe essere politicamente vantaggioso semplicemente mettere alla gogna il presidente. Nessuno dei due approcci è corretto. I nostri funzionari eletti devono elevarsi al di sopra del nostro attuale ambiente iper-partigiano e porsi una semplice domanda: permetteranno a un nuovo impero del male di sorgere sotto la loro sorveglianza, uno per il quale la nozione di “distruzione reciprocamente assicurata” non è temuta, ma apprezzata?
  Spero sinceramente per l’America, Israele e il resto del mondo libero che la risposta sia “no”.

(Tebigeek, 2 settembre 2022)

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Lo sguardo del movimento sionista di Basilea sul futuro di Israele

"Dobbiamo riappropriarci del termine 'sionismo'", ha dichiarato il presidente israeliano Isaac Herzog a Basilea. Sono trascorsi 125 anni dal primo Congresso sionista e le idee su come realizzare questo proposito non sono mancate. Alcune, però, mal si adattano tra loro.

di Benjamin von Wyl

Un momento patriottico ha segnato il gala d'anniversario
Chi vuole entrare deve oltrepassare militari e agenti di polizia provenienti da ogni angolo della Confederazione. Più ci si avvicina, più lo svizzero tedesco diventa raro. Sono un migliaio le persone invitate giunte da tutto il mondo. Oltre all'ebraico, è l'inglese la lingua franca. Dai palchi si sentono pronunciare in particolare due parole, spesso come esclamazioni: "Dreamer!", "Visionary!" (Sognatore, Visionario).
  Sono aggettivi associati a tutti i primi sionisti e sioniste, ma soprattutto a Theodor Herzl che, il 29 agosto del 1897, si recò a Basilea per il primo Congresso sionista. Herzl fu fondatore e presidente dell'Organizzazione sionista mondiale. "If you will it, it is no dream", "Se lo volete, non è un sogno", avrebbe scritto in seguito: il sogno di uno Stato ebraico che protegga persone di fede ebraica dalle persecuzioni e dalla discriminazione.

• Il sogno continua
  Anche in questo 29 agosto 2022 la frase continua a essere onnipresente in manifesti e proiezioni. Eppure, il Paese sognato da Herzl è da tempo realtà. L'anno prossimo lo Stato di Israele festeggerà il settantacinquesimo compleanno, con le sue reali contraddizioni ed alti e bassi della vita quotidiana. Tuttavia, il sogno di Herzl non è terminato con la fondazione di Israele.
  Con il motto "Ricordare il passato e costruire una visione per il futuro", la moderatrice dà il benvenuto al pubblico presente questa domenica. La conferenza di due giorni assomiglia per certi versi a un evento TED Talk. Discorsi raffinati che combinano storie personali con idee grandiose. Durante le tavole rotonde, però, non viene lasciato spazio alle domande del pubblico. Di conseguenza, le possibili contraddizioni e critiche non vengono dibattute, perlomeno durante le sessioni plenarie.
  La commemorazione della storia del popolo ebraico è unanime. Vengono ricordati i 2'000 anni di esilio e lo sterminio di milioni di persone di fede ebraica nella Shoah. Molte voci preoccupate sottolineano la crescita degli attacchi antisemiti e chiedono un'azione globale per contrastarli.

• Come sarà il sionismo del futuro?
  Sulla visione dell'avvenire si notano divergenze di opinione. Quando il presidente dell'Organizzazione sionista mondiale Yaakov Hagoel dichiara che entro dieci anni la maggior parte delle persone ebree nel mondo dovrà risiedere in Israele, ci si chiede se ciò sia davvero nell'interesse della diaspora. Dei 15 milioni di persone di fede ebraica, la maggior parte vive ora fuori da Israele, soprattutto negli Stati Uniti.
  Nachman Shai, ministro israeliano per gli affari della diaspora, punta invece sulla partecipazione. A Basilea ha presentato un piano per offrire agli ebrei e alle ebree nel mondo la possibilità di partecipare alla politica israeliana.

• "Israele è tutto"
  Il rabbino Azman è arrivato in treno a Basilea, perché non ci sono più tratte aeree che collegano la Svizzera all'Ucraina. "Per gli ebrei ed ebree che non hanno nulla, Israele significa tutto", afferma il rabbino capo dell'Ucraina. Per coloro che sono in fuga dalla guerra, la "aliyah"-  la possibilità per tutte le persone di fede ebraica di immigrare in Israele - ha un grande significato.

• L'inizio del sionismo politico
  L'idea dell'aliyah è più antica del sionismo politico, per il quale ricopre un aspetto fondamentale. Sionisti e sioniste hanno la convinzione che l'emancipazione politica e sociale non garantisca la sicurezza senza uno Stato ebraico. "Nel XIX secolo, i pensatori e le pensatrici di fede ebraica che dimostravano più ottimismo, pensavano che la 'questione ebraica', l'antisemitismo e la discriminazione sarebbero scomparsi con l'emancipazione", sottolinea nel suo discorso il noto autore israeliano Micah Goodman.

