Notizie 16-30 settembre 2023
Gli Usa annunciano progressi sulla normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita
La Casa Bianca ha annunciato che Israele e l’Arabia Saudita stanno avanzando verso la definizione di un accordo storico di normalizzazione delle relazioni, con la mediazione degli Stati Uniti. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nutre l’auspicio di trasformare il Medio Oriente e ottenere una vittoria diplomatica in un anno elettorale cruciale, cercando il riconoscimento dello Stato ebraico da parte dell’Arabia Saudita, custode dei due luoghi più sacri dell’Islam. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, John Kirby, ha dichiarato ai giornalisti: “Tutte le parti hanno elaborato, credo, un quadro di base per ciò che potremmo essere in grado di raggiungere”. Tuttavia, egli ha sottolineato che, come in ogni accordo complesso, sarà necessario che tutte le parti facciano delle concessioni.
Gli Stati Uniti hanno incoraggiato i loro alleati nel Medio Oriente, Israele e l’Arabia Saudita, a normalizzare le relazioni diplomatiche, dopo che lo Stato ebraico ha stabilito legami normali con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Marocco nel 2020. In precedenza, Israele aveva già siglato accordi diplomatici con Egitto e Giordania. Durante il suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 22 settembre, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Israele si trova “in procinto” di stringere un accordo di pace rivoluzionario con l’Arabia Saudita. Netanyahu ha affermato che una tale pace forgerà un “Nuovo Medio Oriente”, avrà un impatto significativo sulla risoluzione del conflitto arabo-israeliano e incentiverà altri stati arabi a normalizzare i loro rapporti con Israele, migliorando così le prospettive di pace con i palestinesi e favorendo una più ampia riconciliazione tra ebraismo e islam, tra Gerusalemme e La Mecca, tra i discendenti di Isacco e i discendenti di Ismaele.
Tuttavia, la questione palestinese rimane un ostacolo nelle trattative. L’amministrazione Biden ha esortato Israele a fare concessioni ai palestinesi come parte di un possibile accordo, ma Netanyahu è limitato dalle posizioni dei suoi partner di coalizione di estrema destra, contrari a qualsiasi passo verso la creazione di uno stato palestinese. L’Autorità nazionale palestinese ha presentato agli Stati Uniti e all’Arabia Saudita un elenco di potenziali misure che vorrebbe vedere attuate nell’ambito dei colloqui di normalizzazione. Il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman ha dichiarato a “Fox News” all’inizio di questo mese che “ogni giorno ci avviciniamo” alla normalizzazione dei rapporti con Israele, sottolineando, tuttavia, che la questione palestinese rimane una componente “molto importante” del processo. Inoltre, l’Arabia Saudita ha cercato garanzie di sicurezza dagli Stati Uniti, tra cui, secondo quanto riferito, la possibilità di un trattato di difesa, in cambio della normalizzazione dei rapporti con Israele.
(Nova News, 30 settembre 2023)
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Per Gerusalemme e Riad gli accordi del 2002 non funzionano
L’ipotesi del diplomatico che ha visitato i Territori palestinesi nei giorni scorsi, di tornare alla pace panaraba potrebbe non funzionare tra Gerusalemme e Riad.
di Ferruccio Michelin
Quando 26 settembre, un diplomatico saudita ha suggerito che la normalizzazione delle relazioni con Israele sarebbe stata presa in considerazione nel quadro della proposta di pace panaraba del 2002 sponsorizzata da Riad, ha confermato quanto l’avvicinamento tra i giganti regionali sia una tettonica ormai innescata è quasi irreversibile. Nayef al Sudairi, che ha recentemente assunto il ruolo di ambasciatore saudita non residente in Palestina, è stato in visita inaugurale a Ramallah.
L’iniziativa di pace araba, proposta originariamente nel 2002, offriva il riconoscimento di Israele da parte degli Stati arabi in cambio di un ritiro completo dai territori conquistati durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, compresa Gerusalemme est.
Durante la sua visita, al Sudairi ha anche fornito ai palestinesi delle credenziali che descrivevano il suo doppio ruolo di “console generale a Gerusalemme”, un gesto che riconosce la loro sfida alla sovranità di Israele sulla sua capitale. Tuttavia, non era previsto che si recasse a Gerusalemme durante il suo soggiorno di due giorni.
“La proposta saudita del 2002 è rimasta lettera morta, e non solo perché Israele stava combattendo un’ondata di terrorismo suicida palestinese”, spiega Mark Dubowitz, ceo e fondatore della Foundation for Defense of Democracies (Fdd).Ci sono ampie indicazioni che Riad, che era sotto esame da parte degli Stati Uniti per la composizione a maggioranza saudita dei dirottatori dell’11 settembre, stesse cercando di spostare l’attenzione sulla presunta recalcitranza diplomatica di Israele. Pertanto, l’invocazione della proposta ora, a distanza di una generazione, è strana. Israele dovrà fare concessioni sulle questioni palestinesi per ottenere un accordo, ma non si baserà su una proposta vecchia di due decenni che minaccerebbe la sicurezza di Israele”.
“Qualsiasi impegno dei sauditi nell’arena israelo-palestinese dovrebbe essere visto come uno sviluppo positivo in questo momento. Ma con il progredire delle discussioni, sarà importante vedere i sauditi mettersi d’accordo con gli israeliani”, aggiunge Jonathan Schanzer, vicepresidente della Fdd. “La normalizzazione non può concretizzarsi pienamente senza una chiara comprensione di ciò che è possibile, sia a breve che a lungo termine, per i palestinesi e del loro desiderio di realizzare le proprie aspirazioni nazionali. Ci sono sfide significative a questo proposito a causa della mancanza di leadership palestinese. I sauditi, in particolare, devono iniziare a confrontarsi con questo problema”.
“Visitando le alture del Golan il 9 agosto, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto che l’altopiano strategico ‘sarà per sempre sotto la sovranità israeliana’. Gli americani non avevano certo bisogno di ricordarlo: nel 2019, l’allora presidente Trump ha riconosciuto il Golan come israeliano. Ma Washington potrebbe voler inviare nuovamente quel promemoria ai sauditi: La loro proposta di pace del 2002, ora riproposta, restituirebbe il Golan alla Siria di Bashar Al-Assad e verrebbe usato come base iraniana per minacciare Israele”, chiude Enia Krivine, direttrice senior del Programma Israele e della Rete per la sicurezza nazionale di Fdd.
(Formiche.net, 30 settembre 2023)
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Anp
Anp significa Autorità Nazionale Palestinese, ma il "Nazionale" è stato aggiunto dai palestinesi. Il termine originario è "Autorità Palestinese" (AP) tra pressioni Usa e il tentativo di recuperare consensi
Punto di vista filopalestinese. NsI
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Alla fine, Muhammad Shtayyeh, ha avuto i suoi due silos per il grano. Giovedì il premier dell’Autorità nazionale palestinese ha posto la prima pietra di quello che sorgerà a Burham, a nord di Ramallah. L’altro sarà costruito nella zona di Hebron. 45-50 milioni di dollari il costo dei due depositi che avranno una capacità di stoccaggio di 80mila tonnellate di grano, sufficienti a rifornire in caso di necessità per tre mesi per il mercato locale. L’Anp ha puntato con forza sul progetto sfidando lo scetticismo di economisti ed esperti delle Nazioni unite poco convinti che questa riserva di grano sia utile al raggiungimento della «sicurezza alimentare» che, ha spiegato Shttayeh, è al centro della strategia del suo governo. Tra gli applausi di imprenditori e uomini d’affari locali, il primo ministro ha spiegato che il suo governo sta investendo sull’agricoltura, tornata a crescere in percentuale nel Pil palestinese.
Magari qualche contadino è tornato a sorridere grazie agli «investimenti» dell’Anp ma, solo per citare il caso più grave, la sanità soffre e non poco. I giornali locali qualche giorno fa riferivano di un giovane che si è presentato al Ramallah Medical Complex per sottoporsi a un intervento chirurgico fissato da tempo: quando ormai era sul tavolo operatorio, i medici l’hanno rimandato a casa per la mancanza di ferri chirurgici. Scarsi fondi, macchinari e personale medico specializzato sono i problemi che attanagliano la sanità pubblica palestinese mentre quella privata fiorisce. A Gaza sotto blocco israeliano e governata da Hamas, le cose vanno persino peggio. 1100 palestinesi con insufficienza renale, tra cui 38 bambini, rischiano di rimanere senza dialisi per la mancanza di pezzi di ricambio per i macchinari.
La corruzione è sempre un tema sempre di attualità nei caffè di Ramallah e di altre città. Per questo, come spesso avviene intorno alle mosse dell’Anp, anche sui silos di Shttayeh non mancano voci e polemiche. Nel migliore dei casi il progetto viene descritto come «finalizzato a lucidare l’immagine opaca» del governo e del premier che, a quanto pare, rischia di dover lasciare presto la sua poltrona all’ex ministro ed economista Mohammed Mustafa, anche lui un ultraliberista. Nel peggiore, i silos sono giudicati «inutili» e destinati a favorire solo i profitti delle imprese private dietro il progetto.
Il presidente 88enne Abu Mazen si è lanciato negli ultimi mesi in una operazione di maquillage della sua leadership, debole e con scarso consenso. Ha visitato Jenin, la «città resistente», per la prima volta dal 2011 dopo il raid distruttivo di Israele del 3 e 4 luglio, ha mandato a casa una dozzina di governatori e sta decidendo se nominare subito un nuovo governo o procedere a un semplice rimpasto. È anche intervenuto nella riforma delle pensioni emendando in profondità, con un decreto, il testo della legge duramente contestata dai sindacati nel 2018-19. La riforma prevedeva una contribuzione al Fondo di previdenza sociale che i lavoratori salariati non hanno modo di soddisfare in ragione dei redditi bassi e del crescente costo della vita. Ora è stato ridotto il peso della riforma sui salari. Abu Mazen però non fa le poche cose che potrebbero restituirgli qualche consenso. Interrompere la collaborazione tra l’intelligence dell’Anp e quella di Israele. La popolazione palestinese lo chiede invano da anni. E ridurre la spesa per le forze di sicurezza che assorbe circa il 30% del budget governativo. Gli arresti di giovani combattenti a Jenin e Nablus compiuti dai reparti speciali dell’Anp negli ultimi due mesi sono stati accolti con rabbia e sgomento dalla maggior parte dei palestinesi.
L’analista Hani Masri invita a considerare le manovre di attori internazionali nella scelta del nuovo premier dell’Anp. Washington con i suoi dirigenti politici e i suoi commentatori, spiega Masri, «non considera le responsabilità di Israele nella fine del processo di pace e i crimini dell’occupazione. L’obiettivo dell’amministrazione Biden è solo normalizzare i rapporti tra Arabia saudita e Israele». E, conclude l’analista, in cambio di un generoso sostegno economico, si attende «l’approvazione da parte dell’Anp del deal che porterà all’egemonia israeliana sulla regione, all’apertura delle porte dei paesi arabi e islamici ai governanti di Tel Aviv e ad allontanare l’Arabia saudita da Cina, Russia e Iran». I palestinesi, scriveva la Reuters a metà settimana, otterranno ben poco. Riyadh ha deciso che la «pace» con Israele la farà anche senza concessioni ai palestinesi da parte del premier Netanyahu.
(il manifesto, 30 settembre 2023)
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E nel mezzo, Gesù
di Norbert Lieth
Quando il Signore Gesù fu crocifisso, furono «crocifissi con lui due ladroni, uno a destra e l'altro a sinistra» (Matteo 27:38). Questi due uomini, descritti nei Vangeli come ladroni, possono essere considerati un simbolo dell'umanità, divisa in due parti. Entrambi sono nati da un padre e una madre e hanno vissuto un'infanzia simile a quella di tutti gli altri bambini. Tuttavia, a causa delle compagnie sbagliate e delle decisioni errate che hanno preso, hanno intrapreso un percorso di vita criminale, governato dal peccato. Pur essendo stati ripetutamente avvertiti di non seguire questa strada, entrambi hanno continuato ad agire in modo sbagliato e hanno pagato il prezzo più alto: la vita. In questo modo, la storia di questi due uomini può essere vista come una rappresentazione della lotta dell'umanità tra il bene e il male, e dell'importanza di fare scelte giuste nella vita.
Con il senno di poi, la vita di questi due uomini sembrava vana e condotta verso un baratro che ne vanificava l'esistenza: erano destinati a morire. Avevano vissuto senza speranza, rimanendo a mani vuote, e avevano causato tragedie nelle rispettive famiglie. Convinti di essere stati traditi dalla vita, si trovavano ad affrontare la morte senza speranza. Entrambi avevano ricevuto la stessa condanna infamante, dovendo sopportare la colpa delle loro azioni. I loro ideali, per cui avevano combattuto con entusiasmo, li avevano portati a guadagnarsi solo vergogna e morte. Inoltre, entrambi avevano vissuto senza la presenza di Dio e avevano schernito Gesù con lo stesso atteggiamento sprezzante. Nessuno dei due avrebbe potuto pagare il prezzo della propria colpa con i propri sforzi, poiché erano giunti al capolinea: la morte era l'unica prospettiva possibile e nulla avrebbe potuto cambiare le loro sorti (Matteo 27,44).
Entrambi morirono contemporaneamente, soffrendo una dolorosa agonia simile. Erano entrambi al fianco di Gesù e quindi vicini a Lui, potendo guardarlo e osservarlo attentamente. Inoltre, entrambi avevano la possibilità di ascoltare ciò che gli altri dicevano di Gesù.
«Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23:34);
«Questo è il re dei Giudei» (Luca 23:38);
«…ha detto: «Io sono Figlio di Dio» (Matteo 27:43).
Entrambi potevano rivolgersi a Lui e parlargli. Entrambi erano equidistanti dalla porta del paradiso. Entrambi erano ugualmente vicini alle porte dell'inferno. Entrambi furono crocifissi con Gesù e Gesù fu crocifisso per entrambi. Hanno provocato la morte di altre persone ma Gesù, colui che dà la vita, era lì accanto a loro. Entrambi avevano un'ultima possibilità per decidere del loro futuro.
Lo crocifissero assieme ad altri due, uno di qua, l'altro di là, e Gesù nel mezzo (Giovanni 19:18).
Al centro di tutto si trova Gesù. Egli è venuto in mezzo a noi e ha creato un bivio, un punto di svolta nella nostra vita e nei nostri cammini. La sua croce rappresenta la misura della nostra vita e valuta il nostro conto aperto, agendo come una chiave inglese nelle opere di Dio. Attraverso la valutazione del nostro peccato e della nostra colpa, Egli ci apre la strada alla redenzione: «È compiuto». - In greco: tetélestai, che significa qualcosa come «tutto pagato». La cambiale viene stralciata (Colossesi 2:14).
Ma Gesù non solo rappresenta una fonte di redenzione, ma divide anche la società. Alcune persone sono state rovinate a causa di Lui, mentre altre sono cresciute grazie a Lui.
Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi» (Luca 23:39).
Questo malfattore era solo alla ricerca di una salvezza terrena. Ha cercato sollievo dal tormento in modo da poter continuare a vivere la sua vita senza pentimento. L'altro ci ripensò e cambiò idea. E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!» (Luca 23:42). Non si trattava più di ottenere un perdono terreno, ma di uno celeste. Ha finalmente compreso il valore vero della vita e l'ha donata a Gesù. Voleva andare dove Gesù sarebbe andato.
Il primo imprecò e Gesù tacque. L'altro chiese e Gesù disse:
«In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso» (Luca 23:43).
Uno ha indurito il proprio cuore e il cielo si è chiuso su di lui, mentre l'altro ha aperto il proprio cuore e il cielo gli si è spalancato, portandolo fino alle porte del paradiso, anche se prima si trovava sull'orlo dell'inferno. La verità è che tutto dipende dalle nostre decisioni.
(Chiamata di Mezzanotte, marzo/aprile 2023)
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Ecco i piani di Arabia Saudita e Israele per rivoluzionare il Medio Oriente
di Marco Orioles
Segnatevi questi nomi, perché potrebbero entrare nella storia. Il principe saudita Mohammed bin Salman, il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Presidente Usa Joe Biden stanno conducendo trattative non più così segrete in vista di un grande patto che disegna un nuovo Medio Oriente in cui dialogo politico e cooperazione economica metteranno a tacere gli antichi odi. Ma sarà davvero così? Ecco cosa scrive l’Economist in un approfondimento uscito nell’ultimo numero.
• Accordo in fieri? Si moltiplicano, scrive il settimanale britannico, i segnali diretti e indiretti di un accordo in fieri tra due Paesi ex nemici come Arabia Saudita e Israele.
In una rara intervista televisiva andata in onda lo scorso 20 settembre, il primo ministro saudita nonché erede al trono Mohammed bin Salman (Mbs) ha riconosciuto che un’intesa è alle porte: “ogni giorno ci avviciniamo di più. Sembra che per la prima volta sia vero, serio” ha dichiarato.
Due giorni dopo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato che le due nazioni sono prossime a un accordo che, ha sottolineato, rappresenterebbe “un salto quantico” verso un nuovo Medio Oriente.
• Marcia di avvicinamento È da tempo che procede la marcia di avvicinamento. Sebbene nessuno lo abbia confermato, pare proprio che Mbs e Netanyahu si siano incontrati almeno una volta. Ad avvicinare i due Paesi è, tra le altre cose, il nemico comune iraniano, minaccia strategica per entrambi.
È anche per questo motivo che nel 2020, quando furono firmati i primi accordi di Abramo che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e alcuni paesi arabi, furono in molti a pensare che fosse arrivato il momento del disgelo tra Gerusalemme e Riad.
Così non è stato, anche se oggi gli incentivi per un accordo sono ancora maggiori. Con esso i sauditi otterrebbero ciò che più desiderano, ossia forgiare una nuova alleanza strategica con quegli Usa accusati di disimpegnarsi dalla regione e di tendere all’appeasement con gli ayatollah.
Lo spettro del nucleare iraniano spinge così il regno a cercare un vero e proprio patto di difesa con l’America formalizzato e sigillato.
• Nucleare saudita? Già si vocifera che Washington, in vista di questo patto, voglia venire incontro ai sauditi autorizzando questi ultimi a sviluppare un programma nucleare anche se, come ha rivelato il Wall Street Journal, con impianti gestiti dagli americani su suolo saudita.
Sebbene il programma sarebbe solo per scopi civili, la clausola non scritta è che, se l’Iran si doterà della bomba, il Regno farà altrettanto. Come Mbs ha ammesso nella già; citata intervista televisiva, “se loro ne ottengono una, noi dobbiamo averne una”.
• Effetti sulla campagna elettorale Usa 2024 Una nuova architettura della sicurezza in Medio Oriente in cui Arabia Saudita e Israele collaborano da partner e gli Usa fungono da garante esterno sarebbe per Joe Biden uno straordinario risultato da sbandierare nella stagione elettorale che si è ormai aperta in America.
E sarebbe proprio un bel paradosso per un presidente che nella precedente campagna elettorale aveva promesso di trattare i sauditi “da paria quali sono” a causa del brutale omicidio del giornalista e dissidente Jamal Khashoggi ordinato, a quanto pare, da Mbs.
Ma il clamore per quel fatto di sangue ha ormai lasciato il posto a una Realpolitik che indica come meta a portata di mano un grande patto con cui gli Usa, incatenando a sé per i decenni avvenire i Paesi del Medio Oriente, otterrebbero tre risultati: prevenire una della regione caduta nella sfera d’influenza cinese, calmare i mercati dell’energia ed esercitare la massima deterrenza nei confronti dell’Iran.
• E i palestinesi? Ma prima di urlare bingo, avverte l’Economist, bisogna considerare alcuni ostacoli. Nonostante si tratti di una monarchia assoluta, anche l’Arabia Saudita deve tener conto di un’opinione pubblica in cui solo il 2% delle fasce giovanili si dice a favore della normalizzazione delle relazioni con Israele, contro rispettivamente il 75 e il 73% di quelle di due Paesi che riconoscono già lo Stato ebraico come Emirati Arabi Uniti ed Egitto.
È anche per questo motivo che i sauditi hanno ripreso a battere con insistenza l’antico tasto della questione palestinese. Negli ultimi mesi, segnala la rivista, alcuni funzionari palestinesi hanno fatto la spola con la capitale saudita con cadenza quasi settimanale, a segnalare il rinnovato interesse saudita per una causa che fa ancora battere i cuori arabi.
Tuttavia nell’intervista televisiva Mbs non ha menzionato il piano di pace saudita del 2002 che prevedeva l’istituzione di uno Stato palestinese con tutti i corollari, ma ha fatto solo vaghi riferimenti alla necessità di assicurare “una buona vita” al popolo palestinese.
• Il vincolo interno di Netanyahu La vaghezza di Mbs si spiega, secondo l’Economist, con i vincoli interni di Netanyahu, leader di una coalizione che include quei partiti religiosi dei coloni ebrei della West Bank che sono contrari a qualsiasi concessione ai Palestinesi.
Anche il Presidente palestinese Abbas sembra aver capito che i sauditi non spingeranno più per la costituzione di uno Stato palestinese quale precondizione per il riconoscimento di Israele.
Visto l’oltranzismo dei coloni e dei loro potenti rappresentanti di cui Netanyahu è di fatto ostaggio, l’unico obiettivo davvero a portata di mano è fermare ogni nuovo insediamento e strappare maggiore autonomia per la Cisgiordania.
• L’opportunità Ma siccome anche questo modesto progresso rischia di far saltare la maggioranza su cui poggia il governo Netanyahu, ecco profilarsi la succulenta contropartita di un accordo storico con l’Arabia Saudita che convincerebbe i partiti centristi finora rifiutatisi di entrare nell’esecutivo a unirsi a Bibi.
• Un nuovo Medio Oriente Gli astri insomma sembrano allinearsi e la prospettiva di un rinascimento mediorientale che archivi i passati odi per schiudere le porte a una nuova stagione di dialogo e cooperazione non è mai stata così concreta come oggi.
(START Magazine, 30 settembre 2023)z
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La Germania formalizza con Israele l’acquisto del sistema di difesa antimissile Arrow 3
I Ministri della Difesa Tedesco ed Israeliano hanno sottoscritto un accordo di collaborazione per l’immissione in servizio del sistema di difesa antimissile Arrow 3 nelle fila della Bundeswehr.
di Aurelio Giansiracusa
La Germania, a seguito della guerra scatenata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, ha varato tutta una serie di programmi tesi ad ammodernare e potenziare le Forze Armate Tedesche in alcuni casi gravemente lacunose.
La difesa antiaerea ed antimissile è divenuta una delle principali aree di intervento del Governo e della Bundeswehr alla luce dei gravi accadimenti in Ucraina e Russia.
A tal fine sono stati finanziati ed attivati diversi programmi per coprire le esigenze di difesa aerea ed antimissile tattica e strategica, avviando l’acquisto delle batterie IRIS-T SLM, ammodernando e potenziando i sistemi Patriot e selezionando il sistema israelo-statunitense Arrow 3 come perno della difesa anti missili balistici a medio e lungo raggio.
Il Governo di Berlino ha avviato colloqui esplorativi con gli omologhi israeliano e statunitense, ed avendo ottenuto il via libera da Washington, ha serrato le trattative con Israele per chiudere la trattativa.
Grazie a questo accordo di collaborazione, il sistema Arrow tedesco sarà rapidamente disponibile e si prevede di raggiungere la capacità operativa iniziale già alla fine del 2025. Tra Berlino e Tel Aviv si stringe un’importantissima collaborazione militare e politica; per Israele la vendita del sistema Arrow 3 rappresenta il successo di vendita più importante fin qui registrato dal suo comparto industriale e militare e la collaborazione con la Germania apre altre possibilità di partnership e di vendite in ambito europeo e NATO, aree nella quali la presenza israeliana negli ultimi anni è divenuta fortissima.
Dal punto di vista politico è un successo di dimensioni epocali per il Governo di Tel Aviv perché ad un sistema progettato e prodotto in Israele (e Stati Uniti) è affidato il delicatissimo compito di difendere il cuore dell’Europa e della NATO dalla minaccia missilistica balistica.
L’Arrow 3 servirà a proteggere le infrastrutture critiche e sarà integrato nello scudo protettivo della NATO. ed anche nell’iniziativa europea Sky Shield (ESSI) di cui costituirà uno dei principali bastioni difensivi.
Allo stato attuale, l’Arrow 3 è l’unico sistema occidentale in grado di intercettare i missili balistici al di fuori dell’atmosfera terrestre. Il sistema d’arma è costituito da un posto di comando, sensori radar, lanciatori con quattro missili guidati ciascuno ed altri dispositivi periferici. È sviluppato e prodotto congiuntamente dalla Israel Missile Defense Organization (IMDO) e dalla United States Missile Defense Agency ( MDA).
Il sistema sarà gestito dalla Luftwaffe come avviene per i Patriot ed avverrà a breve per le batterie da difesa aerea a corto raggio IRIS-T SLM.
Il missile guidato Arrow-3 può intercettare una testata in arrivo (veicolo di rientro) con un colpo diretto, il cosiddetto principio “hit- to- kill”. Il missile nemico non è distrutto da un’esplosione, ma dall’energia cinetica d’impatto di un colpo diretto grazie al sofisticato sistema di guida che permette al Arrow-3 di intercettare il bersaglio con estrema precisione.
(Ares Osservatorio Difesa, 30 settembre 2023)
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Quegli ebrei salvati dai Di Giorgio: "Livorno non dimentica il coraggio"
L’avvocato Luciano Barsotti guida la Fondazione che nel prossimo gennaio ospiterà la personale del pittore "Importantissimo anche il lavoro svolto a Viareggio a favore delle persone diversamente abili".
di Maria Nudi
VIAREGGIO - Avvocato. Presidente della Fondazione Livorno dal 2020, al secondo mandato. Livornese, appassionato d’arte nel senso più ampio del termine, appassionato di cultura. Luciano Barsotti ha reso la sede della Fondazione Livorno, nel palazzo ex Cassa di Risparmio una galleria d’arte. Una parte del terzo e il quarto piano ospita opere di grande pregio, un’autentica collezione declinata in forma diverse: pitture, sculture, disegni, incisioni e stampe antiche. È nel fascino artistico di quei locali che saranno esposte le opere del pittore Giorgio Di Giorgio e tre del nonno Ettore.
- Qual è la missione della Fondazione? "La Fondazione ha sempre creato e valorizzato l’arte. Nel tempo ha creato una progettazione artistica ospitando mostre e partecipando alla cultura della città in collaborazione con l’amministrazione comunale allestite in luoghi loro stessi simbolo di cultura come Villa Mimbelli e il Museo della Città. Inoltre ha assunto un ruolo maggiore di promozione dell’arte: ricordo i seminari con studenti degli atenei di Pisa e Firenze che hanno approfondito lo studio della nostra collezione, in particolare quello divisionista e novecentesco con i post-macchiaioli".
- Come si inserisce in questo percorso la mostra di Giorgio Di Giorgio? "Mi permetta di ringraziare la redazione de La Nazione di Viareggio che ha segnalato la mostra che il pittore per altro del Novecento ha fatto con gran successo a Pietrasanta che è stata sostenuta anche dalla Fondazione Banca del Monte di Lucca. Abbiamo accolto il progetto di portare una parte dei quadri del pittore a Livorno. Grazie anche alla famiglia. Di Giorgio ha legami con Livorno: penso al tema del mare inteso come risorsa, come luogo di lavoro, quindi la portualità, ma penso anche al mare nella declinazione più moderna che è rappresentata dai migranti".
- Mare, pinete, accoglienza e inclusione sono temi dell’artista? "Certo faccio riferimento al periodo che la famiglia del pittore ha vissuto a Livorno, alle visite di Di Giorgio a Villa Mimbelli. Penso anche all’accoglienza che la famiglia ha fatto a alcune famiglie ebree. Di fatto salvandole. E penso al lavoro che il pittore ha fatto a Viareggio per le persone con disabilità. Altro particolare Di Giorgio con una lettura personale appartiene al ’900".
(LA NAZIONE, 30 settembre 2023)
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Il sindaco di Gerusalemme invita a visitare la Capanna più grande del mondo
Le capanne di foglie dominano la scena stradale in Israele in questi giorni. Un esemplare insolitamente grande è messo a disposizione dal sindaco di Gerusalemme.
La città di Gerusalemme sostiene di aver costruito la Capanna più grande del mondo. L'ospite è il sindaco Moshe Lion (Yerushalayim Shelanu). Durante la settimana della Festa delle Capanne (Sukkot), sono previsti eventi festivi e culturali. È previsto anche un programma per le famiglie. L'ingresso è gratuito.
La sukkah in piazza Safra, vicino all'angolo nord-occidentale della Città Vecchia, copre una superficie di 800 metri quadrati. 650 ospiti possono essere presenti contemporaneamente, scrive il sito di notizie "News1". Sulle pareti ci sono versetti biblici su Gerusalemme e immagini della città. Negli anni precedenti, il Comune aveva già messo a disposizione una grande capanna di foglie.
La festa di Sukkot inizia il 15° giorno del mese di Tishrei, due settimane dopo Rosh HaShanah, il nuovo anno. Quest'anno l'inizio cade di venerdì sera.
• Ricordo della peregrinazione nel deserto Sukkot commemora il fatto che, secondo la Bibbia, il popolo d'Israele visse in tende per 40 anni durante la migrazione nel deserto dopo l'esodo dall'Egitto. Per questo motivo, gli ebrei trascorrono per una settimana il maggior tempo possibile in capanne, che costruiscono e decorano con fantasia a questo scopo.
Utilizzando un vecchio modo di contare i mesi, la Bibbia dice:
"Il quindicesimo giorno di questo settimo mese è la festa delle Capanne per il Signore, lunga sette giorni. Il primo giorno ci sarà una santa convocazione; non farete alcun lavoro di servizio. Per sette giorni offrirete sacrifici al fuoco al Signore. L'ottavo giorno avrete di nuovo una convocazione sacra e offrirete al Signore sacrifici fatti col fuoco. È un'assemblea festiva; non farete alcun lavoro di servizio" (Deuteronomio 23:34-36).
• Gioia dopo i giorni di pentimento Sukkot segue direttamente i dieci "giorni terribili” di pentimento che iniziano l'anno ebraico - cinque giorni dopo il Grande Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur. L'attenzione è concentrata sulla gioia. Ad esempio, Deuteronomio 16:14 dice:
"Gioirete alla vostra festa, voi e vostro figlio, vostra figlia, il vostro servo, la vostra serva, il levita, lo straniero, l'orfano e la vedova che sono nella vostra città".
Per questo motivo è comune anche l'espressione "Sman Simchateinu" (tempo della nostra gioia). Il collegamento con il tempo del pentimento dimostra che nell'ebraismo il timore di Dio e la gioia si completano a vicenda.
Inoltre, Sukkot è una festa di ringraziamento per il raccolto di frutta e la vendemmia. Un altro nome è "Festa della raccolta". Per questo Dio comanda in Esodo 23:39:
"Il quindicesimo giorno del settimo mese, quando raccoglierete i frutti della terra, farete una festa al Signore per sette giorni. Il primo giorno è un giorno di riposo e anche l'ottavo giorno è un giorno di riposo".
• Bouquet della festa con "quattro specie" Un'importante usanza di Sukkot è quella delle "quattro specie". Ogni uomo deve legare un ramo di palma, tre rami di mirto e due rami di salice di ruscello in un bouquet festivo. La quarta specie è l'etrog, un agrume. Ogni giorno, tranne lo Shabbat, gli ebrei pronunciano una benedizione su di esso: "Lode a Te, Eterno, nostro Dio, Re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi comandamenti e ci hai ordinato di prendere il bouquet festivo!".
L'usanza può essere fatta risalire a questo passo biblico:
"Il primo giorno prenderai frutti da alberi belli, fronde di palma e rami di alberi decidui e salici di ruscello, e ti rallegrerai davanti al SIGNORE tuo Dio per sette giorni, e farai la festa al SIGNORE ogni anno per sette giorni. Questa sarà un'ordinanza perpetua tra i vostri discendenti, che celebreranno così nel settimo mese".
Questo è ciò che dice Esodo 23:40-41 a proposito della festa delle Capanne.
All'epoca dei due Templi di Gerusalemme, Sukkot era la terza grande festa di pellegrinaggio dopo la Pasqua e la Festa delle Settimane di Shavuot. Per tutta la settimana della festa, gli ebrei includono la preghiera dell'Hallel, il grande inno di lode, nella preghiera del mattino. In sinagoga si svolge ogni giorno una processione intorno al leggio (bima) con il bouquet festivo e l'etrog, e l'ultimo giorno si svolge per sette volte.
• Le stelle devono essere visibili Chi costruisce una capanna osserva alcune regole: Deve avere almeno tre pareti. Il tetto deve essere fatto di rami. Nella sukkah deve esserci più ombra che sole e le stelle devono essere visibili. Molte case in Israele hanno balconi sfalsati perché la sukkah non può essere costruita sotto un unico tetto.
Nei climi freddi, è sufficiente consumare i pasti nella capanna di foglie, a meno che non ci siano condizioni climatiche molto difficili. Chi intraprende un viaggio e non ha a disposizione una sukkah è esonerato da questo obbligo. Le donne non sono tenute a sedersi nella capanna, ma possono, come gli uomini, pronunciare la benedizione appropriata quando dicono: "Lode a Te, Eterno, nostro Dio, Re del mondo, che ci hai santificato con i suoi comandamenti e ci hai ordinato di abitare nella capanna”.
Secondo le istruzioni bibliche, nello Stato ebraico di Israele il primo giorno della festa è un giorno festivo. In seguito, ci sono dei semi-festivi. Gli scolari sono in vacanza, i negozi sono aperti per un periodo più breve rispetto ai normali giorni lavorativi. L'ottavo giorno - quest'anno il 17 ottobre - è la festa finale, Shemini Atzeret. In Israele coincide con Simchat Torah, la festa del giubilo per la Torah. È anche una festa di Stato. Gli ebrei della diaspora celebrano Simchat Torah un giorno dopo Shemini Atzeret.
• Inizia la preghiera per la pioggia Un altro nome di Sukkot è "Festa dell'acqua". Secondo la tradizione ebraica, l'ultimo giorno della Festa delle Capanne, Dio decide finalmente la quantità di pioggia per la prossima stagione delle piogge. In questo giorno, gli ebrei iniziano a pregare quotidianamente per la pioggia. Per tutta l'estate chiedono a Dio la rugiada.
Fino alla distruzione del Secondo Tempio, veniva fatta un'offerta di acqua. Gesù riprende questa tradizione quando visita il Tempio di Gerusalemme per la Festa delle Capanne:
"Ma nell'ultimo giorno, il più alto della festa, Gesù si alzò e gridò: 'Se qualcuno ha sete, venga a me e beva! Chi crede in me, dal suo corpo, come dice la Scrittura, sgorgheranno fiumi di acqua viva". Ma questo lo disse dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che credevano in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora arrivato, perché Gesù non era ancora glorificato" (Giovanni 7:37-29).
(Israelnetz, 29 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Presentata al Museo Ebraico “La cucina della dolcezza nella tradizione giudaico romanesca”
di Luca Spizzichino
La tradizione giudaico-romanesca di nuovo protagonista della vita culturale della città di Roma con "La cucina della dolcezza nella tradizione giudaico romanesca", presentata ieri al Museo Ebraico di Roma. Il progetto, a cura di Ariela Piattelli, Raffaella Spizzichino e Marco Panella, è il frutto della collaborazione tra la Comunità Ebraica di Roma con ARSIAL (l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio) che da oltre un decennio assieme dedicano un focus alla promozione della cultura e alle diverse tradizioni della cucina degli ebrei di Roma. Quest’anno l’attenzione si è concentrata sulla storia e la preparazione dei dolci tradizionali di origine ebraico romana e tripolina.
Hanno partecipato tra gli altri il presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, il Rabbino Capo Riccardo di Segni, il ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida, l’Assessore all’Agricoltura della Regione Lazio Giancarlo Righini, il commissario ARSIAL Massimiliano Raffa, Luciano Ciocchetti, vice presidente della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, Massimiliano Maselli, Assessore ai Servizi Sociali della Regione.
Dopo la presentazione del progetto da parte dei curatori, che hanno illustrato anche i contenuti di una guida che comprende ricette di dolci tipici giudaico romaneschi e tripolini, oltre che un testo di Sandro Di Castro ove vi si ricostruisce la straordinaria storia di alcuni piatti tipici basandosi su testi antichi, è intervenuto il Presidente Fadlun, che ha sottolineato l’importanza del patrimonio e della collezione del Museo Ebraico di Roma: “Il Museo Ebraico rappresenta l’orgoglio della nostra Comunità - ha detto Fadlun, - racconta la storia della nostra città, che per gli ebrei era aperta, nonostante fossero chiusi all’interno del Ghetto. Il museo custodisce oggetti speciali, perché testimoni degli influssi sefarditi e ashkenaziti che si sono amalgamati con l’arte romana, e che qui trovano un punto d’incontro”.
“Il cibo è un punto di incontro straordinario - ha sottolineato l’assessore all’Agricoltura della Regione Lazio Righini -. La tradizione giudaico-romanesca appartiene alla storia della nostra nazione”.
“La grande virtù della cucina giudaico-romanesca è stata quella di aver trasformato piatti essenziali in qualcosa di eccezionale e che oggi fanno parte del patrimonio della cucina romana” ha affermato il ministro Lollobrigida. “Abbiamo voluto proporre la cucina italiana coma patrimonio immateriale dell’UNESCO, perché la nostra cucina racconta non solo il prodotto, ma racconta l’identità, la ricerca e la contaminazione tra culture differenti che in Italia si sono incontrate in un crogiolo positivo”, ha concluso il ministro che ha conferito infine una targa al progetto.
(Shalom, 29 settembre 2023)
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Israele: nuovo braccio di ferro Corte Suprema - governo Netanyahu
I giudici esaminano la legge sulla rimozione di un premier 'incapacitato'
TEL AVIV - In un nuovo sviluppo del confronto in corso da mesi fra il governo israeliano e il potere giudiziario, 11 giudici della Corte Suprema sono impegnati oggi a esaminare i ricorsi contro un emendamento a una legge fondamentale che riguarda le modalità con cui sarebbe possibile dichiarare "incapacitato" un primo ministro.
L'emendamento - approvato a marzo alla Knesset - rileva che in passato c'era in merito una lacuna e stabilisce che una eventuale dichiarazione di "incapacità" potrebbe essere collegata soltanto a ragioni gravi di salute.
Anche allora la rimozione di un premier in carica necessiterebbe l'assenso di tre quarti dei ministri e di due terzi dei deputati.
Ma nei ricorsi presentati alla Corte Suprema è stato sostenuto che quell'emendamento sarebbe stato "confezionato su misura" per proteggere Benyamin Netanyahu, che è sotto processo per corruzione e frode. "Si tratta di una legge di carattere personale - ha sostenuto l'ex ministro Avigdor Lieberman nel presentare uno dei ricorsi - che va annullata, o quanto meno rinviata alla prossima legislatura". Di parere opposto un avvocato di fiducia del premier secondo cui i giudici "non hanno il potere di annullare una legge fondamentale" e nemmeno quello di rinviarne la applicazione.
Due settimane fa 15 giudici della Corte Suprema erano stati convocati per discutere lo stesso principio, esaminando i ricorsi contro la abolizione di fatto della cosiddetta "clausola di ragionevolezza", cosa che limiterebbe le prerogative del potere giudiziario.
Il ministro della giustizia Yariv Levin (Likud), principale teorico della riforma giudiziaria intrapresa dal governo Netanyahu, ha scritto su X (ex twitter) che la udienza odierna alla Corte Suprema "significa di fatto una discussione sull'annullamento dell'esito delle elezioni. Coloro i quali hanno presentato ricorsi vogliono estromettere Netanyahu per por fine al governo di destra". "La Corte Suprema pretende di interferire su una Legge fondamentale senza averne alcuna autorità. Si pone così sopra il governo, sopra il parlamento, sopra il popolo e sopra la legge. Questa - ha concluso Levin - non è democrazia". Furiosa la reazione del movimento di protesta 'Forza Kaplan' che ha accusato a sua volta Levin di condurre "un putsch giudiziario".
Il dibattito alla Corte Suprema è trasmesso interamente in diretta dalle emittenti nazionali. La sentenza dei giudici sarà pubblicata entro gennaio.
(ANSAmed, 29 settembre 2023)
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Israele: il 37% pronto ad emigrare per la riforma giudiziaria imposta dal governo Netany
Secondo un recentissimo sondaggio condotto dal Jewish People Policy Institute (JPPI) circa il 37% degli israeliani attualmente possiede o intende acquisire un passaporto straniero con l’intenzione di emigrare a seguito della grave crisi in cui è piombato il paese da quando la coalizione di estrema destra, guidata da Benjamin Netanyahu, ha deciso di modificare l’assetto giudiziario limitando i poteri di controllo della Corte suprema.
Ma oltre questa questione, altri motivi di profonda divisione sono anche quelli relativi ai rapporti tra religione e stato e ai gravi motivi di tensione nati tra i diversi gruppi di immigrati ebrei provenienti da diverse parte del mondo. Inoltre, influiscono anche il disagio sociale di cui parla oramai il 32% degli intervistati. E questo disagio è indicato anche da una discreta parte dei sostenitori di Netanyahu che danno segno di una crescente insoddisfazione.
The Jerusalem Post ricorda poi i risultati di un altro sondaggio condotto tra gli ebrei americani dal quale emerge uno “stato d’ansia” in relazione alla crisi politica e sociale di Israele.
(politicainsieme.com, 29 settembre 2023)
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Attenzione, cristiani! Il sindaco prende di mira i "missionari”
Il vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King avverte in un video che il "sionismo cristiano" è un lupo travestito da agnello.
di Ryan Jones
Per decenni, migliaia di amici cristiani di Israele hanno partecipato alla Marcia di Gerusalemme, che si svolge ogni anno durante la biblica Festa delle Capanne, Sukkot.
Lo fanno in previsione di Zaccaria 14:16, che afferma:
"E avverrà che tutti i superstiti di tutte le nazioni che sono venute contro Gerusalemme saliranno di anno in anno per adorare il Re, il Signore degli eserciti, e per celebrare la Festa delle Capanne“.
Lo fanno anche nel rifiuto della teologia della sostituzione e di secoli di maltrattamento cristiano del popolo ebraico, e come parte di un più ampio ritorno alle radici ebraiche della loro fede.
Ma laddove la maggior parte degli israeliani oggi vede con gratitudine un alleato naturale, se non un compagno di fede, il vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King vede il pericolo mortale in una nuova e sofisticata camuffamento.
In un post su Facebook, ieri King ha esortato i residenti ebrei di Gerusalemme a non lasciare che i loro figli partecipino o vaghino senza controllo intorno alla marcia prevista per mercoledì prossimo.
