Notizie 1-15 settembre 2024
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E’ violenta la verità?
di Marcello Cicchese
Allora Pilato gli disse: «Ma dunque, sei tu re?» Gesù rispose: «Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Pilato gli disse: «Che cos’è verità?» (Giovanni 18.37-38)
• È UTILE PARLARE DI VERITÀ? Il pretorio di un governatore romano, con la folla fuori che rumoreggia e le autorità religiose che chiedono la condanna a morte di un loro connazionale, non sembra essere il luogo adatto per un’ordinata e pacata discussione sulla verità. Così almeno potrebbe sembrare a noi, che dagli anni passati a scuola abbiamo forse ereditato l’impressione che discutere sul tema della verità sia un’esercitazione intellettuale da lasciare a persone che hanno tempo e voglia di farlo o, al massimo, da riservare a momenti particolarmente tranquilli della nostra vita.
Di verità invece bisogna parlare, e bisogna parlarne come ne parla la Scrittura, perché è tutt’altro che un argomento ozioso. Oggi si preferisce parlare d’amore, perché nell’opinione corrente l’amore unisce, mentre la verità divide. Salvo poi a scoprire, davanti a un tribunale, che l’amore di cui tanto si parlava non era vero amore. La disprezzata verità entra allora in scena e a questo punto si rivela utile, perché viene impugnata come un randello per bastonare l’altro con il lungo elenco dei suoi veri torti.
Dopo di che intervengono i professionisti del soccorso psicologico, i quali spiegano ai contendenti che nelle disturbate relazioni interpersonali l’elemento che più di altri contribuisce a peggiorare la situazione è proprio il riferimento alla verità. “Il fatto di introdurre dei concetti “vero o falso”, “bugia o verità”, immette all’interno di qualsiasi relazione un elemento molto negativo e fastidioso; nel caso della relazione di aiuto, dove uno è un professionista e l’altro è la persona che chiede aiuto, la situazione diventa veramente molto grave”. Chi si richiama alla verità è un “dogmatico” - secondo questa visione - e il suo dogmatismo lo rende rigido, intollerante, tendenzialmente violento, perché convinto di potersi e doversi riferire a una realtà esterna, oggettiva, al di sopra delle parti. Ma per alcuni questo non è possibile, e quindi lo stesso professionista deve stare ben attento a non assumere l’atteggiamento dogmatico di chi pensa di avere una verità da trasmettere alla persona che sta curando, perché è proprio il dogmatismo la malattia più grave da cui il paziente deve essere guarito. “In realtà noi non possiamo passare al paziente niente di nostro, possiamo solo aiutarlo a trasformarsi da dogmatico in scettico”. Conseguenza inevitabile e disastrosa del dogmatismo è il moralismo, con il quale si vorrebbe dire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. “Il rischio più grave è il tentativo di «moralizzare»: in un rapporto di aiuto non deve infatti esistere nessun tipo di giudizio di valore”.
“Tutte le volte che si dice «devi», «bisogna», «si deve», «ma come si fa a non capire che...», tutte le volte che si introducono elementi di questo tipo si introduce un giudizio di valore, un giudizio morale. In una relazione di aiuto questo è disastroso. La gente non desidera essere giudicata, e men che meno desidera essere duramente castigata. Quasi sempre si è già data da sola dei giudizi di valore, e in ogni caso non viene a cercare aiuto perché qualcuno alzi il dito e gli dica cosa dovrebbe fare”
• DOGMATICI INTRANSIGENTI E SCETTICI TOLLERANTI Dogmatismo e moralismo sarebbero dunque conseguenze inevitabili e nocive del richiamo ad una verità assoluta, immutabile nel tempo e universale nello spazio.
Convinzioni di questo tipo sono correnti non solo nell’ambito della cura psicologica della persona, ma anche nella sfera delle relazioni politiche. Un esempio eloquente è dato dall’attuale crisi mediorientale. Due popoli, gli ebrei e gli arabi, rischiano di provocare una carneficina mondiale perché entrambi si riferiscono ad una verità religiosa assoluta e immutabile che li obbliga a rivendicare per sé il medesimo pezzo di terra. Il loro dogmatismo intransigente, basato sulla pretesa di sapere con certezza assoluta a chi Dio ha dato quella terra, li spinge alla violenza. Se qualcuno potesse guarirli dal loro dogmatismo e riuscisse a trasformarli in scettici tolleranti molti guai potrebbero essere evitati. Così pensano alcuni, anche tra gli ebrei e gli arabi “illuminati”.
La domanda “Che cos’è verità?” è quindi tutt’altro che l’esercitazione oziosa di una mente troppo filosofica. Alcuni sostengono che nel mondo biblico-ebraico il termine “verità” ha una connotazione più morale che conoscitiva. In parte questo può essere vero. Nella Bibbia infatti il contrario di verità non è “errore”, ma “menzogna”, con tutti gli aspetti di colpevolezza che questo termine implica. Gesù parlò di verità quando disse ai Giudei: “Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8.31-32). E nominando il diavolo come colui che si oppone alla verità disse: “Egli è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo perché è bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8.44).
Ma non bisogna credere che il tema della verità possa esaurirsi in una discussione sui corretti comportamenti che popoli e persone dovrebbero tenere per assicurare a tutti una pacifica e civile convivenza. Questo è ciò che pensano gli scettici laici del nostro tempo, che intimamente si compiacciono del loro pragmatismo utilitarista e considerano le cosiddette verità religiose assolute come moleste pastoie che possono essere benevolmente sopportate fino a che si presentano in forma di folcloristici costumi locali, ma che devono essere fermamente combattute quando minacciano la tranquillità della vita sociale.
• LA NATURA PERSONALE-GIURIDICA DELLA VERITÀ La verità di cui parla la Bibbia ha un carattere che si potrebbe dire personale-giuridico. Non risponde in primo luogo alla domanda “che cosa?” (atteggiamento teoretico) o alla domanda “come?” (atteggiamento utilitaristico-morale), ma a domande del tipo: “Chi?”, “Chi è?”; e subito dopo: “Che cosa ha detto?”, “Che cosa ha fatto?”, “Che cosa vuole?”. E’ in risposta a domande come queste che si pone il problema della verità e della menzogna. I popoli antichi non mettevano in dubbio che ci fossero degli dèi, cioè delle potenze celesti che avevano potere sugli uomini e sulla terra, ma la domanda era: “Chi è il più forte?”, “Chi comanda?”. “Chi bisogna ingraziarsi?”. La Scrittura risponde che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è l’unico che “nel principio” “creò i cieli e la terra” (Genesi1.1), e di conseguenza “gli dèi che non hanno fatto i cieli e la terra scompariranno dalla terra e da sotto il cielo” (Geremia 10.11). Questa è la verità, e chi dice il contrario mente.
Ma questo Dio, che è l’unico Creatore dei cieli e della terra, ha parlato e tuttora parla. Sorgono allora altre domande: “A chi ha parlato?”, “Che cosa ha detto?” “Che cosa dice?” La verità si trova nella risposta a queste domande, perché la verità è, per definizione, quello che il Creatore del cielo e della terra dice, cioè la sua Parola. Chi non accetta questa parola e ne diffonde un’altra si trova automaticamente fuori dalla verità, e non è soltanto qualcuno che sbaglia in buona fede, ma è un bugiardo.
Il problema della verità si pone dunque in relazione alla Persona di “Colui che parla” (Ebrei 12.25) (“Chi è?”) e al contenuto della sua Parola (“Che cosa ha detto?”).
Cominciò per primo il serpente, nel giardino di Eden, a fare domande intorno alla verità quando chiese alla donna: “Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?” (Genesi3.1). Ecco il problema: “Che cosa ha detto Dio?” E qui fa il suo ingresso nel mondo il contrario della verità, cioè la menzogna. “No, non morirete affatto” (Genesi3.4), disse il serpente, e si rivelò come “bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8.44).
Il problema della verità fu posto ancora dal faraone d’Egitto in un contesto tutt’altro che filosofico. A Mosè ed Aaronne che gli comunicavano:“Così dice il Signore, il Dio d’Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto”, il faraone rispose con durezza: “Chi è il Signore che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco il Signore e non lascerò affatto andare Israele” (Esodo 5.1-2), e concluse negando la verità delle parole udite dicendo: “Questa gente sia caricata di lavoro e si occupi di quello, senza badare a parole bugiarde” (Esodo 5.9).
• LA VERITÀ SI È MANIFESTATA AGLI UOMINI Il problema della verità si è presentato al mondo, insieme con la sua soluzione, in modo decisivo e definitivo quando “la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità” (Giovanni 1.14). A un certo punto del suo ministero Gesù chiese ai discepoli: “Chi dice la gente che sia il Figlio dell’uomo?” ed essi risposero: “Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti”. E allora rivolse loro direttamente la domanda: “E voi, chi dite che io sia?” . Conosciamo la risposta di Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Matteo 16.13-16).
La verità dunque è apparsa agli uomini nella Parola di Dio fatta carne, e davanti alla domanda: “Chi è Gesù?”, Simon Pietro, per rivelazione del “Padre che è nei cieli”, rispose secondo verità. Si potrebbe dire, usando un linguaggio attuale, che Pietro fece una corretta “confessione di fede”. Non sembra però che questo sia stato sufficiente per fare di lui un fedele seguace di Gesù.
Usando le parole del faraone, si potrebbe dire che Pietro, dopo aver riconosciuto chi è Gesù, si rifiutò di ubbidire alla sua voce. Nell’episodio della trasfigurazione il Padre rese testimonianza a Gesù dicendo: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo” (Matteo 17.5). Non basta dire la verità su chi è Gesù; bisogna anche ascoltarlo, cioè agire in modo conforme alla verità della sua parola. Dopo aver riconosciuto chi è Gesù, Pietro avrebbe dovuto “camminare nella verità” (2 Giovanni 1.4) ascoltando le parole di Colui che aveva riconosciuto come Messia e Figlio del Dio vivente. Invece da quel momento cominciò a contrastare ripetutamente le parole di Gesù, mostrando di essere piuttosto all’ascolto dei suggerimenti di Satana, il padre della menzogna, fino al punto di farsi suo portavoce presso Gesù. Questo conferma che si può “professare di conoscere Dio” e “rinnegarlo con i fatti” (Tito 1.16). Pietro sfuggì alla tentazione di Satana soltanto quando riconobbe, con umiliazione, la verità delle parole di Gesù: “Prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte” (Marco 14.72).
Il problema della verità si presentò a Pilato, in una forma chiaramente personale-giuridica, quando gli misero davanti quel Rabbi giudeo di controversa fama. In qualità di magistrato romano, Pilato doveva prendere le sue decisioni sulla base di risposte a domande come: “Chi è Gesù?”, “Che cosa ha detto?”, “Che cosa ha fatto?”, “Che cosa vuole?” Si stava svolgendo un processo, sia pure sommario, e l’aula di un tribunale è la sede adatta per discutere il problema della verità. Tutte le persone coinvolte sono tenute a dire o a riconoscere la verità; dopo di che si esegue la sentenza.
Nel processo di Gesù la verità fu ripetutamente calpestata da diversi falsi testimoni, ma non fu questo che fece condannare il Signore Gesù: la sua morte non fu la conseguenza di un errore giudiziario. Alle domande: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? “ (Marco 14.61), “Sei tu il re dei Giudei?” (Marco 15.2) Gesù rispose con verità, dicendo che era venuto nel mondo “per testimoniare della verità” (Giovanni 18.37). E per questo fu condannato. Non furono le menzogne dei falsi testimoni a provocare la morte di Gesù, ma la verità uscita dalla sua bocca.
Questo conferma la natura personale-giuridica della verità, che viene contrastata non dall’errore teoretico-scientifico, ma dalla menzogna che provoca ingiustizia. Se Dio ha parlato e attraverso la Sacra Scrittura da Lui ispirata ha rivelato agli uomini la verità intorno a fatti storici, naturali, morali, chi si oppone alla sua rivelazione in nome di qualche altra autorità non è un onesto ricercatore che vuole stabilire il reale svolgersi dei fatti o un sincero pensatore che vuole comprendere il mutare dei costumi, ma è un bugiardo, un falso testimone che sostituisce la parola di verità proveniente da Dio con la parola di menzogna proveniente da uomini. Un giorno la verità sarà ristabilita, e a questo non seguirà la pubblicazione di un articolo su qualche rivista scientifica o teologica, ma la verbalizzazione di una sentenza pronunciata dalla giuria di un tribunale. Gli uomini non sanno che con le loro dissertazioni culturali e morali riempiono verbali che un giorno saranno letti, esaminati e valutati. E il tutto si concluderà con una sentenza definitiva a cui non si potrà interporre appello.
• LA VERITÀ SOFFOCATA DALL'INGIUSTIZIA Ma oggi, nel tempo della pazienza di Dio, le parti si presentano invertite. Spesso, come nel caso di Gesù davanti a Pilato, è la verità ad essere posta sotto accusa da qualche tribunale umano. Ma le sedi giuridiche in cui gli uomini tentano di soffocare la verità con l’ingiustizia sono anche i luoghi in cui Dio vuole che i suoi servitori siano testimoni della verità, avendo la promessa di una particolare assistenza da parte dello Spirito Santo (Marco 13.9-11). “Dare la propria testimonianza” significa essere testimoni di Gesù Cristo, non di sé stessi, ed è bene ricordare che il termine “testimone” appartiene al linguaggio giuridico dei tribunali, non a quello artistico dei teatri. Alle testimonianze segue una sentenza, non un applauso.
Eppure Pilato non voleva condannare Gesù. Da buon cittadino romano era attento soprattutto alle questioni di potere; quanto alle cose religiose poteva essere considerato uno scettico tollerante. Fosse stato per lui, Gesù avrebbe potuto essere liberato. In bocca sua la frase “Che cos’è verità?” forse significava: “Piantiamola una buona volta con tutte queste beghe intorno alla verità e cerchiamo di essere persone pratiche e di buon senso”. Ma il fanatismo religioso dei Giudei e l’insistenza con cui Gesù continuava a presentarsi come testimone della verità gli avevano reso impossibile resistere alla pressione delle autorità religiose e della folla, pena il rischio di essere denunciato come nemico di Cesare. Non era certo un pacifista integrale, Pilato, ma in quel caso la violenza gli sembrava proprio inutile. Non voleva crocifiggere Gesù e avrebbe potuto non farlo. E tuttavia lo fece. Perché? Quale forza glielo impose?