• Altri sviluppi
  A quel tempo, sull'onda degli ideali illuministi, si pensava che le persecuzioni fossero ormai superate. A questa promessa di emancipazione, Herzl contrappose l'idea che l'odio antisemita fosse solo momentaneamente represso.
  "Se l'emancipazione non è la soluzione, allora la soluzione qual è? Il sionismo riesce dove l'emancipazione è destinata a fallire". È questa idea, sostiene Goodman, l'essenza del primo scritto di Herzl, Lo Stato ebraico.
  In futuro, aggiunge, Israele e la diaspora ebraica dovranno concentrarsi maggiormente sul secondo influente scritto di Herzl, Altneuland (Antica nuova terra). In esso potrebbe essere contenuta la nuova generazione sionista. Un sionismo che trova "soluzioni ebraiche a problemi universali". Goodman cita come esempio i cambiamenti climatici e la polarizzazione politica, "la controparte sociale del riscaldamento globale". Gli applausi sono scroscianti.

• Utopia egalitaria
  Altneuland, pubblicato nel 1902, racconta la storia di una società ebraica ideale in Palestina: democratica, solidale con uguali diritti per tutti e tutte. Anche per le persone arabe. Citando l'opera di Herzl, Goodman vuole forse tematizzare discretamente il conflitto mediorientale?
  La questione resta aperta, ma anche urgente. Finché l'occupazione continuerà, l'idea sionista difficilmente diventerà esemplare al di là del mondo ebraico. Questa presenza-assenza del conflitto in Medio Oriente caratterizza buona parte della conferenza.

• L'elefante nella stanza
  Il conflitto in Medio Oriente è l'elefante nella stanza, dice il giornalista ebreo Yves Kugelmann, ma non è un tabù. Parlando a swissinfo.ch il parlamentare israeliano Moshe Tur-Paz, del Partito liberale Yesh Atid, e la parlamentare Shirly Pinto dell'alleanza di destra Yamina, esprimono apertamente il loro punto di vista sulla questione.
  Tur-Paz vive in un insediamento in Cisgiordania le cui origini risalgono a prima dello Stato israeliano, ma che è comunque classificato dalle Nazioni Unite come illegale ai sensi del diritto internazionale. "Credo che ai miei antenati sia stato promesso tutto Israele. Tuttavia, non sono cieco!".
  Vede la popolazione araba che vive nella zona. Una parte ha il passaporto israeliano. Alcuni sono persone amiche, dice. "Come la maggioranza delle persone in Israele, desidero una soluzione a metà strada tra i diritti di autonomia e un Paese da considerare come proprio", dice il deputato della Knesset.
  Shirly Pinto sottolinea come sia fondamentale "sviluppare l'economia palestinese e migliorare la vita delle persone palestinesi". Per ciò che riguarda gli arabi israeliani, "lo Stato deve garantire che abbiano tutto quello che hanno le altre persone".
  Mancano solo due mesi alle elezioni in Israele. Pinto e Tur-Paz sono attualmente membri dello stesso Governo e di conseguenza sottolineano quanto sia importante che un partito arabo-islamico sia rappresentato per la prima volta in una coalizione governativa. Israele è uno Stato ebraico, ma questo va a braccetto con la parità di diritti per tutti i cittadini e tutte le cittadine.

• Il sogno di una nazione
  Alla domanda su quale sia la loro concezione di sionismo riemergono i temi del "sogno" e della "visione". "Il sionismo è la storia di come la nazione israeliana sogna la terra di Zion, tentando di trarne il meglio dopo 2'000 anni di esilio. Dal momento della fondazione dello Stato, le persone di fede ebraica di tutto il mondo possono orientarsi su Israele", dice Tur-Paz.
  Pinto sostiene che in Israele ogni contributo alla convivenza è un contributo al sionismo: "Che si tratti di istruzione o di servizio militare, tutto fa parte della visione di Herzl."
  L'intervento dell'ex direttore del Mossad, Yossi Cohen, è uno dei momenti che suscita il maggior entusiasmo. I servizi segreti israeliani sono una componente della realizzazione del sionismo, dice, descrivendo come il Mossad avrebbe evitato che l'Iran ottenesse la bomba atomica.

• Herzl come il CEO di una start-up
  Il gala di chiusura è uno spettacolo di luci, nebbia artificiale e musica pop in cui l'interpretazione dell'opera di Herzl assume caratteristiche anche fantasiose. Ad esempio, viene paragonato al CEO di una start-up che ha portato Israele al successo con il crowdfunding.
  Gli oratori svizzeri presenti al gala, Beat Jans, presidente del Governo cantonale di Basilea Città, e Guy Parmelin, consigliere federale, affrontano il tema del conflitto in Medio Oriente. Il ministro riceve gli applausi spontanei del pubblico quando si esprime a favore della soluzione dei due Stati.

• Riappropriarsi di una parola
  Herzl, la mente del sionismo che ha trasformato "l'identità ebraica in un'efficace dottrina politica", è ovviamente citato anche dal presidente israeliano Isaac Herzog. Un anno fa, racconta, un'"importante piattaforma di social media" ha discusso se la parola "sionismo" dovesse essere trattata come un insulto perché veniva usata impropriamente nei discorsi antisemiti, ad esempio. "Dobbiamo riappropriarci del termine 'sionismo'", riacquistare la sovranità dell'interpretazione e tradurla in modo positivo, afferma durante la serata di gala.
  Durante tutto l'evento si percepisce una grande volontà di ritrarre e comprendere il sionismo in modo idealistico, persino utopico. Tuttavia, il modo in cui la società ideale dell'Alterneuland di Herzl debba essere tradotta nella politica reale resta una questione aperta. A differenza del sognatore Herzl, sionisti e sioniste di oggi non partono da una pagina bianca.