King ha scritto:
"Tra le decine di migliaia di marciatori ci saranno diverse centinaia e forse anche più di missionari cristiani che vengono con l'esplicito scopo di contattare gli ebrei per diffondere la loro religione".
"Per senso di responsabilità nei confronti di ciascuno dei miei fratelli ebrei, vi avverto di non mandare i vostri figli alla marcia da soli. Non cadete nella trappola al miele usata dai missionari [come p.es. gli aiuti a Israele].
"Devo anche sottolineare che ci saranno molti cristiani che marceranno senza intenzioni missionarie e senza intenzioni negative, quindi non prendete come una cosa negativa il contatto con i non ebrei durante la marcia. Ma per quanto riguarda le partecipanti organizzazioni missionarie, vi preghiamo di stare attenti e di aguzzare la vista. Useranno qualsiasi mezzo per contattare ebrei volenterosi e raccogliere da loro informazioni personali, con cui poi cercheranno di stabilire un rapporto personale che potrà portare a un pericoloso scivolamento”.
Come già detto, molti israeliani, se non la maggior parte, oggi considerano i cristiani evangelici (che costituiscono la maggior parte dei partecipanti alla marcia) come amici e alleati. Pertanto, King ha incoraggiato i suoi seguaci a guardare un breve video (in ebraico) che spiega perché i cosiddetti "sionisti cristiani" dovrebbero in realtà essere considerati lupi travestiti da agnelli.
Nel video, una voce femminile chiede:
"A Rosh Hashanah ci siamo alzati e abbiamo proclamato il Santo come Re su di noi e sul mondo intero. Ora, due settimane dopo, possiamo vedere i cristiani che proclamano Gesù come Re, e dalla nostra città santa di Gerusalemme?".
Nel video, l'autrice insiste che la risposta è "no" e che è dovere di tutti gli ebrei "informati" agire per proteggere la massa di ebrei "ingenui" che parteciperanno fianco a fianco con i cristiani alla marcia di Gerusalemme.
Come "prova" del fatto che i cristiani sionisti rappresenterebbero una minaccia per il popolo ebraico, il video ricorda un incidente avvenuto alla fine di Shavuot (Pentecoste) sulla scalinata sud del Monte del Tempio a Gerusalemme.
In quell'occasione, un gruppo di attivisti religiosi ebrei, composto da diverse centinaia di persone, ha protestato contro i turisti evangelici che si erano recati sul Monte del Tempio per una grande funzione cristiana. Ne seguirono vere e proprie molestie.
Anche Aryeh King è stato coinvolto in questa azione.
"Questa è una protesta contro coloro che hanno permesso ai missionari cristiani di tenere una cerimonia di culto cristiano in preparazione di un lavoro missionario diretto contro gli israeliani, e contro i missionari", ha detto King. "Per quanto mi riguarda, voglio che tutti i missionari sappiano che non sono i benvenuti nella terra di Israele".
La protesta ha coinciso con la fine del periodo di 21 giorni di preghiera e digiuno "Isaia 62" tenuto dai cristiani di tutto il mondo per Israele.
Alcuni gruppi religiosi ebraici si sono arrabbiati perché gli organizzatori del digiuno “Isaia 62” lo hanno definito come una campagna "per l'aumento delle promesse di salvezza e dei piani di Dio per Gerusalemme e Israele". L'hanno interpretato come un tentativo "missionario" di "convertire" gli ebrei.
Il deputato dell'opposizione ed ex ministro degli Affari religiosi, Matan Kahana, si è poi scusato in una dichiarazione pubblicata da
All Israel News: "Alcuni giorni fa, alcuni estremisti hanno gridato contro un gruppo di visitatori dei luoghi santi. Vorrei sottolineare che è controproducente gridare contro persone che sono grandi sostenitori di Israele. Vorrei cogliere l'occasione per scusarmi a nome della Knesset per questo comportamento".
Kahana, che è un ebreo religioso, aveva precedentemente parlato ai media israeliani dei suoi incontri con i cristiani evangelici e dell'importanza di queste relazioni per Israele. "Ho avuto un incontro molto importante con i cristiani e gli evangelici che sostengono Israele", ha detto in un'intervista all'emittente pubblica israeliana Kan mentre si trovava negli Stati Uniti a maggio. "Si tratta di una relazione strategica molto importante per lo Stato di Israele - 70 milioni di entusiasti sostenitori del Paese".
(Israel Heute, 29 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il 90 per cento degli studenti ebrei in Francia vittima
di attacchi. Numeri da esilio
di Giulio Meotti
ROMA - Nove studenti su dieci in Francia sono stati vittime dell’antisemitismo. Secondo un sondaggio Ifop pubblicato su Le Parisien, il 91 per cento degli studenti ebrei in Francia è già stato vittima di un atto antisemita durante il percorso scolastico. Il sette per cento di un’aggressione fisica. Un altro fenomeno attira particolarmente l’attenzione. Gli studenti intervistati affermano di temere “atti e violenze da parte dell’estrema sinistra” (83 per cento). Accusano direttamente Jean-Luc Mélenchon, leader della sinistra radicale, “di non lottare contro questo flagello, senza dubbio per clientelismo elettorale”. Per Frédéric Dabi, dell’Ifop, c’è “una rottura storica nella percezione della minaccia avvertita dagli ebrei di Francia. Prima le preoccupazioni provenivano da Jean-Marie Le Pen. Oggi da Mélenchon”. Poi c’è l’islamismo. A Bondy, due studenti che indossavano la kippah sono stati picchiati con bastoni e sbarre di metallo. A Marsiglia, un insegnante ebreo è stato aggredito a colpi di machete da uno studente del liceo che diceva di voler “decapitare un ebreo”. L’uomo si è protetto con la Torah che teneva in mano.
Su Le Figaro, lo storico Georges Bensoussan racconta quanto sta accadendo agli ebrei di Francia: “Per motivi di sicurezza, i bambini ebrei hanno abbandonato massicciamente l’istruzione pubblica. Nei quartieri c’è un clima che ricorda le peggiori memorie del Maghreb ebraico. E’ una sconfitta francese e non una sconfitta ebraica, perché l’intera società francese è minacciata da ciò che minaccia oggi gli ebrei. Per i discendenti di ebrei che hanno lasciato il mondo arabo, l’antisemitismo delle banlieue è ancora una volta un incubo. Così, la Seine-Saint-Denis ha perso l’80 per cento della sua popolazione ebraica in venti anni”. Il rabbino capo di Francia Haïm Korsia ha rivelato: “Non c’è quasi più nessun ebreo nelle scuole pubbliche di Seine-Saint-Denis”.
Ma non è soltanto un male francese. Quando, in una scuola secondaria di Bruxelles, Sarah non si è più presentata, non ci sono state manifestazioni o petizioni per conoscere i motivi della sua assenza. Era l’ultima allieva ebrea dell’Atheneum Emile Bockstael. Una bambina ebrea di seconda elementare della scuola Paul Simmel, nel quartiere Tempelhof-Schöneberg di Berlino, è stata aggredita perché “non crede in Allah”. “Sconsigliamo vivamente di passeggiare con una kippah in testa o una stella di David visibile”, ha detto Jan Hansen, il direttore della Carolina di Copenaghen, una scuola ebraica. Stessi scenari ovunque in Europa.
In vent’anni, più del 20 per cento degli ebrei francesi ha lasciato il paese. Secondo un sondaggio, il 40 per cento di chi resta vuole andarsene. Nel 1977 in Francia c’erano 700 mila ebrei. Da allora si sono dimezzati. Negli ultimi dieci anni, “60 mila dei 350 mila ebrei hanno lasciato l’Ile-de-France”, ha denunciato Sammy Ghozlan, presidente del Bureau national de vigilance contre l’antisémitisme. Ghozlan oggi vive a Netanya, sulla costa israeliana, nota anche come la “riviera francese”.
Il Foglio, 29 settembre 2023)
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Sabato primo giorno di Sukkòt: puliti dai peccati
di Donato Grosser
Le mitzvòt delle feste ebraiche appaiono nella parashà di Emòr nel terzo libro della Torà. In questa parashà la sezione che tratta delle feste inizia con la festa di Pèsach, prosegue con Shavu’ot e poi continua con Rosh Ha-Shanà e Kippur. La festa di Sukkòt nella Torà è considerata l’ultima festa dell’anno poiché gli anni del popolo d’Israele venivano contati dal mese di Nissàn, quando uscirono dall’Egitto. Nella Torà è scritto: “L’Eterno parlò a Moshè, dicendo: Parla ai figliuoli d’Israele, e dì loro: Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne, durante sette giorni, in onore dell’Eterno. Il primo giorno vi sarà una santa convocazione; non farete alcuna opera servile” (Vaykrà, 23: 33-35). Qualche versetto più avanti sono descritte le mitzvòt specifiche alla festa di Sukkòt: “Il primo giorno prenderete un frutto dell’albero del cedro (etròg); rami di palma (lulàv), rami dell’albero della mortella (hadàs) e rami di salice (‘arvè nàchal) e vi rallegrerete dinanzi all’Eterno, vostro Dio per sette giorni” (ibid., 40). E anche: “Risiederete nelle capanne per sette giorni; ogni cittadino d’Israele risieda nelle capanne, affinché i vostri discendenti sappiano che io feci dimorare in capanne i figliuoli d’Israele, quando li trassi fuori dal paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, vostro Dio” (ibid., 42-43). Se il primo giorno di Sukkòt cade di sabato, non si prende il lulàv e le altre tre specie perché, come insegnato nel Talmud babilonese (Rosh Ha-Shanà, 29b), i Maestri istituirono la proibizione per evitare che qualche ebreo poco colto, si dimenticasse che di Shabbàt è proibito trasportare qualunque cosa nel dominio pubblico e trasgredisse una mitzvà della Torà trasportandolo per la strada. Meglio quindi sospendere la mitzvà per evitare che il popolo commetta trasgressioni. La mitzvà di risiedere nella sukkà invece non presenta questo rischio è vale per tutti i sette giorni della festa, anche di sabato. R. Yosef Shalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 455) si sofferma sulle parole “Il primo giorno prenderete” e cita il Midràsh Tanchumà (Emòr, 22) nel quale i Maestri osservano che è strano che la Torà usi le parole “primo giorno”, quando in effetti la festa di Sukkòt cade nel quindicesimo giorno del mese di Tishrì. Qual è quindi il significato di questo “primo giorno”? Dicono i Maestri: è il primo giorno nel nuovo conto dei peccati. Infatti a Kippur i peccati degli israeliti sono stati espiati e cancellati. E nei quattro giorni tra Kippur e Sukkòt si è occupati nella preparazione delle mitzvòt del lulàv e delle altre specie e nella costruzione della sukkà. Non c’è quindi tempo per commettere trasgressioni! In un altro Midràsh (Yalkùt Shim’onì, Emòr, 653) i Maestri spiegano perché la mitzvà di risiedere nella sukkà avviene dopo il giorno di Kippur. Se il verdetto divino è stato che gli israeliti devono lasciare le loro case e andare in esilio, questa punizione viene soddisfatta andando “in esilio” dalla propria casa e andando ad abitare nella sukkà. Riguardo alla festa di Sukkòt è scritto: “e vi rallegrerete dinanzi all’Eterno, vostro Dio per sette giorni”. R. Elyashiv spiega che la principale felicità (simchà) della festa di Sukkòt deriva dal giorno di Kippur. I nostri antichi sapevano il significato del peccato e come i peccati sono come “una cortina di ferra” tra di noi e il Creatore. Non c’è quindi maggiore “simchà” che quella di sentirsi “puliti”dai peccati.
(Shalom, 29 settembre 2023)
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Parashà della settimana: Emor (Parla)
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Da Gerusalemme a Riad
C’è un viavai interessante tra Israele e Arabia saudita. Biden spinge ma c’è chi conta gli ostacoli.
di Fabiana Magrì
GERUSALEMME - A meno di una settimana dal passaggio di testimone su Fox News tra Mohammed bin Salman e Benjamin Netanyahu, per due interviste in cui entrambi i leader hanno espresso grande fiducia nel futuro delle relazioni tra i rispettivi paesi, due delegazioni ufficiali – una saudita e una israeliana – sono entrate, nello stesso giorno, l’una nel paese dell’altra. Viavai che rafforzano l’ottimismo sull’approssimarsi della normalizzazione dei rapporti tra Arabia saudita e Israele, con la determinante e determinata negoziazione degli Stati Uniti di Joe Biden. Martedì l’ingresso in Israele attraverso il valico di Allenby dell’inviato saudita per la Giordania e Gerusalemme est, Nayef al Sadiri, per raggiungere Ramallah e incontrare il presidente Abu Mazen è stato storico, una prima volta dagli Accordi di Oslo, 30 anni fa, con la nascita dell’Anp.
Sadiri ha presentato le sue credenziali ufficiali alla Muqata’a come “ambasciatore non residente presso lo stato di Palestina e console generale nella città di Gerusalemme”. Ha anche voluto rassicurare Abu Mazen e i palestinesi, mettendo l’accento sul passaggio della rara intervista del principe ereditario saudita alla tv americana in cui Mbs ha sì affermato che “ogni giorno ci avviciniamo” alla normalizzazione dei legami con Israele ma ha anche aggiunto che la questione palestinese resta una parte “molto importante” per una svolta decisiva. L’atteggiamento di Ramallah nei confronti della possibilità di relazioni ufficiali tra Riad e Israele si è ammorbidito negli ultimi mesi, da quando il presidente palestinese ha maturato la consapevolezza che ergersi a ostacolo porta con sé il rischio di vedersi rimosso. Mentre diventare il nodo cruciale nei colloqui – almeno uno dei più spinosi, politicamente – può riservare vantaggi. Proprio parlando all’Assemblea generale delle Nazioni Unite Abu Mazen ha dichiarato che “chi pensa che la pace possa affermarsi in medio oriente senza che i palestinesi abbiano uno stato, rimarrà deluso”, facendo di fatto un concreto riferimento alla possibilità di un accordo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele.
Contemporaneamente il titolare del dicastero del turismo, Haim Katz, è stato il primo ministro israeliano a guidare una delegazione ufficiale sul suolo saudita, per partecipare a una conferenza ospitata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per il turismo a Riad. La missione di due giorni è stata annunciata con una nota il cui il ministro ha dichiarato che “il turismo è un ponte tra le nazioni” e che “la cooperazione nel campo del turismo ha il potenziale per unire i cuori e favorire il progresso economico”. Il premier Netanyahu, a New York venerdì scorso, ha detto che Israele è “al culmine” di un accordo storico con l’Arabia Saudita, regno con cui già condivide affari e la preoccupazione per un rivale comune, l’Iran. A indicare una finestra temporale piuttosto imminente, nell’intervista a Fox News Netanyahu ha fornito ulteriori coordinate: “Penso che quando ci sono tre leader e tre paesi che vogliono avidamente un risultato – gli Stati Uniti sotto il presidente Biden, l’Arabia Saudita sotto il principe ereditario Mohammed bin Salman e Israele sotto il mio premierato –ciò aumenta davvero la possibilità di riuscita”. Ma il triangolo diplomatico non vive in una bolla e le sfide da superare sono a tante latitudini così come dentro casa. Biden rincorre un risultato importante in politica estera in vista delle elezioni presidenziali del 2024 e l’accordo israelo-saudita si inserisce in una competizione globale strategica tra Stati Uniti e Cina, di cui fa parte anche il progetto da lui annunciato a inizio settembre al G20 indiano: l’asse di collegamento infrastrutturale e logistico, marittimo e ferroviario, tra India ed Europa attraverso il medio oriente (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Israele). A Bibi, che dal pulpito di New York ha annoverato questa impresa tra le speranze per il futuro, resta un miracolo da compiere. Conciliare, cioè, le posizioni della destra alla sua destra nella coalizione di governo – che si oppone a qualsiasi concessione ai palestinesi e non molla sulla riforma del sistema giudiziario che continua ad alimentare la spaccatura sociale in patria – e le aspettative dei partner internazionali, gli Stati Uniti in primis, che vedrebbero di buon occhio una coalizione con l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz al posto dei nazionalisti religiosi Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.
Il Foglio, 28 settembre 2023)
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Gli israeliani potranno andare negli Stati Uniti senza visto
L’amministrazione Biden ha annunciato mercoledì che consentirà ai viaggiatori israeliani di recarsi negli Stati Uniti senza visto, uno status ambito che è stato concesso in cambio dell’abolizione, da parte del governo israeliano, delle restrizioni di viaggio imposte da tempo ai palestinesi americani e ad altri americani di origine araba e musulmana.
L’ingresso di Israele nel Visa Waiver Program è stata una priorità assoluta per il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e per il suo predecessore, Naftali Bennett. Il Paese non aveva mai ottenuto l’accesso perché rifiutava l’ingresso a molti palestinesi americani all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, costringendoli a volare in Giordania e poi a viaggiare via terra in Cisgiordania.
L’amministrazione Biden ha cercato di porre fine a questo trattamento e ha considerato l’accordo sui visti come un banco di prova per uno sforzo molto più grande per mediare un accordo tra Arabia Saudita e Israele che potrebbe essere una pietra miliare nella geopolitica del Medio Oriente. A luglio, Israele ha accettato di aprire l’aeroporto Ben Gurion a tutti gli americani, a prescindere dalla loro origine, nel tentativo di dimostrare che si è impegnato a rispettare la sua parte dell’accordo.
Da allora, secondo i funzionari statunitensi, decine di migliaia di palestinesi americani sono volati in Israele con successo, ottenendo visti e l’accesso a muoversi nel territorio israeliano come non hanno potuto fare per decenni.
La politica israeliana “ha spesso sottoposto i cittadini statunitensi di origine palestinese o araba o di fede musulmana a notevoli difficoltà e a un trattamento diseguale”, ha dichiarato un funzionario statunitense ai giornalisti. “Dal 20 luglio, quando Israele ha inizialmente pubblicato le sue indicazioni di viaggio aggiornate, oltre 100.000 cittadini statunitensi, tra cui decine di migliaia di americani palestinesi, sono entrati con successo in Israele senza visto”.
(Rights Reporter, 28 settembre 2023)
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Francia: 9 studenti universitari ebrei su 10 vittima di antisemitismo
In Francia, durante la loro vita studentesca, il 91% dei giovani ebrei è già stato vittima di un atto antisemita, rivela uno studio Ifop pubblicato giovedì 28 settembre, commissionato dall’Unione degli studenti ebrei di Francia (UEJF). Si va dalle battute antisemite all’aggressione. “L’antisemitismo è la vita quotidiana degli studenti ebrei”, avverte l’UEJF su X (ex Twitter).
Secondo questo sondaggio, il 7% degli studenti ebrei è già stato vittima di aggressioni fisiche di carattere antisemita, di cui il 3% in più occasioni. Il 43% dichiara di aver già subito un attacco legato a Israele (aggressione fisica, minacce verbali). Poco meno della metà degli studenti ebrei (45%) è stato vittima almeno una volta di un insulto antisemita. Molto spesso, gli studenti ebrei affermano di essere vittime di battute o commenti antisemiti: una battuta “da scolaretto” sulla Shoah o sugli ebrei (80%), un’osservazione che trasmette stereotipi sugli ebrei (89%). Questi atti antisemiti avvengono nei locali dell’università o della scuola (67%), sui social network (32%), nell’ambito di un corso (27%) o anche durante una serata studentesca (24%).
• Gli stereotipi persistono
Gli stereotipi sembrano duri a morire all’università. Così, secondo l’Ifop, il 19% degli studenti ritiene che gli studenti ebrei abbiano più facilità degli altri a pagare le tasse universitarie. Secondo il 18% degli studenti, sarebbe anche più facile lavorare nel settore finanziario o nei media.
Più della metà degli studenti ebrei (53%) afferma inoltre di osservare un aumento della violenza da parte dell’estrema destra nelle università francesi e l’84% afferma di assistere a un aumento della violenza da parte dell’estrema sinistra nelle università. L’83% degli studenti ebrei ritiene che questa violenza da parte dell’estrema sinistra rappresenti una minaccia significativa per gli studenti ebrei, rispetto al 63% per quanto riguarda la violenza dell’estrema destra.
• Più di un terzo nasconde di essere ebreo
Di fronte a questa constatazione, il 36% degli studenti ebrei intervistati afferma di aver già nascosto il fatto di essere ebreo per paura dell’antisemitismo e il 33% afferma di aver cambiato comportamento dopo essersi confrontato con l’antisemitismo.
Il 65% degli studenti ebrei ritiene inoltre di non avere informazioni sui mezzi adottati nella propria università o scuola per combattere il razzismo, l’antisemitismo e la discriminazione. Il 73% ritiene addirittura di non avere informazioni sufficienti sulle procedure disciplinari aperte in caso di aggressione razzista o antisemita.
L’UEJF esprime la sua preoccupazione per questa deriva. Il 77% degli studenti di fede o cultura ebraica ritiene che l’antisemitismo sia diffuso nelle università e nelle principali scuole francesi, il 91% degli studenti ebrei ritiene che l’odio verso Israele sia diffuso anche tra i banchi delle facoltà, davanti al razzismo (67%), al sessismo (59%) e omofobia (54%). Una sensazione che non è condivisa da tutti gli studenti. Secondo l’indagine, il 28% di loro ritiene che l’antisemitismo e l’odio verso Israele siano fenomeni diffusi nelle università e nei college, dietro in particolare il sessismo (63%).
• Il portavoce del governo: “Ci sono studenti che hanno paura di andare all’università”
«La Francia non è antisemita, ma dietro queste cifre universitarie, invece, bisogna sapere che ci sono studenti che hanno paura di andare all’università. […] Ci stiamo attivando, c’è già un piano che è operativo in università […]. Formiamo consulenti in tutte le università, facciamo prevenzione e prestiamo attenzione anche al parlare in pubblico”, spiega Olivier Véran, portavoce del governo, ospite di “4 Vérités” su France 2, giovedì 28 settembre. “Ci sono studenti che hanno paura di andare all’università”, riconosce tuttavia Olivier Véran.
«Questa sensazione di essere presi di mira è semplicemente intollerabile. Su questi punti – razzismo, antisemitismo e più in generale discriminazione – c’è tolleranza zero”, ha affermato a France Culture il Ministro dell’Istruzione Superiore Sylvie Retailleau. “Abbiamo gli strumenti per agire poiché abbiamo in tutte le istituzioni dei referenti contro il razzismo, l’antisemitismo e la discriminazione. Il Ministero gestisce questa rete di referenti. Quindi è strutturato.”
Secondo lei, questo studio commissionato dall’Unione degli Studenti Ebrei di Francia “aiuterà a ridare visibilità a questa rete” di referenti nelle università. Tuttavia, “per avere qualche informazione in più, oggettivazione”, il ministro dell’Istruzione superiore sta valutando “un’indagine” basata su questo “Osservatorio indipendente o sui referenti”. Nel frattempo “le azioni intraprese contro questa piaga esistono e devono essere rafforzate”. Sylvie Retailleau ritiene che questo studio permetterà al Ministero dell’Istruzione Superiore “di accelerare queste azioni molto forti presso i referenti”.
• Metodologia del sondaggio Ifop
L’Ifop ha condotto questa indagine su un campione di 237 studenti di fede o cultura ebraica tramite un questionario online autosomministrato dal 14 giugno al 5 settembre 2023. È stata inoltre condotta un’indagine su un campione di 802 persone rappresentativo della popolazione studentesca francese attraverso un questionario autosomministrato dal 1 all’8 giugno 2023.
(Bet Magazine Mosaico, 28 settembre 2023)
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L’inganno palestinese a Oslo: altre testimonianze
Esponenti vicini ad Arafat confermano concordi che per il capo dell'Olp la “soluzione a due stati” era solo la prima fase del piano per eliminare Israele.
In occasione del 30esimo anniversario della firma dei primi Accordi di Oslo (13 settembre 1993), Palestine Media Watch è in grado di rivelare altre fonti palestinesi che ammettono, o più correttamente vantano, il fatto che l’allora capo dell’Olp Yasser Arafat riuscì a ingannare la leadership israeliana inducendola a firmare un accordo di pace che lui non aveva alcuna intenzione di rispettare....
(israele.net, 28 settembre 2023)
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Il ritorno dello yiddish
In America aumentano i casi di antisemitismo, le comunità ebraiche (e non solo) li combattono con lo studio della lingua. Non basta andare in sinagoga: i modi alternativi dei più giovani per preservare l’eredità culturale.
CORAL SPRINGS, Florida - Le scene sono state sconvolgenti, come previsto, e destinate a provocare paura: neonazisti che sfilavano davanti a Disney World e affollavano un ponte dell’autostrada a Orlando, gridando insulti antisemiti, sventolando bandiere con svastiche, inneggiando a Hitler. Avi Hoffman ha un modo tutto suo di contrastare questo odio. Armato di un computer portatile, nel suo sobborgo di Miami, insegna lo yiddish, una lingua che ritiene intrinseca all’eredità ebraica e che offre i benefici lenitivi di una ciotola di zuppa di pollo della nonna. “Verter zol men vegn un nit tseyln”, dice Hoffman, un attore che ha co-fondato l’associazione culturale no profit Yiddishkayt Initiative, recitando lentamente il proverbio che si traduce in “Le parole vanno pesate, non contate”. I suoi studenti ripetono dopo di lui da varie parti del paese, addentrandosi in un mondo che hanno conosciuto solo per sommi capi quando sono cresciuti e che ora considerano centrale per la loro identità.
In un momento in cui l’antisemitismo è in aumento a livello nazionale in America, lo yiddish – un tempo quasi cancellato dall’Olocausto e dalle pressioni sull’assimilazione – sta tornando in auge. L’interesse si riflette in programmi televisivi popolari, produzioni teatrali, podcast e una serie di applicazioni per l’apprendimento e l’istruzione online che sono cresciute durante la pandemia. Le tendenze non sono direttamente collegate, dicono coloro che incoraggiano il rinnovato interesse per la lingua e per altri aspetti della vita ebraica. Ma per alcuni la sua crescente popolarità, al di là di termini tradizionali come “schlep” e “klutz”, è diventata una sorta di sfida contro la sensazione di essere perennemente sotto assedio. “Dobbiamo resistere perché, sapete una cosa? Abbiamo già visto questo film”, dice Hoffman, alludendo ai pregiudizi dell’inizio del Ventesimo secolo che hanno portato all’Olocausto nazista e alla morte di sei milioni di ebrei. L’orgoglio per la cultura ebraica si sta espandendo anche in altri modi, in particolare tra gli ebrei della Generazione X e dei Millennial che ricordano con affetto i blintz e i knish che un tempo servivano le loro nonne.
A New York, uno chef di Brooklyn gestisce il sito web “Gefilteria” che offre la vendita di pesce gefilte artigianale, oltre a corsi di cucina e catering che offrono nuove interpretazioni di altri prodotti tipici dell’Europa orientale. Nel nord il Borscht Belt Museum celebra l’epoca d’oro delle Catskills tra l’inizio e la metà del Ventesimo secolo, quando milioni di famiglie ebree in vacanza si trasferivano durante l’estate in quel mosaico molto più fresco di località turistiche e terreni agricoli a 90 miglia a nord di New York City, che divenne noto come “le Alpi ebraiche”. In quel periodo, celebrato dal film “Dirty Dancing” e dalla commedia drammatica televisiva “The Marvelous Mrs. Maisel”, l’antisemitismo era così dilagante che gli ebrei erano banditi dalla maggior parte degli hotel. I resort erano un rifugio da quel bigottismo e sono diventati una culla per la musica dal vivo e la stand-up comedy che hanno lasciato un’impronta profonda nella cultura americana. Le recenti ondate di antisemitismo hanno coinciso con un aumento delle donazioni, secondo il giornalista Andrew Jacobs, che sta guidando l’iniziativa del museo nel villaggio di Ellenville. I suoi progetti includono un festival cinematografico e corsi su come preparare i babka al cioccolato. “Credo che alcuni ebrei ora si sentano davvero motivati a mostrare e celebrare la nostra cultura”, ha detto. “Odio sembrare banale, ma è più difficile odiare le persone quando si ride delle loro battute”.
Tuttavia combattere l’odio e persino la violenza può sembrare sempre più scoraggiante. L’anno scorso negli Stati Uniti sono stati denunciati quasi 3.700 episodi di antisemitismo, con un aumento del 36 per cento rispetto al 2021 e dell’82 per cento rispetto al 2020, secondo il Center on Extremism dell’Anti-Defamation League. Alcuni gruppi “hanno interi podcast in cui riproducono tutte le loro attività e le monetizzano”, ha dichiarato Carla Hall, direttore senior della ricerca investigativa del centro. “E’ questo l’aspetto più preoccupante. Quando si fa questa forma di intrattenimento – odio per l’intrattenimento – fino a che punto bisogna spingersi per continuare a costruire quel seguito e a farli divertire?”.
La Florida è stata una zona calda, con quasi 40 manifestazioni neonaziste dal gennaio 2022 e più di cento casi di volantini antisemiti lasciati sulle porte di casa dei residenti. Gli incidenti si sono intromessi nella campagna presidenziale del governatore repubblicano Ron DeSantis, che è stato criticato per non averli condannati con più forza. Durante una tappa della campagna nel New Hampshire, il mese scorso, gli è stato chiesto di un manifesto di Ron DeSantis 2024 avvistato tra bandiere con svastiche e striscioni antisemiti in una delle manifestazioni fuori da Disney World. “Quelli non sono miei veri sostenitori”, ha risposto. “Questa è un’operazione per cercare di collegarmi a qualcosa in modo da infangarmi”. La rabbina Rachael Jackson, che guida la Congregazione dell’ebraismo riformato a Orlando, cerca di rassicurare le famiglie ricordando loro che molti funzionari eletti e forze dell’ordine hanno denunciato queste orribili manifestazioni. “Abbiamo dovuto essere pastorali e rassicuranti sul fatto che non siamo lì. Non siamo nella Germania degli anni Trenta”, dice Jackson. Allo stesso tempo, la realtà è che la sua sinagoga e molte altre hanno posizionato guardie di sicurezza fuori dai loro edifici durante le funzioni di Rosh Hashanah lo scorso fine settimana e lo faranno di nuovo per lo Yom Kippur. “Dobbiamo essere consapevoli che l’odio è in aumento e che non ce lo stiamo inventando”. La rabbina vede il rinnovato interesse per lo yiddish come una sorta di balsamo, che offre “appartenenza al popolo” e orgoglio ebraico a chi ne ha bisogno. “Si possono trovare video su TikTok, persone su Instagram e gruppi su Facebook che stanno creando questa comunità”, ha detto. “E’ sicuramente qualcosa di cui abbiamo bisogno, ed è un modo di combattere l’antisemitismo che non si limita all’andare in sinagoga e parlare di Dio”.
Dall’altra parte del paese, un centro culturale “Yiddishland” a San Diego sta raccogliendo fondi per ricreare uno shtetl, o villaggio, dell’Europa orientale, che fungerà anche da albergo immersivo per gli ospiti, con colazioni a tema yiddish e una sede per matrimoni yiddish. Il centro, che è stato aperto due anni fa, offre già lezioni di yiddish, un’accademia di teatro yiddish, spettacoli di musica klezmer e una galleria con manufatti e dipinti su temi ebraici realizzati da artisti di lingua yiddish. La direttrice Jana Mazurkiewicz Meisarosh ha detto di aver creato Yiddishland principalmente per un senso di nostalgia per una lingua che sua nonna parlava ma che lei non capiva mentre cresceva in Polonia, un’esperienza comune ai discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto. Lo yiddish è stato in gran parte abbandonato dopo la Seconda guerra mondiale – molti lo hanno associato al vittimismo e alla sconfitta – soprattutto con l’adozione da parte di Israele dell’ebraico come lingua nazionale ufficiale. Circa 250 mila ebrei negli Stati Uniti parlano yiddish; la maggior parte sono ortodossi e considerano l’ebraico troppo sacro per l’uso quotidiano. “Ho iniziato a pormi delle domande: ‘Perché non siamo stati introdotti a questa lingua e cultura? Perché a scuola ci è stato insegnato solo l’ebraico?’”. Ha detto Mazurkiewicz Meisarosh. “Vorrei che lo yiddish sopravvivesse. Se non lo fa la nostra generazione, chi lo farà?”.
Col tempo ha notato che anche i non ebrei visitavano il centro, compresi i compagni di scuola afroamericani e asiatici di sua figlia di sei anni. Si è resa conto del valore di Yiddishland come strumento per contrastare l’antisemitismo. “Le persone hanno paura di ciò che non conoscono”, ha detto. “Se possono venire qui e imparare, è un’arma potente. Deve diventare parte della cultura di massa”. Alcuni vocaboli yiddish sono già radicati in questa cultura più ampia: parole come chutzpah (che significa coraggio), mensch (una persona buona e rispettabile) e oy (che spesso trasmette esasperazione). Ma la lingua millenaria è infinitamente ricca, persino stravagante. Molti dei 15 studenti che si sono uniti a un recente corso introduttivo di “Yiddish Lite” online hanno riso delle espressioni condivise dall’insegnante Alan Davis. “Menschen trakht aun Got lakht”, ha spiegato, significa “L’uomo pianifica, Dio ride”, mentre “a shanda aun a kharpa” si traduce in “una vergogna e un disonore”, pronunciato di solito quando accade qualcosa di spiacevole. “Mia madre me lo diceva sempre e io non capivo mai cosa stesse dicendo”, ha detto Davis ai suoi studenti dalla sua casa nel nord del New Jersey. “E’ bello saperlo. Oy, vey. A shanda aun a kharpa! Cosa stai facendo?”. Da bambino, Davis ha iniziato a imparare da solo lo yiddish per capire le battute fuori luogo di suo padre. Il suo corso, offerto dalla Federazione dei circoli ebraici maschili, ha lo scopo di invitare i principianti attraverso canzoni e storie.
Le discussioni non affrontano le preoccupazioni della giornata. Piuttosto, approfondiscono le tradizioni e le parole che gli studenti hanno imparato crescendo negli anni Cinquanta e Sessanta. “Si aggrappano a qualcosa di ebraico nelle canzoni, nelle storie, nelle espressioni, in certe parole yiddish. E questo gli dà un legame con la loro eredità”, ha detto. Molti degli studenti che hanno partecipato alla lezione di questo mese hanno confermato questa motivazione, ammettendo una certa frustrazione per il fatto che i loro genitori o nonni non gli abbiano insegnato la lingua. “Vedo ragazzi in età da scuola superiore che magari parlano spagnolo, coreano o cinese a casa, e lo fanno fluentemente”, ha detto Howard Kaye, che vive nella Virginia settentrionale. “Ma i ragazzi ebrei non parlavano yiddish quando andavano al liceo”. Renata Lantos era una bambina quando la sua famiglia fuggì dall’Europa durante l’Olocausto. Si iscrive al corso di yiddish che segue dalla sua casa nel Connecticut per ascoltare di nuovo le voci dei suoi genitori. “E’ stata la mia prima lingua”, dice Lantos. “Se non facciamo qualcosa per preservarla, scomparirà”.
Il Foglio, 28 settembre 2023)
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Israele-Arabia Saudita, il ministro Haim Katz in visita a Riad: «Il turismo è un ponte tra i Paesi»
L’occasione della visita di Haim Katz, ministro per il Turismo, è una conferenza organizzata dalle Nazioni Unite. Nelle stesse ore l’inviato di Riad è arrivato a Ramallah, in Cisgiordania, per ribadire che il regno del Golfo «lavora alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale»+
di Davide Frattini
GERUSALEMME - Rotte di volo che si incrociano. Ma obiettivi diplomatici così lontani che sembra difficile possano viaggiare insieme. Haim Katz, ministro per il Turismo, è il primo rappresentante di un governo israeliano a visitare ufficialmente l’Arabia Saudita per partecipare a una conferenza organizzata dalle Nazioni Unite: «Il turismo è un ponte tra i Paesi», proclama. Nelle stesse ore l’inviato di Riad è arrivato a Ramallah, in Cisgiordania, per ribadire che il regno del Golfo «lavora alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale». Quel ponte che Joe Biden, il presidente americano, sta cercando di gettare tra Gerusalemme e Riad deve ancora essere rafforzato. Gli alleati di Benjamin Netanyahu nella coalizione di estrema destra hanno già chiarito che non permetteranno «regali» ai palestinesi. In cambio della normalizzazione delle relazioni – «una svolta storica imminente» ha promesso il primo ministro israeliano – i Sauditi otterrebbero «solo» il via libera al programma nucleare civile. È difficile - dopo l’incontro con il raìs Abu Mazen e la conferma del sostegno «alla causa palestinese» promesso dall’ambasciatore del principe ereditario Mohammed Bin Salman – che la petro-monarchia si possa tirare indietro davanti a tutto il mondo arabo. A Riad tre anni fa Netanyahu era già atterrato, una visita segreta – e resa pubblica dal premier per l’irritazione del principe – accompagnato da Yossi Cohen, allora capo del Mossad, con Mike Pompeo, segretario di Stato per Donald Trump, a far da mediatore. Biden e i suoi consiglieri restano sospettosi: il primo ministro potrebbe prendere tempo e aspettare che alla Casa Bianca ritorni l’amico Donald, di sicuro meno preoccupato per le proteste che vanno avanti da quasi dieci mesi contro il piano giustizia portato avanti dal governo israeliano, considerato un pericolo per la democrazia dagli oppositori.
(Corriere della Sera, 27 settembre 2023)
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Il nuovo Beth Midrash di Monteverde: un faro di conoscenza e comunità
di Michal Colafranceschi
Nel Tempio Beth Michael, a Monteverde, sorge un nuovo e promettente centro di studio e spiritualità ebraica, il Beth Midrash, in collaborazione con l’acclamato Tiferet Chaim. Questa sinergia rappresenta un nuovo capitolo nell’approccio all’ebraismo contemporaneo, che mira a rispondere alle domande e alle sfide che affrontano i giovani che desiderano esplorare la propria identità ebraica.
Per comprendere appieno l’importanza del nuovo Beth Midrash è fondamentale riconoscere il notevole successo di Tiferet Chaim. Questo centro ha catturato l’attenzione e il cuore di numerosi giovani, offrendo un ambiente inclusivo e stimolante per esplorare l’ebraismo e di come quest’ultimo può essere affascinante e rilevante nella vita di ogni giorno. Inoltre, il successo di Tiferet Chaim ha generato domande profonde tra i partecipanti. Molti si sono domandati quale sia il prossimo passo nel nostro percorso di apprendimento e crescita spirituale, come si possa approfondire ancor di più la comprensione dell’ebraismo.
Il nuovo Beth Midrash si pone l’obiettivo di rispondere a queste domande. Questo centro di studio offrirà una vasta gamma di programmi e risorse per aiutare i giovani a continuare il loro viaggio di scoperta ebraica. Sarà un luogo in cui i ragazzi e le ragazze potranno immergersi nella religione ebraica, esplorare testi sacri, approfondire la loro conoscenza e connettersi tra loro. Il promotore di questo nuovo progetto è il Maskil Eitan Della Rocca, il quale evidenzia quale sarà l’assetto e il lavoro che svolgerà questo nuovo centro di studi: “L’idea è quella di provare a dare alla gente gli strumenti e il metodo, così da poter studiare in coppie, come una yeshivà”. L’importanza dello studio in gruppo nell’ebraismo, inoltre, sembra essere essenziale all’interno della Torah. In particolare, nel libro di Pirkei Avot (Etica dei Padri), c’è un insegnamento di Rabbi Shimon ben Gamliel che afferma: “Senza studio, non c’è timore di Dio; senza timore di Dio, non c’è studio”. Questo passo sottolinea che lo studio dell’ebraismo non è un impegno solitario, ma un processo collettivo: attraverso lo studio in gruppo le persone possono sviluppare una comprensione più profonda della loro fede e una connessione più forte alla comunità ebraica. Il Beth Midrash abbraccia questa filosofia e offre un ambiente in cui lo studio condiviso è incoraggiato e valorizzato, grazie all’impegno di numerosi rabbanim e delle morot, che mattina e pomeriggio offrono lezioni di Torah. In particolare, al Beth Midrash insegnano Rav Roberto Colombo, Rav Roberto Della Rocca e Rav Shalom Ber Hazan; per il corso di sole donne, Morà Chani Hazan, Morà Anna Arbib, Morà Micol Nahon; infine, per i giovani, Eitan Della Rocca, Federico Spizzichino ed Eithan Naman.
Il Beth Midrash è più di un semplice luogo di studio; è un faro di speranza per un futuro più ricco e ispirato. Questa nuova opportunità di studio promette di avvicinare un numero crescente di giovani alla bellezza e alla profondità dell’ebraismo. Con il tempo diventerà il loro punto di riferimento, un luogo in cui le menti curiose possono trovare risposte alle loro domande più profonde.
Su quest’onda il futuro sarà plasmato da questi giovani che abbracciano la loro eredità ebraica, imparando insieme e costruendo legami duraturi. E in questo futuro luminoso, la conoscenza e la comunità si fonderanno, creando un ambiente in cui ogni individuo può trovare il proprio significato e appartenenza.
(Shalom, 27 settembre 2023)
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Israele: giovane di Gaza riceve un nuovo pacemaker innovativo
di Nathan Greppi
In Israele, per la prima volta è stato effettuato ad una giovane un trapianto innovativo di pacemaker, identico a quello fatto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu a luglio. Con modalità inedite, il trapianto è stato effettuato attraverso il collo anziché attraverso l’inguine, come avviene solitamente.
Come riporta il Times of Israel, a ricevere questo nuovo trapianto è stata Shahad, 18enne palestinese di Gaza, che attraverso l’organizzazione israeliana Save a Child’s Heart è stata ricoverata al Centro Medico Wolfson nella città israeliana di Holon. Alla faccia di chi parla di apartheid in Israele…
Il nuovo pacemaker si chiama Micra, ed è stato prodotto dall’azienda Medtronic. Piccolo come una pastiglia di vitamine, rispetto a pacemaker tradizionali non richiede di essere inserito tramite incisioni chirurgiche che lasciano cicatrici. Inoltre, la sua batteria dura almeno vent’anni, molto di più di altri mezzi analoghi.
“Ci prendiamo cura di Shahad sin da quando era una bambina piccola. Il suo cuore presenta una complessa malformazione. Tutte le parti più importanti del cuore sono girate al contrario”, ha spiegato Sagi Assa, capo dell’Unità di Cardiologia Pediatrica al Centro Medico Wolfson. Già in passato la ragazza dovette farsi impiantare un pacemaker, ma purtroppo continuarono a formarsi delle infezioni attorno ad esso.