Erode e Pilato divennero amici dopo la condanna di Gesù (Luca 23.12), forse perché le loro storie avevano qualcosa in comune. Entrambi erano stati spinti a uccidere qualcuno contro la loro volontà. Erode non avrebbe voluto uccidere Giovanni Battista e Pilato non avrebbe voluto uccidere Gesù, ma entrambi lo fecero perché non vollero ascoltare la voce della verità che li spingeva ad agire secondo giustizia. Di conseguenza furono costretti a praticare l’ingiustizia soffocando la verità (Romani 1.18). Gesù aveva detto: “Per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Giovanni 18.37). Davanti alla verità che gli stava davanti nella persona e nelle parole di Gesù, Pilato aveva voluto rimanere in una posizione neutrale, distaccata, e di fatto era caduto sotto il potere della menzogna. Non aveva capito in che senso Gesù si proclamava re dei Giudei, ma certamente aveva capito che glielo avevano consegnato “per invidia” (Marco 15.18) e che i suoi accusatori mentivano. Ma invece di mettersi decisamente dalla parte della verità liberando Gesù e castigando i testimoni bugiardi (Deuteronomio 19.16-19), Pilato aveva cercato un compromesso con la menzogna: non lo avrebbe ucciso e non lo avrebbe assolto, si sarebbe limitato a farlo flagellare. Ma il suo tentativo di rimanere equidistante dagli “opposti estremismi” di coloro che forse considerava come fanatici religiosi non gli riuscì: poiché non era interessato alla verità ma al potere, fu costretto da colui che è il “padre della menzogna” (Giovanni 8.44) a usare il potere per soffocare la verità con l’ingiustizia.
• DA CHE PARTE VIENE LA VIOLENZA?
E’ dunque violenta la verità? Viene inevitabilmente spinto alla violenza chi vuole attenersi alla verità? Nel processo di Gesù chi ha finito per usare violenza?
Non è la verità che genera violenza, ma la menzogna, sia quando assume la forma dogmatica della contrapposizione frontale alla verità in nome di un’altra “verità” con la quale si vogliono difendere interessi inconfessabili, come hanno fatto i Giudei con Gesù, sia quando assume la forma dello scetticismo tollerante che mira a dissolvere il concetto stesso di verità per sostituirlo con un nebuloso e bonario pragmatismo che qualcuno vorrebbe chiamare “amore”, mentre in realtà è soltanto voglia di potere, come mostra l’esempio di Pilato.
Chi non “è dalla verità” (Giovanni 18.37) non si trova sul terreno di una pacifica neutralità ma su quello della violenta menzogna, che può essere religiosamente dogmatica o laicamente scettica. Se in altri tempi (medioevo “cristiano”) e in altre culture (islam) la menzogna ha usato e usa ancora la violenza brandendo l’arma di una verità distorta, nel nostro tempo e nella nostra cultura postmoderna la menzogna sta producendo germi di violenza che si sviluppano sulla carcassa di una verità dissolta. Osservatori attenti, anche tra i non cristiani, da tempo avvertono che il vuoto prodotto dall’abbandono del riferimento ad una verità assoluta sarà prima o poi colmato dall’assunzione di un potere assoluto. Il clima “dolce” promosso e diffuso dalla New Age si presta bene a disgregare, insieme con la verità, anche la personalità degli individui e a renderli adatti per essere asserviti a un potere tirannico.
“Se un giorno sorgerà un governo mondiale, avrà sicuramente bisogno di un’ideologia per legittimarsi e vi sono buone possibilità che la New Age possa rappresentare questa ideologia. Possiamo sorridere a questa idea e pensare che quel giorno è ancora lontano. Conviene però fare molta attenzione, perché questi fantasmi planetari non sono solo innocenti fantasie ... La nostra ipotesi è che la New Age stia per varare una nuova forma di totalitarismo.” E’ un’ipotesi che non dovrebbe sembrare strana a noi cristiani. Non dice forse la Scrittura che un giorno farà la sua comparsa in scena “l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio” (2 Tessalonicesi 2.3-4)?
Gesù, che è la verità e davanti a Pilato ha testimoniato della verità, non ha usato violenza, ma l’ha subita. La verità di Dio porta amore, non violenza; ma chi resiste all’amore di Dio si oppone alla verità con la forza della menzogna, ed è questa che genera violenza. Chi vuole comunicare agli uomini la verità dell’amore di Dio, manifestatosi nella persona del Signore Gesù, deve essere pronto a subire violenza, non a farla.
• IL COMPITO DI CHI ANNUNCIA IL VANGELO E’ necessario allora che gli annunciatori del vangelo abbiano la franchezza di dire sempre che la verità è una sola. Non è sufficiente che io dica: “Gesù è il mio Signore e il mio Salvatore”, perché alle orecchie di molti questo significa che ho voluto comunicare loro la mia verità, quella mi ha soddisfatto e reso felice. Di questo tutti sono disposti a rallegrarsi, come quando mi sentono dire con orgoglio, mentre sollevo un bambino di pochi mesi: “Questo è mio figlio”. Ma guai a me se poi aggiungo che “c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1 Timoteo 2.5) e che “in nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (Atti 4.12). Questo può dare fastidio e provocare stizzite reazioni, che un giorno potrebbero anche portare a forme di repressione.
Ma proprio per questo coloro che vogliono annunciare agli altri l’unica buona notizia che può salvare gli uomini dall’eterna perdizione, e vogliono farlo in modo onesto e credibile, devono mantenersi in una posizione di umana debolezza, che può anche significare essere fraintesi e disprezzati. Devono essere disposti a patire torti, non cercare di ottenere privilegi. In un mondo dominato dalle informazioni, questo può anche significare la rinuncia a curare premurosamente la propria immagine pubblica. Voler attirare troppo l’attenzione sulla propria “identità” rivela soltanto il desiderio di avere un piedistallo su cui salire per essere approvati e ammirati. Si comincia col dire che si sale per predicare meglio la verità e si finisce con il rimanerci perché si sta più comodi. E una volta che si è preso gusto alla comodità, anche la verità comincia ad essere guardata con altri occhi. Il “buon deposito” resta tale, ma nell’annuncio si comincia a selezionarne i contenuti, accantonando quelli “secondari” e “negativi” per sottolineare quelli “fondamentali” e “positivi”, che spesso sono anche quelli che non provocano noie e consentono di rimanere sul piedistallo.
Il testimone è chiamato a dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. La verità che annuncia è una realtà d’amore che porta la vita agli uomini, ma il testimone fedele sa che potrebbe incontrare la reazione d’odio della morte. In quel caso non reagirà con violenza, ma sarà disposto a subire violenza, sapendo che anche questo darà forza alla verità del messaggio di Gesù Cristo , morto in croce per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione.
“... portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; infatti, noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amor di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Di modo che la morte opera in noi, ma la vita in voi” (2 Corinzi 4.10-12).
(Il Cristiano, marzo 2001)
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Il passo lento e inesorabile di Israele
Mentre la Corte Internazionale dell’Aia respinge la richiesta di proroga presentata dal Sud Africa a sostegno della sua grottesca accusa di genocidio nei confronti di Israele per i morti a Gaza, dove, secondo le stime di Hamas i morti sono poco più di quarantamila, di cui, per l’IDF diciassettemila suoi combattenti, (ottenendo dunque un rapporto sorprendentemente basso tra combattenti morti e civili di circa 1:1,5., ovvero 1,5 civili per ogni combattente, quando per l’ONU i civili di solito rappresentano circa il 90 percento delle vittime in guerra, ovvero un combattente ogni nove civili) Israele procede a falciare Hamas.
Ieri il ministro della Difesa Yoav Gallant ha mostrato un documento attribuito a Rafa’a Salameh, il fu comandante della brigata di Hamas a Khan Younis, ucciso dall’IDF a luglio e indirizzato a Yahya Sinwar e a suo fratello Mohammad, in cui lamenta la perdita del 90 per cento dei razzi, del 60 per cento delle armi convenzionali, del 65-75 per cento dei razzi anticarro e del 50 per cento dei combattenti.
Oggi l’IDF ha dichiarato che a Rafah, la brigata di Hamas è stata decimata. Duemilatrecento dei suoi operativi sono stati eliminati, mentre centocinquanta chilometri di tunnel sono stati distrutti. Israele ha adesso il completo controllo della città e del corridoio Filadelfia. Solo pochi mesi fa la propaganda anti-israeliana annunciava l’ingresso dell’IDF a Rafah come la premessa di una catastrofe umanitaria senza precedenti, che non c’è stata.
Non si tratta di una marcia trionfale, ma di una lenta e inesorabile progressione. Nonostante i tentativi costanti di fermare l’offensiva di Israele dopo l’eccidio del 7 ottobre scorso, Israele è andato avanti. Hamas non ha alcuna possibilità di vincere militarmente questa guerra, può solo vincerla politicamente grazie al copioso fiancheggiamento di cui gode a livello internazionale.
Tutte le volte che abbiamo sentito il mantra che Hamas “non può essere distrutto”, che si sia udito fuori da Israele o al suo interno, chi lo ha pronunciato, consapevolmente o inconsapevolmente, ha reso a Hamas un servizio. La verità è che Hamas può essere distrutto, sicuramente può essere distrutto a Gaza così come l’ISIS è stato distrutto a Mosul e Al-Qaeda è stata distrutta in Afghanistan.
Non è l’ideologia che anima Hamas l’obiettivo da distruggere, è la sua presenza operativa a Gaza. Questo obiettivo è di lungo respiro, ma perfettamente raggiungibile, e certamente necessiterà che Israele occupi la Striscia per il periodo necessario a bonificarla del tutto. È esattamente quello che chi lavora indefessamente contro Israele, non desidera che accada.
(L'informale, 14 settembre 2024)
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Mattarella e il tratto di preoccupante ambiguità nel suo discorso su Gaza: il “chiaroscuro” che equipara Hamas a Israele
di Iuri Maria Prado
Pur con tutto il rispetto dovuto, occorre osservare che c’era qualcosa di incongruo nel discorso che il presidente della Repubblica ha inviato l’altro giorno all’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo in occasione della “47ª tavola rotonda su questioni attuali di Diritto internazionale umanitario”.
Premettendo che l’occasione di convegno si confrontava “con tristi e stringenti attualità” (le situazioni di crisi in Ucraina, Yemen, Siria, Haiti), il discorso presidenziale si intratteneva in modo particolare sulla “tutela della popolazione civile, dei minori, delle donne, dei più fragili”, argomentando che la questione “interpella le coscienze anche a Gaza”. Ed era con particolare – anzi esclusivo – riferimento alla guerra di Gaza che Sergio Mattarella richiamava il “bollettino quotidiano di uccisioni, distruzioni di infrastrutture, tra cui anche scuole, ospedali e campi profughi, attacchi contro operatori umanitari, personale medico, giornalisti”.
Il presidente della Repubblica non ignora che, nella guerra di Gaza, le distruzioni di infrastrutture avvengono o perché si tratta di infrastrutture militari, o perché sono adibite a tale uso da parte di miliziani e terroristi che vi si insinuano mischiandosi alla popolazione civile. Nei due casi, con intenzioni ed effetti di violazione che il diritto internazionale e umanitario non addebita a chi colpisce quelle strutture, ma a chi ne fa quell’uso illecito. Non ignora, il presidente della Repubblica, che nella guerra di Gaza non si sono registrati deliberati attacchi contro operatori umanitari, personale medico e giornalisti, e che quando si sono verificate uccisioni di appartenenti a quelle categorie si è trattato, alternativamente, di drammatiche conseguenze di operazioni belliche o – in rarissimi casi – di tragici e inescusabili errori di cui l’esercito si è assunto la responsabilità.
Ancora con il massimo rispetto, si deve poi osservare che il discorso di Sergio Mattarella si segnalava per un tratto di preoccupante ambiguità quando – giusto dopo quell’elenco di violazioni a Gaza – deplorava lo “sterile rimpallo delle responsabilità fra le parti in guerra” e il “chiaroscuro delle narrative opposte”. Il presidente della Repubblica non ignora che, nella guerra di Gaza, c’è una parte – Israele – che ha la responsabilità di difendere il proprio Stato e il proprio popolo facendo la guerra a quelli che vogliono distruggerli; e c’è una parte – il fronte terrorista e genocidiario – che aggredisce Israele e il popolo israeliano rivendicando di volerli distruggere. Il “chiaroscuro” non è nelle narrative opposte, ma nelle rappresentazioni che si prestano a equiparare quelle due responsabilità molto diverse.
(Il Riformista, 14 settembre 2024)
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TikTok: un’inchiesta rivela 72.000 post di matrice nazista
di Nathan Greppi
Da un’indagine condotta da Sky News, è emerso che i vecchi discorsi e la musica delle marce risalenti alla Germania nazista sono stati trasformati in audio utilizzati come base per numerosi video usciti su TikTok, e che vengono utilizzati come colonne sonore in almeno 72.534 post. I video che utilizzano questi suoni hanno raggiunto alti livelli di interazione sulla piattaforma, con alcuni che hanno ricevuto milioni di “Mi piace” da parte degli utenti.
Gli esempi includono un post che incolpa gli ebrei per l’islamizzazione dell’Europa, e un altro che contiene il testo “mescolando il bianco con il nero, il bianco scompare”, accanto all’immagine di repertorio di una coppia multietnica.
• DISCORSI NAZISTI Una ricerca condotta tra il 2 e il 3 settembre ha trovato 50.023 post che utilizzavano suoni audio che incorporavano discorsi di Adolf Hitler, Joseph Goebbels e altri gerarchi nazisti.
Per attirare un pubblico più ampio, la maggior parte dei discorsi è impostata su un tipo di musica assai popolare su TikTok, chiamata Drift Phonk, senza che i creatori ne fossero al corrente. Ad esempio, un post mostra l’immagine di un raduno di Norimberga accompagnato da un discorso di Hitler, ed è stato apprezzato da oltre 56.700 utenti. In un commento al suo discorso, che ha ricevuto 1.695 like, un utente afferma che “la società moderna ha assolutamente bisogno di lui”. Un altro dice di Hitler: “Ci manchi”.