(swissinfo.ch, 2 settembre 2022)

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“Attraverso la memoria”: sul Colle del Ciriegia per ricordare la fuga degli ebrei da Saint Martin Vésubie verso l’Italia

L’incontro programmato per domenica 4 settembre. Percorsero sentieri montani valicando le Alpi attraverso due Colli: Fenestre (2474 metri) e Cerise (2543 metri) per scendere in provincia di Cuneo. Alcuni si salvarono, ma 340 di loro vennero deportati ad Auschwitz.

Per non dimenticare, ma soprattutto perché il ricordo di tante sofferenze e di tante morti è purtroppo sempre attuale come il pericolo che certi atti vadano a ripetersi: domenica 4 settembre 2022 si troveranno sul Colle delle Finestre (Col de Fenestre) per ricordare, per la ventiquattresima volta attraverso una marcia, l’esodo degli ebrei da St Martin Vésubie verso l’Italia.
  Era il mese di settembre 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale, con la “caccia all’ebreo” ormai dichiarata da nazisti e fascisti e con le leggi razziali che imponevano disumani comportamenti.
  Il ricordo della “marcia” degli ebrei che tra il 9 e il 13 settembre 1943, per sfuggire ad un genocidio programmato dai nazisti, attraversarono le Alpi alla volta dell’Italia, dove ottennero un aiuto silenzioso da tanti valligiani, anche se molti, catturati, finirono nei campi di concentramento e di sterminio.
  Percorsero sentieri montani valicando le Alpi attraverso due Colli: il Col de Fenestre (2474 metri) e il Col de Cerise (2543 metri) per scendere in provincia di Cuneo, in valle Gesso.
  Molti si salvarono, ma 340 di loro vennero deportati ad Auschwitz nel novembre del 1943.
  Così domenica 4 settembre 2022 partiranno a piedi da Saint Martin Vésubie e da San Giacomo di Entraque per incontrarsi a mezzogiorno sul Col de Fenestre .
  Saranno presenti molti parenti, provenienti un po’ da tutta Europa dei protagonisti di quella marcia, rappresentanti italiane e francesi, tra le quali Daniel Wancier, presidente di Yad Vashem di Nizza.
  Nei video che pubblichiamo momenti delle “marce” degli scorsi anni e una testimonianza.

(Montecarlonews.it, 2 settembre 2022)

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Esther e la sua corsa per la vita dal massacro di Monaco al record alle Olimpiadi di Montreal 1976

di Claudia De Benedetti

Tante sono le storie personali che legano indissolubilmente il massacro di Monaco alle vite degli atleti israeliani che facevano parte della squadra olimpica a Monaco 1972 e che, per i casi della vita, non sono stati catturati e uccisi dai terroristi, tra essi c’è Esther Roth Shahamorov.
  Figlia di immigrati russi che arrivarono nella futura Erez Israel nel 1940 è nata a Tel Aviv nel 1952, fin giovanissima ha dimostrato grande talento nella corsa vincendo campionati nazionali e stabilendo record nelle brevi distanze dei 60 prima, dei 100 e 200, nel salto in lungo e nel pentathlon. 
  Alle Olimpiadi di Monaco era considerata tra le probabili vincitrici di medaglie: “era il mio obiettivo, avevo dato l’anima e il corpo per essere tra le favorite e salire sul podio. Il destino ha fatto sì che noi atlete donne riuscissimo a scampare al massacro perché alloggiavamo a 200 metri dalle abitazioni degli atleti e accompagnatori uomini. A Monaco ho perso Amitzur Shapira, il mio allenatore, l’uomo con cui avevo condiviso i miei sogni di gloria.”
  Dopo Monaco Esther non aveva più alcun desiderio di gareggiare, pensava di appendere le scarpe da corsa al chiodo e cambiare vita. Ma la passione per lo sport, il desiderio di dimostrare che la vita merita sempre di essere vissuta e il talento mai buttato alle ortiche sono stati determinanti per spingerla a tornare in pista ad allenarsi. Nel 1973 non sapeva di essere incinta e i ricominciò a gareggiare nei 100 metri con grande successo: “Yaron mio figlio vinse la prima medaglia d’oro quando ancora non era nato!” 
  Con grande cuore e profonda emozione Esther riuscì raggiungere risultati notevoli e a far parte della squadra israeliana alle Olimpiadi di Montreal 1976. Accanto a lei il suo compagno di vita e nuovo allenatore. A Montreal Esther fu la prima atleta israeliana a raggiungere la finale olimpica nei 100 ostacoli, giungendo sesta ma battendo il record israeliano nella distanza che poi migliorò nuovamente due mesi più tardi. Un risultato decisamente lusinghiero. Un record imbattuto per 47 anni, fino al 2019.
  Mosca 1980, furono per Esther le Olimpiadi negate per il noto boicottaggio cui Israele aderì senza permetterle di accrescerle il suo palmares.
  Oggi a cinquant’anni di distanza Esther dedica la sua vita all’atletica: è allenatore a Kfar Saba, cerca giovani promesse che possano portare Israele a vincere quella medaglia olimpica nei 100 ostacoli per lei così significativa, con una dedica speciale a Amitzur Shapira e alle 11 vittime del Massacro di Monaco 1972.