“Abbiamo rimpiazzato il suo pacemaker diverse volte nel corso degli anni, ma il suo corpo ha continuato a rigettarli. Lei ha anche sviluppato delle infiammazioni alla cicatrice nel punto sul petto dove è stato fatto l’impianto. Non importa quanto cercassimo di curarla con antibiotici e altri trattamenti, il problema tornava di continuo”, ha spiegato Assa. La nuova tecnologia ha offerto loro un’occasione per stabilizzare la sua condizione e impedire il ritorno di complicazioni.
Dopo l’operazione con il Micra, Shahad è stata dimessa ed è tornata da sua madre, la quale ha ringraziato Save a Child’s Heart per le cure. A causa delle sue condizioni di salute precarie e l’essere stata ripetutamente ricoverata in ospedale negli anni, la giovane ha perso gli anni del liceo. E nonostante ciò, è riuscita a recuperare gli studi in modo da finire gli ultimi esami e diplomarsi. Ha iniziato da poco a studiare graphic design all’Università di Gaza.
Fondata nel 1995 e con sede proprio al Wolfson, Save a Child’s Heart si occupa di prestare soccorso nei paesi poveri in cui le cure pediatriche scarseggiano, soprattutto per i bambini con problemi cardiaci. In quasi trent’anni di attività, l’organizzazione ha salvato le vite di circa 7.000 bambini in 70 paesi, e ha fatto venire in Israele per attività di formazione e apprendimento oltre 150 lavoratori del settore sanitario.
(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2023)
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Festa ebraica di Sukkot: rabbini da tutto il mondo in Calabria alla ricerca del «cedro perfetto»
Da tutto il mondo i rabbini delle comunità ebraiche arrivano in Calabria per individuare il «cedro perfetto» con cui celebrare la Festa delle Capanne , Sukkot, che quest’anno cade tra il 28 settembre e l’8 ottobre.
di Laura Aldorisio
Angelo Adduci lascia affiorare un ricordo: seduto a tavola con la sua famiglia c’è il Rabbino Moshe Lazar, che li ha raggiunti nella loro campagna di Santa Maria del Cedro alla ricerca del frutto perfetto. Poi si alza e inginocchiato vicino alle piante sceglie i cedri uno a uno con la lente di ingrandimento. Oggi Angelo Adduci è presidente del Consorzio del Cedro di Calabria, il consorzio che tutela quella fascia di terra italiana che, da luglio a settembre, ogni anno attira i rabbini di tutto il mondo. Arrivano alla ricerca del cedro senza macchia per la Festa ebraica della Capanne, il Sukkot*, che quest’anno si celebra dal 29 settembre all’8 ottobre.
«Il cedro non è un prodotto autoctono, sono state proprio le comunità ebraiche nella loro peregrinazione ad averlo portato in Calabria, dove ha trovato un microclima unico, per la corrente calda del mare e la corrente fredda della montagna, che ha generato la varietà considerata la migliore, la “liscia diamante”». I rabbini, inginocchiati vicino alle piante, selezionano i cedri dalle migliori caratteristiche organolettiche ed estetiche, con la giusta forma allungata e immacolata. Una variante molto delicata, che teme il freddo, come è accaduto nel 2017 quando una gelata ha distrutto tutte le piantagioni, ma i produttori non si sono abbattuti, fino a rimettere sul mercato oggi 20mila quintali di cedri. Un numero impressionante, anche se ben lontano dai 160mila quintali degli Anni Sessanta, quando il 99% di questi frutti veniva trasportato al Nord per essere trasformato in cedro candito. «Ora non è più così. La storia ci ha fatto passare fasi diverse: un campanello di allarme è scattato nel 1982 quando si è rischiato che il cedro sparisse, con i soli 2mila quintali prodotti. Ci siamo interrogati fino a costituire l’Accademia internazionale del cedro e il Consorzio del cedro di Calabria». Oggi ci sono una miriade di aziende, tutte piccolissime, che trasformano questo frutto, invertendo la tendenza delle lavorazioni fuori dalla regione. Quest’anno poi il cedro è stato riconosciuto come prodotto Dop, un grande traguardo. Ma non è solo questo. Lo testimonia il Festival del cedro che in questi giorni ha attraversato le strade e le campagne di Santa Maria del Cedro ed è stato aperto proprio con una marcia della pace. «Il cedro è considerato un simbolo di dialogo e pace tra religioni e culture, un punto di incontro tra uomini che diventano persone di famiglia, seduti intorno alla stessa tavola, come il mio ricordo da piccolo».
(Corriere della Sera, 26 settembre 2023)
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Prima prendiamo Gerusalemme, poi Tel Aviv
Una preghiera pubblica a Tel Aviv la sera dello Yom Kippur ha suscitato polemiche nel giorno più sacro dell'ebraismo.
di Aviel Schneider
Domenica sera, a Tel Aviv, ci sono state controversie per le preghiere pubbliche in piazza Dizengoff durante lo Yom Kippur, il giorno dell'espiazione e il giorno più sacro dell'ebraismo. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha condannato il comportamento degli "estremisti di sinistra", mentre Yair Lapid e Benny Gantz hanno cercato di incolpare gli ebrei religiosi e hanno accusato Netanyahu di incitare alla violenza tra la gente solo per motivi politici. Dietro le lotte e l'ostilità a Tel Aviv non c'è solo l'odio verso gli ebrei religiosi e il fatto di pregare separatamente durante lo Yom Kippur. Le persone in paese temono che, dopo Gerusalemme, anche Tel Aviv venga conquistata. Lo sento dire dai residenti della città costiera. Mi ricorda la canzone di Leonard Cohen "Prima prendiamo Manhattan, poi prendiamo Berlino".
Domenica sera in piazza Dizengoff gli ebrei religiosi hanno cercato di erigere muri divisori per separare uomini e donne durante la preghiera del Kol Nidrei. Questo però era stato precedentemente proibito dal Comune di Tel Aviv e dalla Corte Suprema, in quanto si trattava di una piazza pubblica. L'annuncio spontaneo degli ebrei religiosi di tenere le funzioni separate per sesso, come in tutte le sinagoghe, ha provocato disordini tra la popolazione di Tel Aviv nel giorno più sacro dell'anno, tanto da richiedere l'intervento della polizia israeliana. Alcuni gruppi hanno presentato una petizione ai tribunali di Tel Aviv per revocare il divieto di segregazione di genere, ma la Corte Suprema ha respinto le petizioni. "Dobbiamo imparare la lezione e capire che il conflitto interno è la minaccia più acuta e pericolosa per il nostro popolo", ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog nel suo discorso per il 50° anniversario della guerra dello Yom Kippur. "Proprio ieri, in questo giorno sacro, abbiamo assistito a un esempio scioccante e doloroso di come la lotta interna al nostro popolo si inasprisca e si intensifichi". Il leader del governo israeliano Benjamin Netanyahu ha criticato aspramente il comportamento della sinistra: "Con nostra sorpresa, nella nazione ebraica, nel giorno più sacro degli ebrei, ci sono stati disordini da parte di dimostranti di sinistra contro gli ebrei mentre pregavano. Sembra che per gli estremisti di sinistra non ci siano limiti, norme o eccezioni all'odio. Io, come la maggior parte dei cittadini israeliani, lo rifiuto. Non c'è posto per un comportamento così violento tra di noi". Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha twittato: "Durante lo Yom Kippur abbiamo visto gli odiatori cercare di bandire l'ebraismo dallo spazio pubblico. Israele è una nazione ebraica e democratica. Giovedì terrò una funzione serale in piazza. Invito tutti a partecipare". Altri hanno condannato l'incidente come un attacco antisemita agli ebrei religiosi. Mentre Netanyahu ha attaccato i manifestanti della sinistra radicale, il leader dell'opposizione Yair Lapid ha denunciato i gruppi religiosi nazionali che vogliono stabilire un cosiddetto ebraismo messianico a Tel Aviv. "Il nucleo ultranazionalista ortodosso che è arrivato a Tel Aviv ha deciso di condurre una guerra", ha detto Lapid, riferendosi ai gruppi religiosi nazionalisti che appaiono nelle città laiche e arabe e pretendono di promuovere i valori ebraici. "Cercano di spiegarci che esiste una sola versione dell'ebraismo, la loro versione. Pretendono che in nome della tolleranza decidano anche nel nostro quartiere cosa è permesso e cosa no". Lapid ha fatto notare che lui stesso va in sinagoga nello Yom Kippur e che questo giorno è un esempio che l'ebraismo non deve essere imposto.
La disputa sulla separazione tra uomini e donne è stata solo una causa scatenante. Capisco i timori dei cittadini di sinistra di Tel Aviv che si oppongono a pregare separatamente a Yom Kippur, ma non il loro comportamento. Come persona cresciuta a Gerusalemme, vedo come Gerusalemme sia cambiata negli ultimi cinque decenni. I quartieri residenziali laici si sono trasformati nel corso degli anni in quartieri residenziali religiosi e ortodossi, come Rehavia, Bakaa, Givat Mordechai, la lunga Usiel Street a Ramat Sharet, Pisgat Zeev e molti altri quartieri della capitale di Israele. Tutto è iniziato in piccolo, con una o due famiglie e una sinagoga, poi una mikvah, e questo ha gradualmente attirato sempre più ebrei religiosi nei quartieri residenziali originariamente laici. Per gli ebrei non religiosi, la vita in un ambiente del genere diventa spesso sgradevole: loro si allontanano e al loro posto si trasferiscono nuovi residenti, ebrei religiosi o ortodossi. È così che Gerusalemme è cambiata nel corso dei decenni, e ogni abitante di Gerusalemme lo potrà confermare. Non ci si deve quindi stupire se gli ebrei laici lasciano la città e Gerusalemme diventa sempre più una città ortodossa. Gli ebrei ortodossi e religiosi non possono scendere a compromessi con i loro divieti e comandamenti, gli ebrei laici sì. Gli stessi ebrei ortodossi lo ammettono. Non solo, ammettono anche di voler trasformare lentamente la città santa di Gerusalemme in una città religiosa. Quante volte ho sentito gli ebrei ortodossi dire che vogliono conquistare Gerusalemme. Anche l'insediamento ebraico di Zur Hadassah, sulle colline occidentali di Gerusalemme, è stato fondamentalmente fondato come comunità laica. Ma negli ultimi dieci anni vi si sono insediati sempre più ebrei religiosi e sono state costruite due sinagoghe e una mikvah. I pionieri erano contrari, ma lo slancio della comunità sta andando in una direzione diversa. So quanta rabbia ha provocato in questo villaggio, perché vivo a soli due chilometri di distanza. Gli ebrei laici non si trasferiscono in quartieri religiosi o ortodossi come Mea Shearim a Gerusalemme o altre città ortodosse come Beitar Illit, ma accade il contrario. Nei quartieri e nelle città ortodosse, gli appartamenti disponibili non vengono venduti agli ebrei secolari. Non solo, nei quartieri e nelle città ortodosse spesso gli appartamenti non vengono venduti o affittati a ebrei sefarditi se in quel quartiere o in quella città è presente una comunità ashkenazita. È il caso di Beitar Elit, ad esempio, dove ho conosciuto due ebrei marocchini ortodossi a cui non è stato affittato un appartamento a Beitar Illit perché erano ebrei sefarditi. Per evitare l'afflusso di ebrei ortodossi religiosi in città o quartieri considerati non religiosi, in Israele sono state create città ebraiche ortodosse, come Beitar Illit, Elad o Modiin Illit. In questo modo si intendeva risolvere il problema: gli ebrei ortodossi dovevano poter vivere secondo la loro fede senza limitare gli altri. Solo di recente è stata annunciata la costruzione di un'altra città ebraica ortodossa nel Negev. La città di "Tila" dovrebbe ospitare un giorno 80.000 ebrei ortodossi. Ma la realtà è diversa. Una parte della popolazione di Tel Aviv ha paura di questo. Temono che le preghiere pubbliche provochino una dichiarazione con la quale gli ebrei religiosi vogliano lentamente conquistare anche Tel Aviv. Ma interferire con la preghiera degli ebrei religiosi nel giorno sacro dello Yom Kippur e impedirla non è, a mio avviso, giustificato. Se i musulmani avessero pregato nel centro di Tel Aviv, gli stessi ebrei di sinistra non si sarebbero certo opposti. Non quelli di sinistra, ma in questo caso posso ben immaginare che gli ebrei religiosi si sarebbero arrabbiati. Il Paese sta cambiando e questo è un fatto con cui la gente del Paese deve fare i conti. Entrambe le parti devono trovare una via di mezzo per vivere pacificamente fianco a fianco, preferibilmente in modo separato. Purtroppo, la coesistenza spesso non funziona. Ed è per questo che alcune persone si sono spaventate durante lo Yom Kippur. È un peccato, ma in questo caso gli estremisti di entrambe le parti devono essere arginati per reinventare la coesistenza in questo tempo folle.
(Israel Heute, 26 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Manifestanti disturbano la funzione dello Yom Kippur a Tel Aviv
Netanyahu: "Con nostro sgomento, proprio nello Stato ebraico, nel giorno più sacro del popolo ebraico, manifestanti di sinistra si sono scagliati contro gli ebrei durante le loro preghiere"
Domenica sono scoppiati dei disordini durante una funzione dello Yom Kippur in una piazza centrale di Tel Aviv, dopo che gli organizzatori hanno usato bandiere israeliane per erigere una barriera improvvisata per separare i fedeli di sesso maschile da quelli di sesso femminile, sfidando un'ordinanza della Corte Suprema.
Circa 200 manifestanti sono arrivati in piazza Dizengoff e si sono scontrati con gli organizzatori della funzione. Un manifestante ha persino abbattuto l’improvvisata barriera. È stato arrestato dalla polizia e rilasciato poco dopo.
A causa degli scontri la funzione è stata interrotta e i fedeli hanno continuato a pregare nelle sinagoghe vicine.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha aspramente criticato i manifestanti:
"Con nostro sgomento, proprio nello Stato ebraico, nel giorno più sacro del popolo ebraico, manifestanti di sinistra hanno incitato contro gli ebrei durante le loro preghiere. Sembra che non ci siano confini, standard e limiti all'odio degli estremisti di sinistra. Come la maggior parte dei cittadini israeliani, rifiuto tutto questo. Un comportamento così violento non ha posto nel nostro Paese".
Mentre Netanyahu ha condannato i manifestanti, il leader dell'opposizione Yair Lapid ha accusato il settore religioso di imporre l'osservanza delle festività alla laica Tel Aviv e ha detto:
"Si preoccupano di spiegarci che esiste una sola versione dell'ebraismo - la loro versione. In nome della tolleranza pretendono di decidere anche nel nostro quartiere cosa è permesso e cosa no".
Il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai ha promesso di proteggere il "carattere" di Tel Aviv, dichiarando:
"Voglio chiarire che non permetterò che il carattere della nostra città venga cambiato. Non c'è posto per la segregazione di genere negli spazi pubblici di Tel Aviv. Coloro che non rispettano le istruzioni del Comune e la legge non riceveranno i permessi per le loro attività negli spazi pubblici della città".
Venerdì scorso la Corte Suprema aveva respinto la richiesta di autorizzazione a tenere una funzione religiosa separata per sesso in piazza Dizengoff, dando ragione al Comune di Tel Aviv, che aveva vietato la segregazione.
(Israel Heute, 26 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ex-Ministro sudafricano e attivista difende Israele: “Non è un regime di apartheid”
di Nathan Greppi
Una delle accuse che, negli ultimi decenni, è stata mossa più spesso nei confronti di Israele è di attuare nei confronti dei palestinesi una politica paragonabile a quella che in Sudafrica veniva attuata verso i neri ai tempi dell’apartheid. Ma proprio un ex-ministro sudafricano e attivista contro l’apartheid, Mosiuoa Lekota, ha recentemente preso le difese dello Stato Ebraico, opponendosi a certi paragoni.
Come spiega il Jerusalem Post Lekota, 75 anni, da giovane è stato attivo nei movimenti di protesta contro la segregazione razziale, motivo per cui negli anni ’70 e ‘80 è stato anche imprigionato a Robben Island, nella stessa prigione in cui per molti anni fu rinchiuso Nelson Mandela. Dopo la fine dell’apartheid, ha fatto carriera politica, diventando Ministro della Difesa dal 1999 al 2008 con il partito di Mandela, l’ANC (African National Congress). Nel 2008 ha lasciato l’ANC per fondare un suo partito di centrosinistra, il Congresso del Popolo, del quale è tuttora il Presidente.
• L’INTERVISTA
Il 6 settembre, è stato intervistato da Bafana Modise, Portavoce dell’associazione South African Friends of Israel. “Ci sono stato in Israele, fratello”, ha raccontato all’intervistatore. “In Israele, non trovi le stesse divisioni tra ebrei e non ebrei a cui eravamo abituati durante l’apartheid. Non vi è segregazione negli autobus sulla base dei gruppi etnici, come ebrei e arabi. In Israele, tutti si siedono negli stessi bus, viaggiano dove gli serve, e scendono dove vogliono. Non vi è apartheid in Israele, nemmeno nelle scuole”.
Lekota ha ammesso che “un tempo ero convinto, come tutti in Sudafrica, che la maggior parte degli ebrei appoggiasse l’apartheid”. Tuttavia, dopo aver visitato Israele, è rimasto sorpreso nel constatare che “in Parlamento, ci sono arabi che servono come parlamentari, e tutti si siedono insieme”.
Ha espresso anche la sua posizione su come dovrebbero essere le relazioni tra i due paesi: “Sotto Nelson Mandela”, ha spiegato, “abbiamo deciso di mantenere relazioni diplomatiche con entrambi gli Stati (Israele e Territori Palestinesi, ndr), e credo che sia la strada giusta da seguire”. Ha aggiunto che “non mi convincerò mai che per questo paese sia meglio favorire una delle due parti rispetto all’altra”. Secondo lui, “il nostro ruolo come sudafricani è di far capire che abbiamo superato le nostre divisioni interne. Siamo un’unica nazione, e puntiamo a sostenere entrambe le parti in causa nella loro ricerca di obiettivi comuni”.
(Bet Magazine Mosaico, 26 settembre 2023)
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L'omaggio a Ottawa dopo il discorso di Zelensky. Ira delle associazioni ebraiche
di Irene Cosul Cuffaro
Imbarazzo e polemica tra i liberal canadesi dopo la visita di Volodymyr Zelensky, venerdì scorso, a Ottawa. Dopo il discorso al Parlamento del presidente ucraino, infatti, il presidente della Camera, Anthony Rota, ha voluto omaggiare Yaroslav Hunka, un immigrato ucraino presente in Aula: «Oggi abbiamo qui un veterano della Seconda guerra mondiale che ha combattuto per l'indipendenza dell'Ucraìna contro i russi e continua a sostenere le truppe anche oggi all'età di 98 anni. È un eroe ucraino e canadese, e lo ringraziamo per l servizi resi», ha detto lo speaker, seguito da un applauso di quattro minuti da parte dei presenti, premier Justin Trudeau compreso, al veterano commosso. Il quale, certo, ha combattuto. Ma con chi? Ebbene, con la prima divisione dell'esercito nazionale ucraino. Ovvero, la quattordicesima Divisione Waffen Grenadier delle Ss, un'unità militare nazista, composta prevalentemente da volontari militari ucraini, che giurò fedeltà al Reich.
A far subito presente quale fosse il vero passato di Hunka è stato il Centro amici di Simon Wiesenthal, (il celebre cacciatore di nazisti), che in un comunicato ha segnalato come le osservazioni di Rota ignorino «il fatto orribile che Hunka ha servito nella quattordicesima Divisione delle Ss, i cui crimini contro l'umanità durante l'Olocausto sono ben documentati». L'associazione della comunità ebraica ha inoltre preteso le scuse per la standing ovation in Parlamento, definita «scioccante» e «incredibilmente inquietante». L'amministratore delegato di B'nai Brith Canada, Michael Mostyn, ha dichiarato che il riconoscimento di Hunka da parte del Parlamento è stato «più che oltraggioso». Oltre che da diverse organizzazioni ebraiche, l'ovazione per il veterano è stata condannata anche dall'ambasciatore polacco in Canada, Witold Dzielski: «Quella famigerata formazione militare è responsabile dell'omicidio di migliaia di polacchi ed ebrei. La Polonia non sarà mai d'accordo con lo "sbiancamento' di quei criminali. Attendo delle scuse", ha scritto sui social.
Il caso, nel frattempo, ha fatto il giro del mondo ed è costato attacchi dall'opposizione anche a Trudeau, dichiaratosi, dal canto suo, completamente estraneo all'accaduto. «Sono l'unico responsabile di questa iniziativa e mi assumo la piena responsabilità delle azioni», ha invece fatto sapere Rota, che ha aggiunto: «Dopo il discorso del presidente dell'Ucraìna, ho salutato una persona in tribuna e poi ho appreso nuove informazioni che mi fanno pentire di averlo fatto. Vorrei offrire le mie più sincere scuse alle comunità ebraiche in Canada e nel mondo».
Scuse apprezzate dal Centro amici di Simon Wiesenthal, che ha però sottolineato anche come «un adeguato controllo è indispensabile per garantire che un incidente così inaccettabile non si ripeta».
(La Verità, 26 settembre 2023)
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In Israele delle viti di 1500 anni fa sono state rese nuovamente produttive
In Israele sono state piantate e rese disponibili alla produzione delle viti di due antiche varietà del deserto di Negev.
di Luca Venturino
Tranquilli: se amate definirvi appassionati o più coraggiosamente amanti del vino e non avete mai sentito parlare delle varietà Sariki e Beer del deserto del Negev, Israele, non verremo a casa vostra a sequestrarvi il tastevin. D’altro canto, come potremmo biasimarvi? Si tratta di due varietà che potremmo definire ampiamente estinte e che hanno raggiunto l’apice (e che apice, come vedremo più avanti) della loro popolarità nel primo millennio dopo Cristo, quando con ogni probabilità l’Ais ancora non esisteva.
Presto, tuttavia, potreste non avere più la comoda scusa del “è passato troppo tempo” dietro cui nascondervi: nel Parco Nazionale di Avdat, sempre in Israele, sono infatti state piantate delle viti di queste due antichissime varietà recuperate da alcuni semi trovati durante una serie di scavi archeologici e tuttora resi disponibili alla produzione grazie a una innovativa ricerca sul DNA.
• Israele e le viti di 1500 anni fa
Gli artefici di questo piccolo miracolo di archeo-enologia sono il Professore Guy Bar-Oz dell’Università di Haifa e il Dottor Meriv Meiri dell’Università di Tel Aviv, che come accennato hanno fondamentalmente riesumato delle viti vecchie di oltre un millennio proprio nello stesso punto in cui venivano coltivate 1500 anni fa. Un’impresa affascinante e per certi versi anche romantica, che soprattutto rafforza l’identità di questo particolare angolo di Israele come regione vinicola di matrice desertica, forte di profonde radici storiche e con una tradizione – è il caso di dirlo, che in questo caso è letterale come non mai – millenaria.
Al di là dei sopracitati e più ovvi aspetti affascinanti dell’operazione, è per di più bene notare che la rimessa a dimora di queste viti può rappresentare una importante lezione anche alla viticoltura contemporanea, che a oggi è sempre più sovente chiamata a doversi confrontare con le temperature in aumento e la scarsità delle risorse idriche.
L’impianto in questione è stato realizzato secondo la struttura tradizionale comune tra gli agricoltori di Israele durante i periodi della Mishna e del Talmud (I-VII secolo d. C.), declinato secondo il sistema emerso dagli studi effettuati sul luogo. Il vigneto racchiude, come già accennato, la storia dei vini del deserto del Negev: stando a quanto scoperto dagli storici impegnati sul caso, nel periodo compreso tra il IV e il VII secolo dopo Cristo la regione era di fatto nota come fonte di vino di qualità per tutto l’Impero Bizantino – un periodo storico segnato anche dalla consacrazione del cristianesimo a religione ufficiale dell’impero.
(dissapore, 26 settembre 2023)
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Lea Voghera Fubini ricorda il fratello Marco, ebreo italiano ucciso nella guerra del Kippur
A cinquant’anni dalla guerra del Kippur, Lea Voghera Fubini non dimentica e non potrà mai dimenticare le ore, i giorni e i mesi che le hanno portato via per sempre il fratello Marco.
Marco Voghera era nato a Padova il 5 maggio 1942, in un periodo certo non facile per il popolo ebraico. Fu “una felicità immensa - scrive la sua mamma Bruna - negli ‘Studi in memoria di Marco Voghera pubblicati a vent’anni dalla guerra del Kippur’. Poche righe oltre aggiunge che “L’ebraismo è stato sempre al di sopra di ogni tuo pensiero, e hai dato a me, a tutti noi, la gioia di decidere di vivere in Terra d’Israele.” Era nel fortino di Firdan a difesa del Canale di Suez, quando è stato ucciso: era il secondo giorno della guerra di Kippur, l’8 ottobre 1973.
Lea Voghera Fubini racconta a Shalom la vita di Marco, il suo impegno politico, i suoi ideali.
- Quale fu il suo primo pensiero quel giorno di Kippur 5734? Appresi la notizia dello scoppio della guerra al tempio di Torino, durante le preghiere vespertine. Avevo la certezza che mio fratello fosse lì sul Canale, era un riservista, richiamato da qualche giorno.
- Cosa accadde i giorni successivi? Silenzio e angoscia per la sua sorte. Non ricevemmo nessuna notizia, non sapevamo nulla, potevamo solo sperare che Marco fosse stato catturato dagli egiziani e fosse ancora vivo e prigioniero. Dalla Croce Rossa giunsero nelle settimane e nei mesi successivi filmati di soldati prigionieri, guardavamo ad uno ad uno i loro volti, nella speranza di riconoscere il suo. Lui non c’era mai. Passarono mesi senza che ricevessimo notizie. Era considerato disperso. Solo dopo otto interminabili mesi, la moglie Miriam fu informata che il corpo di Marco era stato trovato ed era possibile dargli sepoltura.
- Può tratteggiare la vita di suo fratello prima dell’aliyà? Laura, mia sorella maggiore, Marco e io, la minore dei tre, eravamo molto affiatati e uniti. Avevamo un rapporto intenso, ci capivamo, scherzavamo, certo litigavamo anche. Partecipò giovanissimo alle attività del Centro Giovanile ebraico di Venezia e della FGEI. Era un ebreo tradizionalista, apprese a 19 anni, da Uberto Tedeschi, dell'esistenza dello Shenat Sherut, dell’anno di servizio in Israele. Decise che sarebbe stata una buona opportunità per conoscere il Paese.
- Come furono i primi anni in Israele? Svolse un mese preparatorio in una fabbrica in Inghilterra con un gruppo di giovani, da lì partì direttamente per Israele; trascorse 9 mesi al Kibbutz HaSolelim. Decise di andare a Gerusalemme, all'Università Ebraica a studiare storia e letteratura italiana. Era uno studente brillante, incontrò Miriam, la sua futura moglie, si sposarono nel marzo 1966.
- Furono gli anni dell’impegno politico con Reshimat Shalom? Con Miriam, Marco partecipava attivamente alla vita politica israeliana, era un pacifista, una colomba, partecipò nel 1969 alla fondazione del partito di sinistra Reshimat Shalom. Trovò lavoro nel settore assicurativo.
- Quando entrò nell’esercito israeliano? A fine ottobre 1968, Marco fu chiamato nella Zavà, fino ad allora era stato considerato residente temporaneo e studente. Svolse il servizio militare nei riservisti per 3 mesi, completando l'addestramento di base. Si trasferì poi per un tirocinio lavorativo all’estero. Nel dicembre 1972 tornò in Israele,a Ramat haSharon e iniziò a lavorare alla Migdal. Fu richiamato nei miluim e fece parte della Brigata Gerusalemme in uno dei battaglioni di stanza fin da prima della guerra nella roccaforte Hazion sulla riva del Canale di Suez.
- Avete potuto ricostruire successivamente come avvenne l’uccisione di Marco? La battaglia intorno a Hazion durò 3 giorni: 24 soldati resistettero agli imponenti attacchi egiziani. Marco era tra i 13 soldati che caddero in battaglia, gli altri furono fatti prigionieri.
- La sua mamma a vent’anni dalla morte scrisse un ricordo. Desidera riproporlo? “C’è in casa una cassetta colma di lettere che negli oltre dieci anni della tua assenza arrivavano regolarmente a portare tra noi il soffio della tua vita con le notizie sempre attese con ansia. Dal Kippur del 1973 sono passati vent’anni, e ogni anno io apro quella cassetta e tocco sempre alcuni di quei fogli ancora ben conservati e leggo cercando di rivivere tanti avvenimenti famigliari, ma soprattutto di riascoltare le parole di amore del mio Marco. Nel grande, fiorito, ridente cimitero di Kiriath Shaul migliaia di giovani vite sono diventate altrettante lapidi con un nome e un numero: sulla tua c’è il 31. Gli anni che il Signore ci ha concesso di vivere con te”.
Shabbat 23 settembre 2023 si è tenuto un limmud in ricordo di Marco a Venezia; come ogni anno a Kippur, a Venezia, a Padova, a Torino la sua famiglia ha ricordato il giovane italiano ucciso nella guerra di Kippur che scelse di difendere lo Stato d’Israele e perse la giovane vita..
(Shalom, 26 settembre 2023)
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Per il digiuno del Kippur, Israele chiude i valichi con i Territori
In occasione del digiuno del Kippur, che inizia stasera, Israele ha chiuso i valichi con la Cisgiordania e con Gaza, mentre i servizi di sicurezza avvertono della possibile imminenza di numerosi attentati palestinesi. Da oltre una settimana lungo linea di demarcazione con la striscia di Gaza si sono moltiplicati gli incidenti - con centinaia di dimostranti palestinesi impegnati a lanciare ordigni e palloni incendiari - mentre oggi in Cisgiordania miliziani palestinesi hanno condotto, secondo l'esercito, tre attacchi armati alcune ore dopo una complessa operazione anti-terrorismo nel campo profughi di Nur Shams vicino a Tulkarem.
Da Gaza, Hamas ha anticipato che le dimostrazioni sulla linea di demarcazione si svolgeranno anche oggi mentre da Beirut i dirigenti di Hamas, della Jihad islamica e del Fronte popolare per la liberazione della Palestina hanno preannunciato un inasprimento della lotta armata nei Territori.
Tensione molto elevata, in occasione del Kippur, anche a Gerusalemme dove la polizia ha schierato migliaia di agenti e ha consigliato ai fedeli di avere almeno una persona armata in ogni sinagoga. Negli ultimi giorni folle di fedeli ebrei hanno invaso fra severe misure di sicurezza la spianata antistante il Muro del Pianto per i riti che precedono il digiuno.
L'esercito ha fatto sapere che i valichi con i Territori saranno riaperti nella notte di domani se la giornata del Kippur non sarà turbata da violenze.
(ANSA, 25 settembre 2023)
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L’abbraccio della pace: la pronipote del comandante nazista incontra la figlia di una superstite
Ottant’anni fa sul lago Maggiore a Meina la strage di sedici ebrei.
di Valentina Sarmenghi
MEINA (Novara) - «La mia speranza è che ricordando insieme si possa rompere il silenzio, in un processo grazie al quale i discendenti dei carnefici come me possano liberarsi interiormente e i famigliari delle vittime possano arrivare a una qualche forma di sollievo psicologico»: sono le parole pronunciate ieri in italiano da Maite Billerbeck, pronipote di Hans Roehwer, il nazista principale responsabile del massacro di ebrei del lago Maggiore, nel corso dell’incontro che si è svolto a Meina in provincia di Novara. Un incontro speciale inserito nel programma di commemorazione delle 16 persone uccise dalle SS in paese tra il 22 e il 23 settembre 1943.
Accanto a Billerbeck, c’era Rossana Ottolenghi, figlia di Becky Behar, sopravvissuta a quella strage e come la madre impegnata a mantenere viva la memoria della Shoah in particolare tra le giovani generazioni. L’incontro, in una sala strapiena nel centro culturale del paese, è stato introdotto dal sindaco Fabrizio Barbieri e condotto dal giornalista Mario Calabresi. «Ancora prima che venissi a sapere che un membro della mia famiglia si era macchiato di gravi crimini, ho sempre provato un senso di colpa solo per il fatto di essere tedesca - ha detto ancora Billerbeck - quando ho conosciuto la verità, questo sentimento si è intensificato e ho sentito una grave vergogna. Ho preso le distanze da ciò che ha fatto il fratello di mia nonna ma volevo trasformare questi sentimenti in qualcosa di più fruttuoso». Maite si è quindi documentata su quanto accaduto e da Berlino, dove vive, è tornata sul lago Maggiore, dove era già stata in vacanza, per rivedere con occhi nuovi i luoghi dei misfatti ad opera del battaglione comandato dal suo prozio. La sua volontà è quella di ricordare, cambiare il rapporto con i discendenti delle vittime per arrivare alla riconciliazione. In questo processo si inserisce l’incontro con Ottolenghi questa estate, per poi arrivare al dialogo pubblico avvenuto ieri. «Sono psicologa e con il mio compagno Andreas, che fa il musicista abbiamo fondato un’associazione per la promozione della cultura del ricordo per commemorare gli ebrei assassinati - ha continuato - vogliamo organizzare eventi per sensibilizzare su questo tema e avere un futuro dove possano prevalere i diritti umani e la democrazia. Nei nostri progetti includiamo i giovani perché pensiamo che in questo processo abbiano un ruolo molto importante. La prima iniziativa si svolgerà l’8 ottobre a Berlino e unisce aspetti storici, psicologici, artistici e musicali. Vi sono grata di essermi potuta unire a voi oggi per commemorare le vittime con umiltà».
Dopo un lungo abbraccio, Ottolenghi, anche lei psicologa, ha voluto sottolineare come le due donne siano accomunate da un grosso peso da portare sulle spalle: «I discendenti delle vittime si sentono in colpa per essere sopravvissuti - ha detto - quelli dei carnefici perché sono stati responsabili di atti atroci. Io e Maite siamo unite nella volontà di rompere il silenzio come unico modo per costruire e proseguire il cammino. Lei ha ben presente quali siano le colpe e non le ho mai sentito dire “Ma erano pazzi”, “erano malati”, “era un’altra epoca”, nessuna dichiarazione di autoassoluzione come purtroppo se ne sentono ancora oggi, nessuna minimizzazione».
Rossana Ottolenghi ha poi parlato del fatto che l’ebraismo non riconosce la possibilità di perdonare per interposta persona e le persone uccise non possono chiaramente farlo: «Il perdono si trasforma però in un dialogo di riscatto per raccontare, fare memoria. Un altro concetto importante dell’ebraismo è il rammendo del mondo: ogni ebreo deve farsi carico come può di riparare i buchi nella storia e io penso sia possibile attraverso il dialogo». Maite ha consegnato a Ottolenghi un regalo: alcune formelle create da lei assieme alle due figlie Elina e Annika con sopra scritti i nomi di vittime della strage del lago Maggiore e frasi dei testi sacri dell’ebraismo.
Sono seguiti altri interventi come quello di Luciano Belli Paci, figlio della senatrice Liliana Segre che ha letto un messaggio della madre sopravvissuta al campo di Auschwitz, e di Maria Plastira docente universitaria di Salonicco, città da cui provenivano gli ebrei che avevano trovato alloggio all’hotel Vittoria a Meina. Erano venuti in Italia pensando di riuscire a salvarsi e invece trovarono la morte. Oggi l’albergo sul lungolago non c’è più: al suo posto sorge il Parco della Memoria dove trovano posto le pietre d’inciampo con i nomi delle vittime e la grande scultura dell’artista israeliano Ofer Lellouche «Head of Meina».
(La Stampa, 25 settembre 2023)
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Un nuovo ponte sospeso collega i luoghi sacri di Gerusalemme: è il più lungo d’Israele
Gerusalemme ha inaugurato il ponte sospeso più lungo di Israele.
Questa imponente struttura, che si estende per 202 metri, collega il Monte Sion alla pittoresca Valle di Ben Hinnom a sud, offre un'esperienza straordinaria per pellegrini e turisti provenienti da tutto il mondo.
Il ponte offre un accesso facilitato a importanti luoghi storici come la Tomba del Re Davide, la Sala dell'Ultima Cena e la Camera della Shoah, consentendo ai visitatori di immergersi appieno nel passato di Gerusalemme.
Una volta attraversato il ponte, i visitatori si troveranno immediatamente all'interno delle antiche mura della Città Vecchia, passando attraverso la suggestiva Porta di Sion.
Da qui, potranno facilmente raggiungere il Parco Nazionale della Città di David, un luogo che testimonia la storia millenaria di Gerusalemme, la vivace Sultan's Pool e il complesso di negozi e ristoranti della First Station.
Oltre a offrire una vista spettacolare, il ponte è stato progettato per migliorare l'esperienza turistica dell'intera zona.
• Orari di apertura
Il ponte è aperto tutti i giorni dalle 6:00 alle 23:00 e sarà accessibile solo a piedi, offrendo ai visitatori l'opportunità di apprezzare appieno la bellezza e la storia di Gerusalemme in un'atmosfera tranquilla e suggestiva.
Il prestigioso progetto, del valore di 20 milioni di shekel (circa 5,4 milioni di dollari), è stato finanziato congiuntamente dal Ministero della Tradizione di Gerusalemme e Israele, dal Ministero del Turismo e dal Comune di Gerusalemme, in collaborazione con la Jerusalem Development Authority e la Moriah Company.
Questo nuovo ponte sospeso rappresenta un simbolo di connessione tra il passato e il presente di Gerusalemme, offrendo ai visitatori un'esperienza indimenticabile e l'opportunità di esplorare i luoghi sacri di questa città ricca di storia e spiritualità.
(Travel, 25 settembre 2023)
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Ebrei, nemici di Israele?
di Charles Rojzman *
Come spiegare la violenta posizione anti-israeliana - e non parlo di critiche ai governi israeliani - di noti ebrei come Rony Brauman, Shlomo Sand, Noam Chomsky, Norman Finkelstein, Edgar Morin, Charles Enderlin, molti ebrei democratici americani e israeliani di estrema sinistra?
Odio verso se stessi? Questa spiegazione, spesso avanzata dai loro nemici, non mi convince. Credo piuttosto che questi ebrei, come i loro compagni di viaggio della sinistra cristiana e i radicali dell'estrema sinistra, abbiano una visione di un mondo diviso esclusivamente tra poveri e ricchi, dominanti e dominati, occidentali e popoli colonizzati.
Questa visione manichea si riflette anche nelle domande sul passato dell'Europa, sul pentimento per la colonizzazione, sulle periferie, sull'Islam, sulla criminalità di strada, sul razzismo, ecc.
Per questi ebrei, inoltre, la paura secolare della persecuzione ha creato un'empatia sconsiderata per tutti gli oppressi, veri o finti.
Questa visione del mondo è diventata un'ideologia che, come ogni ideologia, pretende di definire la realtà in modo che si conformi alla sua visione, a volte fuorviante, a volte tronca, a volte sincera e in buona fede, ma accecata e manipolata dalla propaganda, tanto più che questa ideologia permette di ottenere vantaggi significativi come il potere, il riconoscimento e, soprattutto, la certezza di appartenere al campo del Bene e dell'Altro.
Se si è ebrei, si possono evitare le accuse di nazionalismo e militarismo rivolte a Israele, e soprattutto sperare di sfuggire al persistente antisemitismo che ha sempre demonizzato gli ebrei e ora demonizza lo Stato ebraico.
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* Il saggista Charles Rojzman è il fondatore dell'approccio e della scuola di psicologia politica clinica "Terapia sociale", praticata in Francia e in molti altri Paesi come mezzo per prevenire o conciliare la violenza individuale e collettiva.
(Tribune Juive, 25 settembre 2023)
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Milano - “Beethoven in Vermont” al Teatro Lirico Giorgio Gaber
Una storia di musica, fuga dal nazismo e fratellanza
di Marina Gersony
Il 27 settembre, al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano, andrà in scena Beethoven in Vermont, uno spettacolo imperdibile scritto e diretto Maria Letizia Compatangelo per il Trio Metamorphosi Mauro Loguercio violino, Francesco Pepicelli, violoncello e Angelo Pepicelli, pianoforte); uno spettacolo che – come annota il critico Pierluigi Pietricola – «Al di là della bravura esecutiva del Trio Metamorphosi, dell’intensità dei vari brani interpretati, quello che ha stupito è stata la capacità di proiezione della potenza contenuta in un microcosmo che ha letteralmente investito il pubblico. E lo ha fatto con una discrezione e una dolcezza davvero uniche».
• LA STORIA Nell’estate del 1951, poco dopo il tumulto della Seconda Guerra Mondiale, tre grandi musicisti, fuggiti dall’oppressione del regime nazista in Germania, si trovano di fronte a un’importante decisione: definire il programma del concerto inaugurale del prestigioso Marlboro Festival. Questa scelta incarna le loro storie di coraggio e resilienza, dalle loro audaci fuggite dal nazismo all’esilio volontario negli Stati Uniti. I protagonisti di questa storia appassionante sono i fratelli Adolf e Hermann Busch, violinista e violoncellista, e l’amico pianista Rudolf Serkin. Hanno rispettivamente 48, 42 e 36 anni, impersonati nello spettacolo rispettivamente dai talentuosi Mauro Loguercio, Francesco Pepicelli e Angelo Pepicelli.
In pochi anni, il Marlboro Festival diventò un faro nella scena musicale mondiale, attraendo musicisti di talento da ogni angolo del pianeta e rinomati direttori d’orchestra; fu qualcosa di mai visto, in cui sperimentare un nuovo modo di comunicare esperienze, tecniche e sapienza musicale. Tuttavia, in quel lontano pomeriggio del 1951, l’idea rivoluzionaria del festival fu solo un germoglio nella mente dei suoi coraggiosi promotori. Era un momento cruciale in cui dovettero trasformare il loro sogno in realtà: per la prima volta, nella pace della campagna, lontano da luoghi istituzionali quali accademie, conservatori o auditorium, caddero le barriere e le distanze tra insegnanti e allievi che insieme iniziarono a condividere e collaborare fianco a fianco.
Lo spettacolo al Teatro Lirico Giorgio Gaber ci porta in questo delicato momento, nell’era postbellica in cui le ferite della guerra sono ancora profonde e palpabili nella memoria e nei corpi delle persone. I tre artisti europei, radicati nella cultura tedesca, si trovano di fronte a giovani musicisti americani, creando un contrasto culturale ed emotivo. Tra esecuzioni musicali, disaccordi e conflitti che svelano verità nascoste, Adolf, Rudolf e Hermann lavorano instancabilmente per preparare il loro concerto inaugurale.
E alla fine, nel momento culminante di una serie di spettacoli che si protrarrà per decenni, prendono una decisione audace: Beethoven sarà il compositore che unirà il loro talento e la loro passione, portando avanti gli ideali di fratellanza tra i popoli: una storia di coraggio, di forza interiore e di dedizione alla musica che ha il potere di oltrepassare ogni confine.