Contattata da Sky News, un artista di nome Pastel Ghost e la cui musica è stata riproposta per creare contenuti nazisti a sua insaputa, ha dichiarato: “Non ero a conoscenza del fatto che la mia musica venisse utilizzata in questo modo, e lo trovo scandaloso”. Ha aggiunto che “io e il mio team stiamo setacciando attivamente TikTok e altre piattaforme per eliminare tutti i casi come questo, in cui il mio lavoro viene utilizzato per promuovere un’ideologia d’odio”.
Hannah Rose, analista per i fenomeni d’odio presso l’Institute for Strategic Dialogue, ha dichiarato a Sky News: “È scioccante, ma non ci sorprende particolarmente. Sappiamo già da diversi anni che le piattaforme non moderano adeguatamente la portata dell’odio e dei contenuti estremisti. Il che significa che contenuti come i discorsi di Hitler, e contenuti antisemiti, sono presenti non solo in aree marginali, ma anche sulle piattaforme tradizionali”.
• ALTI LIVELLI DI INTERAZIONE Per valutare la popolarità dei post che utilizzano questo tipo di audio, Sky News ha esaminato i cinque suoni più utilizzati tra quelli tratti dai discorsi nazisti, e ne ha registrato il coinvolgimento sui 10 post più popolari che utilizzano ciascuno di essi. Il risultato è che questi 50 post hanno ottenuto complessivamente un totale di oltre 13,7 milioni di “Mi piace”. Il post più apprezzato tra questi campioni ha ricevuto oltre 2,5 milioni di “Mi piace”, e include la registrazione di un discorso di Hitler.
(Bet Magazine Mosaico, 14 settembre 2024)
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La testimonianza di un ex ostaggio: “Hamas teneva Bibas in una gabbia”
di Luca Spizzichino
Adina Moshe, una degli ostaggi liberati da Hamas a novembre, ha raccontato di aver visto Yarden Bibas, padre del piccolo Kfir, in una gabbia sotterranea durante i suoi 49 giorni di prigionia a Gaza. La drammatica testimonianza è emersa in un’intervista rilasciata alla radio dell’esercito israeliano, nella quale Moshe ha descritto le condizioni degli ostaggi nei tunnel. Moshe ha raccontato di aver visto Yarden Bibas e Ofer Kalderon, entrambi del Kibbutz Nir Oz, rinchiusi in una gabbia. “Era buio pesto. Mi sono avvicinata e ho chiesto: ‘Perché siete in una gabbia?’ Loro hanno risposto che non lo sapevano. Quando ho chiesto se avevano affrontato Hamas, è venuto fuori che lo avevano fatto. Durante il rapimento, avevano tentato di opporsi ai terroristi”. Lei ha descritto il coraggio di Yarden e Ofer, i quali avevano affrontato gli assalitori nel disperato tentativo di proteggere le loro famiglie. “Mi hanno raccontato la loro storia, e immediatamente ho iniziato a pensare a come poter usare quelle informazioni una volta liberata”. Due giorni dopo, Moshe ha chiesto al comandante dell’unità di Hamas che sorvegliava gli ostaggi se potesse parlare con altri prigionieri del Kibbutz Nir Oz. Sorprendentemente, il comandante ha acconsentito e ha permesso agli ostaggi di trascorrere un’ora insieme. Il giorno successivo, sono stati lasciati insieme per altre due ore, prima di essere nuovamente riportati nelle gabbie. Durante la prigionia, Yarden Bibas ha chiesto disperatamente ad Adina Moshe se avesse notizie della moglie Shiri e dei loro figli, Kfir e Ariel. Yarden ha raccontato che, durante l’attacco, aveva tentato di confrontarsi con i terroristi mentre la moglie e i bambini si erano nascosti nel rifugio. “Spero che non li abbiano presi. Sono rimasti nascosti mentre i terroristi mi portavano via”, ha raccontato Bibas, spiegando come fosse stato trasportato a Khan Younis. A dicembre, Hamas ha diffuso un video di propaganda in cui Yarden Bibas appariva costretto a dichiarare che la sua famiglia era stata uccisa, accusando Israele per la loro morte, mentre piangeva disperatamente. Adina Moshe ha anche parlato del complicato sistema di tunnel sotterranei utilizzati da Hamas. “Lo Shin Bet non sapeva molto sui tunnel”, ha sottolineato, descrivendo la complessità del sistema: “È un enorme labirinto sotto Gaza. Ci sono linee telefoniche, alimentazioni elettriche, trappole esplosive, e aree di detenzione” ha aggiunto. Dopo la sua liberazione, Moshe è stata interrogata da funzionari della sicurezza israeliana, i quali le hanno chiesto di fornire una descrizione dettagliata del sistema di tunnel. “Ho spiegato loro che non si può semplicemente vedere la struttura, bisogna sentirla. Mi hanno anche chiesto di disegnarla, ma ho detto che non ero in grado di farlo con precisione. Tuttavia, ho cercato di dare più dettagli possibile, incluse le aree che servono per le detenzioni”.
(Shalom, 13 settembre 2024)
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Pesante attacco di Hezbollah contro il nord di Israele
di Sarah G. Frankl
Una raffica di circa 20 razzi è stata sparata dal Libano verso Israele. Secondo una dichiarazione dell’esercito israeliano la maggior parte di questi è stata intercettata o è caduta in aree aperte.
Nessuno è rimasto ferito. Un’immagine pubblicata dall’emittente pubblica Kan mostra danni di lieve entità a un edificio a Dalton, un moshav vicino a Safed, a causa di un frammento di razzo.
Hezbollah ha rivendicato la responsabilità del lancio di razzi verso la città settentrionale di Safed.
Secondo una dichiarazione, il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran afferma di aver preso di mira una base di difesa aerea a 12 chilometri dal confine con razzi Katyusha per vendicare un attacco israeliano a Kafr Joz.
(Rights Reporter, 13 settembre 2024)
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Parashà di Ki Tetzè: La mitzvà di non usare insieme lino e lana nei tessuti
di Donato Grosser
Sull’argomento di non usare lino e lana nei tessuti era stato scritto un articolo nella rivista Segulat Israel (n. 4) a cura di Moshè Netzer. Questa pagina è un riassunto dei punti principali di quell’articolo. Nella Torà vi sono due fonti che trattano la mitzvà di non usare insieme lino e lana nei tessuti; la prima è in Vaykrà (19:19) dove è scritto: “Osserverete i miei decreti, non devi incrociare i tuoi animali con altre specie, seminare il tuo campo con diverse specie di semi, né indossare vestiti con una mescolanza proibita di fibre”. La seconda fonte è in questa parashà (Devarìm,32:11) dove è scritto: “Non indossare sha’atnez, lana (di pecora) e lino insieme.” Nel versetto viene quindi spiegato che la mescolanza proibita è quella di fibre di lino e di lana. I commentatori hanno cercato di chiarire fino a quanto possibile le motivazioni della mitzvà. Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) scrive che la proibizione deriva dal fatto che era usanza dei sacerdoti idolatri usare vestimenti di lino e di lana (Guida dei Perplessi, III:37). Rav S.R. Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) in Horeb, nel capitolo dal titolo “Regarding the Species as Divine Order” scrive che l’uomo ha l’obbligo di rispettare l’ordine divino nella Creazione. Pertanto non si devono fare azioni che interferiscano in questo ordine. Pur affermando di non potere andare al di là di una conoscenza superficiale dell’argomento, egli suggerisce una classificazione delle cinque mitzvòt di rispettare l’ordine della Creazione. La prima è quella di non incrociare animali di specie diverse. La seconda è quella di non innestare alberi diversi o di mescolare le sementi. La terza è di non fare lavorare insieme animali di specie diverse (come arare con un bovino e con un asino). La quarta è di non coprirci o scaldarci con materiali tessili risultanti da combinazioni di lino e di lana. La quinta è quella di non cucinare carne nel latte. Chi indossa un vestito che include fibre di lino e di lana trasgredisce in ogni momento la mitzvà della Torà. Pertanto non bisogna indossare abiti sui quali si abbia il dubbio che includano misture di fibre di lino e lana neppure temporaneamente. È permesso però provare un vestito in un negozio se non è certo che contenga misture di lino e di lana. Misture di lino e di lana possono essere anche nelle fodere e non solo nel tessuto o nel cucito. La proibizione non ha una misura minima per cui anche un filo di lana in un abito di lino (o viceversa) è sufficiente a proibire di indossare l’abito. La mitzvà di non combinare fibre di lino e di lana riguarda solamente la lana di pecora e non la lana di cammello, coniglio, lepre ecc. Tessuti di lana e cotone sono permessi. Dal momento che un solo filo di lino in un abito di lana costituisce sha’atnez, bisogna fare attenzione quando si danno i vestiti in tintoria o al sarto che non vengano usati fili di lino per attaccare le etichette indicanti il numero o il nome del cliente. È raccontato che quando R. Shim’òn bar Yochày (II sec. E.V.) ritirò un abito da un tintore non ebreo, lo fece verificare da dieci sarti per essere certo che non vi fosse stato cucito un filo proibito (Talmùd Yerushalmì, Kilayim, 9:1). Alla categoria degli oggetti di vestiario soggetti a combinazioni di fibre di lino e di lana appartengono anche coperte, cappelli, calze, pantofole, stivali e guanti. Il Maimonide afferma che non bisogna usare neppure tovaglie, fazzoletti, asciugamani, o anche vestimenti per gli oggetti del bet ha-kenèsset con misture di lino e di lana perché con essi ci si può scaldare le mani (Mishnè Torà, Hilkhòt Kilaim, 10:24). Così come non si devono indossare abiti che contengono misture di lino e di lana, non si devono fare indossare abiti di questo tipo ad altri ebrei, neppure a dei lattanti e così pure usare coperte o lenzuola di questo genere per delle culle. Un ebreo non deve cucire vestiti che contengono misture di lino e di lana se esiste la possibilità che questi abiti vengano venduti ad altri ebrei; e anche vendere abiti a dei non ebrei se esiste la possibilità che costoro li vendano a degli ebrei. I fabbricanti ebrei di tessuti o di abiti di questo genere incorrono nella trasgressione di “porre un inciampo davanti a un cieco” se con questo contribuiscono a far commettere una trasgressione ad un ebreo. R. Chayim Kanievsky (Pinsk, 1928-2022, Bene Berak) in Derekh Emunà (note 124-5) scrive che quando si acquistano oggetti di vestiario non ci si può fidare di venditori o di sarti, sia per via di conflitti di interesse sia per il fatto che anche i sarti spesso non sono in grado di distinguere tra i numerosi tipi di fibre. L’etichetta non è una garanzia che un capo di vestiario non includa fibre di lino e di lana in quanto elenca solo le fibre del tessuto e non delle imbottiture e dei fili usati per la cucitura. C’è chi, diversi anni dopo aver comprato un vestito, ha scoperto che i colletti delle giacche e i bordi delle tasche erano rinforzati con tessuti di lino. Inoltre, le leggi statali non richiedono l’indicazione delle fibre contenute in quantità molto piccole e l’indicazione sull’etichetta è spesso imprecisa. Pertanto è importante fare verificare il vestiti dagli esperti nelle comunità.
(Shalom, 13 settembre 2024)
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Parashà della settimana: Ki Tetzei (Quando uscirai)
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Idf: “Sconfitta la Brigata Rafah di Hamas, nessun tunnel attivo al confine con l’Egitto”
Le Forze di difesa d’Israele (Idf) hanno “sconfitto” la Brigata Rafah del movimento islamista palestinese Hamas nel sud della Striscia di Gaza. Lo ha dichiarato oggi ai giornalisti il generale di brigata Itzik Cohen, comandante della 162ma Divisione delle Idf e responsabile dell’offensiva nella città più a sud di Gaza, Rafah. Almeno 2.308 dei membri della Brigata Rafah sarebbero stati uccisi dalle Idf e più di 13 chilometri di tunnel sarebbero stati distrutti. “La Brigata Rafah è stata sconfitta”, ha detto Cohen, aggiungendo: “I loro quattro battaglioni sono stati distrutti e abbiamo completato il controllo operativo dell’intera area urbana”.
Il generale israeliano ha anche spiegato che sono stati trovati 203 tunnel nel Corridoio di Filadelfia, che si estende dal confine con l’Egitto a circa 300 metri di distanza alla periferia della città di Rafah, aggiungendo che “la maggior parte di essi è stata distrutta”. “Stiamo operando negli altri siti e quando avremo finito di investigare, saranno distrutti”, ha affermato Cohen. In totale, ci sono nove tunnel che “attraversano il territorio egiziano, ma sono crollati, non sono utilizzabili, non sono attivi”, ha concluso il generale.
(Nova News, 12 settembre 2024)
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“A Gaza è in atto un genocidio”. Le ragioni di un falso
I filo-pal insistono da mesi nell’utilizzare un termine improprio per descrivere quanto sta accadendo sulla Striscia
di Francesco Teodori
Sarebbe opportuno, riteniamo a questo punto, riflettere attentamente sul significato delle parole. Significato letterale ed intrinseco. La parola “genocidio” è entrata ormai nel linguaggio comune per descrivere ciò che sta accadendo a Gaza, e la forza genocidiaria, ossia colei che opera il genocidio, sarebbe giustappunto Israele. Un uso certamente evocativo del termine, utile forse a commuovere gli animi di chi assiste, ma decisamente fuorviante.Riprendiamo per un attimo in mano il dizionario degli etimi. Il termine “genocidio” è formato dalla radice greca di ghénos, ossia “razza”, “stirpe”, e dal verbo latino caedo, “uccidere”, da cui poi si forma la desinenza cidium. Dunque, la distruzione di una razza, di un gruppo etnico in quanto tale. La sola caratteristica che giustifica il massacro, nel senso linguistico del termine, è il fatto che un insieme di esseri umani possieda una particolare caratteristica (fisica, etnica, religiosa) tale da giustificarne lo sterminio. Nella storia gli esempi sono, tristemente, molteplici. Il genocidio degli armeni fu attuato dai turchi ottomani contro il gruppo etnico, per l’appunto, degli armeni. L’Olocausto vide come protagonisti del massacro sistematico gli ebrei in quanto ebrei. Il genocidio del Ruanda ebbe come vittime la minoranza etnica dei Tutsi, sterminati per via di un tremendo odio interetnico con la maggioranza Hutu.