(Shalom, 2 settembre 2022)

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Volontariato - Federica Sharon Biazzi: da vent’anni, un aiuto a chi ne ha bisogno

Una presenza concreta contro la solitudine, riconosciuta da Comune e Protezione civile

di Ester Moscati

Conoscere: www.federicasharonbiazzi.com/
Scrivere: info@federicasharonbiazzi.com
Donare: IBAN IT07H0306909606100000120029
intestato a Federica Sharon Biazzi Odv 5×1000,
codice fiscale 97313340156.

Il profumo di una foglia di salvia, colta tra le piantine aromatiche dell’healing garden della Residenza, risveglia ricordi lontani; Joseph, 90 anni, si commuove “Penso a mia mamma che per shabbat preparava gli gnocchi burro e salvia!”. Anche Rosanna Bauer Biazzi, co-fondatrice del Volontariato Federica Sharon Biazzi con Joice Anter Hasbani, si commuove raccontando la storia e il valore di questa oasi nel cuore del giardino della RSA. Un’idea nata per caso, leggendo su una rivista dei “Giardini del benessere” che è diventata un fiore all’occhiello del Volontariato. «Ho pensato di portarla nel giardino della Residenza Arzaga e c’è stato un coinvolgimento entusiasmante dei volontari. Oggi il giardino del benessere è molto utilizzato perché i profumi, i colori, la zona aromatica, stimolano i ricordi e aiutano la contemplazione. Le aiuole si alternano in un percorso, protetto non da un recinto ma dalle stesse piante, e quindi anche persone con scarsa autonomia possono usufruirne. Ci sono anche le vasche-orto progettate per poter essere utilizzate da persone in carrozzina e questo aiuta a svolgere questa attività che è molto gradita dagli ospiti».
  Ma ci sono anche ricordi meno sereni: i viaggi con il pullmino del Volontariato per accompagnare in una casa protetta una mamma e i suoi bambini, scortati dalla polizia. «Siamo ormai una realtà conosciuta da Comune e Protezione civile e abbiamo svolto incarichi importanti durante la pandemia, che è stato un periodo durissimo: visite mediche importanti che subivano cancellazioni e modifiche all’ultimo minuto; percorsi Covid da svolgere in sicurezza per gli anziani e gli operatori».
  Nato nel 2000, nel 2002 il Volontariato FSB è diventato una ONLUS e al momento di scegliere il logo che identificasse l’associazione, Rosanna e Joice si sono rivolte ad alcuni giovani grafici della comunità. «Abbiamo scelto il logo attuale perché le spiegazioni date dal grafico esprimevano perfettamente la nostra missione: la Shin stilizzata riprende il nome di Sharon (alla cui memoria è dedicato il Volontariato, ndr); i colori sono quelli della bandiera di Israele che rappresenta tutto il popolo ebraico; le aureole di luce rappresentano la nostra volontà di essere una luce per chi si rivolge a noi». Lo scopo è quello di «sostenere, confortare e stare vicino alle persone che vivono una situazione di solitudine a prescindere dalla loro condizione economica, perché anche se non ci sono problemi economici e, a volte, anche se c’è una famiglia e dei figli questi sono talvolta troppo impegnati per stare veramente vicini agli anziani e alleviare la loro solitudine. Il rapporto che si crea con il volontario è qualcosa di veramente speciale», racconta ancora Rosanna. «Prima del Covid c’erano circa 20 volontari; poi, avendo dovuto ridurre tutte le attività che li impegnavano, sia in RSA sia a domicilio, c’è stata una dispersione e adesso sono soltanto 7/8. Abbiamo bisogno di nuovi volontari».
  «Abbiamo quattro autisti per le macchine, tutte attrezzate per il trasporto di disabili. Erano cinque ma una è stata rubata, per la seconda volta, e in questo contesto economico non è stato possibile ricomprarla – spiega Joice -. Gli autisti sono gli unici pagati, con un contratto nazionale regolare, mentre gli altri sono tutti volontari. Le esigenze sono cambiate nel tempo e sulle visite domiciliari e l’assistenza in RSA si è imposta l’attività di accompagnamento. All’inizio era anche per la spesa, il parrucchiere, un incontro tra amici; ora soprattutto si parla di visite mediche, di fisioterapia, chemio, anche per bambini malati. Durante il lockdown è stato molto difficile lavorare, ci sono stati molti problemi. Però proprio in quel periodo siamo stati notati all’esterno della comunità, perché abbiamo fatto moltissime azioni sul territorio, su sollecitazione della Protezione civile o dello stesso Comune. Abbiamo avuto un grande riconoscimento da questo punto di vista anche grazie ai nostri autisti che non sono dei semplici accompagnatori ma sostengono la persona in modo estremamente empatico. Inoltre, siamo l’unico accompagnamento gratuito su Milano».
  «In Residenza Arzaga – racconta ancora Rosanna – ci siamo dovuti fermare durante la pandemia, e abbiamo ripreso post Covid con i nostri laboratori di cucina, di arte, la preparazione dei fiori dello Shabbat, le letture e le notizie curiose. Le attività pratiche sono estremamente gradite agli ospiti e anche le attività di intrattenimento che stimolano il corpo e la mente per mantenere le abilità residue e dare una nota di colore, di allegria, di freschezza. Ora va ricostruito il gruppo dei volontari. L’aspetto economico in questo momento è piuttosto grave: il furto della macchina, la riduzione del gettito del 5×1000 perché oggi sono moltissime le associazioni ebraiche che possono chiederlo, rispetto a vent’anni fa. E poi non siamo molto brave a fare raccolta fondi, non è nella nostra natura. Ma ci sono gli stipendi degli autisti da pagare, la benzina, i materiali…. insomma, abbiamo bisogno di volontari e di sostegno, con un rinnovato entusiasmo». (E. M.)