• TRE MUSICISTI STRAORDINARI Chi erano questi tre straordinari artisti che, con il loro talento e la loro passione per la musica, hanno sfidato le avversità storiche e politiche del loro tempo per creare un legame indelebile tra la loro arte e il pubblico di tutto il mondo?
Tutto ebbe inizio con Rudolf Serkin, nato a Cheb nel 1903 da una famiglia ebraica di origine russa. Fin da giovane, mostrò un talento straordinario per il pianoforte. A soli 9 anni, si stabilì a Vienna e debuttò con l’Orchestra Filarmonica di Vienna nel 1915, dimostrando di essere un enfant prodige. Nonostante le sue radici ebraiche, Serkin era profondamente influenzato dalla tradizione musicale viennese. La sua vita prese una svolta destinata a influenzare il corso della storia della musica quando, a 17 anni, a Berlino, conobbe Adolf Busch, un violinista e compositore di straordinario talento. Nacque un legame profondo tra loro, sia umano che artistico, che portò alla creazione del celebre Quartetto Busch, un quartetto d’archi di fama internazionale.
La storia d’amore tra Rudolf Serkin e la figlia di Busch, Irene, si sviluppò nel corso di 15 anni e si trasformò in un matrimonio che avrebbe unito le loro vite per sempre.
Ma la storia di Serkin prese una svolta oscura quando, nel 1933, Hermann Göring offrì a Serkin un trattamento privilegiato nonostante il divieto imposto agli artisti ebrei di esibirsi in pubblico. Serkin rifiutò con fermezza questa offerta e scelse invece l’esilio volontario a Basilea, in Svizzera, insieme a Adolf Busch, nonostante quest’ultimo non fosse ebreo ma si opponesse apertamente al nazismo.
Nel 1939, Serkin si stabilì definitivamente negli Stati Uniti, dove il suo talento fuori dal comune e la sua passione per la musica da camera si fecero strada nella cultura musicale americana. I critici descrivevano il suo tocco al pianoforte come «cristallino, potente, delicato e puro». Ma Rudolf Serkin non si limitò solo a esibirsi, si dedicò anche alla Marlboro Music School and Festival, in collaborazione con Adolf Busch, con l’obiettivo di promuovere la musica da camera e ispirare le nuove generazioni con la stessa passione che li aveva uniti: il suo carisma e la sua capacità investigativa musicale hanno lasciato un’eredità singolare e di vasta portata che ha avuto un impatto su ogni area del campo della musica classica.
La storia di Adolf Busch e di suo fratello Hermann, parallela a quella di Serkin, è altrettanto affascinante. Nato in Germania nel 1891, Adolf Busch era un virtuoso del violino e un compositore di talento. Tuttavia, con l’ascesa di Adolf Hitler al potere, lo stesso Busch rifiutò di compromettersi con il regime nazista e, nel 1933, rinunciò alla sua cittadinanza tedesca. Successivamente, nel 1938, boicottò anche l’Italia fascista.
La sua opposizione al nazismo lo portò a emigrare in Svizzera e poi negli Stati Uniti, dove divenne uno dei fondatori della Marlboro Music School and Festival, lavorando a stretto contatto con Rudolf Serkin. Il Quartetto Busch, guidato da Adolf Busch, divenne famoso per le sue interpretazioni di compositori come Brahms, Schubert e Beethoven.
La loro storia è un tributo alla forza della musica e all’umanità che può emergere in tempi di grande turbolenza. Rudolf Serkin, Adolf Busch e Hermann Busch, con la loro passione condivisa e il loro impegno per l’arte, hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica, dimostrando che la musica può unire le persone al di là delle barriere culturali e politiche. La loro eredità vive ancora oggi attraverso le generazioni di musicisti che hanno ispirato.
«Adolf, Rudolf e Hermann – spiega Maria Letizia Compatangelo – cercano di realizzare, in un concerto inaugurale simbolico, una visione del mondo improntata alla fratellanza e alla collaborazione tra i popoli, nel segno unificante dell’arte, ma anche capace di evidenziare il valore della musica da camera come veicolo di condivisione. Occasione per dialogare con gli altri in musica e attraverso la musica, in un costante mettersi in gioco e nello scambio di idee ed esperienze».
«Proprio adesso che la nostra impresa beethoveniana è compiuta – hanno dichiarato a loro volta i musicisti del Trio – stiamo vivendo un momento letteralmente esaltante di vera metamorfosi, di profonda trasformazione, grazie all’immenso lavoro fatto da un anno e mezzo a questa parte sotto la guida accogliente e stimolante di Maria Letizia. Una vera e propria scuola di teatro, in cui fondere recitazione e musica in un’unica vita, in cui entrare nei meandri più reconditi della comunicazione dentro di noi, fra di noi e con i fratelli Busch e Serkin, tre grandi musicisti e uomini straordinari che ci onoriamo di portare in scena nel nome di Beethoven».
(Bet Magazine Mosaico, 24 settembre 2023)
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Il suono dello shofar, momento culminante della giornata di Kippur
Intervista a Rav Alberto Funaro
di Sarah Tagliacozzo
Ogni anno a Yom Kippur, così come in altre occasioni, in ogni sinagoga si ascolta il suono dello shofar. Uno strumento dalle origini antiche e che rappresenta un simbolo dell’ebraismo. Per scoprirne significati e tradizioni, Shalom ha intervistato Rav Alberto Funaro, che ne è un grande conoscitore e suonatore.
• Perché si suona lo shofar? Il suono dello shofar alla conclusione di Kippur è il culmine di una giornata che noi trascorriamo a digiunare e a pregare per un dolce anno nuovo. Ci sono una serie di ragioni per cui si suona lo shofar in momento così solenne. Tra queste, ad esempio, la commemorazione dell’anno giubilare: quando ancora si celebrava l’anno del Giubileo ai tempi del Bet HaMikdash, per inaugurare il cinquantesimo anno, il giubileo appunto, si suonava lo shofar durante lo Yom Kippur. Il suono dello shofar sarebbe stato per tutti gli schiavi il segnale della libertà, mentre tutte le proprietà sarebbero tornate ai proprietari originari. Ora non c’è più il Giubileo, ma suoniamo ancora lo Shofar ogni Yom Kippur per ricordare ciò che era una volta e per esprimere le nostre speranze per il futuro. Inoltre il suono dello shofar significa anche che ora, alla conclusione dello Yom Kippur, le nostre anime sono liberate dai loro peccati.
• Ci sono anche altri motivi? Quando Yom Kippur volge al termine, siamo certi che ci è stato concesso un anno dolce, come i soldati che tornano trionfanti in battaglia, suoniamo lo shofar per celebrare la nostra vittoria sull’angelo accusatore, sul satan, satana. Nella ghematrià il valore numerico del satan è 364, mentre i giorni dell’anno sono 365. Quel giorno che rimane fuori è proprio Kippur, l’unico giorno in cui il satan non può avere alcuna ragione sul popolo di Israele che è riunito in digiuno, nella preghiera e nella riflessione verso se stesso, verso Dio e verso tutti quelli che lo circondano. Quando Dio ci diede la Torah, la presenza divina si posò sulla montagna e fu annunciata dal suono dello shofar. Questo riflette ciò che è scritto nei Salmi, quando si afferma che “Dio ascende, sale con una teruah, il suono dello shofar”. Allo stesso modo, in seguito, alla vicinanza con Dio che abbiamo sperimentato durante Kippur, il suono dello shofar simboleggia l’ascesa della presenza divina che si è posata durante tutto il giorno. Ed è quindi ora di celebrare un po’ di libertà. È stata un’esperienza ultraterrena e ora siamo usciti dall’altra parte. Il suono dello shofar pubblicizza a tutti che la sera successiva allo Yom Kippur è una festa; segna dunque il momento di celebrare una vicinanza che abbiamo raggiunto e il perdono che ci siamo assicurati durante questo giorno.
• Qual è il significato della parola shofar? La parola shofar, secondo alcuni, deriverebbe dalla radice leshaper, che significa aggiustare, accomodare, come se in un certo senso, ascoltando il suono dello shofar noi in qualche modo rimettessimo in ordine tutto quello che abbiamo dentro di noi e che aveva bisogno di essere riordinato nei rapporti con Dio, nei rapporti con il prossimo e nei rapporti con tutti quelli che ci circondano.
• A Roma dove si può imparare a suonare lo shofar? Lo shofar si può imparare a suonare frequentando anche un corso al collegio rabbinico, oppure chiedendo ad uno dei maestri che suonano lo shofar di spiegare come funziona e quali sono le regole.
• Il suono romano è particolarmente solenne e diverso dagli altri? Il suono romano è simile ai suoni di altre comunità, però è un suono antico, di cui sono rimasti meravigliati anche alcuni rabbanim in Eretz Israel. Non si sa in che epoca si possa collocare la sua origine.
• Perché durante il suono dello shofar si usa coprirsi il volto o gli occhi in segno di raccoglimento? Non c’è un motivo preciso, è un momento spontaneo di concentrazione, ma non è assolutamente un’azione vincolante. Aiuta a concentrarsi, è un atto di rispetto, ma senza particolare rilevanza dal punto di vista rituale.
• Oltre allo shofar, vi sono altri strumenti simbolo dell’ebraismo? Attualmente è l’unico strumento antico che noi troviamo descritto anche nella Torah. Ma basta leggere i salmi ed i libri del Tanach per scoprire come nel Bet HaMikdash venissero suonati diversi strumenti accompagnati anche dai canti dei leviti.
(Shalom, 24 settembre 2023)
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16 ottobre e Guerra del Kippur: anniversari, memoria e calendario ebraico
di Rav Riccardo Di Segni
L’anno 5784 si apre con due importanti anniversari a cifra tonda. Quello che ricorda un avvenimento relativamente più recente (ma sono già 50 anni, mezzo secolo!) è la guerra del Kippùr. Dopo la cocente sconfitta del 1967, le nazioni arabe cercarono una rivincita e dopo sei anni scatenarono un’offensiva travolgendo le linee israeliane che si erano attestate nella riva occidentale del canale di Suez. A nord i siriani attaccarono sul Golan. Gli egiziani approfittarono del giorno di Kippùr per scatenare l’attacco, che fu inizialmente vincente. Ci vollero diversi giorni perché gli israeliani prendessero in mano e capovolgessero le sorti del conflitto, che fu sanguinoso e mise in crisi un sistema precario di certezze. La guerra portò a un capovolgimento politico in Israele e gettò le basi per la pace con gli egiziani di qualche anno dopo. La guerra prese il nome dal giorno in cui era iniziata, Kippùr, e fu anche un modo per far conoscere al mondo non ebraico l’esistenza e l’importanza di quel giorno per gli ebrei. Come succede per avvenimenti storici importanti e decisivi, molti conservano il ricordo di come appresero la notizia, dove stavano e come reagirono. Per moltissimi ebrei nella diaspora la notizia li raggiunse a metà giornata del Kippùr, spesso dentro le sinagoghe affollate, aggiungendo una vivissima preoccupazione alla solennità di quelle ore, con la mente che andava da altre parti. In Israele è rimasta nella memoria l’incredibile situazione del Kippùr con i riservisti richiamati di corsa, delle sirene, delle radio accese per le notizie allarmanti.
La guerra del Kippùr porta il nome di una ricorrenza ebraica ed è rimasta a questa strettamente legata. Se pensiamo all’altro anniversario che ricorderemo in questi giorni, l’ottantesimo del 16 ottobre del 1943, che ha interessato gli ebrei romani, vediamo subito uno scenario differente: che la data è civile, che non c’è nessun riferimento a tradizioni ebraiche, come se tutto si svolgesse in un’atmosfera che riguardava le persone e non la loro religione. Eppure gli avvenimenti romani di quei due primi mesi di occupazione nazista si incrociarono con il calendario ebraico in forma drammatica e sembra che solo in tempi più recenti queste circostanze siano state citate. Propongo questo schema, che dubito sia mai stato presentato:
I livelli di osservanza delle tradizioni erano in quegli anni a Roma molto differenti da quelli attuali, ma la partecipazione alle funzioni sinagogali festive non era calata, anzi da alcune testimonianze sembra fosse aumentata dai tempi delle leggi razziali. Per motivi prudenziali le funzioni del Tempio maggiore furono sospese poco dopo l’arrivo dei nazisti a Roma ed erano i giorni delle selichòt. La taglia dell’oro fu consegnata il pomeriggio del giorno precedente Rosh hashanà e questo forse dette a molti un senso di sicurezza e di scampato pericolo alla vigilia dell’anno nuovo. Non ci furono funzioni pubbliche né a Rosh hashanà né a Kippur al Tempio maggiore, e la capienza dello Spagnolo, nei sotterranei, e del Tempio dell'Isola era molto limitata. Il saccheggio delle biblioteche avvenne il primo giorno di Sukkòt. Il rastrellamento degli ebrei romani ci fu due giorni dopo, di sabato (“il sabato nero”) terzo giorno di Sukkòt. Non ci sono notizie, ma è verosimile che la tradizionale sukkà nel cortile del Tempio maggiore non fosse stata costruita.
Tutta la vicenda della deportazione, la partenza del treno e il suo viaggio si svolse nei giorni di Sukkòt. I vagoni piombati arrivati a Birkenau vennero aperti la mattina dello Shabbàt successivo, che era Shabbat Bereshit e la gassazione di circa 800 deportati avvenne più tardi in quello stesso giorno. Gli anniversari si dovrebbero ricordare nella data della morte delle persone, quindi il 24 di tishrì, il giorno dopo Simchàt Torà, che qualche volta, come nel 1943, coincide con Shabbàt Bereshit, ma questo non sembra sia stato fatto almeno a livello collettivo. È vero che la notizia precisa della data la si è saputa solo dopo anni, ma non risulta l’istituzione di una cerimonia, di un izkòr in quel giorno; a differenza di quanto si fa per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, che viene ricordato civilmente il 24 marzo, ma celebrato anche in data ebraica, nell’ultimo giorno di Adàr.
Gli eventi dell’occupazione nazista furono un’offesa all’umanità ma anche all’ebraismo e alle sue tradizioni. La prima circostanza è stata ed è rimasta al centro dei ricordi e delle dovute celebrazioni. La seconda è stata quasi cancellata. C’è da chiedersi il perché di questo meccanismo tanto selettivo della memoria.
(Shalom, 24 settembre 2023)
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Ho partecipato alla Guerra dello Yom Kippur. Un’esperienza personale (1)
La guerra dello Yom Kippur non fu solo uno scioccante attacco a sorpresa. Fu un'esperienza umiliante che riportò l'orgoglioso Israele alla realtà.
di Gershon Nerel
Mezzo secolo fa. Lo Shabbat del 6 ottobre 1973 era anche il giorno di digiuno di Yom Kippur. L'intero Israele era molto tranquillo e immobile nelle ore del mattino, come è tipico di quel giorno. A quel tempo ero in congedo dallo Zahal, le Forze di Difesa Israeliane (IDF), dopo tre estenuanti anni di servizio militare, la maggior parte dei quali passate nel deserto del Sinai.
Ero in attesa di iniziare i miei studi di storia, che volevo affiancare alle relazioni internazionali all'Università Ebraica di Gerusalemme. Vivevo in una minuscola stanza in affitto nel seminterrato della Chiesa dell'Alleanza Americana (Christian & Missionary Alliance - C&MA) al 55 di via dei Profeti. Anche se questa stanza non aveva un bagno proprio, dopo aver dormito in una minuscola tenda per quasi tre anni, mi sembrava una reggia.
L'aspettativa di essere presto congedato dall'esercito dopo il servizio militare obbligatorio era come la realizzazione di un lungo sogno. Purtroppo, però, un evento drammatico e improvviso, intorno alle 14.00, ha cambiato l'atmosfera tranquilla della giornata e le mie aspettative personali.
• NEL SINAI Come medico da combattimento, ho svolto la maggior parte del mio servizio militare tra le dune gialle della penisola del Sinai, vicino al Canale di Suez. Ero responsabile dell'assistenza medica di base quotidiana di circa 400 soldati, ufficiali e altri. Il reggimento n. 601 era specializzato in operazioni tecniche, tra cui minamento e sminamento, la costruzione di fortificazioni e recinzioni e la posa di nuove strade e sentieri.
L'unità medica del mio reggimento era composta da un medico, diversi altri medici da combattimento, un'ambulanza, medicinali e le attrezzature necessarie per un'assistenza medica di primo soccorso. La nostra squadra medica e i rifornimenti di emergenza erano posizionati al Passo di Jiddi, non lontano dal "paralizzato" Canale di Suez, in un massiccio bunker fatto di cemento e pietre raggruppate in grandi "cesti" di reti metalliche. Questo rifugio/bunker rinforzato faceva parte di una catena di piccoli forti israeliani costruiti lungo la sponda orientale del Canale di Suez allora in disuso, nota come Linea Bar Lev.
Quando a metà settembre del '73 lasciai la mia unità medica nel Sinai e mi trasferii a Gerusalemme per iniziare la mia vita da studente, non avevo la minima idea che sarei tornato lì molto presto, ancor prima di iniziare gli studi. Ero assolutamente sicuro che all'inizio di novembre del '73 sarei stato finalmente un libero civile. Non avevo dubbi che raramente sarei stato chiamato per il servizio di riserva perché, pensavo, “i vicini eserciti arabi non oseranno sfidare Israele".
• TOTALE SORPRESA Il silenzio totale nelle strade di Gerusalemme fu rotto in modo scioccante quando le strade cominciarono a riempirsi di veicoli militari e di altro tipo. Quella mattina ho partecipato alla regolare funzione dello Shabbat presso la Comunità Messianica Israeliana al numero 56 di Via dei Profeti, a pochi minuti a piedi dal mio appartamento. Dopo essere tornato nel mio appartamento, che ospitava anche alcuni amici studenti, tra cui Efraim (Fred) Goldstein, iniziò il balagan (totale caos).
Poco dopo le 14, il Primo Ministro Golda Meir annunciò alla radio che l'Egitto a sud e la Siria a nord avevano attaccato congiuntamente Israele. Pochi minuti dopo, i miei genitori mi chiamarono da Beer-Sheva per dirmi che avevano ricevuto una telefonata urgente dal mio reggimento nel Sinai che mi chiedeva di tornare immediatamente.
Ho preparato velocemente alcune cose essenziali in una piccola borsa e mi sono detto: "Se l'ultima grande guerra del 1967 è durata solo sei giorni e Israele ha ottenuto una vittoria fenomenale, la battaglia attuale certamente non durerà più di tre o quattro giorni...".
Ben presto mi resi conto di quanto mi fossi sbagliato. Dovevo tornare alla mia unità nel Sinai, ma i pesanti bombardamenti egiziani intorno al Canale di Suez bloccarono il mio accesso in sicurezza. Dovetti quindi aspettare diversi giorni al quartier generale medico di Refidim (ex Bir-Gafgafa in arabo) e solo in seguito trovai un camion di rifornimenti che poteva riportarmi dai miei compagni.
• IN AFRICA
Il nostro intero reggimento attraversò il Canale di Suez in Egitto su un ponte mobile che era stato eretto dal Genio Militare. Nella Terra di Goshen, come la chiamavamo allora, ci accampammo in territorio egiziano vicino al cartello stradale "KM 101", a soli 101 chilometri dal Cairo. I soldati tecnici professionisti si concentravano sulla posa di mine anticarro e di altre mine.
A me fu chiesto di unirmi a una piccola squadra di pattuglie mobili come medico, viaggiando all'aperto con il nostro vecchio veicolo di comando per individuare e avvertire le attività nemiche impreviste e fornire qualsiasi informazione vitale.
Rimanemmo in Africa per diverse settimane, anche dopo la fine delle ostilità tra le parti. Nessuno si aspettava che sarebbe durata così a lungo. Per rimanere in allerta, non ci toglievamo le scarpe per molte ore. Avevamo a malapena calzini e biancheria in più con cui cambiarci. In particolare, trovare calzini puliti era una grande sfida. Nelle lettere ai miei genitori, così come agli altri soldati, chiedevo di inviare queste cose il prima possibile. Lentamente, anche il tempo cambiò e si avvicinò l'inverno.
• IL GRANDE SHOCK Per noi soldati al fronte e per i civili israeliani in patria, la Guerra dello Yom Kippur del 1973 fu l'opposto della Guerra dei Sei Giorni del 1967. Improvvisamente ci fu un profondo senso di imbarazzo, persino forti sentimenti di rabbia contro la leadership ufficiale dello Stato, sia politica che militare. Gli israeliani erano profondamente frustrati perché erano stati colti completamente di sorpresa dal sofisticato attacco dei nostri nemici, che aveva colto le nostre forze impreparate. Questo aveva gravemente colpito la nostra coscienza e la nostra immagine di sé.
Lo stato d'animo generale nell'autunno del '73 rasentava la depressione nazionale. Il generale Moshe Dayan, ministro della Difesa, espresse addirittura il timore che la "Terza Casa (Tempio)", cioè o Stato di Israele, rischiasse di essere distrutta. La gente sentiva che l'intero Paese era stato colto "con i pantaloni abbassati".
Ricordo bene di essere stato coinvolto nell'euforia generale che seguì la miracolosa vittoria dell'IDF nella Guerra dei Sei Giorni, quando vaste aree di Giudea e Samaria, Gaza e la Penisola del Sinai passarono sotto il dominio israeliano.
Da quando sono stato arruolato nell'ID, nel novembre 1970, la maggior parte del personale dell'esercito era dominata dalla sensazione di essere superiore agli arabi e che Israele fosse invincibile. L'orgoglio politico e l'arroganza militare permeavano tutte le aree del Paese.
Ricordo personalmente l'arroganza dei nostri ufficiali dopo la Guerra dei Sei Giorni. Tutti gli ufficiali e i generali dell'esercito furono idolatrati dalla stampa nazionale e glorificati in numerosi album di vittorie. Vicino al Canale di Suez, solo pochi soldati presidiavano le minuscole basi militari, convinti che l'esercito egiziano non avesse il coraggio e le capacità per traversare l’acqua e venire dalla nostra parte.
Poi, nell'ottobre del '73, arrivò il grande shock nazionale e militare. Gli inaspettati attacchi egiziani e siriani contro Israele durante lo Yom Kippur elettrizzarono l'intero Paese. Israele dovette riorganizzare in fretta le sue forze e chiese agli Stati Uniti rapidi convogli di munizioni, armi, vestiti, ecc. soprattutto per i soldati in prima linea.
(continua)
(Israel Heute, 24 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il discorso integrale di Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite
Signore e signori,
più di tre millenni fa, il nostro grande condottiero Mosè si rivolse al popolo di Israele mentre stava per entrare nella terra promessa. Disse che avrebbero trovato i due monti uno di fronte all’altro. Il monte Gerizim, luogo in cui sarebbe stata proclamata una grande benedizione, e il monte Ebal, luogo di una grande maledizione. Mosè disse che il destino del popolo sarebbe stato determinato dalla scelta tra la benedizione e la maledizione. Questa stessa scelta è riecheggiata nei secoli, non solo per il popolo d’Israele. Ma per tutta l’umanità. Oggi ci troviamo di fronte a una scelta del genere. Essa determinerà se godremo delle benedizioni di una pace storica, di una prosperità e di una speranza sconfinate, o se subiremo la maledizione di una guerra orribile di terrorismo e di disperazione. L’ultima volta che ho parlato su questo podio, cinque anni fa, ho messo in guardia dai tiranni di Teheran. Non sono stati altro che una maledizione, una maledizione per il loro stesso popolo, per la nostra regione, per il mondo intero. Ma allora parlai anche di una grande benedizione che vedevo all’orizzonte. Ecco cosa dissi: “La minaccia comune dell’Iran ha avvicinato Israele e molti Stati arabi come mai prima d’ora, in un’amicizia che non ho mai visto in vita mia”. Ho detto che: “Arriverà presto il giorno in cui Israele sarà in grado di espandere la pace oltre l’Egitto e la Giordania ad altri vicini arabi”. Ora, in innumerevoli incontri con i leader mondiali, ho sostenuto che Israele e gli Stati arabi condividono molti interessi comuni e che ritengo che questi interessi comuni possano facilitare una svolta per una pace più ampia nella nostra regione. APPLAUSI Grazie. Bene, ora applaudite. All’epoca, però, molti liquidarono il mio ottimismo come velleitario. Il loro pessimismo si basava su un quarto di secolo di buone intenzioni e di fallimenti della pacificazione. E perché? Perché queste buone intenzioni? Perché sono sempre fallite? Perché si basavano sulla falsa idea che, se prima non avessimo concluso un accordo di pace con i palestinesi, nessun altro Stato arabo avrebbe normalizzato le proprie relazioni con Israele. Da tempo cerco di fare la pace con i palestinesi. Ma credo anche che non dobbiamo dare ai palestinesi un veto sui nuovi trattati di pace con gli Stati arabi. I palestinesi potrebbero trarre grandi benefici da una pace più ampia. Dovrebbero far parte di questo processo, ma non dovrebbero avere un veto su di esso. Inoltre, credo che la pace con un maggior numero di Stati arabi aumenterebbe le prospettive di pace tra Israele e i palestinesi. I palestinesi sono solo il 2% del mondo arabo. Finché crederanno che il restante 90% rimarrà in uno stato di guerra con Israele, quella massa più grande, quel mondo arabo più grande potrebbe alla fine distruggere lo Stato ebraico. Quindi, quando i palestinesi vedranno che la maggior parte del mondo arabo si è riconciliato con lo Stato ebraico, anche loro saranno più propensi ad abbandonare la fantasia di distruggere Israele e ad abbracciare finalmente un percorso di pace autentica con esso. Per anni il mio approccio alla pace è stato rifiutato dai cosiddetti esperti. Ebbene, si sbagliavano. Con il loro approccio, per un quarto di secolo non abbiamo concluso un solo trattato di pace. Eppure, nel 2020, con l’approccio da me sostenuto, abbiamo provato qualcosa di diverso. E in men che non si dica, abbiamo raggiunto un risultato straordinario. In collaborazione con gli Stati Uniti, Israele ha concluso quattro trattati di pace in quattro mesi con quattro Paesi arabi: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. Gli accordi di Abramo sono stati un punto di snodo della storia. E oggi, tutti noi vediamo i benefici di quegli accordi. Il commercio e gli investimenti con i nostri nuovi partner di pace sono in piena espansione. Le nostre nazioni cooperano nel commercio, nell’energia, nell’acqua, nell’agricoltura, nella medicina, nel clima e in molti altri campi. Negli ultimi tre anni, quasi un milione di israeliani ha visitato gli Emirati Arabi Uniti. Ogni giorno, gli israeliani risparmiano tempo e denaro facendo qualcosa che non hanno potuto fare per 70 anni: sorvolano la penisola arabica per raggiungere destinazioni nel Golfo, in India, in Estremo Oriente e in Australia. Gli Accordi di Abramo hanno dato il via a un altro clamoroso cambiamento. Ha avvicinato arabi ed ebrei. Lo vediamo nei frequenti matrimoni ebraici a Dubai, nella dedica di una scuola di Torah in una sinagoga di Bahran. Nei visitatori che affollano il Museo dell’ebraismo marocchino e Casablanca. Lo vediamo nelle lezioni sull’Olocausto impartite agli studenti arabi negli Emirati Arabi Uniti. Non c’è dubbio. Gli accordi di Abramo hanno annunciato l’alba di una nuova era di pace. Ma credo che siamo alla vigilia di una svolta ancora più drammatica: una pace storica tra Israele e Arabia Saudita. Una pace di questo tipo contribuirà a porre fine al conflitto arabo-israeliano. Incoraggerà altri Stati arabi a normalizzare le loro relazioni con Israele. Migliorerà le prospettive di pace con i palestinesi. Incoraggerà una più ampia riconciliazione tra ebraismo e Islam, tra Gerusalemme e La Mecca, tra i discendenti di Isacco e i discendenti di Ismaele. Tutte queste sono enormi benedizioni. Due settimane fa, abbiamo visto un’altra benedizione già in vista. Durante la conferenza del G20, il Presidente Biden, il Primo Ministro Modi e i leader europei e arabi hanno annunciato i piani per un corridoio visionario che si estenderà attraverso la penisola arabica e Israele. Collegherà l’India all’Europa con collegamenti marittimi, ferroviari, oleodotti e cavi in fibra ottica. Questo corridoio bypasserà i posti di blocco marittimi, o meglio i punti di strozzatura, e ridurrà drasticamente il costo delle merci, delle comunicazioni e dell’energia per oltre 2 miliardi di persone. Un cambiamento storico per il mio Paese. Vedete, la terra di Israele è situata al crocevia tra Africa, Asia ed Europa. Per secoli, il mio Paese è stato ripetutamente invaso dagli imperi che lo attraversavano nelle loro campagne di saccheggio e di conquista. Ma oggi, abbattendo i muri dell’inimicizia, Israele può diventare un ponte di pace e prosperità tra questi continenti. La pace tra Israele e Arabia Saudita creerà davvero un nuovo Medio Oriente. Per comprendere la portata della trasformazione che cerchiamo di portare avanti, permettetemi di mostrarvi una mappa del Medio Oriente nel 1948, anno di fondazione di Israele. Ecco Israele nel 1948. È un Paese minuscolo, isolato, circondato da un mondo arabo ostile. Nei primi sette anni abbiamo fatto pace con l’Egitto e la Giordania. Poi, nel 2020, abbiamo stipulato gli accordi di Abramo – pace con altri quattro Stati arabi. Ora guardate cosa succede quando facciamo la pace tra Arabia Saudita e Israele. L’intero Medio Oriente cambia. Abbattiamo i muri dell’inimicizia. Portiamo la possibilità di prosperità e pace all’intera regione. Ma facciamo anche qualcos’altro. Qualche anno fa, mi trovavo qui con un pennarello rosso per indicare la maledizione, una grande maledizione, la maledizione di un Iran nucleare. Ma oggi, oggi, porto questo pennarello per mostrare una grande benedizione, la benedizione di un nuovo Medio Oriente, tra Israele, Arabia Saudita e gli altri nostri vicini. Non solo abbatteremo le barriere tra Israele e i nostri vicini, ma costruiremo un nuovo corridoio di pace e prosperità che collegherà l’Asia, attraverso gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, la Giordania e Israele, all’Europa. Si tratta di un cambiamento straordinario, un cambiamento monumentale. Un altro punto di snodo della storia. Ora, mentre il cerchio della pace si allarga, credo che si possa finalmente realizzare un vero percorso verso una pace autentica con i nostri vicini palestinesi. Ma c’è un’avvertenza. Va detto qui, con forza. La pace può essere raggiunta solo se si basa sulla verità. Non può basarsi sulla menzogna. Non può basarsi sul vilipendio infinito del popolo ebraico. Il leader palestinese Mahmoud Abbas deve smettere di diffondere le orribili cospirazioni antisemite contro il popolo ebraico nello Stato ebraico. Voglio dire, recentemente ha detto che Hitler non era un antisemita – non si può inventare. Ma l’ha fatto. L’ha detto. E l’Autorità Palestinese deve smettere di glorificare i terroristi, deve interrompere la sua macabra politica di dare soldi ai terroristi palestinesi per l’omicidio di ebrei. Tutto questo è oltraggioso e deve cessare per far prevalere la pace. E l’antisemitismo deve essere respinto ovunque appaia, sia a destra che a sinistra, sia nelle aule delle università che in quelle delle Nazioni Unite. Affinché la pace prevalga, i palestinesi devono smettere di sputare odio contro gli ebrei e riconciliarsi finalmente con lo Stato ebraico. Con questo non intendo solo l’esistenza dello Stato ebraico, ma il diritto del popolo ebraico ad avere uno Stato proprio nella sua patria storica, la terra di Israele. E lasciatemi dire che il popolo d’Israele anela a questa pace. Io desidero questa pace. Da giovane soldato, più di mezzo secolo fa, io e i miei commilitoni delle forze speciali israeliane abbiamo affrontato pericoli mortali su molti fronti e su molti campi di battaglia, dalle calde acque del Canale di Suez alle pendici ghiacciate del Monte Hermon, dalle sponde del fiume Giordano all’asfalto dell’aeroporto di Beirut. Queste e altre esperienze mi hanno insegnato il costo della guerra. Un compagno è stato ucciso accanto a me e un altro è morto tra le mie braccia. Ho seppellito mio fratello maggiore. Chi ha sofferto personalmente la maledizione della guerra può apprezzare meglio le benedizioni della pace. Ora, ci sono molti ostacoli sulla strada della pace. Ci sono molti ostacoli sulla straordinaria via della pace che ho appena descritto. Ma mi impegno a fare tutto il possibile per superare questi ostacoli, per forgiare un futuro migliore per Israele e per tutti i nostri popoli, tutti i popoli della nostra regione. Due giorni fa ho discusso questa visione di pace con il Presidente Biden. Condividiamo lo stesso ottimismo per ciò che può essere raggiunto. E apprezzo profondamente il suo impegno a cogliere questa opportunità storica. Gli Stati Uniti d’America sono indispensabili in questo sforzo. E proprio come abbiamo raggiunto gli accordi di Abraham, con la guida del Presidente Trump, credo che possiamo raggiungere la pace con l’Arabia Saudita, con la guida del Presidente Biden. Lavorando insieme alla leadership del principe ereditario Mohammed bin Salman, possiamo dare forma a un futuro di grande prosperità per tutti i nostri popoli. Ora, signore e signori, sapete che c’è una mosca in questa faccenda. Perché, statene certi, i fanatici che governano l’Iran faranno di tutto per ostacolare questa pace storica. L’Iran continua a spendere miliardi per armare i suoi proxy del terrore. Continua a estendere i suoi tentacoli di terrore in Medio Oriente, Europa, Asia, Sud America e persino in Nord America. Hanno persino tentato di assassinare il Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America. Hanno persino tentato di assassinare il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. Questo dice tutto quello che c’è da sapere sulle intenzioni omicide dell’Iran e sulla sua natura omicida. L’Iran continua a minacciare le rotte di navigazione internazionali, a tenere in ostaggio cittadini stranieri e a ricattare con il nucleare. Nell’ultimo anno, i suoi demoni assassini hanno ucciso centinaia di persone e arrestato migliaia di coraggiosi cittadini iraniani. I droni e il programma missilistico iraniano minacciano Israele e i nostri vicini arabi e i droni iraniani hanno portato e portano morte e distruzione a persone innocenti in Ucraina. Eppure, l’aggressione del regime è in gran parte accolta dall’indifferenza della comunità internazionale. Otto anni fa, le potenze occidentali avevano promesso che se l’Iran avesse violato l’accordo sul nucleare, le sanzioni sarebbero state ripristinate. Ebbene, l’Iran sta violando l’accordo. Ma le sanzioni non sono state ripristinate. Per fermare le ambizioni nucleari dell’Iran. Questa politica deve cambiare. Le sanzioni devono essere ripristinate. E soprattutto, soprattutto, l’Iran deve affrontare una minaccia nucleare credibile. Finché sarò Primo Ministro di Israele, farò tutto ciò che è in mio potere per impedire all’Iran di ottenere armi nucleari. Allo stesso modo, dovremmo sostenere le donne e gli uomini coraggiosi dell’Iran che disprezzano il regime, che anelano alla libertà. Che si sono alzati coraggiosamente sui marciapiedi di Teheran e delle altre città iraniane per affrontare la morte. È il popolo iraniano, non i suoi oppressori, il nostro vero partner per un futuro migliore. Signore e signori, se il nostro futuro si rivelerà una benedizione o una maledizione dipenderà anche da come affronteremo lo sviluppo forse più importante del nostro tempo. L’ascesa dell’intelligenza artificiale. La rivoluzione dell’intelligenza artificiale procede alla velocità della luce. Ci sono voluti secoli perché l’umanità si adattasse alla rivoluzione agricola. Ci sono voluti decenni per adattarsi alla rivoluzione industriale. Potremmo avere solo pochi anni per adattarci alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale. I pericoli sono grandi e sono davanti a noi. L’interruzione della democrazia, la manipolazione delle menti, la decimazione dei posti di lavoro, la proliferazione del crimine e la violazione di tutti i sistemi che facilitano la vita moderna. Ma ancora più inquietante è il potenziale scoppio di guerre guidate dall’IA che potrebbero raggiungere una scala inimmaginabile. E dietro a tutto ciò si profila forse una minaccia ancora più grande, un tempo di fantascienza, ovvero che le macchine autodidatte possano finire per controllare gli esseri umani, anziché il contrario. Le nazioni leader del mondo, per quanto competitive, devono affrontare questi pericoli. Dobbiamo farlo in fretta. E dobbiamo farlo insieme. Dobbiamo fare in modo che la promessa di un’utopia dell’IA non si trasformi in una distopia dell’IA. Abbiamo così tanto da guadagnare. Immaginate la fortuna di poter finalmente decifrare il codice genetico, allungare la vita umana di decenni e ridurre drasticamente i danni della vecchiaia. Immaginate un’assistenza sanitaria su misura per la composizione genetica di ogni individuo e una medicina predittiva che prevenga le malattie molto prima che si manifestino. Immaginate i robot che aiutano a prendersi cura degli anziani. Immaginate la fine degli ingorghi, con veicoli a guida autonoma a terra, sotto terra e in aria. Immaginate un’istruzione personalizzata che coltivi il pieno potenziale di ogni persona per tutta la vita. Immaginate un mondo con energia pulita illimitata e risorse naturali per tutte le nazioni. Immaginate un’agricoltura di precisione e fabbriche automatizzate che producano cibo e beni in un’abbondanza tale da porre fine alla fame e al bisogno. So che sembra una canzone di John Lennon. Ma tutto questo potrebbe accadere. Immaginate, immaginate di poter raggiungere la fine della penuria (povertà). Qualcosa che è sfuggito all’umanità per tutta la storia. È tutto a portata di mano. Ed ecco un’altra cosa alla nostra portata. Con l’intelligenza artificiale possiamo esplorare i cieli come mai prima d’ora ed estendere l’umanità oltre il nostro pianeta blu. Nel bene e nel male, gli sviluppi dell’IA saranno guidati da una manciata di nazioni, e il mio Paese, Israele, è già tra queste. Proprio come la rivoluzione tecnologica di Israele ha fornito al mondo innovazioni mozzafiato, sono fiducioso che l’IA sviluppata da Israele aiuterà ancora una volta tutta l’umanità. Invito i leader mondiali a riunirsi per dare forma ai grandi cambiamenti che ci attendono. Ma a farlo in modo responsabile ed etico. Il nostro obiettivo deve essere quello di garantire che l’IA porti più libertà e non meno, che prevenga le guerre invece di iniziarle e che garantisca alle persone una vita più lunga, più sana, più produttiva e pacifica. È alla nostra portata. E mentre sfruttiamo i poteri dell’IA, ricordiamo sempre il valore insostituibile dell’intuizione e della saggezza umana. Dobbiamo custodire e preservare la capacità umana di empatia, che nessuna macchina può sostituire. Migliaia di anni fa, Mosè presentò ai figli di Israele una scelta universale e senza tempo. Ecco, oggi ho detto davanti a voi una benedizione e una maledizione. Possiamo scegliere con saggezza tra la maledizione e la benedizione che ci stanno davanti oggi. Sfruttiamo la nostra risolutezza e il nostro coraggio per fermare la maledizione di un Iran nucleare e per far regredire il suo fanatismo e la sua aggressività. Facciamo nascere la benedizione di un nuovo Medio Oriente che trasformerà le terre un tempo segnate dal conflitto e dal caos in campi di prosperità e di pace. E che possiamo evitare i pericoli dell’IA combinando le forze dell’intelligenza umana e di quella meccanica, per inaugurare un futuro brillante per il nostro mondo nel nostro tempo e per tutti i tempi. Grazie.
(Rights Reporter, 24 settembre 2023)
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Salmo 1
Dalla Sacra Scrittura
SALMO 1
- Beato l'uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi, che non si ferma nella via dei peccatori; né si siede in compagnia degli schernitori;
- ma il cui diletto è nella legge del Signore, e su quella legge medita giorno e notte.
- Egli sarà come un albero piantato vicino a ruscelli, il quale dà il suo frutto nella sua stagione, e il cui fogliame non appassisce; e tutto quello che fa, prospererà.
- Non così gli empi, anzi sono come pula che il vento disperde.
- Perciò gli empi non reggeranno davanti al giudizio, né i peccatori nell'assemblea dei giusti.
- Poiché il Signore conosce la via dei giusti, ma la via degli empi conduce alla rovina.
GENESI 39
- Giuseppe fu portato in Egitto; e Potifar, ufficiale del faraone, capitano delle guardie, un Egiziano, lo comprò da quegli Ismaeliti che ce l'avevano condotto.
- Il Signore era con Giuseppe: a lui riusciva bene ogni cosa e stava in casa del suo padrone egiziano.
- Il suo padrone vide che il Signore era con lui e che il Signore gli faceva prosperare nelle mani tutto ciò che intraprendeva.
- E il Signore fu con Giuseppe, gli mostrò il suo favore e gli fece trovare grazia agli occhi del governatore della prigione.
- Così il governatore della prigione affidò alla sorveglianza di Giuseppe tutti i detenuti che erano nel carcere; e nulla si faceva senza di lui.
- Il governatore della prigione non rivedeva niente di quello che era affidato a lui, perché il Signore era con lui, e il Signore faceva prosperare tutto quello che egli intraprendeva.
GIOSUÈ 1
- Nessuno potrà resistere di fronte a te tutti i giorni della tua vita; come sono stato con Mosè, così sarò con te; io non ti lascerò e non ti abbandonerò.
- Sii forte e coraggioso, perché tu metterai questo popolo in possesso del paese che giurai ai loro padri di dar loro.
- Solo sii molto forte e coraggioso; abbi cura di mettere in pratica tutta la legge che Mosè, mio servo, ti ha data; non te ne sviare né a destra né a sinistra, affinché tu prosperi dovunque andrai.
- Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo, giorno e notte; abbi cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai.
- Non te l'ho io comandato? Sii forte e coraggioso; non ti spaventare e non ti sgomentare, perché il Signore, il tuo Dio, sarà con te dovunque andrai».
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Netanyahu: “La pace con l’Arabia Saudita creerà un nuovo Medio Oriente”
Nell’intervento all’Assemblea generale dell’Onu, il premier israeliano conferma l’intesa sui negoziati per la normalizzazione con Riad dopo che il principe bin Salman aveva definito i due Paesi “sempre più vicini”.
di Paolo Mastrolilli
NEW YORK - «Non c’è dubbio che gli Accordi di Abramo abbiano segnato l’alba di una nuova era di pace. Ma credo che siamo sull’orlo di una svolta ancora più sensazionale, una pace storica tra Israele e Arabia Saudita. Questa pace creerà davvero un nuovo Medio Oriente». Così ha parlato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, intervenendo all’Assemblea Generale dell’Onu, due giorni dopo il suo bilaterale con il presidente americano Biden. La conferma dunque che il negoziato procede, nonostante la prudenza e le riserve avanzate nei giorni scorsi da Riad.