Durante le guerre jugoslave l’esercito serbo si macchiò di crimini atroci contro la minoranza religiosa dei bosgnacchi, ossia i musulmani bosniaci, massacrati nel tristemente noto eccidio di Srebrenica. In Cambogia gli Khmer rossi adoperarono metodi genocidiari uccidendo sommariamente la popolazione borghese cambogiana; si rammenta di uomini uccisi solamente perché portavano gli occhiali, simbolo odiato della classe borghese. Ora, dopo un simile elenco di atrocità, considerare gli avvenimenti di Gaza come parte di un genocidio in corso è decisamente iperbolico, se non indecente. I palestinesi non vengono uccisi in quanto palestinesi; Israele non ci sembra nutrire un particolare odio etnico nei confronti del suo scomodo vicino (in Israele vive 1 milione e mezzo di palestinesi). La popolazione di Gaza è vittima di una guerra iniziata da chi controllava quella città, ossia Hamas.
Se si seguisse il discorso di chi, erroneamente, parla di genocidio, dovremmo considerare gli americani come i maggiori autori di atti genocidiari: i bombardamenti di Dresda, la guerra contro i vietnamiti, le bombe atomiche sul Giappone. Anche noi europei non saremmo da meno dopo i bombardamenti della Nato sulla ex Jugoslavia. La guerra coinvolge tutti, anche i civili, ma guerra non significa necessariamente genocidio. Che poi semmai l’unico atto genocidiario è stato il pogrom perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Le parole sono pietre usava dire Carlo Levi, usiamole nel modo corretto.
(nicolaporro.it, 12 settembre 2024)
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IDF, tre membri dello staff UNRWA erano miliziani di Hamas
Dei nove miliziani di Hamas uccisi nell’attacco contro un’ex scuola dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) che accoglie gli sfollati nella Striscia di Gaza tre erano anche componenti dello staff dell’UNRWA.
È quanto riportano i media locali secondo i quali le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno identificato e redatto una lista dei nove militanti di Hamas morti in seguito all’attacco di ieri.
Secondo l’IDF a far parte del personale dell’UNRWA ed essere contemporaneamente membri del braccio militare di Hamas erano Muhammad Adnan Abu Zaid, Yasser Ibrahim Abu Sharar e Iyad Matar. In base alle informazioni diffuse dall’esercito almeno due di loro sarebbero stati responsabili anche del lancio di colpi di mortai contro le truppe israeliane.
Gli altri sei terroristi identificati dall’IDF sono: Ayser Qardaya, Bassem Majed Shahin, Omar al-Judaili, Akram Saber al-Ghalidi, Muhammad Issa Abu al-Amir e Sharif Salam. Tutti componenti delle forze di sicurezza interne di Hamas. Alcuni di loro avrebbero inoltre partecipato agli attacchi del 7 ottobre scorso.
Ieri l’UNRWA aveva reso noto che sei suoi dipendenti sono stati uccisi in due raid aerei israeliani sul campo profughi di Nuseirat, nella zona centrale di Gaza, precisando che si tratta del “più alto numero di vittime tra i nostri dipendenti in un singolo incidente” durante la guerra. Complessivamente, secondo la protezione civile gestita da Hamas, le vittime sarebbero 18.
Il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha commentato su X che “quello che sta accadendo a Gaza è completamente inaccettabile. Una scuola trasformata in un rifugio per 12’000 persone è stata colpita dagli attacchi di Israele. Sei dei nostri colleghi dell’UNRWA sono fra le vittime. Queste drammatiche violazioni della legge umanitaria internazionale devono fermarsi ora”.
(tvsvizzera.it, 12 settembre 2024)
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Israele revoca tessere stampa ai giornalisti di al Jazeera
L’ufficio stampa del governo israeliano ha annunciato la revoca delle tessere stampa di tutti i giornalisti di Al Jazeera che lavorano in Israele. Una decisione che segue quella del governo del 5 maggio, in conformità con una legge di emergenza approvata ad aprile, di sospendere l’attività della rete e bloccarne le trasmissioni per “violazione della sicurezza nazionale”. La revoca non riguarda produttori e fotografi.
“Si tratta di un mezzo di comunicazione che diffonde contenuti falsi, che includono incitamenti contro israeliani ed ebrei e costituiscono una minaccia per i soldati dell’Idf -ha affermato il capo dell’ufficio stampa governativo Nitzan Chen- Pertanto l’utilizzo delle tessere stampa da parte dei giornalisti dell’emittente potrebbe di per sé mettere a repentaglio la sicurezza dello Stato in questo momento di emergenza militare”.
(Professione Reporter, 12 settembre 2024)
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Ecco com’è realmente ridotto Hamas dopo 11 mesi di guerra
Una risposta concreta a coloro che "magnificano" la resistenza di Hamas
Mercoledì il ministro della Difesa Yoav Gallant, con l’obiettivo di dare un’idea di come è ridotto Hamas, ha rivelato un documento scritto dall’ex comandante della Brigata Khan Younis di Hamas nel sud di Gaza, Rafa’a Salameh, e indirizzato al leader di Hamas Yahya Sinwar e a suo fratello Muhammad, in cui il comandante descrive la “difficile situazione” in cui si è trovato il gruppo terroristico. Salameh, uno degli ideatori del massacro del 7 ottobre perpetrato dal gruppo terroristico, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano nel sud di Gaza a luglio, in cui è morto anche il comandante di Hamas Muhammad Deif. Nella lettera ha scritto: “Si prega di considerare quanto segue: manteniamo le armi e l’equipaggiamento rimanenti, poiché abbiamo perso il 90-95 percento delle nostre capacità missilistiche; e abbiamo perso circa il 60% delle nostre armi personali; abbiamo perso almeno il 65-70% dei nostri lanciatori anticarro e dei nostri razzi”. “La cosa più importante,” ha continuato, “è che abbiamo perso almeno il 50% dei nostri combattenti tra coloro che sono stati martirizzati e feriti, e ora ci resta il 25%. L’ultimo 25% della nostra gente ha raggiunto una situazione in cui la gente non li tollera più, distrutti a livello mentale o fisico.” Gallant ha affermato che il documento mostra “una reale difficoltà che colpisce Hamas e colpisce i comandanti più anziani”. Salameh “chiede a gran voce l’aiuto dei fratelli Sinwar, ma ovviamente non possono salvarlo”, ha detto Gallant. “Perché? Perché stiamo continuando lo sforzo iniziato a ottobre e continua passo dopo passo… e raggiunge tutti gli alti funzionari di Hamas. Lui ha scritto questo ai fratelli Sinwar, noi raggiungeremo anche loro”, ha continuato il ministro della difesa. Yahya Sinwar è il leader di Hamas a Gaza ed è considerato la mente dell’attacco del gruppo del 7 ottobre 2023, quando migliaia di terroristi invasero il sud di Israele dalla Striscia di Gaza, uccidendo circa 1.200 persone e prendendo 251 ostaggi, dando inizio all’attuale guerra. Sinwar è stato nominato il mese scorso capo del gruppo terroristico in seguito all’assassinio del precedente leader Ismail Haniyeh, avvenuto il 31 luglio. Suo fratello Muhammad è un comandante di alto rango nell’ala militare di Hamas. Mercoledì Gallant ha pubblicato sui social media anche un video dalla stessa struttura, in cui si vede una foto dei figli di Muhammad Sinwar in posa davanti a una raffigurazione dell’attacco dell’11 settembre 2001 al World Trade Center negli Stati Uniti. La foto è stata scoperta di recente in un tunnel sotto Khan Younis, ha detto Gallant nel video, pubblicato nel 23° anniversario degli attacchi dell’11 settembre.
(Rights Reporter, 12 settembre 2024)
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Piantedosi vieta le manifestazioni pro Hamas il 7 ottobre
di Simone Canettieri.
Il manifesto dei Giovani Palestinesi che indice una manifestazione per celebrare il 7 Ottobre, come atto di "resistenza". E il Viminale, giustamente, ha deciso di vietarla. Non si può inneggiare al terrorismo, nemmeno un paese libero.
Il Viminale vieterà – per la prima volta – le manifestazioni in programma nella capitale a ridosso del 7 ottobre. A un anno dall’eccidio di Hamas in Israele, il ministero dell’Interno è intenzionato a non lasciare nulla al caso. Motivi di ordine pubblico, e non solo. Troppi i campanelli che stanno suonando dalle parti del ministro dell’Interno Matteo Piantendosi. Chi si occupa di monitorare i movimenti in rete delle varie associazioni pro Pal ha notato l’attivismo dell’organizzazione “Giovani palestinesi”. Accompagnato da card e manifesti che non possono essere equivocati: “Il 7 ottobre 2023 è la data di una rivoluzione. Dopo un anno il valore dell’operazione della resistenza palestinese e della battaglia del ‘Diluvio di Al Aqsa’ è chiaro a tutto il mondo”, si legge nel comunicato finito sul tavolo di Piantedosi. Di questo argomento – l’allarme e le relative contromisure – si è discusso ieri mattina durante una riunione riservata del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica (Cnosp) presieduta dal ministro. Presenti tutte le forze di polizia, i principali prefetti italiani e soprattutto gli uomini della nostra intelligence. Una riunione simile, ma su scala provinciale, è in programma questa mattina in prefettura a Roma. E sarà sempre il titolare del Viminale a condurla. Le vie della capitale sono state scelte dai “Giovani palestinesi”. In subordine è prevista anche un’altra manifestazione. Ma a Milano. Per entrambe medesimo verdetto.
Se i presupposti saranno questi, cioè osannare l’azione di Hamas e incitare all’odio contro Israele, la scelta di Piantedosi sarà obbligata. Le indicazioni dei nostri 007 fanno propendere la scelta verso questa direzione: manifestazioni annullate. Sarebbe la prima volta di questo governo. L’unico precedente simile, ma non uguale, è dello scorso 27 gennaio, Giorno della memoria. Quando il Viminale decise di rinviare due cortei pro Palestina in programma a Roma e a Milano di qualche giorno. Per evitare una concomitanza in una ricorrenza così importante che avrebbe potuto portare a problemi di ordine pubblico come scontri con la polizia. All’epoca fu bollata dal governo “come una decisione di buon senso”.
Non circolano numeri esatti dei possibili partecipanti a queste manifestazioni.
Tuttavia a un anno dal 7 ottobre e dopo la reazione del governo israeliano nella Striscia di Gaza che dura ormai da dodici mesi, le prime cifre sono di tutto rispetto: “Intorno alle diecimila persone”, filtra dal Viminale. Nei giorni scorsi, appena l’allarme si è affacciato, in Parlamento c’è chi ha sollevato il problema. Chiedendo a Piantedosi tolleranza zero. Dopo aver presieduto il Cnosp, il ministro è andato a Palazzo Chigi per una serie di riunioni. Quella più importante, politica, è stata con la premier Meloni e i colleghi Tajani (Esteri) e Crosetto (Difesa). Nella sessione ministeriale si è parlato del Dl sicurezza, in un’altra precedente a cui hanno partecipato i vertici dei Servizi e delle forze dell’ordine, di scenari e di sicurezza.
L’appuntamento, almeno come spiegano fonti del governo, fa parte della routine. Di sicuro vietare due manifestazioni con un conflitto in medio oriente ancora in corso, e lontano da una soluzione di tregua o di pace, è un argomento su cui anche Meloni è chiamata a esporsi. O almeno a dare il via libera in maniera informale, alla luce delle informazioni in possesso dell’intelligence italiana. Il Viminale dopo la riunione di ieri mattina è intenzionato ad andare dritto: linea dura per evitare sbavature o spiacevoli incidenti o inconvenienti. Per chi si occupa di sicurezza e gestione della piazza questa è davvero l’ultima ipotesi da prendere in considerazione.
Finora tutte le manifestazioni pro Palestina sono state sempre autorizzate per cercare anche di capire chi voleva propagandare tra la folla messaggi di odio e di violenza. Un’occasione, dunque. Questa volta però non sarà così. Sull’agenda del Viminale c’è sicuramente un’iniziativa che balla a Roma per il 5 ottobre, un sabato, giorno di più facile adesione. E un’altra che potrebbe esserci a Milano lo stesso giorno o al massimo il 7. Quando sarà passato un anno esatto dalla violenza dei terroristi palestinesi che è costata la vita a più di 1200 civili e militari israeliani.
Il Foglio, 12 settembre 2024)
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Parigi: sventati tre attacchi terroristici durante le Olimpiadi
PARIGI - Secondo le autorità di sicurezza francesi, durante i Giochi Olimpici di Parigi sono stati sventati tre attacchi terroristici. Il procuratore antiterrorismo Olivier Christen lo ha dichiarato mercoledì all'emittente radiofonica “France Info”. Uno di essi era diretto contro “strutture o rappresentanze israeliane” a Parigi, ma non contro la delegazione.
I terroristi hanno preso di mira anche i pub intorno allo stadio Geoffroy-Guichard di Saint-Étienne. Lì si sono svolte sei partite del torneo olimpico di calcio, tra cui una delle partite delle donne tedesche.
Christen ha aggiunto che tutti e tre i piani di attacco avevano legami con i jihadisti. Cinque sospetti sono attualmente in custodia, tra cui un minore.
• IMMENSA PRESENZA DI SICUREZZA
Secondo gli organizzatori, ai giochi sono stati schierati 30.000 agenti di polizia, 20.000 soldati e fino a 22.000 addetti alla sicurezza privata. Tuttavia, la commemorazione del massacro olimpico del 1972 è stata spostata in un luogo segreto per motivi di sicurezza.
Il servizio segreto israeliano Shabak ha garantito la sicurezza degli israeliani in collaborazione con le autorità francesi. In vista dei Giochi, il ministro dello Sport israeliano Miki Sohar (Likud) ha dichiarato che il governo ha triplicato il budget per la sicurezza rispetto a Tokyo 2021.
(Israelnetz, 12 settembre 2024)
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La rinascita di Yonatan: dalla tragedia alla speranza
di Yael Di Porto
Il sergente maggiore Yonatan Ron, un giovane soldato dell’esercito israeliano di soli 21 anni, ha affrontato una delle prove più difficili della sua vita: una grave ferita durante un’operazione militare in cui ha perso una gamba.
Nonostante la tragedia, la sua forza di volontà non è mai venuta meno. Prima ancora di concludere il suo percorso di riabilitazione, Yonatan aveva già stabilito obiettivi ambiziosi: tornare a servire nell’esercito, viaggiare per il mondo e correre una mezza maratona.