(Bet Magazine Mosaico, 2 settembre 2022)

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A 83 anni torna sui luoghi della tragica fuga degli ebrei perseguitati

Avraham Schonbrunn, oggi residente in Israele, in visita al Memoriale della Deportazione di Borgo San Dalmazzo.

di Piergiorgio Berrone

BORGO SAN DALMAZZO – Una quarantina di persone ha preso parte oggi, giovedì 1° settembre, alla cerimonia organizzata a Borgo San Dalmazzo, nei pressi del memoriale della deportazione, in ricordo degli ebrei deportati nel 1943 dal campo di raccolta di Borgo al lager di Auschwitz. Nel gruppo anche qualche bambino e tanti giovani. Arrivati da Stati Uniti, Israele, Francia e Inghilterra, erano tutti familiari o amici degli ebrei che, nel settembre del 1943, furono costretti a fuggire dalla “residence forcée” di Saint Martin Vesubie alla ricerca di un’improbabile salvezza in valle Gesso e a Borgo San Dalmazzo. L’incontro è stato organizzato dall’associazione fondata lo scorso anno a Nizza da David Bernheim.
  Divisi in due gruppi, hanno visitato in giornata “Memo4345”, il percorso didattico dedicato alla Shoah allestito all’interno dell’ex chiesa di Sant’Anna. Ad accoglierli c’erano gli assessori comunali Michela Galvagno e Fabio Armando e la storica Adriana Muncinelli, curatrice del Museo Interattivo. Poi la semplice cerimonia, nello spazio verde davanti alla ex chiesa di Sant’Anna, scandita da testimonianze, preghiere, canti, accensione di lumini e momenti di raccoglimento.
  Tra i partecipanti anche Avraham Schonbrunn, classe 1939, oggi residente in Israele, accompagnato dalla moglie: aveva quattro anni quando nel settembre del 1943, insieme alla madre e a tre fratelli, fuggì da Saint Martin Vesubie. La sua famiglia si salvò nascondendosi a Entracque, prima di riuscire a fare rientro in Francia.
  Molti degli intervenuti parteciperanno domenica 4 settembre alla marcia “Attraverso la memoria”, che salirà al Colle di Finestra ripercorrendo il sentiero degli ebrei in fuga.

(La Guida,1 settembre 2022)

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Le startup israeliane hanno raccolto $1.1 miliardi ad agosto

Le startup israeliane hanno raccolto 1,1 miliardi di dollari nell’agosto 2022, secondo i comunicati stampa. La cifra potrebbe essere maggiore poiché alcune aziende preferiscono rimanere in modalità invisibile e talvolta non pubblicizzano gli investimenti che hanno ricevuto.
  Le società tecnologiche private israeliane hanno raccolto un record di $ 25,6 miliardi nel 2021, secondo IVC, più del doppio della cifra di $ 10 miliardi del 2020, che era di per sé un record. Le startup israeliane hanno raccolto $10,9 miliardi di dollari nella prima metà del 2022, secondo IVC, quindi, sebbene al ritmo del record dello scorso anno, le startup hanno già raccolto più di tutto il 2020. Le startup israeliane hanno raccolto $12,7 miliardi di dollari nei primi otto mesi del 2022 .
  Ad agosto, i principali round di finanziamento completati sono stati guidati dalla società di software di rete basata su cloud DriveNets, che ha raccolto $ 262 milioni di dollari. La società di noleggio di proprietà a breve termine Guesty ha raccolto $ 170 milioni, la piattaforma per le risorse umane HiBob ha raccolto $ 150 milioni, lo sviluppatore di browser di sicurezza Talon Cybersecurity ha raccolto $ 100 milioni e la società di archiviazione di data center Pliops ha raccolto $ 100 milioni.

(Israele360, 1 settembre 2022)

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L’Iran è il motore del terrorismo internazionale, ma Biden fa finta di niente pur di chiudere l’accordo

Teheran fornisce missili a Hezbollah contro Israele e droni alle truppe russe impegnate in Ucraina. Il regime degli ayatollah lavora per la destabilizzazione del Medioriente, ma al presidente americano non importa: si limita a voler bloccare i lavori per l’arricchimento dell’uranio