L’intesa per normalizzare le relazioni tra l’Arabia e lo Stato ebraico, per quanto è trapelato finora, si basa sulle garanzie di sicurezza che gli Stati Uniti dovrebbero dare ai sauditi, in particolare per proteggerli da eventuali attacchi dell’Iran, più la tecnologia per sviluppare un piano nucleare a scopi civili. In cambio però Riad chiede anche concessioni a favore dei palestinesi, finora non chiarite in pubblico. Questo è uno degli ostacoli per concludere l’accordo, in particolare perché alcuni alleati di governo del premier non sarebbero favorevoli a restituire i territori necessari a far nascere uno stato arabo nelle zone contese. Inoltre vanno definiti i dettagli delle garanzie militari fornite dagli Usa, non al livello della Nato, ma abbastanza stringenti, e della tecnologia atomica da trasferire, affinché non possa essere utilizzata allo scopo di costruire armi.
Netanyahu però ha espresso ottimismo dal podio dell’Onu, dicendo che l’accordo è a portata di mano. Ha aggiunto che «i palestinesi potrebbero beneficiarsi enormemente di una pace più ampia. Dovrebbero essere parte del processo, ma senza avere un potere di veto».
Il suo intervento ha provocato anche polemiche, perché ha mostrato una cartina geografica in cui i territori occupati risultano parte di Israele.
Poi ha detto che per contenere il regime degli ayatollah, «l’Iran deve fronteggiare una credibile minaccia nucleare». Poco dopo l’ambasciatore all’Onu Gilad Erdan è intervenuto per correggere, chiarendo che il premier intendeva «minaccia militare», come è sempre stata la politica dello Stato ebraico.
Netanyahu non è entrato nei dettagli delle questioni ancora irrisolte, ma anche il principe saudita Mohammed bin Salman ha detto in un’intervista con la Fox News che «ogni giorno ci avviciniamo alla normalizzazione». Poi però ha aggiunto: «Per noi, la questione palestinese è molto importante. Abbiamo bisogno di risolvere questa parte».
(la Repubblica, 23 settembre 2023)
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Arabia-Israele - “L’intesa che fa comodo agli Usa ancora non esiste, ecco perché”
L’ Israele-Arabia Saudita non esiste: restano i nodi del nucleare e dei palestinesi. Gli Usa lo vogliono per dedicarsi all’Indo-Pacifico
di Paolo Rossetti
L’accordo di per sé sarebbe storico: lo stesso premier israeliano Netanyahu all’Onu lo ha dato per vicino. Israele e Arabia Saudita sono due attori che nello scenario mediorientale sono da sempre su posizioni opposte. E la possibilità di un accordo di pace, di una normalizzazione delle loro relazioni sarebbe, per tutta l’area, ma anche a livello globale, un contributo notevole alla distensione. Quell’intesa che secondo alcuni è a un passo, però, si gioca su temi così complessi che prima di cantare vittoria è meglio essere prudenti.
Anche Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa per il Cesi (Centro studi internazionali), ritiene che l’accordo, promosso e sollecitato dall’amministrazione Biden, sia ancora complicato da definire. L’avvio di un programma nucleare per l’Arabia e la questione palestinese non sono argomenti su cui le parti possano trovare così facilmente un punto di incontro. Il confronto, comunque, prosegue e la storia insegna che a volte anche due Stati che sono stati acerrimi nemici possono trovare un terreno comune su cui incontrarsi.
- L’accordo Israele-Arabia Saudita è veramente a un passo, come sostiene Mohamed Bin Salman? L’intesa non esiste ancora. È evidente che le leadership spingono per un accordo, ma mentre il principe ereditario Mohamed Bin Salman diceva a Fox news che è praticamente fatto, c’è stato un comunicato abbastanza duro del ministero degli Esteri di Riad in cui si condannava l’ultima azione israeliana nei confronti dei palestinesi. È su questo punto che c’è la divisione maggiore. Questa imminenza dell’accordo, quindi, è presumibile dire che non ci sia. Ci sono diversi segnali che spingerebbero le parti a ricercare un’intesa.
- Che vantaggi porterebbe l’intesa alle parti in causa? Per Biden sarebbe un grande risultato da poter rivendere in ottica elettorale, in vista delle presidenziali del prossimo anno. Dal punto di vista strategico potrebbe avere un impatto notevole anche sulla stabilità e sulla rimodulazione del Medio Oriente, anche in un’ottica anti-cinese e anti-russa. Pochi mesi fa la Cina, anche grazie all’azione di altri attori regionali, si era resa protagonista di un’azione distensiva tra Iran e Arabia Saudita e tutti hanno parlato della creazione di un nuovo Medio Oriente. In realtà entrambe le situazioni stanno contribuendo a dare una nuova forma alla regione, nella quale ci sono più attori interni ed esterni interessati a costruire un’area geopolitica in termini nuovi e gli attori regionali sono sempre più rilevanti anche per gli attori esterni. Penso alle grandi potenze: Usa, Russia o Cina. L’intesa, comunque, se mai ci sarà, dovrà avere diversi passaggi prima di ottenere una forma definitiva.
- Dove stanno le maggior complicazioni? Sia nell’ottica saudita che in quella israeliana questo accordo deve comprendere alcuni elementi. Per i sauditi non c’è solo la componente palestinese, che è importante soprattutto dal punto di vista della legittimità popolare araba, che dà importanza a questo dossier più delle proprie leadership. Occorre soddisfare la loro richiesta di riconoscimento del nucleare. In Medio Oriente l’unico Paese dotato di un ordigno nucleare è Israele e questo garantisce un vantaggio strategico notevole. Rafforzare un Paese che potrebbe divenire partner può avere delle conseguenze notevoli dal punto di vista delle scelte di politica estera. L’accordo deve passare da un confronto interno alla stessa leadership israeliana.
- Gli americani hanno così bisogno di riprendere quota in Medio Oriente da essere disposti anche a concedere il nucleare ai sauditi? Non dobbiamo pensare che gli Usa siano un attore così in uscita dal Medio Oriente: in realtà se guardiamo al rapporto con l’Arabia Saudita, pur essendoci grandi frizioni, il livello di profondità delle relazioni non è neanche lontanamente paragonabile a quello che Riad ha con Cina e Russia. Gli Usa hanno bisogno di questa intesa per sfilarsi sempre di più dalle sabbie mobili mediorientali. Hanno le necessità di demandare gran parte del loro coinvolgimento politico e militare a questi attori locali, che si professano potenze in grado di poter gestire un’area come questa. L’intesa serve agli americani per sganciarsi, minimamente o in buona parte, dal Medio Oriente per poi ritarare la loro azione nell’Indo-Pacifico in funzione anti-cinese e anti-russa.
- Le posizioni di Israele e Arabia Saudita sulla questione palestinese sono molto lontane, come faranno a trovare un accordo? È molto difficile ma non impossibile, se si vuole. Per far incastrare tutti i tasselli, comunque, ce ne vuole. Tuttavia, come disse Trump in occasione del suo piano di pace per il Medio Oriente, questo sarebbe l’accordo del secolo. Allo stato attuale vedo troppe difficoltà perché possa andare in porto.
- Perché Israele dovrebbe firmare un accordo del genere, quali vantaggi ne trarrebbe? Israele ha interesse a stabilizzare le sue relazioni con il più grande Paese arabo musulmano, con un’economia importante, con un mercato che fa gola, ma la vera questione è se questa intesa convenga più a Riad che a Gerusalemme. Gli israeliani non hanno mai nascosto la loro disponibilità all’intesa, il punto è che non sono disposti a cedere sulla questione palestinese.
- Il governo Netanyahu deve fare i conti con una forte opposizione interna contraria alla sua riforma della giustizia. Ha la forza per far accettare un accordo con l’Arabia alle sue componenti più estremiste? - Anche per gli accordi di Oslo, di cui ricorrono i trent’anni, c’erano grandi aspettative e sappiamo come è andata a finire: a volte le firme possono nascondere diversi tranelli. Vedo molto difficile che Netanyahu faccia delle aperture, la parte fondamentale della sua coalizione di Governo è costituita dalla destra estrema e questo lo condanna a rispondere in primis ai loro interessi. Parlo di una destra che è divisiva, astiosa nei confronti dei palestinesi, che non accetta un certo tipo di Stato in senso liberale. Per questo vedo molto complicata un’apertura, allo stato attuale, sulla questione palestinese, a meno che venga poi del tutto disillusa, anche in un momento successivo all’intesa. Le parti potrebbero firmare per dare seguito a quello che interessa loro nell’accordo, salvo poi far finta per altri versi che non sia mai esistito se la situazione dovesse precipitare. Non sarebbe neanche la prima volta e soprattutto non sarebbe così impossibile, considerando il personaggio Netanyahu.
(ilsussidiario.net, 23 settembre 2023)
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Netanyahu: «Palestinesi irrilevanti, non hanno diritto di veto su accordi tra Israele e arabi»
La valutazione politica di un giornalista notoriamente anti-israeliano. NsI
di Michele Giorgio,
GERUSALEMME - Ieri nel momento in cui l’esercito israeliano cannoneggiava Gaza, da dove erano stati lanciati palloncini incendiari, e poco dopo l’uccisione a Jenin di un altro giovane palestinese, Benyamin Netanyahu si è rivolto all’Assemblea generale dell’Onu per chiedere che venga negato ai palestinesi dei Territori, sotto occupazione israeliana da 56 anni, la facoltà di condizionare la normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Stato ebraico alla realizzazione del loro diritto alla libertà e all’indipendenza. I palestinesi sono il 2% degli arabi quindi, ha detto il premier israeliano, «non dobbiamo dargli il diritto di veto». A giudizio di Netanyahu, gli Accordi di Abramo del 2020 – tra Israele e quattro paesi arabi – hanno «annunciato l’alba di un nuovo Medio oriente». E ora, ha proseguito, «all’alba di una pace storica con l’Arabia saudita, altri Stati arabi seguiranno e rafforzeranno la possibilità di pace con gli israeliani, forgiando legami tra ebrei e musulmani».
Quanto sia stato ingigantito da Netanyahu lo stato (presunto) avanzato della trattativa indiretta con i sauditi – condotta dagli Usa – e con esso la normalizzazione imminente tra Riyadh e Tel Aviv, è difficile stimarlo. Il governo israeliano brama l’ingresso dei Saud negli Accordi di Abramo. Sarebbe un risultato enorme per Netanyahu e ne ha bisogno Joe Biden per aiutare, con un successo diplomatico, la futura campagna per le presidenziali. Da Riyadh però arrivano segnali ambigui. Qualche giorno fa, l’Arabia saudita ha ribadito che viene prima lo Stato di Palestina. Poco dopo l’erede al trono Mohammed bin Salman ha ridimensionato il peso dei diritti palestinesi.Altrettanto importanti le accuse che Netanyahu ha rivolto ieri all’Iran, condite da frasi inquietanti: Teheran, ha detto, «deve affrontare una minaccia nucleare credibile».
(il manifesto, 23 settembre 2023)
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L’Arabia Saudita verso la “normalizzazione” dei suoi rapporti con Israele
L’Arabia Saudita e Israele si stanno “avvicinando” a un accordo per normalizzare le loro relazioni, ha detto mercoledì il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Israele ha già normalizzato le relazioni con cinque paesi arabi, ma un simile accordo sarebbe storico, dato il peso del regno nella regione.
“Ci avviciniamo ogni giorno di più”, ha detto Mohammed bin Salman in un’intervista al canale Fox News, mentre il presidente americano Joe Biden ha incontrato a New York il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
“Per noi la questione palestinese è molto importante. Dobbiamo risolverla”, ha tuttavia sottolineato, parlando in inglese in modo rilassato, in questa intervista realizzata in Arabia Saudita. Secondo lui “finora i negoziati stanno procedendo bene”.
“Speriamo che portino a un risultato che renda la vita più facile ai palestinesi e permetta a Israele di svolgere un ruolo in Medio Oriente”, ha aggiunto MBS.
Il leader saudita ha quindi smentito le notizie di stampa che parlavano di una “sospensione” dei colloqui con Israele.
Un riavvicinamento riuscito tra Arabia Saudita e Israele avrebbe un profondo impatto in Medio Oriente, ha commentato mercoledì il capo della diplomazia americana Antony Blinken in un’intervista alla ABC. Ciò avrebbe un “effetto potente sulla stabilizzazione della regione, sull’integrazione della regione, sull’avvicinamento delle persone”, ha affermato.
• “Tradimento” della Palestina
Questa possibile normalizzazione potrebbe implicare garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti per la monarchia petrolifera. Interrogato su questo argomento, Mohammed bin Salman ha ricordato che i legami tra Riyadh e Washington risalgono a ottant’anni fa e che un possibile accordo di sicurezza tra le due nazioni “rafforzerebbe” la loro cooperazione militare ed economica, senza ulteriori dettagli.
Il presidente iraniano Ebrahim Raïssi ha reagito mercoledì sera, dichiarando che un’eventuale normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita costituirebbe un tradimento della causa palestinese.
“Crediamo che un rapporto tra i paesi della regione e il regime sionista sarebbe un colpo alle spalle del popolo palestinese e della resistenza palestinese”, ha detto in una conferenza stampa a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York.
• Diplomazia molto attiva nella regione
Israele ha già normalizzato le relazioni con cinque paesi arabi: Bahrein, Egitto, Giordania, Marocco ed Emirati Arabi Uniti.
Tuttavia, il presidente iraniano ha anche accolto con favore lo “sviluppo” delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita. Le due storiche potenze rivali del Medio Oriente (la monarchia saudita sunnita e la Repubblica islamica iraniana sciita) hanno avviato una normalizzazione a sorpresa la scorsa primavera, sotto l’egida della Cina.
(dayFRitalian, 22 settembre 2023)
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Una festa speciale per Israele
Il Giorno dell'Espiazione Yom Kippur è considerato lo Shabbat per eccellenza. In questo giorno gli ebrei digiunano dal tramonto al tramonto. In Israele la vita pubblica si ferma.
di Elisabeth Hausen
Il 10° giorno dell'anno, gli ebrei celebrano il Grande Giorno dell'Espiazione, Yom Kippur. Quest'anno inizia la sera del 24 settembre.
Gli ebrei trascorrono la maggior parte della giornata in preghiera. Yom Kippur è l'unico giorno in cui si recitano le cinque preghiere prescritte. La preghiera della sera (Aravit o Ma'ariv), quella del mattino (Shacharit) e quella del pomeriggio (Mincha) sono comunque consuete.
Come in altri giorni di festa, ci sono preghiere speciali aggiuntive che vengono raggruppate sotto il termine "Mussaf". La preghiera Ne'ila, che viene recitata dopo la preghiera del pomeriggio, è unica nel suo genere. Tra le altre cose, chiarisce che l'uomo può scegliere di vivere secondo i comandamenti di Dio.
Esodo 23:26-32 dice:
"Il Signore parlò a Mosè dicendo: "Il decimo giorno di questo settimo mese è il giorno dell'espiazione. Farete una santa convocazione, digiunerete e offrirete sacrifici di fuoco all'Eterno; e non farete alcun lavoro in quel giorno, perché è il giorno dell'espiazione, per fare l'espiazione per voi davanti all'Eterno, il vostro Dio. Perché chi non digiunerà in quel giorno sarà eliminato dal suo popolo. E chiunque farà un lavoro in quel giorno, lo eliminerò dal suo popolo. Perciò non farete alcun lavoro. Questa sarà un'ordinanza perpetua tra i vostri discendenti, ovunque abitiate. Sarà per voi un sabato solenne e digiunerete. Il nono giorno del mese, la sera, osserverete questo giorno di riposo, dalla sera alla sera".
• Anche gli ebrei laici digiunano
Come comandato dalla Bibbia, la vita pubblica in Israele si ferma in questo giorno. Molto più che in un normale Shabbat, gli ebrei si astengono dal guidare se non in caso di emergenza. Le strade aperte sono popolate da bambini in bicicletta, skateboard e pattini a rotelle.
I giornali laici online dicono che riprenderanno la loro copertura dopo la fine del digiuno. Anche molti ebrei che si definiscono laici si recano in sinagoga e digiunano durante lo Yom Kippur.
In sinagoga si legge il Libro di Giona. Il profeta biblico resistette all'ordine di Dio di predicare un sermone di pentimento al popolo di Ninive. Si imbarcò invece su una nave che lo avrebbe portato il più lontano possibile nella direzione opposta, verso ovest, a Tarsis, in Spagna. Ma Dio lo portò al pentimento, predicò il giudizio agli abitanti di Ninive ed essi desistettero dalle loro vie malvagie. La città nell'attuale Iraq non fu distrutta perché Dio rispose con grazia alla volontà di pentimento degli abitanti.
• Diverse sfaccettature del "perdono
In ebraico ci sono tre parole per "perdono": slicha, mechila e kappara. Nella vita quotidiana in Israele, "slicha" si sente spesso quando qualcuno chiede scusa per aver urtato accidentalmente qualcuno nella folla.
Oltre a perdonare, la parola "mechila" può anche significare scavare un tunnel, ad esempio quando i prigionieri scappano da una prigione in questo modo. Tradotto, significa che chi perdona una persona la ferita che ha subito si libera del fardello ad essa associato.
L'espressione "kappara", a sua volta, è legata a "kippur". L'accento è posto sulla purificazione. Grazie al perdono, è come se l'atto non fosse mai avvenuto. Questo rende possibile la riconciliazione.
Alcune persone macellano un gallo durante lo Yom Kippur. Questo gallo va incontro alla morte per conto della persona. La cerimonia si chiama "Kapparot".
• La grazia del Creatore al centro
L'enciclopedia ebraica "Mo'adei Jissrael" (Le feste di Israele), a cura di Joel Rappel, dice: "L'idea centrale all'origine di questo giorno speciale è la grazia del Creatore dell'uomo, che lo chiama al pentimento ed è pronto a espiare i peccati di chi si purifica davanti a Lui".
Già nei giorni e nelle settimane che precedono lo Yom Kippur, la ricerca del pentimento e le preghiere Slichot dominano la vita ebraica. Molti si riuniscono di notte al Muro del Pianto e nelle sinagoghe per chiedere il perdono di Dio per le loro trasgressioni.
Il tradizionale corno di montone, lo shofar, annuncia la fine della festa. Secondo la credenza ebraica, in questo momento Dio suggella il suo giudizio sul prosieguo della vita dei fedeli. Come per lo Shabbat, la preghiera Havdala, che separa il sacro dal profano, segna l'inizio della routine quotidiana. Ora i digiunanti ricominciano a mangiare e a bere. Alcuni iniziano già a costruire la capanna per l'imminente festa di Sukkot.
• La guerra dello Yom Kippur 50 anni fa: Attacco a sorpresa nel giorno del digiuno
50 anni fa, il 6 ottobre 1973, le truppe arabe attaccarono Israele durante la festività. Nonostante la sorpresa, gli israeliani riuscirono a vincere la guerra appena tre settimane dopo, anche se con gravi perdite. Passò alla storia come la Guerra dello Yom Kippur. Gli arabi la chiamano "guerra d'ottobre".
(Israelnetz, 22 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il presidente della Lituania rende omaggio a chi salvò i libri del Ghetto di Vilna durante la Shoah
L'Istituto YIVO per la Ricerca Ebraica, organizzazione che ha il compito di preservare, studiare e condividere la conoscenza della storia e della cultura degli ebrei dell'Europa orientale in tutto il mondo, ha accolto lunedì scorso per l’affissione di due targhe il presidente della Lituania, Gitanas Nausėda. L’evento, ha riportato il canale israeliano Arutz 7, si è tenuto presso la Strashun Rare Book Room dell’Istituto YIVO, che si trova a Manhattan.
Il Capo di Stato lituano ha reso omaggio alla “Paper Brigade”, il gruppo di ebrei guidato da Avrom Sutzkever e Shmerke Kaczerginski, che tra il 1942 e il 1943 contrabbandarono centinaia di migliaia di libri, documenti e manufatti ebraici dalla furia nazista, e Antanas Ulpis, l’allora direttore della Camera nazionale del libro lituana, che nel 1948 salvò e nascose questi materiali nella chiesa di San Giorgio dai sovietici, che intendevano distruggere ogni memoria della cultura ebraica.
La cerimonia di lunedì, oltre ad onorare l'eroismo di coloro che hanno salvato questi preziosi documenti, ha segnato anche il decimo anniversario della cooperazione tra l’Istituto YIVO e la Lituania. Grazie al contributo dell'attuale direttore esecutivo e CEO, Jonathan Brent, a partire dal 2011 l’istituto ha ristabilito la sua presenza in Lituania, nello specifico a Vilnius, dove si trovava l’antico Ghetto. Nel 2015 invece, l’organizzazione ebraica e gli Archivi centrali di Stato lituani hanno avviato un progetto congiunto per digitalizzare i documenti archiviati, che è stato completato l’anno scorso.
“Sono lieto di onorare gli atti eroici e coraggiosi di Antanas Ulpis e della Paper Brigade nel salvare gran parte dell'archivio prebellico di YIVO dalla distruzione. - , ha affermato il presidente lituano Nausėda. - Le loro azioni hanno consentito la perpetuazione dell’eredità storica, culturale e intellettuale degli ebrei lituani”.
“Senza i membri della Paper Brigade e di Antanas Ulpis, questi materiali sarebbero perduti per sempre. - ha aggiunto il CEO dell’Istituto YIVO Jonathan Brent - Siamo onorati di poter riconoscere, insieme al presidente lituano, lo straordinario coraggio di questi individui e il loro contributo alla preservazione della storia e della cultura ebraica”.
I documenti salvati da queste persone durante la Shoah costituiscono il cuore della collezione dell’Istituto YIVO, fondata nel 1925 grazie al sostegno di importanti intellettuali e studiosi, tra cui Albert Einstein e Sigmund Freud. La collezione è composta da circa 24 milioni di oggetti, ed è la raccolta più ampia e completa di materiali provenienti dalle comunità ebraiche dell'Europa orientale. L’organizzazione ebraica custodisce inoltre la più grande collezione di libri, opuscoli e giornali in lingua yiddish al mondo.
(Shalom, 22 settembre 2023)
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Una nuova iniziativa del Chelsea per combattere l’antisemitismo nella tifoseria
di Jacqueline Sermoneta
Il Chelsea Football Club, storica società calcistica londinese, ha lanciato ufficialmente un nuovo gruppo di tifosi ebrei. L’annuncio è avvenuto proprio in occasione della vigilia del nuovo anno ebraico. “Per celebrare Rosh Ha-Shana, siamo lieti di lanciare il gruppo di supporter ebrei del Chelsea FC, le iscrizioni ora sono aperte” ha affermato il club in una nota. Lo riporta la Jewish Telegraphic Agency.
La decisione segue quella dell’Arsenal, altra famosa squadra londinese, che ad aprile scorso aveva creato il gruppo “Jewish Gooners”.
Negli ultimi anni entrambe le squadre hanno affrontato episodi di antisemitismo nelle tifoserie. In precedenza, sotto la guida dell’ex proprietario del Chelsea, Roman Abramovich, è stata promossa una campagna di sensibilizzazione contro l’antisemitismo e sono state incrementate le iniziative, in collaborazione anche con l’Anti-Defamation League. Inoltre, è stato realizzato un murale commemorativo dei calciatori ebrei deportati ad Auschwitz, fuori allo stadio Stamford Bridge. Tra le decisioni del club, c'è stata quella di bandire per sempre dallo stadio i supporter colpevoli di comportamento razzista e antisemita o di farli partecipare ad attività rieducative, che prevedono, tra le altre, la visita al campo di sterminio di Auschwitz.
"Come tifoso del Chelsea, da sempre, sono impressionato e orgoglioso del lavoro svolto dal club per combattere l'antisemitismo e la discriminazione - ha affermato Stephen Nelken, fondatore del nuovo gruppo di tifosi - L'obiettivo del gruppo è quello di celebrare l'identità ebraica, sostenere l'eccellente lavoro che il club sta svolgendo e incoraggiare i tifosi che la pensano allo stesso modo a unirsi per sostenere il Chelsea".
Lord John Mann, consulente per l’antisemitismo del Governo britannico, ha applaudito alla decisione, esortando le altre squadre di calcio a seguire l’esempio.
"Sono così felice di vedere la creazione del primo gruppo di tifosi ebrei del Chelsea FC. - ha detto Mann, come riporta la nota del club - Il gruppo offrirà una brillante opportunità ai tifosi ebrei di celebrare la loro cultura mentre si divertono seguendo lo sport che amano. Il Chelsea è stato pioniere nei suoi sforzi e nella sua dedizione per sradicare l’antisemitismo dal calcio e dalla società, e la creazione di questo gruppo ne è un altro esempio”.
Il nuovo gruppo terrà il suo primo evento il prossimo 11 dicembre durante la festa ebraica di Chanukkà.
(Shalom, 22 settembre 2023)
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Biden a Zelensky: “Vi armiamo ancora”. Ma i repubblicani aprono la fronda
22 Settembre 2023
NEW YORK — Niente missili a lungo raggio, almeno per ora, nonostante un nuovo pacchetto di forniture militari da 325 milioni di dollari, e niente discorso alle Camere in seduta congiunta, perché i repubblicani restano scettici su durata e dimensioni dell’impegno americano al fianco dell’Ucraina invasa dalla Russia. La missione di ieri a Washington del presidente Volodymyr Zelensky è stata importante, perché gli ha consentito di fare nuove pressioni sugli Usa, avvertendoli che «se non riceveremo i vostri aiuti perderemo la guerra». Però ha anche messo in evidenza tutti i problemi che minacciano di deragliare la resistenza all’aggressione ordinata da Putin, mentre la controffensiva fatica a raggiungere i suoi obiettivi, alimentando le discussioni sulla necessità di rilanciare le iniziative per trovare una soluzione diplomatica.
Reduce dalla visita all’Onu, per l’intervento all’Assemblea Generale e la sfida in Consiglio di Sicurezza contro il ministro degli Esteri russo Lavrov, ieri Zelensky è volato a Washington per andare al Congresso, al Pentagono e alla Casa Bianca. Dunque un’accoglienza al massimo livello, per confermare il sostegno degli Stati Uniti, ricevere nuovi aiuti e discutere lo stato della guerra per aggiornare la strategia. Il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan ha anticipato ai giornalisti che il nuovo pacchetto da 325 milioni di dollari contiene «significative difese aeree», per proteggere le città e aiutare la controffensiva. Oltre alle munizioni da 155 millimetri per gli obici Howitzer, ci sono bombe a grappolo, difese aeree a corto raggio Avenger, armi anti carro Tow e AT4, Javelin, razzi Gmlrs e Himars. Mancano però gli Atacms, ossia i missili a lungo raggio che Kiev chiede da tempo per colpire le retrovie russe, i centri logistici, e le basi in Crimea. Sullivan ha detto che la possibilità di fornirli resta sul tavolo, ma non ora, perché Washington teme ancora che vengano usati per attaccare il territorio di Mosca.
Al Congresso Zelensky ha ricevuto appoggio pieno al Senato, ma alla Camera lo Speaker McCarthy ha le mani legate dalla fronda dei deputati più estremisti che lo ricattano per tagliare le spese, inclusi gli aiuti all’Ucraina, seguendo le indicazioni di Trump. Il Gop è spaccato, non trova l’accordo sulla legge di bilancio generale per evitare lo shutdown delle attività statali, e quindi McCarthy è costretto a dire che non firmerà assegni in bianco, avvertendo che i 24 miliardi di assistenza a Kiev chiesti da Biden dovranno essere approvati separatamente e in base al loro merito. Al Pentagono invece Zelensky ha fatto il punto sull’andamento della guerra e come accelerare i risultati della controffensiva.
Alla Casa Bianca poi ha fatto un bilancio complessivo, ma il presidente gli ha chiesto di discutere anche gli scenari per mettere fine alla guerra con una soluzione diplomatica.
(la Repubblica, 22 settembre 2023)
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Irlanda: aperto primo ristorante kasher da decenni
di Nathan Greppi
A marzo ha aperto a Dublino, presso la sede locale del movimento Chabad-Lubavitch, il primo ristorante kasher d’Irlanda dagli anni ‘60: il Deli 613, situato nella zona sud della città, e che in questi sei mesi dall’inaugurazione ha ottenuto un riscontro largamente positivo sia da parte della comunità ebraica locale, che tra la popolazione nel suo complesso.
Come riporta il Times of Israel, il ristorante offre un’ampia scelta tra piatti tipici irlandesi kasher, quali panini di roast beef salato e aringhe a fette, e quelli della cucina israeliana, come la pita con shawarma e i falafel. A maggio, il quotidiano Irish Times gli ha dato un’ottima recensione, con un punteggio di 4 stelle e mezzo su 5.
“Abbiamo un banco pieno di cibo, scaffali e un intero frigorifero con prodotti da asporto come panini e insalate”, ha spiegato Rifky Lent, che gestisce il ristorante assieme al marito Rav Zalman, rabbino ed emissario Chabad che vive in Irlanda dal 2000. “Abbiamo anche prodotti tipici, come il hummus, la tahina, fegato a fette e aringhe, che prepariamo in casa”.
La Lent ha dichiarato che “abbiamo deciso di assumere un ottimo chef con molta esperienza nel mercato culinario irlandese, che non è ebreo. È stato molto entusiasta all’idea di provare qualcosa di nuovo e diverso”, aggiungendo che per la kashrut è stato affiancato da un cuoco ebreo che lavora in cucina part-time.
Oltre ad una popolazione ebraica con un’età media elevata, a Dublino negli ultimi anni si sono trasferiti diversi israeliani, essendo la capitale irlandese un’importante centro per le start-up e le aziende high-tech. Secondo il World Jewish Congress, la popolazione ebraica in Irlanda era di circa 2.500 persone nel 2018, concentrate quasi tutte a Dublino.
I Lent si sono impegnati nel garantire a tutta la comunità forniture di cibo kasher: prima della Brexit, gli ebrei irlandesi erano abituati a rifornirsi attraverso il Regno Unito, ma da quando quest’ultimo è uscito dall’UE sono aumentati sia i costi di spedizione che i problemi burocratici, quali i moduli da compilare. Per ovviare al problema, anche la sinagoga di Dublino ha aperto un banco di prodotti kasher, ma si tratta solo di una soluzione a breve termine.
(Bet Magazine Mosaico, 22 settembre 2023)
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Israele, l’ONU e le leggende
Il diritto giuridico di Israele ad occupare la sua terra è l'aspetto più tenacemente contestato dagli anti-israeliani e altrettanto poco difeso, anche per scarsa conoscenza, dagli israeliani. NsI
di David Elber
Tra gli innumerevoli danni provocati dal falso mito della Risoluzione 181, bisogna annoverare anche quello relativo alla sua iniziale accettazione da parte del Consiglio provvisorio del neo nato Stato di Israele. Questo fatto, per molti detrattori di Israele, costituirebbe un obbligo legale “mai venuto meno”.
Cercheremo qui di fornire tutti gli elementi per fare comprendere come tale tesi sia, al pari di molte altre relative alla 181, un mito privo della benché minima valenza legale.
Innanzitutto è opportuno descrivere come si presentava la situazione nell’imminenza della dichiarazione di indipendenza di Israele e quali fossero le priorità della dirigenza ebraica.
La prima cosa da sottolineare è la completa ostilità del mondo arabo, sia della locale popolazione araba che, già a partire dai primi mesi del 1947, aveva avviato una guerra civile a bassa intensità che si inasprì subito dopo l’approvazione della Risoluzione 181, sia da parte degli Stati arabi già esistenti che dichiararono l’intenzione di annichilire il futuro Stato ebraico.
A questa ostilità va aggiunta quella della Gran Bretagna, che, in qualità di Potenza mandataria, aveva invece dei precisi obblighi nei confronti del popolo ebraico. In pratica, tuttavia, fin dal 1922 i diversi governi inglesi attuarono una politica che era l’esatto opposto di quanto previsto dal Mandato, ovvero lo smantellamento sistematico delle vincolanti disposizioni mandatarie atte alla realizzazione di uno Stato per il popolo ebraico. Questa politica fu attuata principalmente tramite i dettami dei libri bianchi del 1922, 1930 e soprattutto del 1939. A ciò si deve aggiungere la totale ostilità verso gli ebrei dovuta a ragioni politiche, e, di conseguenza, il pieno appoggio alla causa araba, che si manifestò appieno a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Questi ne furono i passi principali: creazione della Lega araba (1945); chiusura del territorio mandatario anche ai sopravvissuti della Shoah (1945-1947), astensione in occasione della votazione della Risoluzione 181 (1947) e questo, di fatto, equivaleva ad un voto contrario, addestramento, armamento e conduzione con ufficiali britannici della Legione araba, astensione alla richiesta di Israele per essere ammesso all’ONU (1949).
All’elenco va aggiunta l’aperta ostilità del Dipartimento di Stato americano verso l’ipotesi di indipendenza dello Stato di Israele che si fece feroce a partire dal marzo del 1948.
La dirigenza ebraica si trovò “costretta” ad accettare la proposta ONU di spartizione del territorio, già assegnato al popolo ebraico dalla Società delle Nazioni, pur di aver un minimo appoggio politico internazionale (che sperava potesse essere anche militare in caso di attacco arabo) e soprattutto per potere liberamente accogliere le centinaia di migliaia di sopravvissuti della Shoah che erano detenuti nei campi di concentramento inglesi a Cipro, in Germania, in Austria e nelle colonie africane e asiatiche. Questa era la più grande priorità.
• LA RISOLUZIONE 181
È cosa risaputa che, mentre gli arabi (e i britannici come vedremo) non accettarono la proposta dell’ONU, la dirigenza ebraica la accettò nonostante fosse molto penalizzante per il popolo ebraico. È cosa meno risaputa, che tale accettazione sia stata formalizzata dai padri costituenti nella Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Israele e precisamente in tre differenti passaggi, che si riportano in inglese (la Dichiarazione fu redatta in ebraico). Il primo dei tre lo si trova nel preambolo:
“…On the 29th November, 1947, the United Nations General Assembly passed a resolution calling for the establishment of a Jewish State in Eretz-Israel; the General Assembly required the inhabitants of Eretz-Israel to take such steps as were necessary on their part for the implementation of that resolution. This recognition by the United Nations of the right of the Jewish people to establish their State is irrevocable…”.
Poi, successivamente, il secondo lo si trova in un paragrafo relativo alla parte operativa della Dichiarazione vera e propria:
“…BY VIRTUE OF OUR NATURAL AND HISTORIC RIGHT AND ON THE STRENGTH OF THE RESOLUTION OF THE UNITED NATIONS GENERAL ASSEMBLY, ...”
Infine, il terzo lo si trova in un altro paragrafo della Dichiarazione:
“…THE STATE OF ISRAEL is prepared to cooperate with the agencies and representatives of the United Nations in implementing the resolution of the General Assembly of the 29th November, 1947, and will take steps to bring about the economic union of the whole of Eretz-Israel.”.
Come si può ben vedere l’accettazione da parte ebraica fu chiara e formale.
Proveremo a fare alcune considerazioni in merito a questi passaggi presenti nella Dichiarazione di indipendenza e poi cercheremo di capire, se essi siano vincolanti in aeternum per Israele.
Il primo passaggio relativo alla Risoluzione 181, è una semplice menzione della stessa nella quale si ribadisce che a Israele è richiesto di implementarla, quindi nulla di vincolante se non per il fatto che, essendo essa citata, viene vista come “fonte di diritto” per la costituzione di Israele, cosa del tutto errata per il diritto internazionale. Di fatto, l’Assemblea Generale, per stesso statuto dell’ONU, non ha il potere di creare gli Stati ma ha solo quello di ammetterli – una volta costituiti – in seno all’organizzazione stessa. Allo stesso modo risulta essere errata la parte finale del medesimo paragrafo: “This recognition by the United Nations of the right of the Jewish people to establish their State is irrevocable”. Questa frase è più un auspicio che una determinazione legale visto che, tra le altre cose, le risoluzioni dell’Assemblea Generale sono revocabili (si pensi ad esempio alla Risoluzione 3379 del novembre 1975 con la quale si equiparava il sionismo al razzismo che fu poi revocata nel 1991 con la Risoluzione 46/86).
La poca dimestichezza dei padri fondatori con il diritto la si evince appieno nella seconda frase presa in esame:
“… By virtue of our natural and historic right and on the strength of the resolution of the United Nations General Assembly, …”.
Qui la confusione tra diritto e politica è totale. Per il diritto internazionale non esiste un “diritto naturale” né tanto meno un “diritto storico”, di questo concetto ne abbiamo già parlato qui su ’L'Informale ma esiste solamente il concetto di “storica connessione”, concetto peraltro ripreso in un’altra parte della Dichiarazione. La stessa cosa vale in merito alla “forza” della risoluzione dell’assemblea Generale che è un mero atto politico e non legale e di conseguenza non può avere “forza” legale ma solo politica. Per questa ragione anche qui è chiaro che Israele non può essere minimamente vincolato in eterno, per giunta ad un atto che non ha nulla di legale ma è solo politico e che, tra l’altro, non è stato mai rispettato da nessuna parte interessata (arabi, Gran Bretagna e Consiglio di Sicurezza).
Il terzo passaggio, come abbiamo visto, si riferisce al fatto che il nascente Stato di Israele si impegna a cooperare con “le agenzie ONU e i suoi rappresentanti” per implementare quanto previsto dalla Risoluzione 181. Si può, anche in questo caso, parlare di “vincolo eterno” relativo, unicamente a Israele per implementare una risoluzione che è rimasta fin da subito lettera morta, mentre le “agenzie ONU e i suoi rappresentanti” non hanno mai fatto nulla per implementarla? No, anche in questo caso, Israele non ha nessun tipo di obbligo né legale né morale.
Come si può vedere, le frasi in oggetto, hanno tutte un carattere politico e non legale. Avrebbero potuto assumere un carattere legale, nel momento in cui anche tutti gli altri attori (arabi, Gran Bretagna, Consiglio di Sicurezza) avessero accettato e implementato la raccomandazione dell’Assemblea Generale secondo il principio legale del pacta sunt servanda. Inoltre, bisogna osservare che, la Gran Bretagna non ha mai permesso ai funzionari ONU di entrare nel territorio mandatario per iniziare l’implementazione, sul terreno, della Risoluzione per la forte pressione esercitata dai paesi arabi. Essa era, in qualità di mandatario, l’unico soggetto autorizzato a farlo. Quindi è chiaro che non è la Risoluzione 181 che ha un potere vincolante in quanto tale, ma è la sua accettazione da parte di tutti i soggetti coinvolti che ne l’avrebbe resa tale. Siccome, di tutti i soggetti coinvolti, il solo Israele ne accettò le proposte mentre tutti gli altri non le accettarono, esse, di conseguenza, non possono essere considerate ex post vincolanti per Israele in quanto rimasero lettera morta. Tale conclusione la si evince anche dai successivi sviluppi della nascita di Israele.
Il primo è più importante passo conseguente alla creazione di Israele fu la sua ammissione all’ONU nel 1949 nella veste di cinquantanovesimo Stato membro. Anche in questo caso i detrattori di Israele sottolineano il riferimento alla Risoluzione 181 presente nella Risoluzione 273 con la quale l’Assemblea Generale ratificava la decisione già presa dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 69. Va ricordato che la procedura di ammissione di uno Stato all’ONU passa prima dal Consiglio di Sicurezza e poi viene ratificata dall’Assemblea Generale e solo dopo questo doppio passaggio si diventa membri dell’ONU a pieno titolo.
Vediamo cosa dice la parte di testo più controversa della Risoluzione 273:
“Recalling its resolutions of 29 November 1947 and 11 December 1948 and taking note of the declarations and explanations made by the representative of the Government of Israel before the Ad Hoc Political Committee in respect of the implementation of the said resolutions.”
Questo paragrafo si trova nel preambolo della Risoluzione la quale, poi, si conclude, nella sua parte operativa, con l’ammissione di Israele all’ONU.
Il fatto che la Risoluzione 273 richiami la Risoluzione 181 è di per se vincolante per Israele? No nel modo più assoluto. Questo perché nel paragrafo dove è presente il richiamo alla Risoluzione 181 si trovano anche le indicazioni relative alle “dichiarazioni” e le “spiegazioni” del rappresentante israeliano (Abba Eban) davanti alla Commissione politica ad hoc incaricata di sentire il parere di Israele. In questa occasione, come si può leggere dai verbali degli incontri, il rappresentante israeliano è stato chiaro: Israele accettava solo le raccomandazioni relative ai luoghi sacri di Gerusalemme mentre tutto il resto veniva rifiutato a causa dell’aggressione araba e del disimpegno ONU verso quest’ultima. La Commissione ad hoc diede il suo parere positivo all’Assemblea Generale che di conseguenza dava il suo assenso all’ingresso di Israele all’ONU. Infatti, nella parte operativa della Risoluzione, l’Assemblea Generale “decide” di ammettere Israele in seno all’ONU, come si evince dal testo della Risoluzione:
- “Decides that Israel is a peace loving State which accepts the obligations contained in the Charter and is able and willing to carry out those obligations;
- Decides to admit Israel to membership in the United Nations.”
Non vi è alcuna menzione alla Risoluzione 181 ma solamente l’accettazione, da parte di Israele, degli obblighi contenuti nello Statuto dell’ONU. Anche qui non ci possono essere dubbi interpretativi.
Ora vediamo l’ultimo capitolo della vicenda.
Nel novembre del 1949 la Commissione politica dell’ONU tornò a riunirsi in merito alla questione dell’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’idea era quella di studiare e poi di proporre una risoluzione da far approvare all’Assemblea Generale con la quale dichiarare Gerusalemme città internazionale. Tutta la questione però non teneva minimamente conto di quello che era successo durante l’ultimo anno e mezzo: aggressione araba del neonato Stato di Israele, occupazione illegale di Giudea, Samaria e di metà Gerusalemme, violazione sistematica da parte dei giordani delle disposizione del cessate il fuoco del 1949 (a tutti gli ebrei oltre che agli israeliani era vietato recarsi nella città vecchia, sistematica distruzione delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici). Così, come se nulla fosse successo, all’ONU si iniziò a dibattere sulla internazionalizzazione della città di Gerusalemme senza neanche accennare alla condanna dell’aggressione operata dagli Stati arabi: in pratica per l’ONU non c’è mai stata aggressione ai danni di Israele né occupazione illegale di parte del suo territorio. A questo punto, il Primo ministro Ben-Gurion formalmente ricusò la Risoluzione 181 il 5 dicembre 1949, in un discorso alla Knesset. Tale dichiarazione fu poi approvata formalmente dalla stessa camera. Israele nuovamente ribadiva il suo rifiuto a qualsiasi risoluzione che proponeva lo scorporo di parte del suo territorio e soprattutto sottraeva alla sovranità israeliana la sua capitale.