La scorsa settimana, Yonatan ha preso parte come spettatore ai Giochi Paralimpici di Parigi, partecipando alla delegazione di El Al composta da soldati israeliani feriti nel conflitto attuale iniziato tra Israele e Gaza, per poi espandersi anche con i paesi confinanti. Tra la folla di spettatori, Yonatan si è fatto notare con la sua maglietta bianca e blu, sventolando con orgoglio la bandiera israeliana mentre osservava con ammirazione i concorrenti della delegazione israeliana. “Quando subisci una ferita così grave, all’inizio pensi che il mondo sia finito. Ma poi ti ritrovi a eventi come questo, dedicati interamente a persone che vivono la tua stessa situazione, e capisci che non c’è spazio per le lamentele”, ha dichiarato Yonatan, riflettendo sulla sua esperienza ai Giochi.
Ferito durante un’operazione lo scorso gennaio, Yonatan ha raccontato di come il 7 ottobre sia stato chiamato d’urgenza per una missione ad alto rischio. “Ogni missione può costarti la vita, ma quando riesci, sai che hai evitato che un’altra famiglia venga colpita dal dolore. In quei momenti l’adrenalina scorre forte e non hai paura di nulla”, ha spiegato.
Purtroppo, durante una missione di routine, il veicolo della sua squadra è esploso a causa di un ordigno esplosivo. Yonatan e altri due soldati sono rimasti gravemente feriti, mentre la soldatessa Shay Gormay ha perso la vita. “Sono stato sbalzato fuori dal veicolo e ho visto la mia gamba destra ancora attaccata, ma completamente girata, con una frattura esposta. Mentre i proiettili volavano sopra di me, tutto ciò a cui riuscivo a pensare era come poter fornire assistenza medica ai miei compagni”, ha raccontato Yonatan, ricordando quei momenti drammatici. Trasportato in condizioni critiche all’ospedale Rambam di Haifa, ha subito l’amputazione della gamba destra e gravi lesioni alla sinistra. Nonostante tutto, la determinazione di Yonatan è stata ammirevole. Dopo l’incidente, ha stabilito tre obiettivi fondamentali: tornare a viaggiare, riprendere a correre e, soprattutto, tornare a servire in uniforme.
Durante i Giochi Paralimpici, Yonatan ha indossato un adesivo in memoria della sua compagna d’armi, Shay Gormay, la soldatessa che ha perso la vita nell’esplosione. “Ci sono persone che parlano senza fare e persone che fanno senza parlare”, si leggeva sull’adesivo, accanto a una foto di Shay in divisa, sorridente.
Essere presente ai Giochi Paralimpici come membro della delegazione di sostegno è stato per lui un’esperienza straordinaria. “Essere qui, soprattutto in questo momento, è un’opportunità unica”, ha dichiarato Yonatan. Ma il suo spirito ambizioso lo spinge a guardare oltre: tra una gara di tennis e una di nuoto, ha già fissato il suo prossimo obiettivo. “Forse tra quattro anni tornerò ai Giochi Paralimpici, ma questa volta come partecipante”.
La storia di Yonatan Ron è un esempio di resilienza, forza di volontà e speranza, e dimostra come, anche dopo una tragedia, sia possibile rinascere e guardare al futuro con ottimismo.
(Shalom, 12 settembre 2024)
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L’IDF mostra il tunnel “degli orrori” dove erano tenuti prigionieri i sei ostaggi assassinati di recente da Hamas
Martedì 10 settembre le Forze di Difesa israeliane hanno diffuso un filmato che mostra l’interno di un tunnel nel sud della Striscia di Gaza dove sei ostaggi israeliani sono stati uccisi da terroristi di Hamas alla fine del mese scorso e i loro corpi sono stati trovati e recuperati dalle truppe israeliane due giorni dopo.
Il video mostra il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, mentre visita il claustrofobico passaggio sotterraneo nel quartiere Tel Sultan di Rafah. Il tunnel è stato visto disseminato di bottiglie di urina, vestiti da donna e grandi macchie di sangue sul terreno, dove sono stati uccisi gli ostaggi.
Gli ostaggi Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Ori Danino, Alex Lobanov, Carmel Gat e Almog Sarusi sono stati giustiziati nel tunnel dai loro rapitori il 29 agosto, prima di essere scoperti dalle truppe il 31 agosto.
Oltre al filmato, l’IDF ha rilasciato nuovi dettagli sul tunnel e sull’operazione di ritrovamento dei corpi dei sei israeliani uccisi, tra cui il fatto che erano tenuti a soli 700 metri di distanza da dove un altro ostaggio era stato salvato vivo giorni prima.
Il tunnel in cui sono stati ritrovati i corpi è uno stretto passaggio di 120 metri – non abbastanza alto da poterci stare in piedi senza piegarsi – che collegava parti di una vasta rete sotterranea nel quartiere di Tel Sultan, che secondo l’IDF apparteneva alla Brigata Rafah di Hamas. La rete di tunnel era uno dei più grandi complessi sotterranei trovati dall’esercito a Gaza fino ad oggi, hanno detto le fonti militari.
All’interno del tunnel, situato a circa 20 metri di profondità, l’IDF ha trovato cibo e attrezzature che, secondo l’IDF, sono state utilizzate dai terroristi di Hamas e dagli ostaggi israeliani per sopravvivere sottoterra per lunghi periodi. Secondo fonti dell’IDF, le scorte erano sufficienti per sopravvivere nel tunnel per almeno diverse settimane.
Tra gli oggetti trovati nel tunnel c’erano cibo secco, acqua, un secchio usato come gabinetto di fortuna, numerose bottiglie di urina, materassi e caricatori di fucili d’assalto.
Il video è stato mostrato alle famiglie e ai membri del gabinetto israeliano.
Il video pubblicato questa sera dall’IDF dimostra le condizioni inimmaginabili e disumane in cui sono stati tenuti per mesi i 6 ostaggi Alex, Hersh, Eden, Ori, Carmel e Almog. Le macchie di sangue secco non lasciano dubbi sulla crudeltà dei loro ultimi momenti – si legge in una nota del Forum delle Famiglie degli ostaggi -. Il filmato di stasera dal “tunnel degli orrori” è scioccante. Rivela le orribili condizioni sopportate da Carmel Gat, Hersh Goldberg-Polin, Alex Lobanov, Almog Sarusi, Ori Danino e Eden Yerushalmi – per 11 mesi. Sono stati confinati in stretti tunnel alti 1,5 metri, in profondità, privati dell’aria e delle condizioni sanitarie e sottoposti a continui abusi mentali e fisici prima della loro brutale esecuzione. Carmel, Hersh, Alex, Almog, Ori ed Eden hanno sofferto fino all’ultimo respiro. Hanno implorato di essere rilasciati, hanno supplicato per la loro vita. Hanno lottato per la loro vita fino alla morte.”
A gaza ci sono 101 ostaggi ancora detenuti (almeno 30 dei quali già dichiarati morti dall’IDF), che stanno sopportando sofferenze inimmaginabili.
(Bet Magazine Mosaico, 11 settembre 2024)
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Il pogrom del 7 ottobre non è, come la Shoah, un evento del passato: è un fatto del presente, è “in corso d’opera”. Non ci viene riportato con testimonianze orali, documenti o libri, ma trasmesso quasi in diretta con i più moderni strumenti video. E noi assistiamo al pogrom in corso con valutazioni e giudizi diversi sul contenuto dello spettacolo, senza accorgerci che siamo diventati noi stessi parte in causa del pogrom, partecipi diretti di un orrendo super-spettacolo di cui forse un giorno saremo chiamati a rispondere. M.C.
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La strategia di Hamas
“Israele opera su quattro fronti a Gaza”, ci dice il generale Amidror. Lo strike a Khan Younis
di Giulio Meotti
ROMA - Jet da combattimento israeliani hanno colpito importanti operativi di Hamas in un centro di comando incastonato nella zona umanitaria di Khan Younis, nella Striscia di Gaza. Secondo “fonti palestinesi”, l’attacco aereo ha ucciso quaranta persone. Questo è il secondo importante attacco aereo israeliano a Gaza nelle ultime settimane. Il mese scorso, i jet israeliani hanno colpito un centro di comando di Hamas nascosto all’interno di una scuola a Gaza City. I terroristi hanno ripreso a lanciare razzi verso la città di Ashkelon, nel sud di Israele. Segno che Hamas si sta riorganizzando anche nelle zone che Israele riteneva sicure. All’interno di Gaza, Israele è concentrato sul controllo di due corridoi, uno sul confine meridionale con l’Egitto e il corridoio centrale di Netzarim, che isola Gaza City dal resto della Striscia a sud. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha visitato il corridoio di Netzarim l’8 settembre e giurato che Israele avrebbe eliminato i leader di Hamas a Gaza: “Raggiungeremo Muhammed Sinwar e anche Yahya Sinwar. Chiunque la pensi diversamente dovrebbe guardare Marwan Issa e Muhammed Deif: anche loro pensavano di essere immuni, non sono con noi oggi”. Yahya Sinwar intende prolungare la guerra e la sofferenza dei civili a Gaza, per migliorare la sua posizione nei negoziati di cessate il fuoco e garantire che il gruppo terroristico possa ricostruire la sua potenza militare. Un documento trovato su un computer del leader di Hamas e visionato dal quotidiano tedesco Bild descrive in dettaglio come la sofferenza degli ostaggi israeliani tenuti prigionieri a Gaza va usata per esercitare pressione sul pubblico israeliano.
L’ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale, il generale Yaakov Amidror, al Foglio spiega: “Sono realista al momento, stiamo andando bene e ci stiamo concentrando su quattro fronti. Controllare il corridoio Filadelfi e distruggere i tunnel che vi passano sotto, accerchiare Rafah e Khan Younis, a Netzarim ripulire l’area e avere un corridoio importante verso sud e infine entrare ancora dove Hamas si sta riorganizzando”. E se Israele si ritirasse ora? “Entro un anno, Hamas tornerebbe a essere forte come prima”.
Amidror spiega la strategia di Hamas. “Hamas usa tutte le aree umanitarie per sferrare attacchi a Israele. Sinwar vuole sopravvivere alla guerra e dire al cessate il fuoco ‘abbiamo vinto’ per poi riorganizzare il prossimo 7 ottobre. Non gli interessa quanti civili di Gaza moriranno”.
E Sinwar starebbe pianificando di utilizzare il corridoio per fuggire con gli ostaggi israeliani verso il Sinai, per poi essere trasferiti in un paese ostile a Israele. Informazioni che sarebbero state ottenute dall’interrogatorio di un alto funzionario di Hamas catturato e dall’analisi di documenti sequestrati dopo il recupero dei corpi di sei ostaggi il 29 agosto a Rafah.
Intanto continuano a emergere dettagli sugli ostaggi in mano a Hamas. Esther Buchshtab, il cui figlio Yagev è stato ucciso in prigionia da Hamas e il cui corpo è stato recuperato a Khan Younis tre settimane fa, ha detto lunedì che suo figlio “è stato rapito vivo e riportato morto: è stato assassinato”.
Il Foglio, 11 settembre 2024)
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Do ut des. Israele ha offerto un salvacondotto al capo di Hamas in cambio del rilascio degli ostaggi
Il capo negoziatore israeliano Gal Hirsch ha dichiarato che Yahya Sinwar e la sua famiglia potrebbero uscire incolumi dalla Striscia di Gaza se saranno liberati i centouno prigionieri ancora detenuti dal gruppo terroristico palestinese dopo il pogrom del 7 ottobre.
Il capo negoziatore israeliano per gli ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre 2023 ha dichiarato al canale televisivo statunitense Cnn che Israele sarebbe disposto a garantire un salvacondotto al leader di Hamas, in cambio dei prigionieri detenuti dal gruppo terroristico palestinese. Gal Hirsch ha ribadito la sua proposta in un intervista con Bloomberg in occasione del suo viaggio a Washington promettendo però anche la demilitarizzazione e la deradicalizzazione della Striscia di Gaza.
Yahya Sinwar, ritenuto il principale responsabile dell’ideazione dell’attacco del 7 ottobre in Israele, durante il quale sono state uccise milleduecento persone e più di duecentocinquanta sono state prese in ostaggio, è attualmente nascosto nella rete di tunnel sotto Gaza e non appare in pubblico da undici mesi. Il salvacondotto non sarebbe solo per lui, ma anche per i membri della sua famiglia ed entourage.
Il gruppo terroristico palestinese non ha commentato ancora la proposta e neanche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ancora chiarito la sua posizione sull’offerta di Hirsch. In passato, Netanyahu ha dichiarato che una resa di Hamas, compreso il disarmo totale, è la condizione necessaria per porre fine al conflitto. L’idea di un passaggio sicuro per Sinwar è stata discussa anche in passato, ma l’opinione pubblica israeliana resta divisa: alcuni vedono l’offerta come una concessione troppo grande a un leader accusato di crimini di guerra, mentre altri sperano che questa mossa possa portare a una rapida risoluzione della crisi umanitaria e alla liberazione degli ostaggi.
(LINKIESTA, 11 settembre 2024)
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Il Canada sospende quasi 30 permessi di esportazione di armi verso Israele
Il Ministro degli Affari Esteri Melanie Joly ha dichiarato: “La nostra politica è chiara: non permetteremo l'invio di alcuna forma di armi o parti di armi a Gaza. Punto e basta”.
Il Ministro degli Esteri canadese, Melanie Joly, ha annunciato martedì la sospensione di circa 30 permessi di esportazione di armi verso Israele. La decisione, che include una rara misura contro una filiale canadese di un'azienda americana che lavora con il governo degli Stati Uniti, fa parte di una revisione dei contratti di armi canadesi con Israele e altri Paesi.
“Quest'estate ho sospeso circa 30 licenze esistenti per aziende canadesi”, ha dichiarato Joly. Queste licenze erano state approvate prima del divieto di gennaio sulle nuove vendite di armi che potrebbero essere utilizzate a Gaza, dove la crisi umanitaria si sta aggravando nel contesto della guerra in corso.
Il ministro ha sottolineato la posizione del Canada: “La nostra politica è chiara: non invieremo a Gaza alcuna forma di armi o parti di armi. Punto e basta”. Ha aggiunto che “non importa” come o dove vengano inviate, riferendosi alle munizioni che saranno prodotte da una divisione canadese dell'appaltatore della difesa statunitense General Dynamics per le Forze di Difesa israeliane.