di Carlo Panella

L’Iraq è sull’orlo di una guerra civile non già tra sunniti e sciiti, come da tradizione, ma tra partiti sciiti filo e anti iraniani, la cui posta in gioco è mantenere o cessare lo status di colonia iraniana dell’Iraq, i cui destini vengono decisi e pilotati dagli ayatollah di Teheran.
  Un conflitto di tale portata che dalle elezioni dell’ottobre 2021 a oggi non è stato ancora possibile formare un nuovo governo. Negli stessi giorni continuano i raid israeliani in Siria per distruggere migliaia di missili puntati sullo stato ebraico che l’Iran ha fornito ad Hezbollah e ad altri gruppi militari. Contemporaneamente, Teheran fornisce centinaia di micidiali droni alle truppe russe per martellare le difese dell’eroico esercito ucraino. Infine, ma certo non per ultimo, il recente attentato nel cuore degli Stati Uniti a Salman Rushdie conferma una realtà incontrovertibile: l’Iran è il “motore immobile” del terrorismo internazionale e della destabilizzazione in Medio Oriente e in tutto il pianeta.
  Pure, per decisione incauta di Joe Biden, tutti questi avvenimenti non hanno il minimo riflesso sulle trattative sul nucleare iraniano, denominate Jpcoa, in corso a Vienna. Trattative che ruotano rigidamente tutte e solo sul merito del programma iraniano di arricchimento dell’uranio e sulle sanzioni e che, per quanto riguarda il tema che invece dovrebbe essere centrale, cioè quello del ruolo fortissimo di destabilizzazione operato da Teheran in Medio Oriente, si limitano all’iscrizione o meno del corpo dei pasdaran nella lista americana delle organizzazioni terroriste. Elemento puramente formale e dall’impatto nullo, perché i pasdaran a migliaia e migliaia operano impunemente in paesi (Siria, Iraq, Libano, Gaza, Yemen) nei quali nulla vale la loro emarginazione da parte americana.
  Joe Biden dunque ha deciso, facendo un grave errore, di non tenere in minimo conto quanto è avvenuto dopo la firma del primo accordo sul nucleare iraniano voluto da Barack Obama il 14 luglio 2015. Allora, appena siglato l’accordo e cessate le sanzioni, l’Iran, che sino a quel momento e da anni era uno Stato più che isolato e reietto dalla comunità internazionale, ha immediatamente sviluppato un poderoso intervento armato in tutto il Medio Oriente, tramite appunto i pasdaran, sotto la guida del geniale generale Qassem Suleimaini (ucciso da un drone americano il 3 gennaio 2020 a Baghdad per ordine di Donald Trump).
  Nell’arco di un anno la potenza politico militare iraniana si è estesa così in Siria, nella quale ha letteralmente “salvato” il regime sull’orlo della fine di Bashar al Assad; in Yemen, dove ha scatenato la guerra civile degli Houti; in Libano; a Gaza, tramite la propaggine della Jihad Islamica, e naturalmente in Iraq, attraverso il governo del filo iraniano Nuri al Maliki.
  Grazie così a quell’accordo sul nucleare, l’Iran è rapidamente diventato una solida potenza regionale nel nome della destabilizzazione armata.
  Pure, durante la sua campagna elettorale, Joe Biden aveva dato segno di avere tratto la lezione dall’errore fatto da Barack Obama e da lui stesso (era il vice presidente) nel 2015 e si era detto pronto a discutere di un nuovo accordo sul nucleare – nel frattempo unilateralmente condannato da Donald Trump l’8 maggio 2018 – solo nel contesto di una più larga trattativa sulle ingerenze iraniane in Siria, Iraq, Libano, Yemen e Gaza.
  Ma, una volta ripresi i colloqui a Vienna e nell’evidente tentativo di portare a casa un risultato internazionale di prestigio a qualsiasi costo per riscattare una presidenza scialba e in declino di consenso (vedi il disastroso, cruciale, abbandono dell’Afghanistan), Joe Biden ha accettato di trattare – anche su spinta di una Unione Europea più cieca che mai – solo e unicamente sull’arricchimento iraniano dell’uranio e sulle sanzioni. Inutili sono stati sinora gli allarmantissimi segnali contrari provenienti da Israele, Arabia Saudita e paesi del Golfo.
  Ora, le trattative di Vienna sono ad un punto cruciale e molti segnali indicano che stanno per concludersi positivamente. Se così sarà, e sarà di nuovo il preludio per una ulteriore fase di destabilizzazione armata iraniana del Medio Oriente, l’unica speranza è che il Congresso americano non ratifichi il nuovo accordo.

(LINKIESTA, 1 settembre 2022)

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Il velocista israeliano Blessing Afrifah si è arruolato nell’esercito. Ecco la sua storia

Blessing Afrifah
Blessing Afrifah, il 18enne velocista israeliano che ha vinto la medaglia d’oro nei 200 metri ai Mondiali Under 20 ed è arrivato settimo agli Europei di Monaco, si è arruolato nell’esercito israeliano martedì mattina.
  "Sono molto entusiasta e felice di unirmi all'IDF, voglio offrire il mio contribuito" ha detto Afrifah. “Vado a servire con persone che mi hanno incoraggiato durante la mia carriera sportiva e voglio contribuire tanto quanto loro. Spero che il servizio costituisca un periodo interessante e mi permetta di cimentarmi nelle sfide che di solito non affronto nello sport” ha aggiunto.
  Afrifah è nato nel 2003 da genitori immigrati dal Ghana, di nome Prince e Cynthia. Ha una sorella minore, Mercy, che è anche un'atleta. Durante la sua infanzia aspirava a giocare a calcio a livello professionistico, ma a causa dei problemi finanziari della famiglia ha dovuto rinunciare a quel sogno. Nessuno si sarebbe mai aspettato che diventasse uno dei migliori velocisti d'Europa.
  Anni fa dichiarò: “Sono israeliano, sono nato qui, i miei amici sono qui e non conosco nessun'altra opzione. Non sono diverso dai miei amici residenti in Israele. Voglio rappresentare Israele e vincere medaglie”.
  Afrifah ha ricevuto la piena cittadinanza nel 2020, con l'aiuto dell'avvocato Tomer Varsha e dell'allora ministro degli Interni Aryeh Deri. "Non riesco a descrivere quanto fossi eccitato, non riuscivo nemmeno a mangiare per le mie sensazioni" ha commentato dopo aver ricevuto la cittadinanza. "Ho ancora più fiducia e motivazione per ottenere risultati per Israele".
  Ha iniziato a competere alle rassegne internazionali da adolescente; nella sua prima gara nei 100 metri ai Campionati Europei Junior 2021 è entrato in finale, dove si è classificato al quarto posto. Afrifah è l’atleta più veloce in Israele da quando aveva 16 anni. È il più giovane velocista decorato nella storia del Paese e detiene i record nazionali nei 100 e i 200 metri. Ad oggi ha il potenziale per diventare tra i primi 10 migliori velocisti del mondo.