In conclusione, chi sostiene che Israele debba attenersi alla Risoluzione 181 per la determinazione dei suoi confini o per lo statuto di Gerusalemme dice il falso per ignoranza e/o per malafede.
(L'informale, 22 settembre 2023)
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L'esame della Risoluzione 181 dell'Onu è stato fatto in diverse occasioni su NsI. Ripetiamo qui un articolo già presente sul sito.
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Idee sbagliate sul fondamento giuridico di Israele nel diritto internazionale
di Howard Grief
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Il libro da cui è tratto l'articolo |
E' molto diffusa, anche tra i leader del governo di Israele e tra i media, l'idea errata che lo Stato di Israele derivi la sua esistenza giuridica dalla Risoluzione 181 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, popolarmente nota come Risoluzione di spartizione. Questo fraintendimento è così radicato nel pensiero ufficiale e popolare che è estremamente difficile riuscire a cambiarlo, nonostante le prove schiaccianti del contrario.
Uno dei motivi principali di questo fatto è che l'autonoma Dichiarazione di Indipendenza di Israele perpetua l'errata nozione che è "in forza della Risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite" che i membri del "Consiglio del Popolo", hanno dichiarato la costituzione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948. Un'altra motivazione citata nella Dichiarazione è la frase: "il nostro diritto naturale e storico." Si dice inoltre che "lo Stato di Israele collaborerà con le Nazioni Unite per l'attuazione della Risoluzione dell'Assemblea Generale del 29 novembre 1947, e adotterà le misure necessarie per realizzare l'unione economica di tutta Eretz Israel".
L'errata affermazione, presente nella Dichiarazione di Indipendenza, che lo Stato di Israele basa la sua fondazione "in forza" della Risoluzione di spartizione nasconde, e alla fine cancella, il fatto che il fondamento legale di Israele secondo il diritto internazionale non deriva dalla Risoluzione di spartizione del 1947, che è stata semplicemente una raccomandazione non vincolante senza forza di legge, ma piuttosto dalla Risoluzione di Sanremo del 25 aprile 1920. Quest'ultima ha ricevuto forza di legge quando è stata incorporata nel Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 e poi nei primi tre commi del preambolo del Mandato per la Palestina, ed è stata confermata nel 1922 da 52 Stati, tutti i membri della Società delle Nazioni, e separatamente dagli Stati Uniti nel 1924 in un trattato con il Regno Unito.
La Dichiarazione d'Indipendenza menziona la Dichiarazione Balfour e il Mandato per la Palestina per quanto riguarda la sua parte storica, ma nel giustificare la fondazione dello Stato ebraico nella sua parte operativa trascura questi due documenti, o ne accenna solo indirettamente quando parla di "diritti storici." La Dichiarazione non fa nemmeno riferimento al più importante documento che ha gettato le basi giuridiche dello Stato ebraico: la Risoluzione di Sanremo, che nel 1920 ha trasformato la Dichiarazione Balfour del 1917 da un atto di politica britannica in un atto riconosciuto e giuridicamente vincolante di diritto internazionale.
Questo mostra che anche i leader di Israele che hanno redatto la Dichiarazione d'Indipendenza - di cui i principali autori sono stati David Ben Gurion e Moshe Sharett - erano stranamente inconsapevoli dell'enorme importanza della Risoluzione di Sanremo, perché altrimenti l'avrebbero sicuramente citata come l'autentico documento di fondazione nella proclamazione dello Stato di Israele, invece della Risoluzione di spartizione.
Qualsiasi seria analisi di queste due Risoluzioni dimostrerà che la Risoluzione di spartizione in realtà contraddice la lettera e lo spirito della Risoluzione di Sanremo, in quanto la prima destina illegalmente una parte sostanziale della Palestina occidentale alla creazione di uno stato arabo, territorio che la Risoluzione di Sanremo aveva destinato alla sede nazionale ebraica e futuro Stato ebraico indipendente, basandosi, per la determinazione dei confini della Palestina, sulla formula storico-biblica. Inoltre, nella stessa Risoluzione di Sanremo viene generosamente concessa agli arabi tutta la terra di cui avevano bisogno per il proprio stato, o per più stati, nella parte restante del Medio Oriente. Tenuto conto di questo, l'accettazione sionista della Risoluzione di spartizione fu poco saggia, in quanto quel documento negava i diritti nazionali ebraici e politici già riconosciuti in quella parte della Terra d'Israele che fu assegnata al nuovo stato arabo. Tuttavia, come circostanza attenuante si deve notare che nelle condizioni esistenti nel 1948 c'era un urgente bisogno della immediata dichiarazione di uno Stato ebraico per poter assorbire e sistemare le centinaia di migliaia di rifugiati ebrei senza tetto che continuavano a languire in Europa nei campi profughi di Germania e Polonia dopo la fine della seconda guerra mondiale. La decisione dell'Agenzia Ebraica di accettare l'illegale Risoluzione di spartizione era dunque un atto di disperazione preso sotto costrizione, una condizione che legalmente ne invalidava l'accettazione.
In ogni caso, il rifiuto arabo della Risoluzione di spartizione e la guerra di aggressione scatenata dagli arabi contro il nascente Stato ebraico ha contribuito a invalidare l'accettazione ebraica, cosa che avrebbe permesso a Ben-Gurion di considerare nulla e vuota la Risoluzione di spartizione fin dall'agosto 1948, quando decise di annettere allo Stato ebraico la zona occidentale di Gerusalemme e i suoi dintorni. Fece poi la stessa cosa per tutte le altre zone di Eretz Israel giacenti al di là delle linee di spartizione delle Nazioni Unite conquistate dall'esercito israeliano, o che sarebbero state conquistate in seguito nella guerra d'Indipendenza.
Per attuare la sua decisione Ben-Gurion si basò su una normativa emanata dal Consiglio di Stato provvisorio, che aveva come obiettivo di includere nello Stato di Israele tutte le zone della Terra d'Israele di cui l'esercito era venuto in possesso. Il che fa capire che per Ben-Gurion, cioè, per Israele, la Risoluzione di spartizione era già lettera morta, a causa del rifiuto arabo e della guerra di aggressione.
Non era soltanto la Dichiarazione di indipendenza di Israele a non menzionare la Risoluzione di Sanremo. La stessa cosa era vera per la stessa Risoluzione di spartizione e per il precedente Rapporto per l'Assemblea Generale preparato dal Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (United Nations Special Committee on Palestine, UNSCOP), e consegnato il 31 agosto 1947. Il Rapporto UNSCOP, che fa riferimento alla Risoluzione di Sanremo quando parla della Palestina sotto il Mandato, dice che "il 25 aprile 1920 il Consiglio Supremo delle Potenze Alleate ha deciso di assegnare il Mandato per la Palestina alla Gran Bretagna con lo scopo di dare effetto alla Dichiarazione Balfour".
Questo riferimento non presenta in modo chiaro il significato della Risoluzione di Sanremo come ragion d'essere di un ri-costituito Stato ebraico in Palestina sotto l'egida della Potenza Mandataria. La mancanza di un riferimento specifico alla Risoluzione di Sanremo sia nella Risoluzione di spartizione sia nel rapporto UNSCOP può essere vista come la prova evidente che la comunità internazionale ha voluto dimenticare questo fondamentale documento che, sotto la forma di un accordo inter-alleato tra Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone, ha assegnato al popolo ebraico una Palestina indivisa per la costituzione della sua sede nazionale. Se gli autori dei documenti delle Nazioni Unite del 1947 avessero compreso che la storia diplomatica e legale della Palestina era incapsulata nella Risoluzione di Sanremo, avrebbero esitato a raccomandare che la Palestina occidentale fosse divisa in uno stato ebreo e in uno arabo, perché questa raccomandazione viola non solo la Risoluzione di Sanremo, ma anche l'articolo 5 del Mandato per la Palestina (allora ancora del tutto in vigore), il quale vieta espressamente la spartizione del paese, nonché l'articolo 80 della Carta delle Nazioni Unite 1945, che salvaguarda tutti i diritti ebraici nazionali e politici in Palestina, con l'esclusione di ogni rivendicazione araba sulla terra.
Un'altra diffusa idea sbagliata sulla Risoluzione di spartizione è che essa costituisca un "ordine" delle Nazioni Unite a dividere la Palestina, un'ingiunzione che avrebbe dovuto essere soddisfatta da entrambe le parti, arabi ed ebrei. Questo equivoco è venuto recentemente a galla, ancora una volta, in un editoriale di prima pagina del Jerusalem Post (7 giugno 2010), il quale erroneamente afferma che "lo Stato di Israele è stato fondato 62 anni fa per ordine della comunità internazionale, come la patria della nazione ebraica ..." (corsivo aggiunto).
L'"ordine", come il Jerusalem Post l'ha chiamato, era presumibilmente un riferimento alla Risoluzione di spartizione. Tuttavia, come osservato in precedenza, questa Risoluzione non ha "ordinato", ma solo "raccomandato" la creazione di uno Stato ebraico in una piccola parte dell'originale sede nazionale ebraica. Contrariamente alle affermazioni del quotidiano, lo Stato di Israele non è stato fondato per ordine dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ma piuttosto dall'atto legislativo compiuto da quelli che erano gli organi rappresentativi e responsabili del popolo ebraico nel 1948, e precisamente l'Agenzia Ebraica per la Palestina e l'Organizzazione Sionista Mondiale. Lavorando insieme, questi hanno scelto i membri del Consiglio del Popolo, che hanno proclamato lo Stato di Israele e poi hanno trasformato se stessi nel Consiglio di Stato provvisorio, l'organo legislativo del nuovo Stato. E' da notare che la proclamazione del Consiglio ha seguito diverse direttive raccomandate nella Risoluzione di spartizione per il governo del futuro Stato ebraico.
Ci vorrà un enorme sforzo di ri-educazione per ricordare sia ai leader del governo di Israele, sia al mondo in generale che i diritti legali ebrei in Palestina e in Terra d'Israele non derivano dalla Risoluzione di spartizione del 1947, ma dalla Risoluzione di Sanremo del 1920, la Magna Carta del popolo ebraico. La Risoluzione di Sanremo è infatti la Carta della Libertà ebraica cercata da Theodor Herzl, il quale invano aveva chiesto al Sultano turco di appoggiare la sua visione di un restaurato Stato ebraico in Palestina e Terra di Israele.
(Mideast Outpost, 20 luglio 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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“L’elefante” delle responsabilità palestinesi che non si vuole mai vedere
Perché si dà ogni colpa a Israele quando i capi palestinesi rifiutano la pace e causano morte e rovina a entrambi i popoli?
C’è un mistero che andrebbe risolto e, dopo più di due decenni di sconcerto, penso che dovrei poterlo sbrogliare. Il mistero ruota attorno a una domanda: perché così tante persone che commentano il conflitto israelo-palestinese incolpano sempre e solo Israele, ignorando i danni micidiali continuamente causati dai dirigenti palestinesi?...
(israele.net, 22 settembre 2023)
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Finalmente l’incontro fra Netanyahu e Biden
In un albergo, ma quel che conta è che si sono visti
Dopo un’anticamera record di otto mesi e ventidue giorni, finalmente il primo ministro del trentaseiesimo governo di Israele ieri ha ricevuto udienza dal presidente dello stato che è il più suo stretto alleato. Che si tratti di Bibi Netanyahu e di Joe Biden, i quali si conoscono almeno dagli Anni Ottanta, quando il primo era il rappresentante israeliano all’Onu e il secondo era un senatore americano già importante e appassionato di politica estera, rende questo ritardo ancora più significativo. Che poi l’incontro si sia svolto non alla Casa Bianca a Washington (dove è stato annunciato ieri che Netanyahu sarà invitato entro la fine dell’anno), ma in una sala di un grande albergo di New York, l’Hotel InterContinental a una decina di isolati dall’edificio delle Nazioni Unite, ha reso la situazione ancora più inedita. Bisogna aggiungere che l’albergo era circondato da israeliani all’estero che contestavano non il principale nemico del loro paese, il presidente iraniano Raissi, che anzi in quel momento riceveva una delegazione della setta “ultraortodossa” antisionista dei Naturei Karta, ma il primo ministro del loro paese, che in quel momento stava cercando di difendere gli interessi del loro stesso Stato.
• Questioni internazionali, ma di politica interna
La ragione di questa situazione così inconsueta è che, secondo un vecchio adagio, tutta la politica è sempre politica interna, soprattutto in democrazia, perché quel che conta sono i voti. Biden fra un anno ha le elezioni e nei sondaggi è sfavorito rispetto a Trump. Deve cercare di mobilitare il suo partito, sempre più estremista, la cui ala sinistra si rifiuta di condannare l’Iran per la repressione, anche quella delle donne che sono state uccise per aver rifiutato il velo, come Masha Amini, mentre non perde occasione per attaccare Israele che si difende dal terrorismo. Quindi, al di là dei suoi sentimenti personali, non può mostrarsi vicino al governo israeliano. Netanyahu non ha elezioni in vista, ma sta cercando di spostare il dibattito interno in Israele su temi più concreti e aperti al futuro delle divisioni attuali, che ormai non si incentrano più sulla riforma della giustizia ma sull’odio rivolto a gruppi e persone. È fondamentale per lui, oggi più di sempre, ottenere dei risultati significativi sul piano economico e politico nelle relazioni internazionali. Per questa ragione Biden ha parlato della necessità di far ripartire il progetto dei due Stati (che in realtà oggi nessuno vuole davvero, soprattutto i palestinesi) e Netanyahu ha insistito sull’accordo con l’Arabia e sull’asse di trasporto e collaborazione fra l’India e l’Occidente passando per il Medio Oriente e in particolare per Israele chiamato I2U2, su cui oggi è prevista una dichiarazione comune fra India, Usa e Israele.
• Che cosa ha detto Biden
“Settantacinque anni fa, il primo ministro israeliano, David Ben-Gurion, dopo aver dichiarato l’indipendenza, usò una frase che ho citato molto spesso. Ha detto che il mondo sta dalla parte di Israele affinché il sogno di generazioni si realizzi. Israele e gli Stati Uniti lavorano insieme da molto tempo per rendere quel sogno una realtà. Mi avete sentito dire, molte volte, che se non ci fosse Israele dovremmo inventarlo. Penso che senza Israele non ci sia un ebreo al mondo che sia sicuro. Penso che Israele sia essenziale.” Poi però, entrando nei termini della politica concreta e dei rapporti fra i due stati, ha detto cose meno gradevoli: “Oggi discuteremo alcune delle questioni difficili. Cioè, sostenere i valori democratici che sono al centro del nostro partenariato, compresi controlli ed equilibri nei nostri sistemi, e preservare il percorso verso una soluzione negoziata a due Stati, e garantire che l’Iran non acquisisca mai, mai, un’arma nucleare. Perché anche se ci sono delle divergenze, il mio impegno nei confronti di Israele, come sapete, è ferreo”.
• E che cosa ha dichiarato Netanyahu
"Penso che sotto la sua guida, signor Presidente, possiamo realizzare una pace storica tra Israele e Arabia Saudita, e penso che una tale pace farebbe molto, in primo luogo, per far avanzare la fine del conflitto arabo-israeliano, raggiungere riconciliazione tra il mondo islamico e lo Stato ebraico e promozione di una vera pace tra Israele e palestinesi. Questo è alla nostra portata. Credo che lavorando insieme possiamo scrivere la storia e creare un futuro migliore per la regione e oltre. Inoltre, lavorando insieme, possiamo affrontare quelle forze che minacciano quel futuro, soprattutto l’Iran. Apprezzo, signor Presidente, il suo continuo impegno per impedire all’Iran di acquisire capacità di armi nucleari. Penso che sia fondamentale. E questo nostro obiettivo condiviso può essere raggiunto al meglio con una minaccia militare credibile, sanzioni paralizzanti e sostegno agli uomini e alle donne coraggiosi dell’Iran che disprezzano quel regime e che sono i nostri veri partner per un futuro migliore”.
(Shalom, 21 settembre 2023)
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L’eredità di Biden passa anche dall’accordo Israele e Arabia Saudita. Per questo si farà
di Emanuele Rossi
Ogni giorno che passa, Israele e Arabia Saudita sono più vicini alla normalizzazione dei rapporti. Lo ha detto così, esplicito, il primo ministro saudita, l’erede al trono Mohammed bin Salman, durante un’intervista con Bret Baier, capo del grande desk politico di Fox News. Bin Salman era negli Stati Uniti per la riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a latere della quale il primo ministro israeliano, Benajamin Netanyahu, ha incontrato Joe Biden per la prima volta da quando è presidente degli Stati Uniti. Molto scorre, con bin Salman che richiama al ruolo della questione palestinese, gli apparati israeliani che si muovono contro i gruppi a Jenin e Gaza, gli americani che cercano la quadra pragmatica ma narrativamente efficace.
Biden e Netanyahu, alla stregua di Biden e bin Salman, non hanno un rapporto personale eccezionale, ma il presidente statunitense si sta prodigando in prima persona — e attraverso una fitta serie di assistenti di alto livello — per costruire l’intesa sulla normalizzazione. Bin Salman ha mandato un messaggio di carattere globale usando il canale dei conservatori americani, quelli che sembrano meno interessati a far pesare i limiti sui diritti umani del suo Paese (più volte sollevati dall’amministrazione Biden) e più inclini a un approccio utilitaristico alla politica internazionale. Ma se il pensiero di bin Salman riguarda un ipotetico futuro post Usa2024 — quando il colore dell’amministrazione potrebbe cambiare — intanto c’è da registrare la fortissima volontà dell’attuale presidenza per arrivare a un’intesa.
• L’eredità di JB sul nuovo ordine globale Per il democratico alla Casa Bianca ci sono da superare alcuni scogli, tra questi le considerazioni di ampie parti del suo partito sul rispetto di principi e valori basilari (diritti umani, democraticità, equalitarismo) sia nei confronti di bin Salman sia di Netanyahu. Ma quello che c’è sul piatto impone un approccio pragmatico. La normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele che Biden sta cercando di mediare sarebbe infatti un successo formidabile da imprimere sulla propria eredità politica. Attorno ad essa ruotano progetti straordinari come il corridoio Imec, la possibilità di scrivere una pagina storica (visto il peso saudita) nei rapporti tra ebrei e mondo arabo, la competizione tra potenze. Interessi concreti si fondono con la volontà di affermazione personale anche sul piano diplomatico (oltre a quello economico) dopo che per anni ha rappresentato il mondo Dem nel quadro delle relazioni internazionali, prima da senatore e poi da vice e presidente.
Facendosi catalizzatori di un’intesa — il cui formato sarà probabilmente trilaterale e nuovo rispetto alle istituzioni di dialogo esistenti, come gli Accordi di Abramo o il Forum del Negev — gli Stati Uniti affermerebbero la loro ancora unica capacità da potenza globale. Davanti all’intesa Gerusalemme-Riad, quella irano-saudita — su cui Pechino ha messo il cappello dopo anni di mediazioni occidentali e regionali — verrebbe minimizzata. Perché in ballo ci sono dimensioni altamente futuribili: il Golfo a guida saudita è cruciale per una serie di sviluppi che riguardano la transizione energetica, e dunque economica, e dunque culturale, non solo della regione.
Il Medio Oriente potrebbe per esempio tornare hub nevralgico delle nuove tecnologie energetiche (come l’idrogeno). Ma considerando la capacità di investimento dimostrata, in primis proprio dai sauditi, e data l’entità del contratto sociale esistente in quelle monarchie, potrebbe essere il centro di sviluppo e applicazione di molte altre nuove tecnologie. Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar sono all’avanguardia in settori come l’uso delle intelligenze artificiali, per fare un altro esempio. Fintech, agricoltura robotizzata, alimenti sintetici, cyber persona, smart city, sono settori di investimento di regni come quello saudita, usati come componente che accompagna in termini pratici le evoluzioni socio-culturali rivendicate all’interno delle varie “Vision”, ossia i grandi piani di transizione e sviluppo che bin Salman e altri regnanti teorizzano per i loro Paesi. Settori in cui Israele è attore leader globale (hub di dozzine di start up futuristiche) e su cui si muove la competizione tra potenze.
Ed è qui l’elemento di fondo. Materie come l’intelligenza artificiale sono parte della sfida per il futuro. In questi giorni per esempio è stata spesso citata nei discorsi dei leader mondiali riuniti all’Unga. “Dobbiamo garantire l’applicazione pratica del concetto di algorethics, cioè etica per gli algoritmi”, ha per esempio detto la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni. Tenere integrati nel sistema americo-centrico medie potenze in crescita come Arabia Saudita e Israele può permettere di discutere anche con loro i nuovi standard. Fattori che determineranno più di ogni altra cosa il perimetro di un nuovo ordine mondiale in cui fisico e digitale saranno una sovrapposizione di realtà e metaversi.
• La sfida per Biden e l’America Il rischio è che altrimenti a dettare le regole del gioco siano attori rivali, come la Cina. Partita non banale scalzare Pechino da una missione già avviata con la diffusione di reti infrastrutturali fisiche e digitali che una decina di anni fa si dichiaravano altamente innovative – su tutte il sistema geopolitico noto come Belt & Road Initiative, a cui aderiscono diversi regni del Golfo. È questo un senso di Imec per esempio, il corridoio per collegare India (altra super potenza da tenere nel loop del nuovo ordine) e Medio Oriente e — tramite il territorio saudita e i porti israeliani — all’Europa. Gerusalemme e Riad sono componenti determinanti del concetto di Indo Mediterraneo abramitico che vede anche l’Italia protagonista (ragion per cui Roma dovrebbe sperare, e lavorare per quanto possibile, per la normalizzazione).
La sfida per gli Stati Uniti è ricreare il legame di fiducia che si è rotto ai tempi dell’amministrazione Obama, quando Washington sponsorizzava il disordine delle Primavere arabe sotto l’ottica strategica della rivendicazione delle Democrazie. E poi di andare oltre al rapporto famigliare e quasi clientelare costruito da Donald Trump e il suo clan, altrettanto disordinato per protocollo e obiettivi. Biden in questo momento ha un’occasione straordinaria che pare assolutamente interessato a sfruttare. Dimostrarsi attore d’ordine di un nuovo mondo multi-allineato e multi-dimensionale, in cui Paesi come Israele e Arabia Saudita avranno posti in prima fila.
La strada è avviata, basta pensare a come la regione abbia reagito all’arrivo del presiedente democratico alla Casa Bianca, innescando una serie di distensioni che hanno portato per esempio i turchi a riaprire i canali confidenziali con gli emiratini, gli israeliani e gli egiziani; le potenze del Golfo alla riconciliazione con il Qatar; Israele a mostrarsi disponibile nel dialogo con i Paesi arabi; l’Iran ad avviare un complicato isolamento delle fazioni reazionarie più estremiste (per quanto esse rimangano attive). Un processo che ha innescato una generale détente nel Mediterraneo allargato, ormai in corso da tre anni. Ma attenzione: all’interno di questa distensione permangono preoccupanti hotspot, perché se Pechino ha provato a inserirsi per dare al processo caratteristiche cinesi, Mosca ha dispiegato le proprietà putiniane per muovere destabilizzazioni. E nei singoli Paesi ci sono componenti di apparato che remano per l’instabilità come vettore di consenso e propulsore di interessi.
(Formiche.net, 21 settembre 2023)
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Marcia della vita in Lituania" per l'80° anniversario della liquidazione del ghetto di Vilnius
Presente anche Dani Dayan, presidente di Yad Vashem
Giovedì in Lituania si è tenuta una "Marcia della Vita" per commemorare l'80° anniversario della liquidazione del ghetto di Vilnius durante l'Olocausto. Il Primo Ministro Ingrida Šimonytė ha partecipato all'evento, organizzato congiuntamente dalle autorità e dalla comunità ebraica del Paese. Era presente anche Dani Dayan, presidente di Yad Vashem. Parlando in mattinata al parlamento del Paese in occasione di un altro evento commemorativo, Dayan ha elogiato gli sforzi della Lituania, ma ha affermato che c'è ancora molto da fare per combattere l'antisemitismo e l'odio. Anche se gli atteggiamenti espressi da molti leader del vostro Paese sono una fonte di speranza, così come alcune delle sue politiche, c'è ancora molto da fare", ha detto ai deputati.
La marcia, iniziata nel sito dell'ex ghetto di Vilnius, si concluderà presso la grande fossa comune di Ponary, dove furono uccisi e sepolti 70.000 ebrei.
“Il massacro di Ponary è stato uno dei più crudeli della Shoah e la nostra marcia di ogni anno verso la fossa comune dove sono stati sepolti più di 70.000 ebrei è un atto di memoria per tutte le persone che vivevano qui e le cui vite sono state brutalmente stroncate. È anche un promemoria per ricordare che l'antisemitismo e l'odio sono ancora molto vivi e che dobbiamo dire chiaramente "mai più".
Prima della Shoah, la comunità ebraica lituana contava circa 200.000 persone. Tuttavia, quasi tutti furono sterminati dai nazisti.
(i24, 21 settembre 2023)
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Il mistero del tank israeliano da 65 tonnellate sparito nel nulla e ritrovato in un posto impensabile
Le autorità israeliane stanno cercando di capire come un carro armato pesantemente corazzato, ma disarmato, sia stato rubato da una zona di addestramento militare dopo averlo trovato abbandonato in un deposito di rottami. Il carro armato israeliano Merkava 2 è scomparso da un'area vicino alla città costiera di Haifa, nel nord di Israele, ha dichiarato mercoledì l'esercito israeliano. La zona di addestramento è chiusa al pubblico quando è in uso, ma è altrimenti accessibile ai passanti. La polizia ha detto che il carro armato di 65 tonnellate è stato trovato abbandonato in un deposito di rottami vicino a una base militare. Nel video diffuso dalle forze israeliane, il carro armato verde dell'esercito giace accanto a rottami di metallo arrugginiti e ad altri rifiuti industriali. L'esercito ha dichiarato che il Merkava 2 era stato dismesso anni fa ed era disarmato, ma di recente era stato utilizzato come "veicolo stazionario per le esercitazioni dei soldati".
(La Stampa, 21 settembre 2023)
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Per il presidente tunisino Saied, l’uragano Daniel è “sionista”
di Nathan Greppi
Hanno fatto discutere le esternazioni del Presidente della Tunisia Kais Saied, il quale la sera di lunedì 18 settembre ha sostenuto che ci sarebbe una presunta cospirazione sionista dietro all’uragano Daniel, abbattutosi con violenza nelle ultime settimane sulla Libia e altre aree del Mediterraneo (in Libia ha causato delle inondazioni che hanno provocato oltre 3.000 morti e 10.000 dispersi).
“Per quanto riguarda l’uragano Daniel, non si sono nemmeno presi la briga di mettere in discussione l’origine di questo nome. Chi è Daniel? È un profeta ebreo”, ha detto nel corso di un incontro con il Primo Ministro Ahmed Hachani e altri membri del governo. “Perché è stato scelto il nome Daniel? Perché il movimento sionista si è infiltrato, lasciando le menti e tutti i pensieri in un coma intellettuale totale”. In realtà, come spiega il sito Open, si tratta di una bufala, dal momento che a scegliere il nome è stato il Servizio Meteorologico Ellenico.
Saied si è recentemente opposto a qualunque tentativo di aprire relazioni diplomatiche ufficiali con Israele: “La normalizzazione di cui parlano non esiste nemmeno come parola per me. Equivale ad alto tradimento contro il popolo palestinese e i suoi diritti in Palestina, in tutta la Palestina”. Negli anni ’90 vennero aperti degli uffici di rappresentanza tra i due paesi a Tel Aviv e a Tunisi, chiusi nell’ottobre 2000 dall’allora Presidente tunisino Ben Ali, interrompendo le relazioni diplomatiche.
Questa non è la prima volta che Saied è al centro di polemiche antisemite: nel 2021, stava discutendo delle proteste scoppiate a Mnihla, un sobborgo della capitale Tunisi, a causa della situazione economica nel paese. Da ciò che emerse in un video pubblicato sul profilo ufficiale della Presidenza tunisina, sembrò che in quell’occasione abbia accusato gli ebrei di essere i responsabili dell’instabilità nel paese. Lui tuttavia respinse le accuse, definite “una calunnia”.
(Bet Magazine Mosaico, 21 settembre 2023)
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Tel Aviv: un rabbino estremista attaccato da manifestanti di sinistra
Le immagini dell'incidente sono state diffuse sui social network dal giornalista israeliano Yinon Magal. "Decine di manifestanti hanno cercato di attaccarci fisicamente con bastoni e con le mani. Se la polizia non avesse protetto il rabbino con i loro corpi, sarebbe finita male", ha detto una persona che era con il rabbino Yigal Levinstein in quel momento. Altri manifestanti hanno gridato: "Andatevene, fascisti. Tornate negli insediamenti, qui non avete nulla da fare", secondo quanto riportato da Channel 12.
Levinstein, un rabbino controverso e membro dell'accademia pre-militare Bnei David situata nell'insediamento di Eli, era venuto a Tel Aviv per tenere una conferenza a Rosh Yehudi, una ONG religiosa sionista che mira a promuovere l'identità ebraica e che è diretta da Zaria. Nel 2018, Levinstein ha scritto che l'omosessualità dovrebbe essere sradicata come l'AIDS ed è stato un fervente sostenitore della terapia di conversione per gli omosessuali.
Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e capo del Partito Sionista Religioso, ha criticato l'incidente e il silenzio dell'opposizione. "Questo è uno spettacolo che appartiene alle ore più buie della storia ebraica", ha scritto sui social network. Da parte sua, Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, ha dichiarato: "La politica stabilita per la polizia israeliana è di non tollerare alcun grave atto di violenza".
Al contrario, alcuni membri dell'opposizione, come il deputato di Unità Nazionale Ze'ev Elkin, hanno criticato l'incidente, e la leader del Partito Laburista, Merav Michaeli, ha difeso i manifestanti. A una conferenza ha detto: "Quando viene a Tel Aviv, le manifestazioni contro di lui sono legittime. Sta facendo il lavaggio del cervello ai suoi studenti della yeshiva. È un bene che abbiano protestato contro di lui, perché sta lavorando per distruggere lo Stato di Israele".
(i24, 20 settembre 2023)
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“Carro armato di quinta generazione”: Israele ha presentato il Merkava Barak MBT
Il Ministero della Difesa israeliano ha presentato ufficialmente il nuovo Merkava Barak MBT, che si posiziona come un “carro armato di quinta generazione”.
Secondo il dipartimento militare, le prime unità furono consegnate al 52° battaglione corazzato della 401a brigata dopo cinque anni di sviluppo.
Il carro armato Barak è il risultato di uno sforzo congiunto tra diverse società di difesa israeliane, come Elbit Systems, Rafael ed Elta, una filiale delle Israel Aerospace Industries. Il serbatoio è dotato di sensori che forniscono il rilevamento del bersaglio e fanno parte di un sistema integrato che consente lo scambio di informazioni di intelligence in tempo reale tra un carro armato e altre unità militari, annunciando quella che l’IDF definisce “una vera rivoluzione sul campo di battaglia”.
Il Barak è un ulteriore aggiornamento del Merkava IV che sfrutta i progressi nella protezione delle armature e nella guerra digitale. In termini di design, la nuova modifica ripete in gran parte il suo predecessore: il sedile del conducente si trova sul lato sinistro dello scafo, la torretta è nella parte posteriore e il motore è nella parte anteriore. Il carro armato è controllato da un equipaggio di 4 persone, che comprende un autista, un comandante, un artigliere e un caricatore.
In termini di potenza di fuoco, il Merkava V mantiene la stessa configurazione d'arma del Merkava IV: un cannone a canna liscia da 120 mm delle Israel Military Industries con la capacità di sparare a una distanza massima di 4 km con proiettili ad alta penetrazione e munizioni guidate. L'armamento aggiuntivo include una mitragliatrice coassiale da 7,62 mm, un'altra mitragliatrice da 7,62 mm montata sul lato destro della torretta e un mortaio da 60 mm con culatta interna.
Una delle caratteristiche del carro armato Barak è un casco ad alta tecnologia sviluppato da Elbit Systems e chiamato IronVision. Fornisce una visione a 360 gradi del campo di battaglia per il comandante del carro armato con riconoscimento assistito dall'intelligenza artificiale e marcatura digitale dei bersagli.
Il carro armato Barak è inoltre dotato dell'avanzato sistema di difesa missilistica Windbreaker sviluppato da Rafael. Questo sistema è in grado di rilevare gli ATGM in arrivo e di farli esplodere lontano dal carro armato. Anche la potenza di fuoco degli MBT è stata migliorata. Il sistema di controllo del fuoco, anch'esso sviluppato da Elbit, consente "attacchi precisi al minimo e in movimento" sia di giorno che di notte.
Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha sottolineato la data simbolica della presentazione del carro armato: Israele celebra i 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur del 1973. Ha affermato che il carro armato Barak rappresenta uno "straordinario balzo in avanti" nelle capacità dei corpi corazzati e "garantirà costantemente il vantaggio qualitativo dell'IDF, sia difensivo che offensivo".
(Top War, 20 settembre 2023)
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Musk e la parola di troppo
Netanyahu chiede al patron di X di fermare l’antisemitismo sul social
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto a Elon Musk, il proprietario di X, precedentemente Twitter, di adottare misure per frenare l’antisemitismo sulla piattaforma. Musk all’inizio di questo mese ha minacciato di citare in giudizio l’Anti Defamation League, accusando l’organizzazione di “tentare di uccidere” X dopo che il gruppo aveva segnalato un picco di incitamento all’odio sulla piattaforma in seguito al ripristino di account bannati.
Nell’incontro, Netanyahu ha elogiato Musk per quello che ha definito il suo sostegno alla libertà di parola e ha detto di sapere che il proprietario di X è contrario all’antisemitismo. “Spero che troverete, entro i confini del Primo emendamento, la capacità di fermare l’antisemitismo o di reprimerlo nel miglior modo possibile, ma anche qualsiasi forma di odio collettivo verso un popolo come quello che l’antisemitismo rappresenta, vi esorto e vi incoraggio a trovare un equilibrio”, ha detto Netanyahu. “Sono contro l’antisemitismo e contro tutto ciò che promuove l’odio e il conflitto”, ha risposto il patron di Tesla. Tuttavia, Musk ha sottolineato che “la libertà di parola a volte significa che qualcuno che non ti piace dice qualcosa che non ti piace”. Qui Musk dovrà trovare la quadra: garantire la libertà di parola, ma evitando che X diventi il ricettacolo di liquami antisemiti. Musk ha aggiunto che ci sono tra i 100 e i 200 milioni di post al giorno su X e “alcuni di questi saranno pessimi”. Netanyahu ha risposto che ciò non dovrebbe impedire a Musk di condannare l’antisemitismo.
Netanyahu ha suggerito a Musk che un modo per combattere l’antisemitismo è impedire l’uso dei robot. “Bibi” ha poi definito Musk “l’Edison del nostro tempo” e il “presidente non ufficiale degli Stati Uniti”. Per questo Musk ha una responsabilità maggiore nell’evitare che l’agorà digitale sia usata da chi non dovrebbe neanche starci.
Il Foglio, 20 settembre 2023)
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La comunità ebraica marocchina rende omaggio alle vittime del terremoto
In un clima di contemplazione e solidarietà, diversi membri della comunità ebraica marocchina hanno reso omaggio alle vittime del terremoto di Al Haouz, durante le celebrazioni della festa di Rosh Hashanah che segna l’inizio del nuovo anno ebraico.
Organizzata presso la sinagoga Névé Shalom, la cerimonia è stata caratterizzata dalla presenza di diversi giovani musulmani marocchini che hanno presentato ai loro connazionali ebrei gli auguri di buon anno “Shana Tova”.
Celebrato sabato e domenica dalla comunità ebraica attraverso la preghiera, il Capodanno ebraico, 5784 del calendario ebraico, è scandito il terzo giorno dall’osservazione di un digiuno. In questa occasione, i membri di "Marocains Pluriels" e "Salam Lekoulam", le associazioni che hanno organizzato la cerimonia, hanno consegnato ai loro concittadini ebrei due cesti di cibo con mele, melograni, banane, frutta secca, dolci... in segno di fratellanza.
Il rabbino della sinagoga Névé Shalom, Jacky Sebag, è stato felice di vedere “i nostri fratelli musulmani che vengono ad augurarci un felice anno nuovo”dicendo a se stesso “orgogliosi di questo rapporto di fraternità e di preziosa convivenza che distingue il Marocco nel mondo”.
Questa fratellanza tra tutti i marocchini “indipendentemente dalla loro religione, si è naturalmente manifestata attraverso l’effusione nazionale di solidarietà con le vittime del terremoto di Al Haouz”, ha detto.
(DayFR Italian, 20 settembre 2023)
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‘’Il silenzio di Pio XII sulla Shoah lasciò soli gli ebrei’’
Intervista allo storico Michele Sarfatti
di Luca spizzichino
Papa Pio XII era a conoscenza dello sterminio degli ebrei. È quanto emerso da una lettera scoperta da Giovanni Coco, archivista e ricercatore all’Archivio Apostolico Vaticano, pubblicata da La lettura. In questa lettera, datata 14 dicembre 1942, un gesuita tedesco antinazista, Lothar König, parla esplicitamente a padre Robert Leiber, segretario di Pio XII, dell’uccisione di massa degli ebrei da parte dei nazisti.
Per approfondire quanto emerso dal documento scoperto da Coco e capire quali furono i motivi del silenzio del pontefice durante sulla Shoah, Shalom ha intervistato il professor Michele Sarfatti, storico e autore di numerosi saggi sulle persecuzioni antiebraiche e sugli ebrei nell’Italia del XX secolo.
- Professore, perché è importante la scoperta di questa lettera? La lettera trovata da Giovanni Coco è importante perché si tratta di una seconda missiva. Nel documento originale di König, scritto in tedesco, si legge che “le ultime informazioni su "Rawa Ruska" con il suo altoforno delle SS, dove ogni giorno fino a 6.000 persone, per lo più polacchi ed ebrei vengono uccisi, hanno trovato conferma anche da altre fonti. Anche il racconto di Oschwitz (Auschwitz) a Katowice è corretto”. Queste frasi ci lasciano intendere che non è la prima volta che Leiber riceveva messaggi dal gesuita tedesco. Io sospetto che nel primo rapporto ci fossero ancora più dettagli, perché qui ne dà pochi. Quanto a Rawa Ruska, lì non c’erano campi di sterminio, quindi per me l’autore si riferiva al vicino campo di Belzec, distante una ventina di chilometri.
Inoltre, più avanti, König utilizza il termine “ausgerottet”, ossia “sterminio”, per quanto sta accadendo agli ebrei e ai polacchi, facendo riferimento a un discorso di Hitler in cui si legge: “Non avranno più tempo per sorridere”. König, citando il discorso di Hitler, mette in relazione Belzec e Auschwitz con l'annientamento. Una cosa di questo tipo non era ancora stata scoperta. Per la prima volta, con questo riferimento, si parla di Auschwitz e di Belzec come luoghi dello sterminio degli ebrei.
- Quindi questa lettera dimostra quelle che sono state le varie ipotesi fatte fino ad ora… È un'ulteriore conferma, perché sappiamo che in Vaticano arrivavano un'infinità di notizie. Inoltre, bisogna tenere da conto il fatto che ci fosse una rete di controinformazione che raccoglieva le notizie che arrivavano dai territori sotto il dominio nazista, le centralizzava, le elencava e le mandava a Roma, affinché si sapesse cosa stesse accadendo. La particolarità di questo documento sta nel fatto che fosse conservata fra le carte del Pontefice. Il Papa però non fece nulla.
- Perché Papa Pio XII non intervenne? Perché scelse di tacere? Il Papa non sapeva rapportarsi a questa situazione. Noi non possiamo assolutamente dire che fosse favorevole in qualche modo. E probabilmente era anche consapevole che avrebbe dovuto fare di più, ma non ci riuscì. Vista con gli occhi di oggi è una autodichiarazione di inadeguatezza impressionante.
Se avesse detto qualcosa sullo sterminio degli ebrei, Hitler avrebbe continuato comunque il suo progetto, ma in qualche modo chi si opponeva avrebbe avuto un motivo in più, un sostegno morale. Però con il suo silenzio il Papa ha lasciato soli gli ebrei e ha lasciato soli anche i cattolici che erano solidali con loro. Questo è l'aspetto più grave secondo me.
- Qual è il motivo di questa “inadeguatezza”? Papa Pio XII fu prigioniero della tradizione antiebraica del cattolicesimo. Lui era avviluppato in questi pregiudizi e non è stato in grado di uscirne.
L'antisemitismo razzista, e poi sterminatore, è prosperato dentro l'antiebraismo cristiano assumendo poi questo aspetto omicida. La Chiesa non è stata in grado di dire che esiste un limite. Non è stata in grado di elaborare, tra gli anni Dieci e gli anni Venti del Novecento, una barriera di difesa e un argine all’odio antisemita.
La Chiesa avrebbe dovuto superare in una settimana 1800 anni di pregiudizi. Non è facile, perché sono radicati nel profondo, però avrebbe dovuto farlo lo stesso e non l’ha fatto.
- Esistono quindi altri documenti oltre a quelli di König? Al convegno che ci sarà a ottobre 2023, presso la Pontificia Università Gregoriana, parlerò delle notizie arrivate in Vaticano nel corso del 1942. In quel periodo arrivarono anche informazioni sulle camere a gas, una novità sconvolgente per noi oggi a ottant'anni di distanza, figuriamoci a metà degli anni 40. Non capivano bene cosa fossero ovviamente all'epoca, ma arrivarono notizie a riguardo.
Considerando tutti i rapporti ricevuti in quel periodo, il 9 settembre del 1943 la Santa Sede avrebbe potuto convocare tutte le personalità ebraiche di Roma, avvertire di mettersi in salvo e cercare di aiutarli. Tuttavia, ciò è mancato, gli ebrei rimasero soli. Pio XII aveva delle chiavi in mano che non ha utilizzato.
- Come giudica questa volontà del Vaticano di aprire e condividere i suoi archivi? Credo sia un segno di enorme apertura e del desiderio di uscire dalla fase della polemica e di consegnare alla Storia ciò che accadde durante la Seconda Guerra Mondiale.
(Shalom, 20 settembre 2023)
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«Nessun documento dice che la fondazione di Serrastretta sia stata opera di famiglie di ebrei»
Il sindaco del centro nel Catanzarese Muraca interviene con riferimento a quanto riferito dalla Aiello.