Questa decisione arriva in un contesto di crescente pressione sul governo canadese, con il moltiplicarsi delle manifestazioni pro-palestinesi in tutto il Paese. Israele è storicamente uno dei principali destinatari delle esportazioni di armi canadesi, con 21 milioni di dollari di equipaggiamenti militari nel 2022.
La sospensione delle licenze di esportazione da parte del Canada fa eco a una decisione simile presa di recente dal Regno Unito, che ha sospeso anche alcune esportazioni di armi verso Israele.
(i24, 11 settembre 2024)
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Studio israeliano: un nuovo trattamento per il tumore del retto
di Jacqueline Sermoneta
Un passo importante nella lotta contro il tumore del retto. Un recente studio, condotto dal Davidoff Comprehensive Cancer Center del Beilinson Hospital, il più importante ospedale oncologico di Israele, ha dimostrato come una nuova terapia abbia contribuito a eliminare il cancro del retto nel 65% dei pazienti trattati e, nella maggior parte dei casi, senza intervento chirurgico. Questo nuovo trattamento combina l’immunoterapia con la chemio – radioterapia preoperatoria più avanzata, una speranza in più per migliaia di pazienti in tutto il mondo.
I risultati dello studio sono stati presentati al congresso della Società Europea di Oncologia Medica Gastrointestinale (ESMO GI), tenutosi a Monaco di Baviera, in Germania.
Il cancro del retto rappresenta circa il 25% dei casi di tumore colon-rettale e di solito viene scoperto quando è in uno stadio localmente avanzato, pertanto richiede terapie multidisciplinari. Nel caso di tumore non metastatico, il trattamento solitamente prevede l’intervento chirurgico. Tuttavia, la rimozione della formazione maligna spesso provoca gravi danni alla qualità della vita del paziente e, a volte, è necessaria l’asportazione totale o parziale dell’ano stesso.
I risultati preliminari dello studio, portato avanti dal Prof. Brenner, direttore del Dipartimento di oncologia e dell’Unità di oncologia gastrointestinale presso il Davidoff Center, hanno rilevato che nel 65% dei pazienti i tumori del retto sono scomparsi in seguito al nuovo metodo terapeutico e molti di loro non hanno dovuto sottoporsi a intervento chirurgico. Grazie al suo successo, lo studio verrà esteso in diversi ospedali in Israele e Germania, con la partecipazione di un team multidisciplinare di specialisti oncologici.
“Questa ricerca è molto promettente e può cambiare il modo in cui il cancro del retto viene trattato a livello globale. – ha affermato il Prof. Brenner – I risultati indicano il potenziale di questo nuovo approccio terapeutico per aiutare ad eliminare il tumore in modo non chirurgico, il che aumenta la qualità della vita del paziente una volta in remissione. Sebbene siamo ancora nelle fasi di ricerca, le prove di questo studio indicano che combinare l’immunoterapia nel trattamento preoperatorio può effettivamente aumentare le possibilità che il tumore scompaia”.
(Shalom, 11 settembre 2024)
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La propaganda psicologica di Hamas: riprese e messinscene
Le testimonianze di alcuni ostaggi
di Olga Flori
Cominciano ad emergere maggiori dettagli sulle strategie adottate da Hamas nella subdola guerra psicologica contro Israele. Sabato il The Wall Street Journal ha pubblicato un articolo in cui si è concentrato soprattutto su come i terroristi abbiano costretto gli ostaggi rapiti il 7 ottobre a partecipare nei video pubblicati da Hamas.
Gli ostaggi sono stati costretti a ripetere ciò che gli veniva ordinato dai terroristi che li detenevano. Vere e proprie sceneggiature curate nei minimi dettagli sia nelle parole che nei gesti. Le riprese sono state fatte da una piccola troupe che includeva un cameraman e una persona che parlava in ebraico.
In particolar modo, The Wall Street Journal ha riportato quanto rivelato da Aviva Siegel. La donna era stata catturata dai terroristi durante l’attacco dello scorso 7 ottobre ed è stata liberata dopo 50 giorni, durante la tregua di novembre. Siegel ha spiegato che gli ostaggi sono stati obbligati a partecipare alle riprese seguendo accuratamente le istruzioni dei propri aguzzini. I terroristi le hanno dato alcune frasi su cui basarsi e qualora avesse sbagliato durante la registrazione, avrebbero ricominciato dall’inizio fino a quando non avesse raggiunto il risultato che volevano.
Ad esempio Siegel ha ricordato che le riprese del suo filmato sono state interrotte perché non aveva detto di venire da Kfar Aza, oppure perché non aveva detto che Netanyahu la dovesse far tornare a casa. «Dimenticavo sempre qualcosa, quindi dovevo ripeterlo di nuovo» ha spiegato Siegel. I terroristi l’avrebbero anche filmata seduta ad un tavolo sul quale era stato disposto del cibo. Le avrebbero anche ordinato di sedersi accanto a loro e di sorridere, ma solo per una fotografia.
Un terrorista avrebbe anche provato a pettinarle i capelli per farla apparire in condizioni migliori, ma Siegel avrebbe rifiutato la richiesta. «Sapevo come apparivo. Era disgustoso, ero molto sporca» ha commentato la donna.
Alcuni dei filmati realizzati da Hamas non sono mai stati pubblicati. Tra questi vi è quello di Chen Almog- Goldstein, rapita insieme ai suoi tre bambini da Kfar Aza. I terroristi l’hanno filmata mentre si trovava in un tunnel il secondo giorno della sua prigionia.
I filmati prodotti dai terroristi sono stati uno degli elementi fondamentali della propaganda e guerra psicologica condotta dai terroristi di Hamas. Alcuni di questi video sono stati pubblicati per accusare Israele di aver ucciso alcuni ostaggi con le proprie operazioni militari; altri, invece, sono stati pubblicati dopo la conferma dell’assassinio degli ostaggi. È il caso dei filmati dei sei ragazzi rapiti da Hamas mentre partecipavano al Supernova Festival.
Hamas ha inizialmente pubblicato i filmati di Eden Yerushalami, Alex Lobanov e Carmel Gat ed in un secondo momento ha pubblicato anche il filmato che mostrava Hersh Goldberg-Polin. I terroristi avevano già pubblicato un filmato di Hersh ad aprile. Il ragazzo era apparso in pessime condizioni di salute e senza un avambraccio, perso a causa dell’esplosione di una granata durante l’attacco del 7 ottobre. La madre di Hersh ha spiegato al The Wall Street Journal che guardare il primo filmato di Hersh è stata una forma molto lenta di trauma e tortura.
(Shalom, 9 settembre 2024)
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Un rapporto inchioda Joe Biden sulla “fuga” dall’Afghanistan
La stampa americana tace su un rapporto della Commissione Affari Esteri della Camera che inchioda Joe Biden alle sue responsabilità sulla umiliante fuga dall'Afghanistan.
Una commissione della Camera ha pubblicato un rapporto sul ritiro dell’Amministrazione Biden dall’Afghanistan nel 2021, un documento che la stampa ha liquidato come “fortemente di parte” e per questo non ne ha dato conoscenza. Il merito del rapporto è del rappresentante del Partito Repubblicano Michael McCaul, che ha contribuito ad accrescere la conoscenza pubblica di una disfatta le cui conseguenze continuano a danneggiare la sicurezza degli Stati Uniti e ad avere un peso sulla posta in gioco nelle elezioni di novembre. Il rapporto della Commissione Affari Esteri della Camera è un atto d’accusa di 350 pagine punto per punto sulle scelte del Presidente Biden, un ritratto di un Comandante in Capo “determinato a ritirarsi”. Una lunga serie di consiglieri militari aveva detto che il governo afghano sarebbe crollato se gli Stati Uniti avessero rimosso l’esiguo numero di 2.500 truppe presenti nel Paese. Il generale Kenneth McKenzie, che all’epoca dirigeva il Comando centrale degli Stati Uniti, ha dichiarato alla commissione che “il suo consiglio al presidente è stato inequivocabile”. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, ha condotto una revisione della politica statunitense in Afghanistan e ha permesso al Gen. Austin Scott Miller, il comandante più anziano degli Stati Uniti in Afghanistan, di partecipare solo a “un’unica riunione dei deputati dell’NSC”, si legge nel rapporto. Sullivan è oggetto di critiche particolari. Secondo la Commissione, l’Amministrazione non è riuscita a pianificare adeguatamente l’uscita dal paese. Il rapporto afferma che “una quantità significativa di informazioni classificate è stata lasciata ai Talebani” nella fretta di andarsene. Il personale statunitense ha riferito di una corsa alla distruzione dei documenti e di un falò nel cortile dell’Ambasciata. Ma non è stato sufficiente Il rifiuto del Presidente di mantenere almeno 2.500 militari ha fatto sì che gli Stati Uniti abbandonassero la base aerea di Bagram con la sua pista sicura. Ciò significava che l’evacuazione doveva essere condotta nel panico totale dall’aeroporto civile di Kabul, con l’assistenza per la sicurezza dei Talebani. Quell’incubo ha provocato la morte di 13 membri del servizio americano a causa di un attentatore suicida. Il rapporto dice che “almeno quattro civili afghani, tra cui bambini”, sono morti aggrappati agli aerei americani in partenza. La Casa Bianca ha salutato l’evacuazione come se fosse un trionfo in stile Dunkirk, mentre in realtà si è trattato di una caotica umiliazione. Il team di Biden sostiene che Donald Trump ha lasciato loro poca scelta dopo aver negoziato nel 2020 un accordo con i talebani per il ritiro nel 2021. Come è stato detto all’epoca, Trump ha concluso un pessimo accordo, non da ultimo escludendo il governo afghano dai colloqui. Ma Biden non ha mostrato una simile deferenza nei confronti delle altre politiche di Trump, e i Talebani stavano comunque violando le promesse fatte a Doha. Biden voleva andarsene entro il 20° anniversario dell’11 settembre per il simbolismo politico e ha imposto il suo catastrofico calendario politico. La scelta è sua. La stampa americana sbaglia a considerare questa notizia come vecchia, perché gli Stati Uniti stanno ancora vivendo le conseguenze dannose di quella fuga precipitosa. Il rapporto dice che i Talebani stanno trattenendo sette cittadini americani e che la sorte delle donne afghane è orribile. Nel frattempo, l’Afghanistan sta tornando ad essere un rifugio per i jihadisti dell’ISIS-K e di Al Qaeda. Gli attacchi dello Stato Islamico contro Mosca e l’Iran potrebbero preludere a un attacco contro obiettivi statunitensi. L’amministrazione Biden “non ha condotto un solo attacco contro l’ISIS-K dal 2021”, si legge nel rapporto. Più in generale, il ritiro dall’Afghanistan ha segnato la fine della “credibile” deterrenza americana durante la presidenza Biden. Si può tracciare una linea retta dal ritiro alla decisione di Vladimir Putin di entrare in Ucraina, o al motivo per cui gli Houthi sostenuti dall’Iran in Yemen non hanno paura di lanciare missili contro le navi commerciali nel Mar Rosso. La vicepresidente Kamala Harris ha dichiarato di essere stata l’ultima persona, la meno importante, nella stanza quando Biden ha deciso di ritirarsi. Cosa gli ha detto? Trump o i moderatori del dibattito di martedì dovrebbero chiedere alla signora Harris se è ancora d’accordo con la decisione di Biden. Il compito più importante del prossimo Presidente è ripristinare la deterrenza degli Stati Uniti per evitare una guerra più grande. Se la Harris difenderà il ritiro di Biden, sapremo che non capisce il mondo pericoloso in cui viviamo.
(Rights Reporter, 10 settembre 2024)
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Torino capofila, 600 anni di orgoglio
Domenica 15 settembre si svolgerà la venticinquesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, con Torino città capofila per l’Italia.
di Dario Disegni
Presidente della Comunità ebraica di Torino
Correva l’anno 1424 quando gli Ebrei giunti in Piemonte una ventina di anni prima, dopo l’espulsione dalla Francia nel 1394, venivano ammessi ufficialmente a Torino. Sono passati sei secoli di ininterrotta presenza, segnata da momenti di buona convivenza e da altri di restrizioni e confinamento nei ghetti, fino all’emancipazione decretata da Carlo Alberto nel 1848, che portò gli Ebrei piemontesi a una intensa partecipazione alle guerre risorgimentali e poi alla Prima guerra mondiale. Quindi dalle persecuzioni razziali e dalla Shoah fino alla faticosa ripartenza nel Dopoguerra e alla ricostruzione di una piena vita comunitaria, caratterizzata da notevole vivacità culturale e intellettuale grazie anche alla presenza di grandi figure di letterati, artisti e scienziati.
Quale migliore occasione di questo 600esimo anniversario per scegliere Torino quale città capofila dell’edizione 2024 della Giornata Europea della Cultura Ebraica nel nostro Paese? La GECE rappresenta da sempre una straordinaria vetrina per raccontare la storia e la cultura del mondo ebraico, con particolare riferimento a quello della Penisola e della città scelta come capofila, attraverso dialoghi, dibattiti, eventi teatrali e musicali, visite a sinagoghe e cimiteri, degustazioni di prodotti tipici della cucina ebraica. Un’occasione fondamentale di incontro con la cittadinanza e di conoscenza di una realtà, spesso sconosciuta o presentata in maniera superficiale se non scorretta, vero antidoto quindi al pregiudizio e all’ostilità.
Non fa eccezione l’edizione di quest’anno, focalizzata sul tema della famiglia, un concetto centrale nella vita ebraica, che verrà declinato in svariate modalità.
Se mi è consentito, vorrei solamente richiamare il valore che la famiglia ha avuto nella Comunità torinese, riferendomi a quella dalla quale provengo, con il capostipite, il Rabbino Dario Disegni zZl (di cui ho l’onore di portare il nome), che resse, dopo svariati altri incarichi in Italia e all’estero, la Cattedra rabbinica di Torino dal 1935 al 1959 e qui fondò la Scuola Rabbinica intitolata al suo Maestro Rav Margulies, che diede all’Italia ebraica straordinarie figure di Rabbanim. La famiglia fu sempre un valore centrale nella sua visione, tramandata gelosamente dalle generazioni successive, che tra figli, nipoti e pronipoti ha mantenuto e mantiene legami strettissimi, non disgiunti da un forte impegno nel mondo ebraico, che si affianca a quello nella vita civile e professionale di ciascuno.