(Shalom, 1 settembre 2022)

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Gerusalemme promuove lo studio dell’arabo (parlato) nelle scuole ebraiche

Il progetto, avviato lo scorso anno e ora rafforzato, intende favorire le relazioni fra le comunità, soprattutto fra i giovani. Prevista l’adesione di 30 scuole, che si avvalgono dell’insegnamento di universitari arabi del settore orientale. A Tel Aviv una mappa scolastica che mostra la “Linea Verde” diventa fonte di polemica fra il comune e il ministero dell’Istruzione.

GERUSALEMME - Nel tentativo di creare maggiori legami e di facilitare le relazioni fra israeliani e arabi, quantomeno fra i banchi di scuola, la municipalità di Gerusalemme lancia un nuovo corso nell’ambito della programmazione didattica, chiamato “Ahlan” [Ciao, ndr]. Intende favorire l’insegnamento della lingua araba - parlata di uso comune, non letterario - nelle scuole ebraiche della città santa a partire dalla settimana prossima, in concomitanza con l’inizio ufficiale del nuovo anno scolastico 2022/23.
  Il curriculum, ideato dal locale ufficio dell’Istruzione, è nato per accendere una “luce positiva” e favorire una connessione con la lingua araba, favorendo i collegamenti fra il settore orientale e quello ovest di Gerusalemme. E, soprattutto, per fornire ai bambini nuovi mezzi per comunicare perché l’accento è posto sull’arabo parlato più che su quello scritto e letterario, già presente in molti curricula di lingua araba nelle scuole ebraiche.
  Un passo importante dell’amministrazione comunale di una città che si presenta unita sulla carta, ma nella quale emergono profonde spaccature fra comunità legate alla religione o all’etnia di appartenenza. E che, non di rado, sfociano in attacchi o violenze verso la parte contrapposta come emerso di recente quando giovani ebraici hanno colpito autisti di tram arabi o il raid contro israeliani da parte di alcuni palestinesi nei pressi della tomba di Samuele, a nord di Gerusalemme.
  Negli ultimi anni si era andata perdendo l’abitudine di studiare arabo nelle scuole ebraiche, tanto che negli ultimi cinque anni si è registrato un terzo in meno di studenti ebraici che presenziavano all’esame di lingua araba, peraltro studiato più a livello letterario che nel parlato. Un’altra prova del declino dell’arabo in Israele emerge a livello di legislazione, con la National Law del 2018 che lo ha declassato da lingua ufficiale a lingua con “uno status speciale”, mantenendo la sola lingua ebraica come ufficiale a pieno titolo.
  Il nuovo curriculum del comune di Gerusalemme ha preso il via lo scorso anno come progetto pilota, all’interno di 21 scuole di Gerusalemme ovest e si è avvalso del contributo per l’insegnamento della lingua di 12 studenti universitari arabi del settore orientale della città. In cambio di una borsa di studio, essi hanno garantito 120 ore annuali di insegnamento della lingua distribuendosi in varie aule della città. Per il nuovo anno è prevista l’adesione di 30 scuole dalla quinta all’ottava classe e vedrà il contributo di almeno 50 studenti arabi.
  L’organizzazione Madrasa e il programma “Common Study” hanno curato la stesura del piano studi e, per agevolare il progetto, ciascuna scuola potrà adattarlo come meglio ritiene alle proprie esigenze, facendo ampio uso di canzoni, giochi e altri strumenti ludici nell’apprendimento. In un’ottica di “comprensione” e di “abbattimento” dei muri, il ruolo della lingua viene considerato sempre più di “fondamentale importanza” e va appreso in una “realtà condivisa”. Il progetto ha ricevuto anche il plauso del sindaco Moshe Leon, che in una nota diffusa attraverso il portavoce sottolinea che imparando l’arabo, gli studenti “possono conoscere una storia e una cultura ricche, ma soprattutto parlare e dar vita a un dialogo produttivo”.
  Restando in tema di istruzione, se Gerusalemme cerca l’inclusione a Tel Aviv una nuova mappa di Israele redatta per uso scolastico ha sollevato feroci polemiche. La cartina, che utilizza il termine “sovereignty line”, è finita nel mirino del ministero dell’Istruzione perché non autorizzata e “pregiudiziale”. Essa mostra la cosiddetta “Linea Verde”, la linea di confine pre-1967 stabilita dagli accordi del 1949 arabo-israeliani che non costituisce un confine in senso stretto, ma sancisce la situazione esistente de-facto fino al 1967. In passato il ministero stesso aveva approvato una norma che vieta di mostrare la “Green Line” nelle mappe a uso scolastico.