SERRASTRETTA - «La necessità di tutelare la verità storica e la memoria collettiva mi spinge a rappresentare alcune considerazioni, di natura esclusivamente storica, su quanto dichiarato dalla Rabbina». Lo afferma il sindaco di Serrastretta Antonio Muraca in una lettera alla redazione con riferimento all’articolo "Ebrea, donna, straniera. La mia vita da rabbina in Calabria"“Ebrea, donna, straniera. La mia vita da rabbina in Calabria”, pubblicato il 18 settembre 2023 dal Corriere della Calabria. «Premetto – dice Muraca – che la Rabbina Barbara Aiello – protagonista dell’articolo e concittadina da anni accolta e stimata dall’intera comunità serrastrettese, me compreso – è persona alla quale sono legato da ottimi rapporti personali e istituzionali, fondati sul rispetto umano, culturale e religioso. Tali presupposti ci hanno portato, in diverse occasioni, a scegliere di vivere momenti di condivisione e collaborazione pubblica.
Ciò premesso, la necessità di tutelare la verità storica e la memoria collettiva mi spinge a rappresentare alcune considerazioni, di natura esclusivamente storica, su quanto dichiarato dalla Rabbina nell’articolo citato. L’obiettivo è evitare che i lettori siano esposti a una ricostruzione priva di fondamenti storiografici, che potrebbe finire per diventare un falso storico amplificato dai canali online. In particolare, desidero chiarire un passaggio dell’intervista riportata. La Rabbina Aiello ha affermato, riguardo alle origini del Comune, che esso è nato “quando cinque famiglie di ebrei perseguitati, in fuga da Scigliano (che dista circa 35 km) arrivarono fin qui e fondarono quello che all’epoca era solo un villaggio”. Pur non essendoci nulla di male se ciò fosse stato vero e rappresentasse un dato storico certo e comprovato, circostanza che lo renderebbe parte del nostro patrimonio identitario da tutelare e valorizzare, ritengo, però, necessario sottolineare – solo per dovere di precisione e senza qualsivoglia spirito polemico – che quanto affermato è privo di alcun fondamento storico e storiografico. L’unico riferimento a questa notizia sulle cinque famiglie di Scigliano – sostiene il sindaco di Serrastretta – si trova nel libro “Storia di Serrastretta dalle origini al 1938” dello storico Filippo BRUNI. Tuttavia, in tale testo non si fa menzione dell’origine ebraica di tali famiglie. Non esistono, d’altro canto, ulteriori fonti o documenti che confermano o accennano alla possibilità che la fondazione di Serrastretta sia stata opera di famiglie di ebrei.
Si deve pertanto rilevare che la ricostruzione storica avanzata da Barbara Aiello è un’ipotesi prettamente personale, priva di dati storiografici a supporto e non suffragata da alcuna ricerca storica sull’argomento. Le famiglie in questione furono probabilmente spinte a lasciare Scigliano e insediarsi nel nostro territorio per motivi familiari o economici. Tuttavia, quale che sia stata la motivazione della loro partenza, l’origine delle famiglie e il loro credo religioso, è necessario fornire una narrazione storica accurata. Se questo è l’intento, la sola affermazione possibile – ossia l’unica supportata da dati – è che Serrastretta è stata fondata da cinque famiglie provenienti da Scigliano, i cui cognomi sono: Bruni, Mancuso, Fazio, Talarico e Scalise. Altro non si può aggiungere. Approfitto dell’occasione – conclude Muraca – per confermare la stima e il rispetto per il lavoro che la Rabbina Barbara Aiello svolge nel nostro paese da anni, unitamente all’affetto e alla simpatia per il suo essere una persona affabile, cortese e gentile con tutti».
(Corriere della Calabria, 20 settembre 2023)
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Il gasdotto turco-israeliano che probabilmente non si farà
Da più di un anno funzionari turchi e israeliani discutono del potenziale corridoio energetico per collegare il giacimento di gas Leviathan all’Europa. Il progetto di gasdotto, vecchio di un decennio, è stato rispolverato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, quando l’Unione Europea cercava di sostituire le forniture di gas russo. Ma la politica regionale, l’imprevedibilità della domanda di mercato e le alternative emergenti stanno facendo di nuovo accantonare il progetto.
Ankara, che aspira a diventare un hub regionale del gas, ha proposto nel 2022 la costruzione di un gasdotto di 500 Km (costo previsto 1,5 miliardi di dollari) dal Leviatano alla Turchia. I rapporti fra Israele e la Turchia erano tesi da anni, ma a febbraio 2022 una delegazione turca di alto livello ha visitato Israele per rompere il ghiaccio, definendo la cooperazione energetica come la chiave per un’ulteriore collaborazione politica, economica e di sicurezza. Il mese successivo il presidente israeliano si è recato ad Ankara, a maggio il Ministro degli Esteri turco si è recato a Gerusalemme e ad agosto le due parti hanno concordato di ripristinare le relazioni diplomatiche. Ma gli ostacoli alla collaborazione non sono svaniti.
In primo luogo il gasdotto attraverserebbe la ZEE di Cipro, ma il governo turco non riconosce il governo greco-cipriota. Inoltre la Grecia, principale sostenitore del governo greco-cipriota, ambisce anch’essa ad essere hub di transito del gas. Grecia, Cipro e Israele sono tutti membri del Forum del gas del Mediterraneo orientale e spesso conducono esercitazioni militari insieme, quindi è improbabile che Israele proceda con il progetto del gasdotto senza il loro sostegno. Poi il gasdotto attraverserebbe la ZEE della Siria, nemico regionale di Israele e longa manus dell’Iran nella regione.
Un progetto alternativo potrebbe prendere forma, parte del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC), che comprende Israele ma non la Turchia. Composto da ferrovie, porti, collegamenti elettrici e digitali e persino infrastrutture per produrre e spedire idrogeno verde, l’IMEC è un formidabile rivale degli interessi turchi. Gode del sostegno di India, Stati Uniti, UE e Stati arabi del Golfo. Sebbene Israele non abbia firmato il memorandum d’intesa per l’IMEC, Benjamin Netanyahu ha espresso sostegno all’accordo. Per realizzare IMEC Israele e gli stati arabi del Golfo dovrebbero raggiungere la normalizzazione dei rapporti diplomatici. Sarebbe un esito estremamente positivo per l’equilibrio regionale.
(Associazione Camis De Fonseca, 19 settembre 2023)
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L'Unesco regala Gerico ai palestinesi. Per punire Israele smentita la Bibbia
di Fiamma Nirenstein
Anche chi di Bibbia ne sa poco, non ignora che «Giosuè ha combattuto la battaglia di Gerico». Il profeta guerriero incaricato da Mosè di portare gli ebrei a Canaan nella terra che sarà Israele fece cadere le potenti mura al suono dello Shofar, il solenne corno che anche in questi giorni si suona per il capodanno ebraico. Gerico fu la prima città che gli ebrei videro quando si accamparono nella piana di Moab di là dal Giordano. È la prima della 57 volte in cui è citata nella Bibbia. Certo, siamo in tempi di revisione woke della storia, della religione, dei ruoli, ma ci vorrebbe po' di pudore da parte dell'Unesco quando cancella la Bibbia. Ma ormai da decenni non si occupa d'altro che di cercare di delegittimare la storia degli ebrei e di consegnarla ai palestinesi. Così ha fatto domenica dichiarando la parte archeologica più importante di Gerico «Patrimonio Mondiale di Palestina», ovvero di uno Stato che non esiste. Peggio, che nelle sue incarnazioni presenti si disegna con le parole di Abu Mazen, che nega con un'uscita antisemita sanzionata in tutto il mondo il rapporto fra popolo ebraico e Israele e che giustifica lo sterminio di Hitler; e con il raddoppio dei salari pagati ai terroristi in galera.
Gerico ha svariate location archeologiche, essendo una delle più antiche città del mondo, con più di 8mila anni di storia. Ma nella Bibbia e anche oltre la sua storia ebraica è universalmente nota. Eugene Kontorovich, giurista israeliano, ne è certo: si tratta di un'ennesima pulizia etnica tentata a danno degli ebrei, proprio mentre domenica celebravano il capodanno. E l'Unesco insiste: ha definito l'antica Gerusalemme retaggio palestinese e ne ha addirittura condannato «l'occupazione»; così ha fatto per Hebron, dove si trova la tomba dei patriarchi di Israele, Abramo, Isacco e Giacobbe, l'intero albero genealogico dell'ebraismo. Gerico, governata dall'Autonomia Palestinese, ha visto saccheggi e distruzioni del retaggio archeologico, un danno per tutta l'umanità. E anche Gesù che era ebreo, e che a Gerico compì il miracolo di sanare due cechi e di portare la salvezza al pubblicano Zaccheo sarebbe stupefatto di apprendere che Gerusalemme, Gerico e Hebron non sono parte della cultura ebraica. Ma l'Unesco ha di nuovo compiuto il suo agguato.
Per complicare le cose Netanyahu prima di partire per l'assemblea dell'Onu, dov'è atteso da un incontro fondamentale con Biden sulla sicurezza di fronte all'aggressività iraniana, ha detto che è insopportabile vedere i dimostranti israeliani allineati con i nemici di Israele come Iran e Olp. Alla reazione che si è subito fatta sentire, il premier ha risposto cercando di rimediare: si riferiva ai dimostranti che si troveranno fuori del Palazzo dell'Onu e verranno confusi, per sbaglio, con i nemici d'Israele. Ma i dimostranti si ritengono offesi e promettono una rinnovata foga nel portare il loro dissenso in piazza. Adesso, è una gara fra la credibilità di Bibi e la determinazione dei suoi detrattori, che si giocano tutto su un suo insuccesso. Strano, o invece evidente, che non capiscano che si tratta di un pericolo mortale per lo stato ebraico.
(il Giornale, 19 settembre 2023)
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I silenzi di Pio XII e gli ebrei battezzati
Intervista allo storico David Kertzer
di Ariela Piattelli
Con l’apertura degli archivi vaticani su Pio XII, lo storico e studioso David Kertzer ha studiato migliaia di documenti sul comportamento della chiesa e del pontefice nel periodo delle persecuzioni nazifasciste. Dal suo lungo e approfondito studio è nato il libro “Un Papa in guerra. La storia segreta di Mussolini, Hitler e Pio XII”, una fitta cronaca di eventi e avvenimenti che arricchisce con documenti sino ad ora sconosciuti o quasi, quanto sapevamo sulla politica della chiesa di quegli anni. In particolare Kertzer si è soffermato più volte nella ricostruzione di ciò che avvenne con le deportazioni e ciò che la chiesa scelse di fare, o di non fare, dall’alba del 16 ottobre 1943. Shalom lo ha intervistato.
- Professor Kertzer, con l’apertura degli archivi vaticani su Pio XII, lei ha studiato centinaia e centinaia di pagine di documenti. Quali sono le novità rilevanti degli ultimi anni rispetto alla deportazione degli ebrei romani e al 16 ottobre 1943? A questo punto posso dire che ho già letto decine di migliaia di pagine dei documenti dagli archivi di Pio XII per gli anni che vanno dal 1939 al 1945, con un focus specifico sulle leggi razziali e poi sulla guerra e la Shoah. Per quanto riguarda il 16 ottobre 1943 ci sono delle novità in senso stretto, ma anche alcune puntualizzazioni circa avvenimenti già noti che favoriscono una migliore comprensione del contesto dei rapporti fra Pio XII e gli occupanti tedeschi a Roma e che ci aiutano a capire meglio la sua (in)azione in quei terribili giorni dal 16 al 18 ottobre quando il treno con oltre mille ebrei romani è partito per Auschwitz.
Sapevamo già dai documenti pubblicati dal Vaticano anni fa, per incarico di Papa Paolo VI Montini, da una commissione di quattro gesuiti (Actes et Documents du Saint-Siège pendant la Seconde Guerre Mondiale) dell’incontro il pomeriggio del 16 ottobre fra il Segretario di Stato del Vaticano, Cardinale Luigi Maglione, e l’ambasciatore tedesco alla Santa Sede, Ernst von Weizsäcker. Il cardinale aveva convocato l’ambasciatore per dire che “È doloroso per il Santo Padre, doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma… siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata”. Nel rispondere l’ambasciatore aveva detto che durante tutti gli anni della guerra aveva ammirato l’abilità della Santa Sede di mantenere sempre “un perfetto equilibrio”, e aveva poi aggiunto che l’ordine per la razzia era arrivato “da altissimo luogo”, cioè direttamente da Hitler. Poi ha chiesto se il cardinale gli voleva comunicare una protesta al suo governo. Il cardinale Segretario di Stato aveva allora risposto di no, dicendo (e questo risulta dal resoconto scritto dal cardinale) “Volevo ricordargli che la Santa Sede è stata, come egli stesso ha rilevato, tanto prudente per non dare al popolo germanico l’impressione di aver fatto o voler fare contro la Germania la minima cosa durante una guerra terribile”.
Sappiamo che il Papa fu informato della razzia molto presto quella stessa mattina del 16 ottobre e sappiamo anche che Pio XII non poteva non conoscere il destino che attendeva gli ebrei rastrellati. Scopriamo ora dagli archivi del pontificato pacelliano di recente apertura che il 17 ottobre, quando gli ebrei catturati erano ancora prigionieri nel Collegio Militare, nei pressi proprio del Vaticano, il Papa aveva ricevuto una lettera urgente inviata da un gruppo di ebrei romani che erano sfuggiti alla cattura e che lo pregavano di intervenire.
Il pontefice ricevette poi anche un’altra lettera quel giorno da parte di un’anziana donna ebrea prigioniera proprio nel Collegio Militare che, in circostanze non chiare, era riuscita a spedirgliela: anche lei supplicava disperatamente il suo intervento.
Ma quello che risulta chiaro dagli archivi vaticani oggi è che, nonostante queste e numerose altre informazioni analoghe, l’azione della Santa Sede in quelle ore cruciali si focalizzò sulla notizia che fra gli ebrei catturati c’erano molti ebrei battezzati e su costoro si concentrarono tutti gli sforzi del Vaticano per ottenerne la liberazione.
- Spesso si parla degli sforzi della chiesa di salvare gli ebrei dalle deportazioni. I canali ufficiali del Vaticano si mobilitarono in questo senso? Se si, per chi lo fecero? La deportazione degli ebrei italiani continuò per tutto il tempo che i militari tedeschi rimasero nel paese, in stretta collaborazione con le forze della Repubblica Sociale Italiana, cioè con forze italiane. Sappiamo anche che senza la partecipazione degli italiani, non avrebbe avuto il “successo” che ebbe. Un momento chiave, oltre il 16 ottobre, fu sei settimane dopo, il 30 novembre, quando il governo di Mussolini promulgò l’ordine di arrestare tutti gli ebrei presenti in Italia e spedirli in campi di concentramento, da cui sarebbero poi deportati verso i campi di sterminio. Sappiamo dai documenti trovati negli archivi vaticani che un consigliere importante del Papa aveva suggerito una protesta all’ambasciatore tedesco ma che poi questo suggerimento era stato, come da prassi, inviato, per un parere, al prelato che in Segreteria di Stato era considerato da tempo il consigliere chiave per tutte le questioni che riguardavano gli ebrei. Questo prelato era mons. Angelo Dell’Acqua, futuro cardinale vicario di Roma. Nel suo promemoria, pieno di linguaggio antisemitico, ha criticato il consiglio dato e ha detto che non si doveva protestare il rastrellamento degli ebrei al governo tedesco. Questo documento, che ritengo fondamentale, non è stato pubblicato nelle migliaia di pagine che compongono i citati Actes et Documents. E questo non è l’unico caso di omissione, parziale o integrale, di documentazione centrale soprattutto per la comprensione dell’atteggiamento della Santa Sede in merito alla questione ebraica: è quindi chiaro, dall’analisi delle carte degli archivi vaticani del pontificato di Pio XII che la famosa commissione dei gesuiti che preparò gli Actes e Documents operò una significativa censura rispetto agli originali che si trovò a maneggiare. E dai confronti che sto facendo in questi anni di ricerca, mi sembra anche questa sia una notizia importante, di cui occorre necessariamente tenere conto.
- Dal Collegio Militare, prima della deportazione verso Auschwitz, furono salvate alcune persone. Chi erano e perché furono salvate? Questo è infatti un aspetto di questa triste storia che si capisce meglio proprio grazie all’apertura degli archivi vaticani. Il 16 ottobre i tedeschi catturarono circa 1259 persone, portate poi al Collegio Militare. Ma sappiamo che solo poco più di mille furono messe sul treno per Auschwitz due giorni dopo. Chi erano quelle quasi 250 persone rilasciate? Sembra dalla documentazione vaticana che si tratti in buona parte di ebrei battezzati e anche ebrei sposati con donne cattoliche che avevano bambini battezzati. Descrivo qualche caso di questo tipo nel mio libro recente, Un Papa in guerra. E aggiungo che il 17 ottobre Monsignor Montini (futuro Papa Paolo VI, ma in quell’epoca Sostituto nella Segreteria di Stato) poté spedire un suo assistente al Collegio Militare. Nel suo rapporto sulla triste condizione dei confinati aveva scritto: “Sembra…che vi si trovano anche persone già battezzate, cresimate e unite con matrimonio canonico”. Il Vaticano fece tutto ciò che poté per informare i tedeschi di questi casi. Quelli confinati che potevano, anche con l’aiuto del Vaticano, confermare il loro status di convertiti o di sposati canonicamente con cattoliche furono liberati. A testimonianza di questi sforzi, nei giorni successivi molte lettere di ringraziamento arrivarono al Vaticano da queste persone.
- Come dimostrano alcuni suoi interessanti scritti, in Europa ci furono casi di conversioni di bambini anche durante la Shoah. Cosa sappiamo di questo fenomeno in Italia? Per quanto riguarda la conversione di bambini che hanno trovato rifugio presso istituti cattolici, sappiamo che c’erano molte conversioni, ma non sappiamo ancora quante furono. Anche negli archivi vaticani si legge di gruppi interi di fratelli battezzati nei conventi di Roma. Poi, come ho documentato in un saggio già pubblicato, c’è il caso famoso dei due orfani francesi della Shoah, i fratelli Finaly, nascosti per vari anni dopo la guerra, spediti da un convento ad un altro per evitare il ritorno alla famiglia ebraica. Grazie all’apertura degli archivi vaticani per il periodo del pontificato di Pio XII (che, come sappiamo, arrivò fino al 1958) possiamo finalmente verificare il ruolo fondamentale giocato dal Vaticano in questa vicenda e come nella sua gestione venne seguito il medesimo principio adottato nel celebre caso ottocentesco di Edgardo Mortara, ovvero che gli ebrei battezzati non potessero tornare alle famiglie d’origine.
- La domanda che ci si pone da 80 anni è la seguente: il Papa avrebbe potuto fare di più per salvare o aiutare gli ebrei? Ho scritto Il Papa in guerra in parte per spiegare perché il pontefice agì come sappiamo durante la guerra. Non si può capire la Shoah senza inserirla nel suo corretto contesto storico. In questo senso occorre avere presente che negli anni Trenta molti paesi d’Europa, compresa l’Italia, promulgarono leggi contro gli ebrei, e su questo in genere le Chiese cattoliche nazionali offrirono il loro sostegno. Non solo: anche in Italia per giustificare la persecuzione antiebraica, i governi richiamavano continuamente l’esempio recente del potere temporale della Chiesa nella gestione delle minoranze ebraiche, escluse, relegate in ghetti, private di diritti fondamentali e continuamente perseguitate per il loro stigma di deicidi, perfidi e corruttori, tollerati solo in virtù di una loro possibile e ricercata conversione alla vera fede, attraverso il battesimo. Il secolare pregiudizio antiebraico permeava la società cattolica a vari livelli (curia, clero, fedeli), come testimonierà, negli anni subito successivi alla fine della guerra, sulla questione della preghiera del Venerdì Santo e sulla "giudaica perfidia". Inoltre, non dimentichiamo che coloro che materialmente sterminarono i sei milioni di ebrei non si consideravano, se non in minima parte, pagani: si consideravano, e a tutti gli effetti erano, cristiani. Per me, è questo il contesto in cui bisogna capire il significato del silenzio del Papa durante la Shoah.
Per quanto riguarda la Shoah in Italia e, nello specifico, il rastrellamento del 16 ottobre 1943, il fatto che il Papa non protestò contro l’arresto, la deportazione e il massacro dei mille ebrei romani mi sembra davvero scioccante. Nessuna protesta da parte del Papa nemmeno nei mesi successivi, quando nuovi rastrellamenti portarono alla cattura di un altro migliaio di ebrei, deportati anch’essi da Roma. E non va dimenticato che la riuscita del lavoro dei tedeschi di individuazione degli ebrei nascosti nell’Italia occupata dipendeva dalla collaborazione attiva degli italiani cattolici: anche in questo caso, silenzio da parte del Papa. Inoltre, sempre per comprendere adeguatamente il contesto storico, bisogna anche tenere a mente che, fino alla caduta di Mussolini nel luglio 1943, con lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, la Chiesa italiana diede il suo pieno sostegno alla guerra dell’Asse, come ho scritto nel mio ultimo libro e in un saggio successivo scritto con Alessandro Visani (David I. Kertzer and Roberto Benedetti, “Italian Catholic Press Support for the Axis War,” Journal of Modern Italian Studies 25:5:469-507, 2020). Per me questa rimane una responsabilità non solo del Papa e del Vaticano, ma anche della Chiesa italiana più in generale e a vari livelli: una responsabilità molto pesante e un’eredità con la quale ancora oggi è difficile fare pienamente i conti.
- Da una lettera del ‘42 recentemente trovata da Giovanni Coco, archivista e ricercatore all’Archivio Apostolico Vaticano e pubblicata da La lettura, sembra che Pio XII fosse a conoscenza dello sterminio in atto. In questa missiva il gesuita Lothar König scrive a Robert Leiber, segretario di Pio XII, dell’uccisione di massa degli ebrei e dei polacchi per mano nazista. Cosa ne pensa? Si tratta davvero di una rivelazione? Il ritrovamento della lettera scritta dal gesuita tedesco, spedita al segretario, anch’esso tedesco e gesuita, di Pio XII nel dicembre 1942, mi sembra una notizia importante, ma non clamorosa. Sapevamo già dagli archivi vaticani aperti tre anni fa che il papa ha ricevuto vari rapporti da fonti affidabili della Chiesa sul tentativo da parte dei nazisti di sterminare gli ebrei di Europa. Sappiamo anche che quando, nell’autunno del 1942, il Presidente Roosevelt ha chiesto al papa se avesse ricevuto rapporti che potevano confermare quelli da loro ricevuti sulla campagna nazista, ha risposto di no, anche sapendo che non era così. Per me, le novità di questa lettera sono due: 1) È un’indicazione che già nel 1942 Pio XII sapeva dei crematori nei campi di sterminio 2) Il fatto che questo documento è stato presentato da un archivista dell’Archivio Apostolico Vaticano, mi sembra un buon segno che ci sia nel Vaticano una volontà di confrontarsi in modo franco con questa storia difficile del papa e la Shoah.
(Shalom, 19 settembre 2023)
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Si può affidare agli israeliani la democrazia?
Solo ad alcuni a quanto pare, secondo il padre della "rivoluzione costituzionale" di Israele.
di Ryan Jones
Ebraico o democratico? O entrambi? Da 75 anni Israele è una democrazia ebraica, ma è un cammino difficile. I cittadini "illuminati" di Israele hanno a lungo temuto che diventare ebrei avrebbe significato non essere più democratici. E hanno creduto che solo loro fossero in grado di mantenere il "giusto" equilibrio tra le due cose.
È così che lo ha spiegato niente meno che l'ex presidente della Corte Suprema di Israele, Aharon Barak, quando ha giustificato la sua "Rivoluzione Costituzionale" all'inizio degli anni Novanta.
Questo termine - Rivoluzione Costituzionale - proviene da Barak. L'ha coniato lui. Questo smentisce gli slogan attuali che definiscono la riforma giudiziaria del governo Netanyahu una "rivoluzione". In realtà, la rivoluzione è già avvenuta, come riconosce Barak. Il governo di Netanyahu sta cercando di invertire la rivoluzione e di riportare Israele al modo in cui funzionava prima degli anni Novanta.
Se questa sia la strada giusta è discutibile. Ma non dobbiamo ignorare la storia e quindi disegnare un quadro falso.
Torniamo al concetto di democrazia.
La rivoluzione portata avanti da Barak si basava sull'idea che un Israele pienamente democratico sarebbe diventato troppo "ebraico" e quindi non democratico, dal momento che l'elettorato religioso conservatore avrebbe iniziato a superare quello laico liberale.
Quindi Barak ha compiuto un passo antidemocratico preventivo concedendo alla Corte di Giustizia nuovi poteri che le avrebbero permesso di annullare le decisioni "irragionevoli" della Knesset eletta.
Questo e altri evidenti difetti del sistema giuridico israeliano sono stati aspramente criticati dai principali studiosi di diritto statunitensi dell'epoca.
Il giurista Richard Posner ha descritto Aharon Barak come un "despota illuminato" e ha definito la sua acquisizione del potere giudiziario un atto di "pirateria". Nel suo libro del 2003 Coercing Virtue, l'ex procuratore generale degli Stati Uniti Robert Bork è rimasto sconvolto dall'autoritarismo della Corte Suprema israeliana sotto Barak e i suoi successori.
"Immaginate una Corte Suprema che ha il potere di scegliere i propri membri, che annulla le leggi e le azioni dell'esecutivo in caso di disaccordo sulla politica, che cambia il significato delle leggi promulgate, che proibisce l'azione del governo in certi momenti e la ordina in altri, e che rivendica ed esercita l'autorità di annullare le misure di difesa nazionale", ha scritto Bork. "Immaginate una Corte suprema che ha creato un diritto costituzionale quando non esiste affatto una Costituzione".
Da non credere, ha concluso Bork, "non è necessario alcun atto di immaginazione: la Corte Suprema di Israele li ha realizzati tutti".
Ma Israele non è l'America, e quindi questa critica è rimbalzata su Aharon Barak come l'acqua sulla schiena di un'anatra. Israele è molto piccolo e molto frammentato, e Barak ha concluso che solo una certa parte della società israeliana, che lui chiamava "pubblico illuminato", poteva essere affidabile per mantenere la nazione in carreggiata.
Non ci si poteva fidare della crescente marmaglia di destra per mantenere Israele progressista, liberale e "libero".
Con questo approccio Barak ha limitato le libertà democratiche degli israeliani religiosi conservatori e degli ebrei ultraortodossi, molti dei quali, se non la maggior parte, vogliono una forma di governo diversa.
La domanda è questa: Gli israeliani, tutti gli israeliani, possono godere di pieni diritti democratici? O hanno bisogno (o almeno alcuni di loro) di un tutore, o meglio, di una supervisione giudiziaria superiore?
Il fatto è che gli stessi israeliani non sono mai stati in grado di rispondere a questa domanda.
Aharon Barak e la sua cerchia di "illuminati" hanno deciso per loro.
(Israel Heute, 19 settembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«Non ci si poteva fidare della crescente marmaglia di destra per mantenere Israele progressista, liberale e "libero"». In questo Israele non è all'avanguardia, altre nazioni l'hanno preceduto, tra cui i superdemocratici Stati Uniti, capofila di stati trascinati, come l'Italia, nell'ondata dei dem, democratici doc. M.C.
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I grandi progetti come Imec procedono nonostante le difficoltà tra Riad e Gerusalemme
di Emanuele Rossi
“Il ministero degli Affari Esteri esprime la condanna e la denuncia del Regno dell’Arabia Saudita per l’assalto alla moschea di Al-Aqsa da parte di un gruppo di estremisti sotto la protezione delle forze di occupazione israeliane”, così scrive su X il governo di Riad, guidato dall’erede al trono Mohammed bin Salman, che per la prima volta nella storia del regno è anche primo ministro. La posizione è dovuta e al limite simbolica, il Paese protettore dei luoghi sacri dell’Islam non può non prendere le difese palestinesi per i fatti avvenuti domenica mattina, quando le forze israeliane hanno aggredito violentemente i palestinesi vicino a uno dei cancelli della moschea (tra questi c’erano persone anziane, spinte a terra, ferite dai soldati del governo Netanyahu).
• La normalizzazione e i suoi problemi Tutto va inserito in un contesto più ampio, che riguarda la gestione dura che l’esecutivo israeliano ha deciso di tenere nei confronti dei palestinesi (quella di domenica è una vicenda che segue un trend). Aspetto per cui il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato contestato anche al suo arrivo a New York, per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Unga), con i manifestanti accusati di “allinearsi con l’Iran”. Ma soprattutto tutto va inserito nel quadro ampio e altamente strategico dei negoziati per costruire un accordo di normalizzazione — mediato dagli Stati Uniti — tra Israele e Arabia Saudita.
C’è molto rumore attorno al dossier, e il fatto che Netanyahu a New York avrà una breve chiacchierata con Joe Biden a latere dell’Unga alimenta i rumors e il gossip diplomatico. L’ultima notizia dice che Riad avrebbe deciso di interrompere i colloqui per la normalizzazione dei legami con Israele. La decisione, secondo Elaph (media arabo indipendente basato a Londra), sarebbe stata comunicata agli israeliani dagli Stati Uniti, citando le preoccupazioni per il governo di destra israeliano e proprio la sua posizione “estremista” sulla questione palestinese. I funzionari statunitensi hanno negato l’interruzione delle discussioni. I funzionari israeliani hanno contestato l’idea che la questione palestinese sia un ostacolo alla pace, ma viene tirata fuori quasi a orologeria nei momenti che contano, ricordando quanto costoso e problematico sarà la normalizzazione con Israele senza una componente palestinese quanto meno affrontata.
Eppure quella normalizzazione è un dossier altamente strategico che può riordinare una regione come quella mediorientale costantemente caotica e caoticizzata, e dare impeto fondamentale a progetti cruciali come quello del corridoio Imec, infrastrutture geopolitica che apre praticamente al concetto di Indo Mediterraneo e sarebbe un propulsore per un nuovo ruolo globale dell’Europa – e dell’Italia.
• Imec, Israele e Arabia Saudita Nei giorni scorsi, il governo saudita ha sottolineato il suo ruolo nella creazione del corridoio economico che collegherà l’India, il Medio Oriente e l’Europa grazie alla sua posizione geografica strategica e all’affidabilità energetica. Il gabinetto ha discusso un memorandum d’intesa con gli Stati Uniti per creare corridoi di transito verdi intercontinentali che passino attraverso la penisola araba, facilitando il trasporto di elettricità rinnovabile, idrogeno pulito e altro. Re Salman ha guidato il meeting del gabinetto di governo riunitosi a Neom, la città-corridoio che (quando sarà ultimata nel 2025) scorrerà per 170 chilometri lungo le coste del Mar Rosso, opera che simboleggia la narrazione strategica globale del Paese. Da Neom, l’Imec è stato osannato come uno degli elementi che rende l’Arabia Saudita una potenza a capacità globale.
Per il progetto Imec il territorio Saudita è cruciale, perché fa da ponte tra l’India (via Emirati) e l’Europa, a cui si connetterà tramite un passaggio (ferroviario) sul suolo giordano e poi il porto israeliano di Haifa. La posta in gioco è molto alta, e difficilmente Riad rinuncerà a una visione pragmatica impedendo la connessione con Israele anche se non dovesse formalizzarsi una effettiva normalizzazione — d’altronde qualcosa di simile c’è già dal punto di vista dei collegamenti aerei e di informale nel dialogo tra intelligence davanti alle minacce comuni (come terrorismo e Iran, che spesso si sovrappongo) o i contatti più ufficiali all’Unesco.
“Per avere successo, i partecipanti di Imec dovranno anche garantire che il progetto si materializzi e sia abbastanza allettante da incentivare in modo significativo gli attori regionali”, spiegano Cinzia Bianco e Julien Barnes-Dacey dell’Ecfr. “Il progetto costerà decine di miliardi di dollari e affronterà enormi sfide logistiche, che richiederanno un significativo impegno occidentale”, scrivono in un’analisi approfondita sul sito del think tank paneuropeo. “Se perseguito con serio impegno, sostenuto da aspettative realistiche e legato a una visione di integrazione economica regionale inclusiva, l’Imec potrebbe svolgere un ruolo significativo nell’affermare la rilevanza geo-economica dell’Europa nella regione del Golfo”.
L’analisi dà il senso della prospettiva comune israelo-saudita: Imec vale molto più del progetto in sé, è un piano di integrazione che si muove assieme alla normalizzazione Gerusalemme-Riad e coinvolge potenze come India, Stati Uniti e Unione Europea, anche in ottica alternativa alla Belt & Road Initiative cinese. Per questo gli americani stanno lavorando a un accordo “trasformativo” (parola del segretario Antony Blinken) tra Israele e Arabia Saudita, perché dal punto di vista strategico la normalizzazione e la successiva integrazione non possono essere bloccati. D’altronde, la questione palestinese è stata parzialmente marginalizzata anche per permettere il procedere degli Accordi di Abramo, il quadro con cui Israele ha riaperto le relazioni diplomatiche con altri Paesi arabi, tra cui gli Emirati. Anche in quel caso, nell’intesa si parlava dei diritti dei palestinesi e si richiamava la soluzione a due stati come simbolo e necessità del rapporto con Israele.
(Formiche.net, 19 settembre 2023)
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La Memoria del Campo A: nuova visita da Israele a Boffalora Sopra Ticino in memoria dell’Aliaah Bet
di Anpi Magenta
Dopo l’evento inaugurativo della stele alla Memoria del Campo A per l’Aliyah Bet 1945-’48, di Boffalora Sopra Ticino (noto come “di Magenta”), dell’11 settembre 2022, iniziative a tema sono seguite, da parte del gruppo Percorso della Memoria Diffusa (ANPI Prov. Milano, Raggr. Divisioni Patrioti Alfredo Di Dio – FIVL, Ecoistituto della Valle del Ticino), promotore della stele e di una serie di altri pannelli-memoriali della storia di Resistenza locale, dalla grafica uniforme, alcuni già posati, alcuni in programma, in svariati Comuni del Castanese e del Magentino. Fra queste iniziative, due importanti visite da Israele, la più recente, domenica 10 settembre 2023.
L’Aliyah Bet del dopoguerra – è noto – fu un’operazione militare sionista di accoglienza e aiuto all’emigrazione degli ebrei europei sopravvissuti alla Shoah, verso la Palestina sotto mandato britannico. L’operazione era clandestina, in quanto gli amministratori inglesi avevano chiuso le porte della Palestina agli ebrei fin dal 1939, per evitare problemi col mondo arabo. Il Campo A, lo dice il nome stesso, fu il principale dell’Aliyah Bet del dopoguerra dall’Italia, il più importante sul piano dirigenziale e funzionale. Era infatti diretto da Yehuda Arazi (capo dell’intera operazione sul nostro suolo nazionale) e da Ada Ascarelli Sereni, sua principale collaboratrice.
Nella mattinata di domenica 10 settembre 2023, dunque, presso Villa La Fagiana (il sito-memoriale), è avvenuto un nuovo incontro (che fa seguito al recentissimo, del 6 giugno) con un folto gruppo di visitatori da Israele, accompagnati in Italia per un “Viaggio della Memoria” dalla Signora Orli Bach, nipote di Yehuda Arazi (dirigente del Campo A), già ospite d’onore del gruppo Percorso della Memoria Diffusa, nel 2022, per l’inaugurazione della stele.
Le tappe di questo viaggio sono state il Memoriale della Shoah di Milano, Sciesopoli Ebraica di Selvino, Villa La Fagiana di Boffalora Sopra Ticino, la Sinagoga di Casale Monferrato e infine la Liguria, regione da cui partirono molte navi dell’Aliyah Bet.
L’incontro a Villa La Fagiana, condotto dalla sezione ANPI di Magenta, referente nel gruppo Percorso della Memoria Diffusa per l’organizzazione di questa iniziativa, è stato, come sempre, aperto al pubblico, con invito ai patrocinanti la stele e a varie personalità. Ha avuto inoltre la collaborazione di Marco Cavallarin, referente per la Memoria di Sciesopoli Ebraica, accompagnatore dei visitatori sia al Memoriale della Shoah che a Selvino.
La cerimonia semplice e informale, ma di grande significato, è stata coronata dall’esecuzione corale (da parte degli ospiti e del pubblico) di canti ebraici e italiani della Resistenza.
Anche in quest’occasione, come in giugno, è stata donata ad ogni presente una copia dell’opuscolo Il Ponte (a cura della sezione ANPI di Magenta, in versione inglese per gli ospiti da Israele), che riassume la storia di quel sito.
“La data di oggi, 10 settembre 2023” – ha detto Elisabetta Bozzi, Vicepresidente dell’ANPI di Magenta – “per una straordinaria coincidenza è la Giornata Europea della Cultura Ebraica. Mi piace pensare che, seppur non ufficialmente, il nostro evento si inserisca perfettamente in questo contesto, percorso di Memoria che sostiene e celebra quello culturale, e che ne è parte integrante”.
(Bet Magazine Mosaico, 19 settembre 2023)
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Papa Pio XII sapeva dello sterminio degli ebrei. La prova in una lettera ritrovata

di Luca Spizzichino
Papa Pio XII sapeva quanto stava accadendo nei campi di sterminio nazisti, in particolare ad Auschwitz e Dachau. Lo ha rivelato Giovanni Coco, archivista e ricercatore all’Archivio Apostolico Vaticano, sull’inserto “La lettura” del Corriere della Sera.
Il ricercatore ha scoperto una lettera del 1942 in cui un gesuita tedesco antinazista, Lothar König, parla esplicitamente a padre Robert Leiber, il segretario di Pio XII, che riceveva le lettere per suo conto, dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, descrivendo nel dettaglio quanti ebrei venissero uccisi nei campi ogni giorno.
Questo documento è la più importante prova scoperta fino a oggi del fatto che papa Pio XII fosse a conoscenza dello sterminio degli ebrei in corso nei campi nazisti.
König, ha spiegato Coco nell’intervista, durante la guerra fu l’uomo di collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, l’antinazista Michael von Faulhaber e il Vaticano. Secondo Coco dalla lettera si capisce che tra König e padre Robert Leiber, c’era una certa familiarità e che certamente quella corrispondenza andava avanti da diverso tempo.
«Il nome di Dachau era già noto da molto tempo e dal gennaio 1941 era divenuto il campo di detenzione per il clero. E in realtà anche il nome di Auschwitz era conosciuto in Vaticano sin dal 1941» ha sottolineato il ricercatore nell’intervista.
«La novità e l'importanza di questo documento derivano da un dato di fatto: sull'Olocausto, stavolta si ha la certezza che dalla chiesa cattolica tedesca arrivavano a Pio XII notizie esatte e dettagliate sui crimini che si stavano perpetrando contro gli ebrei» ha aggiunto.
La lettera scoperta da Coco dimostra non solo che papa Pio XII sapesse ciò che stava avvenendo, ma che riceveva notizie di prima mano sui campi di sterminio. «In Vaticano inizialmente i lager erano noti come luoghi di detenzione di massa, soprattutto per polacchi e per ebrei, dove si moriva per le sevizie ricevute».
Perché allora Pio XII scelse di tacere? Secondo Coco furono molteplici i fattori: in primo luogo la possibilità di rappresaglie naziste contro i cattolici polacchi, e poi, in larga parte il fatto che in Vaticano ristagnasse un pregiudizio contro gli ebrei non solo sul piano religioso, ma talvolta anche antisemita. Monsignor Angelo Dell'Acqua, a cui fu affidato il dossier degli ebrei, fu determinante nella scelta del pontefice, rivela Coco.
Diversi storici hanno commentato la lettera ritrovata nell’Archivio Apostolico Vaticano. Michele Sarfatti, intervistato dal Corriere della Sera, ha definito «impressionante» il documento. «È evidente che König era a conoscenza dello sterminio e intendeva metterne al corrente il Papa» ha affermato. «Pio XII era prigioniero. - ha sottolineato lo storico - Non dei fascisti o dei nazisti, ma del passato suo e della Chiesa cattolica, secoli di pregiudizi nei riguardi del popolo ebraico».
«In un intervento del 2 giugno 1943, - ha proseguito - Pacelli commisera le persone assoggettate a "costrizioni sterminatrici" e in un passo successivo ricorda la tragica sorte del popolo polacco. Degli ebrei invece non fa menzione. Nei suoi discorsi il vocabolo "ebreo" non esiste, è come una sorta di buco nero».
«Pio XII non poteva fermare la strage. E credo che fosse molto addolorato per quanto avveniva. Ma rimase avviluppato nella ragnatela di una tradizione avversa agli ebrei. - ha sottolineato - Nel frattempo l'antisemitismo razziale, diverso da quello religioso cattolico che mirava alla conversione, si era spinto fino alla strage di massa. La storia era andata più veloce rispetto alla capacità della Chiesa di comprendere quanto avveniva».
(Shalom, 18 settembre 2023)
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All’Università Gregoriana, una conferenza su Pio XII e gli ebrei
di Nathan Greppi
Ha suscitato scalpore, negli ultimi giorni, la notizia del ritrovamento di una lettera del 12 dicembre 1942, dalla quale si evince come
Papa Pio XII fosse al corrente già allora di ciò che avveniva nei campi di concentramento nazisti.
Più in generale, dagli Archivi Vaticani sono emersi in tempi recenti dei nuovi documenti che gettano una nuova luce sul ruolo del Vaticano durante la Shoah, resi fruibili per la prima volta nel marzo 2020 da
Papa Francesco. Il loro contenuto verrà presentato al pubblico e ai giornalisti da lunedì 9 a mercoledì 11 ottobre nel corso di un convegno alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, intitolato New Documents from the Pontificate of Pope Pius XII and their Meaning for Jewish-Christian Relations: A Dialogue between Historians and Theologians (“I nuovi documenti del Pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane: un dialogo tra storici e teologi”).
Il convegno, che si svolgerà sia in italiano che in inglese nell’Aula Magna dell’ateneo, è suddiviso in sette sessioni per tre giorni: la prima sessione, che si terrà lunedì 9 ottobre, affronterà le politiche adottate da Pio XII nei confronti del fascismo, del nazismo e del comunismo.
La seconda sessione, martedì 10 ottobre, esplorerà la visione del mondo del Vaticano in generale e sulla Shoah in particolare, con riferimenti ai punti di vista che plasmarono le decisioni dei funzionari, prelati e laici facenti parte della cerchia del Papa. Nella terza sessione verranno trattate la teorizzazione e la messa in atto delle leggi razziali, prima in Germania e poi in altre nazioni europee, tra cui l’Italia. La quarta sessione sarà dedicata al salvataggio degli ebrei, con particolare attenzione all’80° anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma.