(moked, 10 settembre 2024)
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Odiare Netanyahu più di Sinwar?
Una settimana di successo per Sinwar, che ha ucciso sei ostaggi e ha convinto molti israeliani che Netanyahu è colpevole dell'omicidio - Una rilettura del giornalismo israeliano nei giorni successivi al dirottamento dell'aereo a Entebbe - Lettura consigliata: i successi dell'IDF nell'ultimo mese nella Striscia.
di
Kalman Liebskind
- Maariv, 06/09/2024
Quel momento in cui un terrorista di Hamas passa, da uno all'altro, tra sei ebrei rapiti dal territorio sovrano dello Stato di Israele, e li giustizia, uno dopo l'altro, con un colpo alla testa, è un momento che sembra essere stato preso dalle storie dell'Olocausto. Chi chiuderà gli occhi e si connetterà a questa immagine, non avrà difficoltà a immaginarla come una scena dalle storie che ci hanno raccontato i nostri genitori su come i nazisti uccidevano a sangue freddo gli ebrei, sulla riva del fiume o di fronte a una grande folla nel centro della città. In una realtà normale, i nostri rappresentanti eletti, sia della coalizione che dell'opposizione, sarebbero passati il giorno dopo la pubblicazione di questa terribile notizia da un canale televisivo straniero all'altro, saltando da un intervistatore della CNN a un'intervistatrice della BBC, descrivendo loro la sensazione che prova ogni israeliano di fronte alle immagini di giovani con tutto il futuro davanti a sé, giustiziati solo perché ebrei. In una realtà normale, il presidente dell'Histadrut Arnon Bar-David avrebbe contattato il suo omologo austriaco e quello francese, descrivendo loro le immagini e chiedendo loro di trasmettere questo quadro agghiacciante della realtà alla loro gente. Che capiscano. Che si indignino. In una realtà normale, il Prof. Asher Cohen, presidente dell'Università Ebraica, insieme ai suoi colleghi di Bar-Ilan e Reichman, avrebbero invitato a una ampia videoconferenza i loro omologhi dell'accademia americana e li avrebbero coinvolti nello sconvolgimento che abbiamo attraversato questa settimana, dal più piccolo al più grande. E in una realtà normale, il sindaco di Tel Aviv-Yafo Ron Huldai, il sindaco di Givatayim Ran Kunik e il sindaco di Herzliya Yariv Fisher sarebbero partiti per una missione di sensibilizzazione nelle loro città gemelle all'estero, descrivendo lì come appare il volto mostruoso dell'odio antisemita modello 2024. Tutto questo, purtroppo, non è accaduto. Invece abbiamo visto Yair Lapid ("Il gabinetto della morte ha deciso di non salvare gli ostaggi"), e Benny Gantz ("C'è chi non ha fatto tutto il possibile per evitare questa morte... Andate a protestare"), e Arnon Bar-David ("Non c'è accordo a causa di considerazioni politiche"), e Ron Huldai ("Il governo di Israele ha abbandonato gli ostaggi"), e i rettori dell'Università Ebraica ("La nostra gente è abbandonata a Gaza"), mentre si rivolgevano ai miliardi di persone nel mondo che seguono ciò che sta accadendo qui, e dichiaravano alle loro orecchie "È Bibi. È tutto Bibi. Bibi è il colpevole. Bibi è la storia. Bibi è responsabile di tutto il male che avete visto". Non hanno parlato delle immagini di giovani ebrei colpiti alla testa. Nemmeno della crudeltà senza limiti. Nemmeno dell'odio verso gli ebrei in quanto ebrei. Il giorno dopo l'esecuzione di sei dei nostri connazionali da parte di un'organizzazione terroristica omicida, il cui statuto aspira alla distruzione dello Stato di Israele, grazie a tutti questi leader - dalla politica, dall'accademia, dal settore degli affari e dal governo locale - i media mondiali hanno trasmesso dallo Stato di Israele un unico messaggio: "È Bibi". E se c'è un esempio e un simbolo della follia che ha colpito parti importanti della società israeliana - questo è l'esempio e questo è il simbolo. Si può criticare Netanyahu su ogni questione e argomento, ma l'odio profondo nei suoi confronti è diventato la piattaforma quasi unica di aree troppo ampie della società israeliana. E non lo dico perché ho sentito l'ex deputato Eli Goldschmidt, membro del Partito Laburista, che si è rivolto alla sua ala e ha dichiarato: "Odiamo Bibi più di quanto vogliamo il bene degli ostaggi". Non lo dico nemmeno sulla base delle citazioni riportate questa settimana da Dana Yarkechy su Kan 11 dal gruppo WhatsApp del Forum dei leader economici, da cui emergeva che nei loro contatti con Arnon Bar-David riguardo allo sciopero, ciò che li preoccupava principalmente era la caduta del governo. Lo dico perché c'è una domanda che non mi dà pace. Se non è Netanyahu a preoccupare tutti costoro, ma gli ostaggi, e solo gli ostaggi, com'è che non abbiamo incontrato da parte loro alcuna rabbia pubblica contro Hamas? Non penso, Dio ce ne scampi, che in questa ala politica ci sia qualcuno che non veda Hamas come un nemico crudele. Eppure, com'è che non abbiamo sentito da loro alcuna richiesta incisiva di far pagare un prezzo a Hamas, affinché in futuro ci pensi un milione di volte prima di osare alzare di nuovo le armi contro un ebreo? Nessun sostegno alla pena di morte. Nessuna richiesta di fermare gli aiuti. Nessuna richiesta di radere al suolo un quartiere di Gaza per ogni nostro ostaggio ucciso. Nessuna richiesta di annettere ai campi di Be'eri o Kfar Aza un dunam di terra di Gaza per ogni ostaggio ucciso a morte. Niente. Non è da Sinwar che chiedono di esigere un prezzo. Solo da Netanyahu. E anche se accettiamo la loro posizione, secondo cui Netanyahu è la radice di tutti i mali - si tratta comunque di una realtà folle. Com'è che per ogni 1.000 manifestanti contro Netanyahu, non abbiamo visto un solo manifestante che si è fermato a Kaplan e ha chiesto di interrompere l'elettricità e l'acqua alla Striscia di Gaza? Di punire con forza i membri di Hamas in Cisgiordania. Di negare tutti i diritti e i privilegi di cui godono i rappresentanti di questa organizzazione in prigione. Di trasmettere che il padrone di casa è impazzito. Che l'uccisione di ebrei non è qualcosa che ignoriamo. Solo Netanyahu li interessa? In una realtà normale, un'opposizione israeliana patriottica avrebbe chiesto di far pagare alla Striscia di Gaza un prezzo tale da togliere al prossimo portatore d'armi la voglia di puntarla alla testa di un ebreo. Prendete la storia di "Tzav 9", un'organizzazione creata con lo scopo di fare pressione su Hamas e fermare gli "aiuti umanitari" che fluiscono verso di esso e i suoi membri. "Le forniture che arrivano a Gaza rafforzano Hamas, gli danno respiro, con forza e capacità di continuare a colpirci e a trattenere gli ostaggi", si legge sul sito web di "Tzav 9". Allora com'è che chi chiede a Netanyahu un accordo a tutti i costi, non ha pensato di tendere una mano a questa organizzazione? Com'è che quando gli americani hanno imposto sanzioni alla fondatrice dell'organizzazione, non si è trovato qualcuno tra le masse di manifestanti di questa settimana che sia venuto in suo aiuto? Come mai non c'è stato nessuno che abbia chiarito che "fare tutto" per riportare indietro gli ostaggi non significa solo attaccare Netanyahu, ma anche, diciamo, ostacolare l'ingresso di rifornimenti a Gaza? Come mai non abbiamo sentito da Gantz, da Lapid o da Arnon Bar-David una richiesta che Hamas paghi un prezzo per le sue azioni? Che il governo israeliano gli chiarisca, e sto solo facendo un esempio, che anche se fosse disposto a ritirarsi dall'asse di Filadelfia, annuncia ufficialmente che da oggi in poi ogni ebreo ucciso in prigionia dell'organizzazione farà perdere un chilometro del territorio da cui intendiamo ritirarci. Ma questo è esattamente il punto. I manifestanti, a giudicare da ciò che hanno fatto sentire questa settimana, non hanno alcun interesse a occuparsi di Sinwar o a fargli pagare un prezzo. Solo di Bibi. Masse di israeliani, guidati da un'opposizione irresponsabile di politici, di membri del settore imprenditoriale, di capi delle università, di leader del governo locale e dal presidente dell'Histadrut, hanno realizzato questa settimana il sogno di Yahya Sinwar e gli hanno insegnato che si può ottenere da noi due al prezzo di uno. Sia uccidere ebrei, sia ottenere come bonus uno stato disturbato, paralizzato, bloccato e in conflitto, i cui alti funzionari aumentano il loro sostegno alle richieste di Hamas di negoziare contro il proprio stato, e chiedono al loro governo di allinearsi con l'organizzazione terroristica. Yahya Sinwar avrebbe potuto sperare più di questo? Il modello vergognoso di questo approccio è stato presentato questa settimana, come no, dal deputato di Yesh Atid. Moshe Tur-Paz, almeno secondo la sua pagina Wikipedia, è una persona seria. Tenente colonnello nella riserva, che in passato ha servito come preside di una scuola e come capo del dipartimento dell'istruzione nel comune di Gerusalemme. Lo scorso gennaio ha pubblicato un articolo dettagliato e motivato sulla questione della guerra. La prima riga affermava: "L'asse di Filadelfia - la chiave per prevenire il rafforzamento di Hamas". L'ultima riga concludeva: "Il controllo di Filadelfia, a lungo termine, è l'unico modo per vincere". Nel frattempo, Tur-Paz ha motivato la sua posizione e ha sollevato argomenti, identici a quelli usati questa settimana da Benjamin Netanyahu, per spiegare perché dobbiamo essere a Filadelfia. "Quasi tutto ciò che si trova oggi nella Striscia in termini di mezzi di combattimento, esplosivi, missili, razzi, ecc. è entrato da lì", ha scritto, "Hamas ha fatto uscire i suoi comandanti per addestramento in Iran attraverso i tunnel sull'asse e attraverso il valico di Rafah e li ha riportati più esperti e più forti. Tutta la costruzione della forza di Hamas ha origine nel passaggio da Filadelfia". Ora che il presidente del suo partito accusa il primo ministro di omicidio e deride la sua richiesta di rimanere a Filadelfia, la stessa richiesta sollevata dal deputato Tur-Paz stesso, l'uomo si trova in difficoltà. Cosa si fa? Un salto mortale all'indietro. "All'inizio di gennaio 2024 ho pubblicato un articolo sull'importanza dell'asse di Filadelfia per la guerra a Gaza", ha scritto questa settimana, "Ci sono voluti altri sei mesi perché Netanyahu ordinasse all'esercito di conquistarlo. Con grande ritardo. E ora vuole convincerci che questa è la nostra roccia di esistenza? 101 ostaggi a Gaza sono più importanti. Lo Stato di Israele farà tutto in modo più strategico. Tutti loro. Ora". In altre parole, ho una visione del mondo coerente, ma se si scoprisse, Dio non voglia, che questa è anche la visione del mondo di Netanyahu, spiegherò facilmente perché si tratta di una visione sbagliata. Tutta la dottrina dello "Yesh Atidism" in una frase. E va sottolineato, il dibattito sulla questione se dobbiamo rimanere fisicamente a Filadelfia o se possiamo accontentarci di una protezione a distanza, è un dibattito importante. Ci sono argomenti validi da entrambe le parti. Ma quando si vede cosa succede a brave persone come Tur-Paz, e cosa fa loro la necessità di allinearsi con la lotta del presidente del partito contro il primo ministro, anche a costo di una tale imbarazzante umiliazione, si capisce che non sono gli ostaggi la storia qui. Certamente non tutta la storia. È la piccola politica. È Netanyahu. Da lui tutto inizia e con lui tutto finisce.