(AsiaNews, 1 settembre 2022)

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Zanna di elefante di mezzo milione di anni fa scoperta in Israele

Incredibile ritrovamento in uno scavo archeologico in Israele dove una grande zanna di elefante preistorico è stata rinvenuta. Secondo gli esperti risalirebbe ad almeno mezzo milione di anni fa

di Francesca Capozzi
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A sud di Israele, nei pressi del kibbutz di Revadim, una zanna di elefante perfettamente conservata è stata riportata alla luce. A darne notizia è la Israel Antiquities Authority che, in collaborazione con la Tel Aviv University e la Ben Gurion University, ha condotto gli scavi nell’area archeologica sopraindicata.
  Si tratta di una zanna di Palaeoloxodon antiquus, l’elefante dalle zanne dritte, lunga 2 metri e mezzo e di 20 cm di diametro e rappresenterebbe la più grande zanna fossile mai trovata in un sito preistorico israeliano.
  Questo elefante visse durante il Pleistocene Medio e si estinse nel Pleistocene superiore. Per i paleontologi lo straordinario reperto risalirebbe infatti a 500.000 anni fa.
  Il Palaeoloxodon antiquus aveva dimensioni simili all’odierno elefante africano. I maschi potevano raggiungere i 4 metri di altezza alla spalla, le femmine i 3 e potevano pesare rispettivamente fino alle 13 o 5 tonnellate.
  Sorprendentemente nell’area archeologica la zanna risulta essere finora un ritrovamento isolato, distaccato da altri resti fossili del corpo dell’elefante. Questo farebbe pensare che la zanna sia stata spostata dai nostri antenati in quel luogo per un motivo.
  Si suppone potesse avere una funzione spirituale o sociale. Nell’area archeologica sono stati rinvenuti molti antichi strumenti che hanno consentito ai paleontologi e agli archeologi di datare il sito. Questi potrebbero essere stati adoperati in passato proprio per cacciare gli elefanti.
La concentrazione dei materiali – per lo più strumenti di pietra – nell’attuale scavo e nell’intero sito indica che c’era un numero considerevole di persone nel sito in un dato periodo di tempo e che gli elefanti venivano cacciati. Nel clima caldo e secco della nostra regione, la carne di elefante non poteva rimanere fresca a lungo, quindi doveva essere stata consumata rapidamente da molte persone, probabilmente come parte di un evento comune, hanno affermato gli accademici.
Sebbene in ottimo stato di conservazione, la zanna è estremamente fragile. Dopo essere stata sottoposta a un trattamento di conservazione iniziale, questa verrà a breve trasferita presso il Israel Antiquities Authority Conservation Laboratory dove sarà studiata.
Prevediamo di esporre la zanna al pubblico nella nostra sala permanente del Jay and Jeanie Schottenstein National Campus for the Archaeology of Israel a Gerusalemme”, ha dichiarato Eli Eskozido, direttore di Israel Autorità per le Antichità.
(greenMe, 1 settembre 2022)

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Monaco 1972: i famigliari degli atleti israeliani uccisi riceveranno un risarcimento dalla Germania

Gli 11 atleti israeliani uccisi durante le Olimpiadi di Monaco 1972
I familiari degli 11 atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco del 1972 avrebbero raggiunto un accordo di risarcimento con il governo tedesco mercoledì, pochi giorni prima di una cerimonia ufficiale di commemorazione che i parenti avevano precedentemente minacciato di boicottare. Come riporta The Algemeiner, in una dichiarazione formale, Steffen Hebestreit, portavoce del cancelliere tedesco Olaf Scholz, ha affermato che è stato “possibile concordare con i parenti un concetto generale per il 50° anniversario”.
  Il portavoce ha spiegato che secondo i termini dell’accordo, i file d’archivio riguardanti il massacro degli atleti il 5 settembre 1972 sarebbero stati rilasciati per la revisione di una commissione di storici israeliani e tedeschi. Ci sarebbero anche ulteriori “pagamenti di riconoscimento” pagati alle famiglie dal governo federale, dallo stato bavarese e dalla città di Monaco, stimati nell’ordine dei 30 milioni di dollari.
  Inoltre, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, dovrebbe diventare il primo rappresentante ufficiale tedesco a scusarsi per i fallimenti di sicurezza ai Giochi del 1972, ha riferito la Suddeutsche Zeitung. Come è noto, il tentativo guidato dai tedeschi di liberare gli israeliani si era concluso con tutti gli atleti uccisi sull’asfalto della base aerea di Fürstenfeldbruck.
  L’annuncio di mercoledì è arrivato due settimane dopo che due delle vedove degli atleti avevano inviato una lettera furiosa al primo ministro dello stato della Baviera confermando che avrebbero boicottato la cerimonia di commemorazione del 50° anniversario in scena in città.
  “Cinquant’anni di abusi, bugie, umiliazioni e rifiuti da parte del governo tedesco e soprattutto delle autorità bavaresi sono più che sufficienti per noi”, avevano scritto in una lettera al premier bavarese Markus Söder Ankie Spitzer di André, allenatore della squadra israeliana, moglie e Ilana Romano, moglie del sollevatore di pesi Yossef Romano, secondo membro della squadra ucciso dai terroristi.
  La lettera di Spitzer e Romano faceva seguito a diverse precedenti dichiarazioni delle famiglie degli atleti assassinati secondo cui avrebbero boicottato la cerimonia di commemorazione, accusando il governo bavarese di non aver pagato un risarcimento adeguato per la loro perdita e trauma.
  Una precedente offerta tedesca di 12 milioni di dollari di risarcimento, meno i 5 milioni di dollari già pagati, è stata respinta dalle famiglie delle vittime come uno “scherzo” e un “affronto”.

(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2022)

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