Mercoledì 11 ottobre si terranno la quinta, sesta e settima sessione. Innanzitutto verranno illustrate le reazioni dei diplomatici papali di fronte alla crisi dei rifugiati e agli orrori della Shoah. In seguito verranno raccontati episodi in cui il Vaticano aiutò criminali di guerra nazisti condannati in tribunali militari internazionali. Infine, verrà ripercorso il graduale cambiamento interno alla Chiesa che portò alla dichiarazione Nostra Aetate del 1965, quando il Concilio Vaticano II pose fine all’impostazione antisemita che per secoli ne ha segnato i rapporti con il mondo ebraico.
Tra gli ospiti, figurano
Rav Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma;
Iael Nidam-Orvieto, Direttrice dell’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme;
Claudio Procaccia, Direttore del Dipartimento Cultura della Comunità Ebraica di Roma; e gli storici della Fondazione CDEC di Milano
Liliana Picciotto e
Michele Sarfatti. Mentre al termine dei lavori, i discorsi conclusivi saranno tenuti dalla Presidente UCEI
Noemi Di Segni e da
Raphael Schulz, Ambasciatore israeliano presso la Santa Sede.
(Bet Magazine Mosaico, 18 settembre 2023)
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Ucraina, le bombe russe a Uman non fermano gli ebrei in festa per capodanno
Nella città dove è sepolto il rabbino Nachman 40mila ortodossi da tutto il mondo. Un pellegrinaggio bloccato dal Covid, non dalla guerra.
di Paolo Brera
UMAN — Li fermò il Coronavirus, ma la guerra no. Sono qui da tutto il mondo, almeno 40mila ebrei ortodossi chassidici coi riccioloni lungo le tempie, in testa lo shtreiml di martora e «shana tova umetuka!», ti auguro un anno buono e dolce. Cantano pregando e ringraziando Dio per il profumo dei sacchetti di cannella, per l’effluvio delizioso della salvia e della menta che annusano attorcigliate in mazzetti. Sciamano in processione verso il santuario dello tzaddik Nachman, “il giusto” morto qui a Uman nel 1810 e sepolto in questa sinagoga squinternata in cui oggi entrano solo i maschi. Parlava con Dio, rabbi Nachman, «come si parla con un amico», e in questo mondo che ha creduto nel secolarismo e si è ritrovato in decadenza e in guerra il suo messaggio arriva alle anime dei pellegrini. Risalgono il loro fiume costi quel che costi, come i salmoni sui ruscelli gelidi del Canada tra le zampate degli orsi. L’allarme areo? «Non importa. È qui che devi essere — dice Avraham Nahman, 32enne israeliano del Golan — e vengo da 26 anni». Dicono che il rabbino Nachman, venerato come santo, chiedesse di raggiungerlo almeno una volta nella vita; loro tornano come metronomi per il capodanno, Rosh Hashanah, che cambia come la nostra Pasqua ed è finito ieri. Inizia l’anno 5784. «Vieni alla festa, stanotte, ti divertirai. Balleremo, ci sarà musica, sarà fantastico», dice Bernie di New York. Sono arrivati a Uman, a mezza via tra Odessa e Kiev, come si va a Lourdes o alla Mecca, in pellegrinaggio nel luogo in cui ogni ortodosso chassidico — corrente slava nata nel XVIII secolo tra gli ashkenaziti — sogna di essere. Qui è la tomba del rabbino, non hanno paura di entrare in un paese in guerra da 19 mesi coi cappelli neri e le Kippah a zuccotto, le tuniche bianche tallit katan e i cappotti neri anche se c’è il sole, col nastro bianco e blu del ptil tekhelet, «azzurro come il cielo e bianco come lana di pecora», dice Israel, elettricista 24enne di Gerusalemme.
E allora eccoli nella città sventrata da un missile russo il 28 aprile: si mangiò i piani alti di un condominio, 23 morti. Ti danno tre minuti per capirli, tra sorrisi e strette di mano; poi via sulla loro strada, la Puskin che ora si chiama “via del Turismo” perché in Ucraina quello che era russo non c’è più. «Spendo tremila dollari di affitto, siamo dieci per 4 giorni e venti anni fa pagavo 7 dollari», dice Eial, preside in Israele. È una tale invasione che gli ucraini hanno imparato a fare la cresta: «Quanto costa l’avocado?» chiede il giornalista ucraino alla commessa. «Prezzo ucraino o per gli ebrei?», replica. «Quasi tutto il quartiere è stato comprato — dice Naomi Leibi, 53enne di origini marocchine, occhi verdi «e 14 figli», «40 nipotini» e una vita un po’ in Israele e un po’ qui. «Ogni volta affittiamo lo stesso appartamento dalla stessa signora che vive in Italia. Sono venuta 35 anni fa, ogni anno torniamo cinque o sei volte nelle feste religiose. Io resto in casa per non stare tra gli uomini, ma ero stanca del balcone e sono scesa. Ho finito ora di cucinare per tutti». Si mangia ogni dieci metri, stufato di patate o carne grigliata, pastasciutta e vassoi di frutta. Ecco la parete delle bibite coi rubinetti che erogano tè caldo e caffè, latte e zucchero e qui c’è il cesto dei biscotti. Non si paga nulla, a sinistra è «riservato per gli uomini, le donne di fronte» ma le donne mica ci sono. «Le cose cambiano ma ci vuole tempo — dice ancora Bernie — vengo quasi sempre con mia moglie. Ci siamo trasferiti con tre figli due settimane fa da New York a Israele, un sogno. La prima volta venni per divertirmi, avrai sentito le voci che si beve e ci sono droghe... mi ha cambiato dentro, mi sono disintossicato».
Lì una sinagoga di stracci, una enorme è un moncone di edificio col tetto di lamiera; sono strutture temporanee, affollatissime, banchi con le torah e preghiere, «puoi entrare anche se non sei ebreo, non ti preoccupare». Crocicchi di ebrei dondolano con la torah in mano, recitando chissà cosa rivolti a un muro. Nel parking riadattato ci sono tavolate con cento sedie, si mangia e si prega e si canta. Aron suona lo shofar, il corno d’ariete, tra ragazzi e bambini, ispirato come alla Carnagie Hall anche se sono suoni ripetitivi, disarmonici. Al santuario del rabbi Nachman c’è uno striscione: «Preghiamo per la pace in Ucraina». «Siamo venuti in preghiera, non per la politica», dice Itshak quando gli chiediamo un commento. «Paura delle bombe? Ma no, la guerra è lontana e poi Putin farà attenzione», dice monsieur Tal, 59 anni, di Antibes. Dorme all’albergo Domit, vicino alla sinagoga francese, con più di 400 francesi. «Questo è un altro mondo. Se ascolti le parole del rabbino sarai così affascinato che vorrai entrarci dentro. È la pillola rossa del film Matrix, ti fa vedere la realtà dentro la nostra anima. Fossimo tutti lì dentro, non ci sarebbero mica le guerre».
(la Repubblica, 18 settembre 2023)
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Nostalgia e ironia: scrivere contro l’oblio
A seguito dell’incontro che si è tenuto a Torino al Circolo dei lettori il 12 settembre, a vent’anni dalla scomparsa di Sion Segre Amar, e a cui hanno partecipato tra gli altri, Carlo Ginzburg e David Meghnagi pubblichiamo l’intervento di Davide Cavaliere.
Tra i relatori presenti sono, forse, l’unico a non aver conosciuto personalmente Sion Segre Amar. Il mio unico contatto con lui mi viene dai suoi libri, ma ritengo che questo non sia un limite, non di rado, infatti, i narratori si rivelano maggiormente nelle loro opere che non nella vita quotidiana. Dirò subito che Sion Segre Amar è stato un meraviglioso scrittore di racconti, di quelli che non si scrivono più, involontario maestro di quello che, personalmente, considero uno dei più difficili generi letterari, nel quale si sono cimentati con profitto solo pochi grandi. I suoi ritratti della vita ebraica torinese degli anni Venti e Trenta non hanno nulla da invidiare ai racconti di Bernard Malamud o Philip Roth sulle comunità ebraiche della provincia americana. Sono scritti in un linguaggio brillante e coinvolgente, autenticamente elegante, ossia capace di tenere insieme bellezza e semplicità. Vi prego di considerare questo breve brano:
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“E così, quel giorno che ti proposi di studiare insieme nel grande giardino botanico all’ombra della catalpa dagli stigmi eccitabili – eccitabili come me; e che caldo, che sudata! – la lezione era finita più presto del consueto, a casa non ci aspettavano, e accettasti. Bene; quella volta andavo sul sicuro: il bacio non me lo avresti negato. Non me lo negasti infatti. Ed era di quelli che conoscevo io: inesperti, passivi, concessi e non ricercati. Quelli che credevo riunissero già in sé tutti i godimenti del paradiso, le impurezze dell’inferno, le vergogne dell’impudicizia, i segreti dell’amore”.
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Queste poche righe, per quanto mi riguarda, condensano lo stile di Sion Segre Amar: inquieto e riflessivo, talvolta malizioso, costantemente pervaso da un’ironia ora pungente ora difensiva, che mi ha ricordato un altro grande dimenticato della letteratura italiana: Augusto Monti. Possiede il carisma dell’ironia; il suo atteggiamento è distaccato e divertito. Come pochi è capace di porre una corretta distanza tra sé stesso e i fatti della vita, di ridere amaramente dei propri difetti come degli eventi tragici, cito dal racconto “Dell’utilità di chiamarsi Sion”:
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Vado al Municipio, all’Ufficio Razza, per i documenti del passaporto. Non mi chiedono neanche se sono ariano. Basta il nome […] Segre Amar Sion, di razza ebraica. Bollato per l’eternità. Dal cognome, dal nome, dalla primogenitura. Neppure bisogna chiedermi se uno almeno dei quattro nonni fosse ebreo, secondo le leggi di Norimberga”.
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Fatte le dovute considerazioni stilistiche, passerei ora a quelli che mi sono sembrati essere i temi principali dei suoi lavori. Primo fra tutti, la nostalgia dell’ebraismo piemontese. Dico piemontese e non italiano perché qua, in questa regione, si era realizzata una curiosa sintesi ebraico-piemontese, soprattutto linguistica, a cui anche Primo Levi accenna nel primo racconto de “Il sistema periodico”, intitolato “Argon”. Gli ebrei del Piemonte hanno un forte senso della loro identità, la loro comunità, come scrive il nostro autore, è fiera di essere “la più vicina, non solo geograficamente, alla Francia dei sacri principi dell’89”. Si è a lungo, e giustamente, pianto sulla disintegrazione della cultura yiddish dell’Europa orientale, ma la barbarie nazista ha cancellato anche questo singolare universo ebraico.
Gli ebrei torinesi della giovinezza di Sion, e qui arrivo al secondo tema, la nostalgia per il “mondo di ieri” della civiltà borghese e liberale, a cui gli ebrei partecipavano con speranza. In tal senso reputo significativo quanto descritto nel racconto intitolato “Il nostro amatissimo sovrano”, dove Sion Segre riferisce della benedizione che, ogni sabato, gli ebrei torinesi pronunciavano in favore del Re, a porte aperte, affinché “l’ignaro goi di passaggio, col berretto in mano in segno di chiesastico rispetto, accanto al sibilante portone”, possa comprendere “quali fedeli sudditi” siano i suoi connazionali israeliti. La fiducia in questa “età dell’oro della sicurezza” non è incrinata da nessuno di quei piccoli episodi di antisemitismo che costellano l’infanzia e la prima giovinezza del giovane Sion, la cui madre soleva affermare con decisione che “adesso gli uomini sono buoni e noi ebrei siamo diventati come gli altri”. Una tolleranza che ben s’incarna nella soffusa e tiepida immagine di una vetrina di via Roma, dove sono esposte “le stelle di Davide mescolate alle madonne, le mezuzot alternate ai cuori di corallo”. Altro simbolo di questa civiltà tollerante e progressista, è il padre di Sion Segre, un proprietario terriero illuminato, fiducioso nella tecnica, sionista, lettore persino dell’”Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci, perché convinto che tutte le idee vadano ascoltate. Poi, sarebbero arrivate, con prepotenza, le ideologie che avrebbero non solo definitivamente cancellato questo mondo liberale, ma anche inquinato la futura storia repubblicana. Credo che meriti di essere citato il racconto “Saluto al Duce”. All’età di quindici anni Sion si reca al funerale di un professore, la cui bara, calata nella fossa, viene salutata con un vigoroso, quanto fuori luogo, “Saluto al Duce”. Anni dopo, il feretro di un amico di famiglia sarà omaggiato dai pugni chiusi sollevati. Sion Segre Amar ha, come Primo Levi, la consapevolezza di aver vissuto anni unici, certamente oscuri, ma anche avventurosi. Scrive perché sente di doverli salvare dall’oblio e dal dubbio che sopraggiunge col tempo. I racconti, infatti, sono una continua rielaborazione del passato; uno stesso episodio viene letto da prospettive e angolature differenti. Credo di poter affermare che tutta l’opera di Sion Segre Amar sia un confrontarsi con la storia e con il proprio ruolo in essa, oltre che con la Shoah, dalla quale, per sua definizione “è stato risparmiato seppur toccato in cari affetti” e “segnato nella personalità”. I primi due libri di Sion Segre Amar, “Sette storie del Numero 1” (1979) e “Cento storie di amore impossibile” (1983) affrontano di sfuggita il tema della persecuzione antisemita, sono libri tutto sommato sereni, persino l’ascesa del fascismo è osservata con sguardo ironico (seppur con crescente disagio); penso al modo in cui racconta l’epidemia di cimici, non il fastidioso insetto, ma la spilla del partito fascista appuntata all’occhiello. Con “Il mio ghetto” (1987) “Lettera al Duce” (1994), invece, affronta direttamente i momenti più difficili della sua vita: l’antisemitismo, l’arresto presso Ponte Tresa per propaganda antifascista, il carcere, l’amicizia con Leone Ginzburg, ricordato non solo nella veste di compagno di cella a Regina Coeli e di energico intellettuale, ma anche in quella, inconsueta, di uomo di mondo, capace di stappare la bottiglia di champagne “senza fare lo scoppio” e riempire le coppe “senza che ne debordi la schiuma”. Sion e Leone si troveranno in cella insieme a dispetto del regolamento carcerario, che vietava la coabitazione di soli due detenuti per scoraggiare atti omoerotici. Consapevole della situazione anormale, Leone scherzosamente dirà che si è fatta una deroga in virtù della sua “bruttezza”, sollevando così il morale di un Sion incupito dal carcere. Vorrei concentrarmi un attimo sulla “Lettera al Duce”. Spinto solo da una necessità interiore, l’autore confessa di aver scritto una lettera, seppur confusa, a Mussolini nel tentativo di ottenere la grazia in seguito all’arresto. Si tratta della lettera di un giovane disperato, picchiato dalla polizia, interrogato nonostante gli avessero rotto il naso con un pugno, a cui sono impediti i contatti con l’esterno, orfano di entrambi i genitori. Certo, è una lettera che vorrebbe essere ambigua, che si presti a una duplice lettura, un pentimento strumentale, ma comunque una “lettera al Duce”. Ho l’impressione che Sion Segre Amar abbia scritto questo libro per essere ascoltato, non giustificato, per svestirsi dei panni dell’eroe antifascista, per passione antiretorica e umiltà. Il libro termina così: “1925: Nella sezione A della prima classe del Liceo Massimo D’Azeglio siamo una trentina di allievi. Almeno tre di noi, il 10 per cento, scriverà una lettera al duce. 1933: Quanti correi, che oggi tacciono per morte naturale o civile, abbiamo avuto nel ventennio?”. Vi vedo qui una sottile polemica contro un certo antifascismo di maniera, manicheo, usato come trampolino di lancio per rispettabili carriere o patente di prestigio. Non eravamo eroi senza macchia né paura, sembra dire l’autore, ma semplici uomini, non privi di debolezze (lui fu assai meno debole di altri, ma era troppo severo con sé stesso per ammetterlo). Sion Segre Amar nutrirà sempre un sospetto verso la retorica antifascista, soprattutto di quella espressa “a posteriori”. Una convinzione che gli deriva dalla convivenza carceraria con Leone Ginzburg: “Mi insegna anche che l’antifascismo non esiste: esistono il socialismo, il comunismo, il liberalismo. Quella parola, oggi di moda, resterà così bandita dal mio vocabolario”. Sion Segre Amar ha subito il destino di tutti gli uomini politicamente “laici” nell’Italia delle Chiese parallele: l’oblio. Vorrei concludere questo intervento prendendo in esame il suo ultimo, breve, racconto, intitolato “Amico mio e non della ventura”, ispirato da “L’amico ritrovato” di Fred Uhlman. E’ il racconto di un’amicizia, quella tra l’autore e Guido, spezzata a un certo punto dall’apparente indifferenza di quest’ultimo alla carcerazione dell’amico e dal rifiuto di Sion Segre di ascoltare le sue ragioni. I due si ritroveranno al termine della guerra, riprendendo il filo di una conversazione interrotta anni prima. Una foto li ritrae, a braccetto e sorridenti, in una via di Roma. Siamo in presenza di un libro gioioso, intendendo con questo aggettivo non una euforia acefala, bensì il sentimento di serenità di colui che conosce gli aspetti crudeli del mondo, li attraversa e li assolve. E’ un ritrovarsi, per l’appunto, gioioso, definitivo, purificato dalle reciproche incomprensioni. Credo che, con questo piccolo libro, Sion Segre si sia fatto la sua “pace separata”, conciliandosi una volta per tutto col suo passato e con quello di questa nazione, con i suoi momenti di coraggio e di codardia. In questo Paese senza memoria, ha fatto i conti con la storia e quando un uomo come Sion Segre tira le somme, è come se lo facesse anche un po’ per noi.
(L'informale, 16 settembre 2023)
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Dopo le ottime recensioni che Davide Cavaliere aveva scritto di alcuni libri di mio Padre pensai che nessuno meglio di lui avrebbe potuto parlare della sua attività di scrittore in occasione del Convegno organizzato dalla Comunità Ebraica di Torino a 20 anni dalla sua scomparsa. Credo che il risultato mi abbia dato ragione. Emanuel Segre Amar
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Ebrea, donna, straniera. La mia vita da rabbina in Calabria
La storia di Rabbi Barbara Aiello, prima donna rabbina liberale in Italia, fondatrice dell’unica sinagoga attiva in Calabria
SERRASTRETTA - I pomodori sulle canne sono grandi e perfetti, ma ancora verdi. Nel giardino della sinagoga di Serrastretta l’estate tarda ad andare via e la natura rallenta, promette nuovi frutti laddove ci si dovrebbe solo preparare all’autunno. Del resto per gli ebrei il Capodanno è a settembre, Rosh Hashanah: è questo il tempo di un nuovo inizio. Un gatto grigio si sdraia pancia in su ad ogni gradino, si rotola tra i piedi, obbliga a procedere con lentezza, a guardarsi intorno, annusare l’aria pulita, l’eco del rosmarino steso ad essiccare al sole, a notare i dettagli, come la piccola stella a cinque punte tra i vasi delle piante grasse. La figura esile di Rabbi Barbara Aiello appare davanti alla porta a vetro per dare il benvenuto nel suo accento americano, impermeabile a oltre vent’anni trascorsi nella Sila catanzarese. E questo è solo uno dei suoi talenti: prima donna rabbina liberale in Italia, fondatrice dell’unica sinagoga attiva in Calabria, Ner Tamid del Sud – la luce eterna del Sud – che si trova proprio in questo minuscolo borgo che in pochi conoscono, isolato e protetto dall’abbraccio delle montagne.
• Dagli Stati Uniti in Italia
Sono tornata per ritrovare le mie radici» è la sua risposta alla più impellente delle curiosità sulla sua vita: che ci fai in Calabria? Nata a Pittsburgh, in Pennsylvania da una famiglia ebrea italiana, è stata ordinata Rabbi al Rabbinical Seminary International di New York nel 2004, all’età di 51 anni, e poi ha deciso di trasferirsi in Italia, nella terra dove i suoi genitori sono nati, per mantenere una promessa molto importante fatta proprio a suo padre. Serrastretta è un borgo ricco di peculiarità: è il paese delle sedie impagliate, delle fontane, delle salite e delle discese come in un quadro di Esher. Qui sono nati i genitori di Dalida, la cantante di “Ciao amore ciao” e a lei è dedicata una casa museo. È un paese di partenze – quelle degli emigranti – e di arrivi: il più importante risale a quattrocento anni fa, quando cinque famiglie di ebrei perseguitati, in fuga da Scigliano (che dista circa 35 km) arrivarono fin qui e fondarono quello che all’epoca era solo un villaggio. Ecco da dove nasce il legame così forte tra questo territorio e l’ebraismo. «Fin da bambina tornavo con la mia famiglia ogni estate – racconta Rabbi Barbara Aiello – l’ho sempre considerato il mio posto nel mondo. Non so se ne avessi bene consapevolezza, ma mi dicevo: è qui che voglio vivere».
• Lo studio della Torah
Il suo tempo di guida spirituale di una piccola comunità di circa ottanta fedeli (molti arrivano da fuori regione) è scandito dalla preghiera e dallo studio sulle carte consumate della Torah ma anche sulla rete, perché tiene on line le sue lezioni con i giovani allievi che dall’altra parte del mondo – «da Ottawa, Ontario, Vancouver, Los Angeles, Texas, New York» racconta – con lei imparano su Zoom a leggere in ebraico in attesa del Bar Mitzvah, il loro ingresso ufficiale nell’età adulta e che la stessa Rabbi officerà. Tra un viaggio e un altro è lei ad occuparsi dei “tour” in Calabria, proponendo dei pacchetti all inclusive alle famiglie di ebrei che vengono a scoprire luoghi simbolo come la Giudecca di Bova e il campo di Ferramonti. «Il calendario è fitto, anche ottobre sarà un mese impegnativo. Verranno piccoli gruppi, da 6 a 12 persone per volta – spiega – anche da molto lontano: da Israele, dal Canada e dagli Stati Uniti». I fedeli atterrano a Lamezia Terme, alloggiano in un hotel nei pressi dell’aeroporto e in autobus raggiungono la sinagoga di Serrastretta dove partecipano alle funzioni dello Shabbat, alle feste, alle commemorazioni e qui, dopo il pranzo, si passeggia, si intonano i canti e si studia la Torah all’aperto, nel giardino della sinagoga. «La mia attività contribuisce a portare visitatori a Serrastretta – chiarisce la rabbina – anche se mi dispiace che ancora non ci siano strutture ricettive che possano garantirgli anche il pernottamento».
• Il legame con Serrastretta
Barbara Aiello ha un legame forte con il paese e lavora in sintonia con la parrocchia e con il sacerdote, «come ha detto il Papa, cristiani ed ebrei sono cugini: la sinagoga fa molto per la comunità – spiega – con i soldi che vengono donati abbiamo fatto restaurare una antica fontana e ogni anno regaliamo una scatola di pennarelli ai bambini che iniziano la scuola. Tutti qui sono i benvenuti: il mio impegno è quello di aprire la porta, senza chiedere documenti. Non mi interessa sapere a quale credo appartengano».
Nelle parole della rabbina è ricorrente il ricordo di suo padre. «È lui» dice indicando una bellissima foto in bianco e nero incorniciata sul tavolo. «È stato un partigiano, ha partecipato alla liberazione del campo di concentramento di Buchenwald, in Germania. Un uomo dai grandi ideali, profondamente innamorato dell’Italia e della sua terra. Quando tornava, ogni estate, adorava tutto di Serrastretta: l’aria, l’acqua, il silenzio. Ma soprattutto – aggiunge – sognava di aiutare la comunità a ritrovare le radici ebraiche». Per questo a sua figlia ha strappato una promessa: «Devi tornare e riportare l’ebraismo e le tradizioni che sono andate perse» le ha detto. E lei è tornata. Rimangono i cognomi a testimoniare quel legame ormai perso, di cui però ci sono tracce in abitudini tramandate inconsapevolmente. «In questi anni mi è capitato di parlare con tante persone che non sanno di essere ebree, eppure coprono gli specchi con un lenzuolo bianco quando muore un loro caro, accendono candele votive il venerdì sera e in quello stesso giorno evitano di mangiare la carne di maiale. Tutte tradizioni ebraiche».
Rabbi Barbara si muove negli spazi della sinagoga, mostra i suoi shofar, i corni che vengono suonati per chiedere perdono) e la ricchissima collezione di Chanukkiyah, il candelabro a nove bracci utilizzato durante la festa di Hannukkah: da quelli più rari e pregiati a quelli più eccentrici, sono tutti doni dei fedeli, il più bizzarro arriva dal Giappone e ha la forma di un sushi. Dopo aver indossato il Talled, il tipico scialle entra nell’area dove si celebrano le funzioni: «È un luogo piccolo, ai fedeli che arrivano dalle grandi città e frequentano maestose sinagoghe, dimostriamo che non è facile, ma si può praticare anche tra tante difficoltà». La voce bassa e le parole misurate, Rabbi Barbara ha sempre una risposta chiara, nonostante l’italiano zoppicante e la propensione a dialogare in inglese. «Mi sento una pioniera, ho portato in questo paese che era ebraico in un tempo antico, la bellezza della religione: l’ebraismo è gioia e bisogna diffondere questa idea». Ruolo non facile il suo, soprattutto per una donna che appartiene ad una corrente liberale e moderna. «Sì, a volte mi sono sentita discriminata come rabbina. Gli ebrei ortodossi non riconoscono il nostro lavoro, siamo per loro come la Coca Cola light – sorride – ad esempio non ho nessun contatto con i rabbini che arrivano in Calabria per selezionare i cedri, non accettano che una donna possa ricoprire il ruolo di rabbina, per loro una donna non può toccare né leggere la Torah». Il tempo a nostra disposizione è scaduto, c’è tanto da fare in vista delle trasferte e dell’arrivo di nuovi gruppi di fedeli. Resta solo una domanda sospesa: cosa ti spinge a rimanere qui? «L’amore della gente, l’altruismo, l’amicizia vera: uso sempre il termine aiutevole, so che non è corretto ma rende l’idea. Quando qualcuno ha bisogno qui in questa piccola comunità c’è sempre qualcun altro pronto a mettersi a disposizione, a darsi da fare. Io mi sento profondamente calabrese – sorride e i suoi occhi chiari si accendono – orgogliosa di esserlo. Se penso a qualcosa che mi rende felice penso a una banda che suona per me Calabrisella».
(Corriere della Calabria, 18 settembre 2023)
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Guerra spirituale e infiltrazione
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Nel suo ultimo libro, The Great Evangelical Disaster, di cui la settimana scorsa abbiamo riportato alcuni capitoli, Francis A. Schaeffer registra il cambiamento di paradigma culturale avvenuto dagli anni '20 nella società americana, che già negli anni '80 aveva abbandonato l'ethos biblico con cui si era formata per assumere i caratteri di un umanesimo assoluto e privo di limiti.
Questo "spirito del mondo" - sostiene l'autore - si è infiltrato gradualmente anche nelle chiese evangeliche, negando di fatto, nei pensieri e nelle azioni, quella comprensione dell'autorità della Bibbia che ne aveva costituito le basi.
Il mondo si è infiltrato nella chiesa - osserva Schaeffer - non solo e non tanto per la via diretta di una negazione dottrinale, quanto e più ancora per la via indiretta di una silenziosa infiltrazione di degradati costumi morali sostenuti da pensieri e motivazioni ideologiche che proclamano il diritto alla felicità e fanno perno sulla libertà illimitata dell'uomo.
Riportiamo di seguito altri capitoli del libro di Schaeffer nella speranza che possano servire di stimolo alla riflessione e portare a chiedersi in quale misura lo spirito del mondo è riuscito a infiltrarsi anche nella cristianità evangelica italiana. M.C.
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• Edonismo Oggi viviamo in una società in cui tutte le cose sono relative e il valore decisivo è quello per cui l'individuo o la società è "felice" o si sente bene al momento. Non si tratta solo del giovane edonista che fa quello che gli piace, ma della società nel suo complesso. Le sfaccettature sono molte, ma unica è la rottura di ogni stabilità nella società. Non c'è nulla di fisso, non ci sono standard definitivi; conta soltanto quello che rende "felici". Questo vale anche per la vita umana. Il numero dell'11 gennaio 1982 di Newsweek riporta una storia di copertina di circa cinque o sei pagine che dimostra in modo sicuro che la vita umana inizia al momento del concepimento. Tutti gli studenti di biologia dovrebbero saperlo da sempre. Poi si gira pagina e l'articolo successivo è intitolato "Ma è una persona?" La conclusione di quella pagina è: "Il problema non è determinare quando inizia la vita umana vera e propria, ma quando il valore di quella vita inizia a prevalere su altre considerazioni, come la salute o addirittura la felicità della madre". La frase terrificante è: "o addirittura la felicità". Così, anche una vita umana riconosciuta come tale può essere interrotta per la felicità di qualcun altro. Se non ci sono valori prestabiliti, tutto quello che conta è la mia felicità o quella della società in quel momento.
E' sempre più accettato come naturale il pensiero che se un neonato rende infelice la famiglia o la società, deve essere lasciato morire. Basta guardare i programmi televisivi: sembra sempre di più un'alluvione. È con una visione come questa che Stalin e Mao permisero (e sto usando una parola molto gentile quando dico "permisero") che milioni di persone morissero per quello che consideravano il bene della società.
Questo è l'orrore che circonda oggi la chiesa. La felicità dell'individuo o della società ha priorità assoluta persino sulla vita umana. Dobbiamo renderci conto che rischiamo di essere infiltrati da amorali forme di pensiero diffuse nella nostra cultura, perché in effetti siamo circondati da una società priva di norme fisse, secondo cui per ogni cosa "non c'è mai colpa". Tutto viene psicologicamente accantonato o spiegato in modo che non ci sia mai una scelta tra giusto e sbagliato. Come la "felicità" della madre ha la precedenza sulla vita, così tutto ciò che può interferire con la "felicità" dell'individuo o della società viene rimosso.
• Torcere la Bibbia È l'ubbidienza alle Scritture il vero spartiacque. Possiamo dire che la Bibbia è priva di errori e tuttavia calpestarla con la nostra vita se torciamo le Scritture in modo da adattarle a questa cultura, invece di giudicare la cultura in base alle Scritture. E oggi vediamo che questo accade sempre più spesso, come nel caso del divorzio agile e del nuovo matrimonio. Le leggi sul divorzio senza colpa in molti dei nostri Stati non sono basate su umanitarismo o comprensione: si basano sull'idea che non esiste giusto e sbagliato. Quindi tutto è relativo, il che significa che la società e l'individuo agiscono in base a ciò che sembra dare loro felicità al momento. Non dobbiamo forse riconoscere che anche gran parte delle chiese evangeliche che sostengono di credere nella Bibbia priva di errori hanno forzato le Scritture sul tema del divorzio per conformarsi alla cultura, invece di lasciare che siano le Scritture a giudicare gli attuali punti di vista di una cultura decadente?
Non dobbiamo forse riconoscere che sull’argomento divorzio e nuovo matrimonio c'è stata una mancanza di insegnamento biblico e disciplina anche tra gli evangelici? Se io, in opposizione alle Scritture, rivendico il mio diritto di insidiare la famiglia - non la famiglia in generale, ma di attaccare e distruggere proprio la mia famiglia - non è forse come se una madre rivendicasse il diritto di uccidere il proprio bambino per la sua "felicità"? Mi è difficile dirlo, ma qui c'è un'infiltrazione della società che per le Scritture è distruttiva come lo è un attacco dottrinale. Entrambi sono una tragedia; entrambi falsificano le Scritture per conformarsi alla cultura circostante.
• Il segno del nostro tempo A che serve che l'evangelicalismo si espanda sempre di più se un discreto numero di coloro che si dicono evangelici non si attengono più a ciò che rende l'evangelicalismo evangelico? Continuando così, noi non siamo fedeli a quello che la Bibbia dice di essere e non siamo fedeli a quello che Gesù Cristo dice che siano le Scritture. Ma anche - non dimentichiamolo mai - se continuiamo così noi e i nostri figli non saremo preparati a sostenere i giorni difficili che ci aspettano.
Se ci conformiamo non potremo essere il sale per la nostra cultura - una cultura in cui oggi la morale è soltanto una questione di orientamento, di medie statistiche. Perché è questo il segno distintivo, il marchio della nostra epoca. E se portiamo l'impronta dello stesso marchio, come potremo essere il sale per la generazione frammentata e disgregata in cui viviamo?
Ecco allora lo spartiacque del mondo evangelico. Dobbiamo dire, con amore ma con chiarezza, che l'evangelicalismo non è coerentemente evangelico se non c'è una linea di demarcazione tra coloro che hanno una visione totale delle Scritture e coloro che non la hanno. E si noti che non stiamo parlando di una dottrina teologica astratta. Alla fine non fa molta differenza se la Scrittura è compromessa da un'infiltrazione dottrinale o da un'infiltrazione morale della cultura circostante. È l’ubbidienza alle Scritture che fa da spartiacque: ubbidienza sia nella dottrina sia nel modo in cui viviamo nell'arco intero della nostra vita.
• Confronto Ma se davvero crediamo questo, dobbiamo allora considerare una cosa: la verità implica il confronto. La verità esige il confronto; un confronto amorevole, ma pur sempre un confronto. Se la nostra reazione ci spinge sempre all’adattamento, indipendentemente dalla centralità che occupa la verità nella questione, c'è qualcosa che non va. Come diciamo che la santità senza amore non è il tipo di santità di Dio, così dobbiamo dire che l’amore senza santità (che in certi casi include il confronto), non è il tipo di amore di Dio. Dio è santo, e Dio è amore.
In preghiera dobbiamo dire no all'attacco dottrinale alla Scrittura. E dobbiamo dirlo con chiarezza, amore e forza. Ma dobbiamo dire no anche all'attacco alla Scrittura che proviene dall'infiltrazione nella nostra vita dell'attuale visione del mondo con la sua nozione di non colpevolezza nelle questioni morali. Dobbiamo dire no a queste cose nella stessa maniera.
Il mondo dei nostri giorni non ha valori e standard fissi, quindi ciò che le persone concepiscono come felicità personale o sociale ricopre tutto. Noi non siamo in questa posizione. Abbiamo l’inerrante Scrittura.
Guardando a Cristo per ricevere forza contro una pressione tremenda - perché tutta la nostra cultura oggi è contro di noi - dobbiamo respingere allo stesso modo l'infiltrazione della cultura mondana sia nella dottrina sia nella vita. In entrambi i settori dobbiamo dichiarare l'inerranza della Scrittura e poi vivere in base ad essa nella nostra vita personale e sociale. Nessuno di noi lo fa in modo perfetto, ma deve appartenere al "settaggio” del nostro pensiero e della nostra vita. E quando manchiamo, dobbiamo chiedere perdono a Dio.
La Parola di Dio non passerà mai, ma guardando indietro all'Antico Testamento e al tempo di Cristo, dobbiamo dire con lacrime che per mancanza di forza d'animo e fedeltà, molte volte il popolo di Dio ha piegato la Scrittura per conformarsi alla cultura passeggera e mutevole del momento, invece di rimanere fermo nella inerrante Parola di Dio che giudica lo spirito del mondo e la cultura di ogni tempo.
Nel nome del Signore Gesù Cristo: che i nostri figli e nipoti non abbiano a dover dire un giorno che una cosa del genere si può dire anche di noi.
(da "The Great Evangelical Disaster" di Francis A. Schaeffer - trad. www.ilvangelo-israele.it)
(Notizie su Israele, 17 settembre 2023)
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Pio XII sapeva della Shoah: la prova in una lettera scritta nel 1942 da un gesuita tedesco
L’intervista di Massimo Franco all’archivista vaticano Giovanni Coco che ha scoperto il messaggio di Lothar König al segretario del Papa.
di Antonio Carioti
Una lettera ingiallita, datata 14 dicembre 1942, conferma che il pontefice Pio XII era a conoscenza dei crimini compiuti dai nazisti nei campi di sterminio. L’ha scoperta l’archivista vaticano Giovanni Coco, che ne parla su «la Lettura» del 17 settembre intervistato da Massimo Franco. In quel messaggio, inviato dal gesuita tedesco antinazista Lothar König al segretario particolare del Papa, il tedesco Robert Leiber, si cita il forno crematorio delle SS nel lager di Bełzec, situato nella Polonia occupata dai tedeschi, e viene menzionato anche il campo di Auschwitz, oggetto di un altro rapporto che purtroppo per il momento non è stato reperito. Ci troviamo dunque nel cuore di tenebra della soluzione finale voluta da Adolf Hitler per annientare completamente l’ebraismo europeo.
Va sottolineato peraltro che questa lettera, dichiara Coco a Franco, «rappresenta la sola testimonianza di una corrispondenza che doveva essere nutrita e prolungata nel tempo». Si tratta dunque di una prova fondamentale circa l’esistenza di un flusso di notizie sui delitti nazisti che giungeva alla Santa Sede in contemporanea con l’attuazione del genocidio.
Se in precedenza in Vaticano si poteva ritenere che i lager fossero «soltanto» campi di concentramento, le notizie fornite da König andavano ben oltre, poiché nella lettera si legge che nell’«altoforno» presso Rava Rus’ka, cioè a Bełzec, «ogni giorno muoiono fino a 6.000 uomini, soprattutto polacchi ed ebrei». La macchina della morte ne risulta descritta in tutto il suo indicibile orrore.
Com’è noto, il silenzio di Pio XII di fronte ai crimini di massa del Terzo Reich è oggetto da lungo tempo di discussioni accese tra i critici e i difensori di papa Eugenio Pacelli: in ballo c’è anche il suo processo di beatificazione, avviato nel 1967 e assai controverso all’interno stesso della Chiesa cattolica.
Una svolta importante si è verificata il 2 marzo 2020, con l’apertura degli archivi da lungo tempo auspicata: oggi sono consultabili tutti i documenti relativi al pontificato di Pio XII, che durò dal 1939 al 1958. La disponibilità di quel vastissimo materiale ha ovviamente permesso agli studiosi di intensificare il lavoro per chiarire meglio le vicende relative al comportamento del Pontefice.
Le ricerche di Coco, confluite nel volume Le «Carte» di Pio XII oltre il mito, in uscita il 18 settembre per l’Archivio apostolico vaticano, sono una tappa assai rilevante dell’opera di ricostruzione storiografica in corso. E un’occasione per mettere a confronto i diversi punti di vista sarà offerta dal convegno internazionale in programma a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana dal 9 all’11 ottobre: I nuovi documenti dal pontificato di Pio XII e il loro significato per le relazioni ebraico-cristiane.
A questo punto è comunque indubbio che durante la Seconda guerra mondiale, mentre in Vaticano giungevano notizie sempre più numerose e dettagliate sulle atrocità compiute dai nazisti, Pio XII preferì tacere, o al massimo esprimere in termini generici la sua pena. Significativo a tal riguardo è un rapido passaggio del lungo discorso natalizio tenuto da papa Pacelli il 24 dicembre 1942, in cui si riferiva alle «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o a un progressivo deperimento».
Si può persino ipotizzare che il Papa abbia pronunciato quelle parole anche sulla scia delle rivelazioni appena giunte da König sui lager nazisti. Ma una condanna esplicita del Terzo Reich e del suo regime non venne mai formulata dalla Santa Sede, né mai Pio XII indicò chiaramente gli ebrei come vittime dello sterminio in corso. Ben più deciso nel manifestare la sua ostilità verso l’ideologia razzista e neopagana del regime hitleriano si era dimostrato il suo predecessore Achille Ratti, Pio XI.
Probabilmente il Pontefice temeva che una sua netta presa di posizione avrebbe peggiorato la situazione, rendendo più difficile l’importante opera di soccorso ai perseguitati che la Chiesa andava conducendo in quei giorni bui. E naturalmente tutto divenne più complicato dopo l’occupazione tedesca di Roma, nel settembre 1943. Si possono trovare diverse spiegazioni per la condotta prudente del Vaticano: certamente la diplomazia della Santa Sede si preoccupava di mantenere la propria «imparzialità» rispetto alle parti in guerra. Forse ebbe un peso anche la pesante eredità della millenaria avversione cristiana verso gli ebrei.
Di sicuro però, con gli ulteriori elementi forniti da Coco nell’intervista a Franco, diventa impossibile sostenere che Pio XII non fosse sufficientemente informato circa il trattamento disumano che i nazisti riservavano alle loro vittime. Non solo fonti polacche o comunque riconducibili allo schieramento in lotta contro la Germania, ma anche un gesuita tedesco aveva fornito al Vaticano solidi elementi per comprendere quale orrore si andasse perpetrando nel cuore dell’Europa.
(Corriere della Sera, 16 settembre 2023)
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Pio XII sapeva dei lager, spunta una lettera
CITTÀ DELVATICANO – Pio XII venne informato
di quanto accadeva nei campi di concentramento. Esiste una
lettera che testimonia questo, datata 14 dicembre 1942. A
pubblicarla è l’inserto ‘la Lettura’ del Corriere della Sera. La
lettera è scritta dal gesuita tedesco Lothar König, uomo di
collegamento tra l’arcivescovo di Monaco, nemico del nazismo, e
il Vaticano. La riceve padre Robert Leiber, segretario del Papa.
Si parla di Dachau e Auschwitz e dello sterminio quotidiano.
L’ha trovata Giovanni Coco, archivista e ricercatore presso
l’Archivio Vaticano, che a Massimo Franco rivela: “È un caso
unico, ha un valore enorme”.
Il clima di minaccia che si respirava in Vaticano negli anni
della seconda guerra mondiale a causa dei nazisti è testimoniato
anche da un pugnale con la svastica delle SS che fu trovato
nell’appartamento di Pio XII. A trovarlo era stato Giovanni
XXIII che chiese spiegazioni all’allora sostituto della
Segreteria di Stato monsignor Angelo Dell’Acqua che non sapendo
nulla dell’oggetto “si rivolse a suor Pascalina Lenhert,
l’oracolo di Pio XII, la sua governante. E suor Pascalina rivelò
che il pugnale era stato portato in udienza da un membro delle
SS che lo doveva usare contro Pio XII. Ma il soldato si era
ravveduto e ne aveva fatto dono al Papa”, rivela lo stesso Coco
sottolineando: “Noi cerchiamo di fare chiarezza, anche per
comprendere la stagione terribile in cui Pacelli guidò la
Chiesa”.
(ANSA, 16 settembre 2023)
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Per mantenersi in piedi l'istituzione papale, in quel momento rappresentata dalla persona di Eugenio Pacelli, ha dovuto platealmente mentire. E ha continuato a farlo negli anni successivi. Questa è un'altra prova che il papato, e non soltanto Pio XII, sta in piedi sul fondamento della menzogna, come tante volte si è visto nella sua storia. Era destinato a crollare, e questo sta avvenendo oggi davanti ai nostri occhi in modo sempre più evidente. I sinceri credenti cattolici nel vero Gesù che si trova nei Vangeli farebbero bene a prenderne le distanze in modo chiaro e netto. M.C.
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