• TUTTE LE LINEE ROSSE SONO STATI CANCELLATE "Un Sanhedrin che ha visto tutti essere colpevoli, assolve l'imputato" (Sanhedrin 17a). Il Talmud spiega che un Sanhedrin, composto da 23 giudici per trattare questioni di vita o di morte, se tutti all'unanimità dichiarano l'imputato colpevole, in realtà lo assolvono. Perché? Perché quando tutti pensano allo stesso modo, c'è motivo di sospettare che qualcosa nel processo sia stato viziato. Forse c'erano pregiudizi. Forse non si sono concentrati sui fatti. Forse non hanno percepito le sottigliezze e le complessità. Forse non hanno riflettuto a fondo sui pro e contro. La nostra stampa mainstream ricorda quel tribunale. Su quasi nessun tema importante in discussione, non c'è disaccordo, non c'è dibattito, non ci sono argomentazioni a favore e contro. Tutti pensano allo stesso modo. Tutti parlano allo stesso modo. E come cittadino – non come giornalista, solo come cittadino – questo spaventa. Perché su questioni di grande peso come quelle all'ordine del giorno, non può essere che in ogni discussione tra destra e sinistra, tra opposizione e coalizione, un lato abbia sempre ragione e l'altro sempre torto. Per venire al punto, non si può prendere sul serio una stampa che parte tutta dal presupposto che il suo lato – quello che vuole accettare pienamente le richieste di Hamas – abbia ragione, sia umanitario, si preoccupi dei rapiti, mentre l'altro lato – quello che insiste nel non cedere a Hamas – è composto da persone senza cuore, disinteressate al destino dei rapiti, e che tutto ciò che conta per loro è che Netanyahu resti al potere. Questa settimana Shmuel Rosner e l'Istituto per le Politiche del Popolo Ebraico hanno pubblicato un sondaggio condotto subito dopo l'annuncio dell'uccisione di sei ostaggi. Agli intervistati sono state presentate due posizioni riguardo all'accordo sugli ostaggi, e sono stati invitati a dire quale fosse più vicina alla loro opinione. Il 49% degli ebrei ha risposto che "Israele non dovrebbe rinunciare al controllo del corridoio di Philadelphi, anche se ciò impedisse l'accordo sugli ostaggi". Il 43% ha risposto che "Israele dovrebbe cedere il controllo del corridoio di Philadelphi per consentire un accordo per il rilascio degli ostaggi". Lasciamo da parte le sfumature. Lasciamo stare il fatto che Hamas non ha risposto positivamente all'accordo in questione. Lasciamo stare il fatto che l'organizzazione terroristica non si accontenta del corridoio di Philadelphi, ma vuole molte altre cose importanti. Lasciamo stare il fatto che abbiamo visto sondaggi con risultati diversi, a seconda dell'istituto di ricerca e della formulazione delle domande. Lasciamo stare anche la domanda su cosa avreste risposto voi stessi se foste stati interrogati. I risultati di tutti i sondaggi, indipendentemente dai dettagli precisi, indicano che c'è un forte disaccordo nella società israeliana sulla questione del prezzo giusto da pagare per un accordo. E il fatto che i media, che dovrebbero riflettere questo disaccordo, si rifiutino di farlo, conducendo invece una propaganda aggressiva a favore di una sola posizione e delegittimando completamente l'altra – è un vero e proprio crimine professionale. Perché quello che sta succedendo in questi giorni nei media è qualcosa che neanche io, che critico i media israeliani da molti anni, ho visto da molto tempo. Tutto è concesso. Tutto è normale. Le linee rosse se mai ce ne sono state, sono state completamente cancellate. Uno dopo l'altro, giornalisti, conduttori, presentatori e commentatori si sono fatti avanti e hanno spiegato, chi con parole dure e chi con parole ancora più dure, che il governo israeliano è colpevole. Un'organizzazione terroristica spietata sta massacrando ebrei innocenti, e la stampa israeliana attribuisce tutta la colpa al proprio governo. Il compito di Hamas è ucciderci, il nostro compito è cedere a tutte le sue richieste, e se non lo facciamo, in modo totale, è chiaro che le nostre mani sono sporche di sangue. Abbiamo un governo di traditori, abbiamo un governo di assassini, abbiamo un governo irresponsabile, abbiamo un governo al quale Hamas, con grande magnanimità, era disposto a fare di tutto per liberare i suoi ostaggi, ma che, con il suo cuore indurito, gli ha risposto negativamente. Mi chiedo seriamente: qual è la differenza tra la posizione del leader di Hamas e quella espressa dalle nostre trasmissioni di attualità questa settimana? E non è una novità. La nostra stampa ha fallito miseramente nel suo quasi unico ruolo in ogni interazione che abbiamo avuto con il nemico negli ultimi decenni. Con l'accordo di Oslo, il ritiro dal Libano, il disimpegno, l'accordo su Shalit. In tutti questi eventi, che si sono conclusi con fiumi di sangue ebraico, non c'era una stampa che facesse domande, non c'era una stampa che pretendesse risposte, non c'era una stampa che sollevasse dubbi, non c'era una stampa che criticasse. Conosco già le solite reazioni che arrivano ogni volta che sollevo questo tipo di argomentazioni, reazioni che chiedono "perché ti occupi sempre di giornalismo?". La risposta è semplice. Perché credo nel ruolo del giornalismo e nel suo potere di correggere, verificare, indagare, vigilare e prevenire disastri prima che si verifichino. E in tutti questi aspetti, in Israele non c'è giornalismo. C'è un enorme gruppo di persone con posizioni politiche, ovviamente legittime, che si precipitano come un gregge dietro ogni passo politico che si adatta alla loro agenda, senza fermarsi un attimo e senza fare il loro lavoro.
• ALLORA E ADESSO Questa settimana, grazie all'archivio, sono tornato ai giornali di fine giugno - inizio luglio 1976, per cercare di ricordare com'era una volta. Come ci comportavamo — il governo israeliano, il pubblico israeliano e la stampa israeliana — di fronte a un evento catastrofico simile a quello che stiamo affrontando oggi. Un aereo dell'Air France, con a bordo 260 persone, di cui più di 100 ebrei, fu allora dirottato in Uganda, molto lontano da Israele. Apparentemente, un classico caso in cui non avremmo avuto altra scelta che pagare tutto ciò che i terroristi richiedevano. E cosa chiedevano? In termini odierni, praticamente nulla: il rilascio di 53 terroristi, di cui solo 39 imprigionati in Israele. In questa situazione, la decisione del governo israeliano di inviare più di 100 dei nostri migliori soldati a Entebbe, sapendo che il minimo errore avrebbe potuto lasciare una grande quantità di vittime sul suolo africano, invece di risolvere tutto liberando 39 terroristi, sarebbe considerata oggi pura follia. "Il governo della morte" è come Yair Lapid avrebbe definito Yitzhak Rabin e Shimon Peres. "Il governo dell'abbandono" è come la stampa di oggi li chiamerebbe. A proposito, Israele non era sola allora nella decisione di non cedere al terrorismo. "La Francia non intende cedere a richieste che considera inaccettabili", annunciò il portavoce del Ministero degli Esteri francese. Anche dalla Germania, che fu chiamata a liberare sei terroristi dell’organizzazione Baader-Meinhof, giunse una risposta simile. "Funzionari del governo hanno accennato che la Germania non è incline a cedere alle richieste dei terroristi", riportò "Maariv". "A Londra", raccontava un'altra notizia del giornale, in seguito all'annuncio del governo Rabin di voler negoziare con i dirottatori, "la decisione del governo israeliano è stata accolta con sorpresa e persino dispiacere. L'opinione prevalente era che il governo israeliano avrebbe mantenuto la sua posizione di non negoziare con i terroristi". Questa era la posizione prevalente anche in altre parti d'Europa. "La notizia che il governo israeliano fosse disposto a entrare in trattative con i terroristi è stata accolta con sgomento in Svizzera", riportava la nostra corrispondente da lì. L'editoriale di "Maariv" parlava allora della necessità di "resistere uniti al ricatto e rifiutare di cedere al gangsterismo internazionale". "Nonostante la preoccupazione per i 250 passeggeri, che sono pedine nelle mani dei gangster, non si può non affermare che cedere al ricatto potrebbe avere un prezzo molto alto. Trasformerebbe Entebbe in un modello e un presagio di futuri disastri", si leggeva. Il giornale raccontava di una "manifestazione silenziosa" tenutasi davanti alla residenza del Primo Ministro a Tel Aviv. Parte dei manifestanti, riferiva il nostro corrispondente, chiedeva di accogliere le richieste dei terroristi. "Altri chiedevano di avvertire i dirottatori che per ogni ostaggio ferito, dieci terroristi detenuti in Israele sarebbero stati giustiziati". Più avanti nella settimana, decine di parenti degli ostaggi irruppero nel campo dove si trovava il Primo Ministro, chiedendo di incontrarlo. Rabin, riferiva il giornale, si incontrò con i loro rappresentanti e chiese loro di "calmare gli animi". Moshe Zak, uno degli editorialisti di spicco di "Maariv", analizzò allora nel suo articolo ciò che stava accadendo nella società israeliana, un'analisi che potrebbe essere scritta con esattamente le stesse parole anche oggi, 48 anni dopo. "La guerra psicologica si nutre dei dibattiti interni che esplodono proprio nel momento critico della resistenza alla prova, in cui vince chi ha i nervi più saldi per stare sulla linea del limite. Tuttavia, durante il dibattito, che è assolutamente legittimo in una società democratica, ci emozioniamo e riveliamo tutti i punti deboli della nostra società, aiutando così i ricattatori, i dirottatori e gli assassini in potenza". Anche Ephraim Kishon aveva una posizione chiara: "...gli assassini di donne e bambini condannati all'ergastolo possono sorridere di gusto", scrisse con il suo stile, "...poiché la loro liberazione non è in dubbio. Se non oggi, allora tra due settimane, quando saranno dirottati altri aerei o una squadra di basket o forse i figli di uno dei nostri ambasciatori da qualche parte nel mondo... Cosa sarebbe successo se il governo israeliano avesse risposto agli assassini, dopo aver ricevuto la lista dei terroristi richiesti per la liberazione (da rilasciare – K.L.)... Se dovesse accadere qualcosa agli ostaggi israeliani, eseguiremo l'esecuzione di un numero equivalente della lista?". La Israele di allora, i rappresentanti eletti di allora e la stampa di allora non si preoccupavano meno per quegli ostaggi di quanto noi ci preoccupiamo oggi. Ma mantennero la calma. Capirono cosa serviva i nostri interessi e cosa serviva quelli del nemico. Capirono che in una democrazia non esiste necessariamente una sola risposta giusta, e che tutte le opinioni sono legittime, poiché anche allora c'erano coloro che proponevano di accettare le richieste dei terroristi e altri che si opponevano. Tuttavia, nel 1976, a tutti era chiaro chi fossero i cattivi della storia, contro chi bisognava agire e quale messaggio avrebbe trasmesso una nostra resa. "Non c'è alcun problema a ritirarsi dalla Striscia di Gaza e dichiarare la fine della guerra. In fondo, non c'è davvero una guerra e l'IDF è impantanato da tempo". Se siete in sintonia con il dibattito pubblico, è impossibile che non abbiate sentito questa affermazione. Bene, ho visitato il sito dell'ufficio del portavoce dell'IDF, dove ogni giorno sono elencate le azioni delle nostre forze contro il nemico. Se lo fate anche voi, rimarrete sorpresi di scoprire che l'IDF svolge un lavoro importante e colpisce Hamas ogni giorno, ogni ora. Ecco un breve riassunto di ciò che abbiamo fatto nella Striscia di Gaza solo nell'ultimo mese: abbiamo distrutto centinaia di infrastrutture terroristiche, da terra e dall'aria, e scoperto una lunga serie di tunnel. Come detto, non sto parlando di ciò che abbiamo fatto durante tutta la guerra. Mi riferisco solo alle ultime settimane. Il 15 agosto, il portavoce dell'IDF ha riferito che nell'ultimo mese le forze di ingegneria hanno distrutto circa 50 percorsi sotterranei nell'area del Corridoio di Filadelfia, senza contare una serie di complessi sotterranei nelle aree di Khan Younis, Deir al-Balah e Beit Hanoun. Nell'ultimo mese, secondo i rapporti del portavoce dell'IDF, abbiamo eliminato centinaia di terroristi. Abbiamo colpito squadre che lanciavano bombe di mortaio. Abbiamo distrutto pozzi di tunnel, edifici militari e depositi di armi. Abbiamo attaccato siti di lancio e squadre che lanciavano razzi contro Be'er Sheva, Rishon Lezion, Kibbutz Nirim, Kibbutz Kissufim e Kibbutz Ein HaShlosha. Abbiamo colpito complessi che servivano da rifugi per i terroristi, da cui venivano pianificate e realizzate operazioni terroristiche, e in cui venivano sviluppate e immagazzinate molte armi. Abbiamo scoperto depositi di armi con granate, ordigni esplosivi, missili spalla e Kalashnikov. Abbiamo eliminato funzionari di alto rango. Abbiamo colpito edifici che immagazzinavano esplosivi, complessi di comando e controllo di Hamas, officine sotterranee utilizzate per la produzione e magazzini di armi nelle vicinanze. Abbiamo trovato pozzi di lancio di razzi a Filadelfia. Abbiamo colpito edifici del sistema di lancio di razzi, eliminato operatori di droni e trovato un complesso con decine di razzi, lanciatori e missili anticarro. Questo è, come detto, solo un insieme estremamente sintetico di esempi delle ultime settimane. Se avessimo accettato le richieste di Hamas e fossimo usciti dalla Striscia un mese fa, nulla di ciò che è stato riportato qui sarebbe stato colpito. I centinaia di terroristi che abbiamo eliminato sarebbero ancora con noi. Anche le infrastrutture terroristiche, i depositi di armi, le decine di tunnel e i magazzini di munizioni, oltre ai razzi. Se fossimo usciti un mese prima, la lista sarebbe stata il doppio. È possibile decidere di rinunciare a colpire tutto questo in cambio di un accordo? Sì, certamente. Ma non si può evitare di parlare di questo prezzo. Perché bisogna ricordare che il nostro obiettivo non è che la Striscia di Gaza torni ai giorni di tranquillità. Perché la tranquillità è sporcizia. Abbiamo già visto che, grazie alla calma, Hamas sa come lavorare per preparare il prossimo attacco. Il nostro interesse è il rumore. Tanto rumore. Un rumore in cui noi blocchiamo la Striscia da un lato e dall'altro continuiamo a distruggere terroristi e armamenti. E dato che la Striscia è sigillata, e finché noi abbiamo la chiave di Filadelfia e del valico di Rafah, questa è la situazione: ogni terrorista che abbiamo eliminato oggi non ci sparerà domani. Ogni razzo che abbiamo distrutto oggi non sarà diretto verso il Kibbutz Nirim domani. Ogni giorno rende Gaza un posto più sicuro rispetto al giorno precedente. Non lo dico io, lo dicono i rapporti del portavoce dell'IDF, che affermano che ogni giorno stiamo vincendo sempre di più contro Hamas. E cosa succederà se usciamo? Hamas si rialzerà, e prima o poi scopriremo che, dopo aver pagato con il sangue di centinaia dei nostri soldati, ci ritroveremo con lo stesso mostro al confine. Cosa è giusto fare quando i nostri ostaggi sono lì? È un dilemma difficile, ma non si può evitare di esporlo in tutti i suoi dettagli. La mattina dopo l'uccisione di Ismail Haniyeh, un familiare che vive in uno degli insediamenti vicini ha condiviso con noi le sue sensazioni, sensazioni che solo chi vive lì può capire. "È incredibile", ha scritto nel gruppo WhatsApp della famiglia. "Nel 2014 siamo tornati dall'estero, e l'aereo ha girato in cerchio sopra il Mediterraneo in attesa di atterrare, a causa del fuoco da Gaza. Per molti anni, a ogni eliminazione di un piccolo terrorista in Cisgiordania, eravamo costretti nei rifugi e tutto nella zona si fermava. Le scuole erano chiuse, le strade bloccate, ci vietavano di riunirci, gli eventi festivi venivano cancellati e i funerali si svolgevano solo tra familiari stretti. Stamattina, dopo l'eliminazione di Ismail Haniyeh, nessuna istruzione. È incredibile. Un vero e proprio sogno nella nostra area. Complimenti all'IDF." Di fronte a tutto questo, non possiamo evitare di porre una domanda cruciale: siamo pronti a rinunciare ora a tutti i nostri successi in guerra? A lasciare i punti strategici in cui l'IDF preme su Hamas? Dopo un anno di guerra, dopo centinaia di soldati eroici che hanno sacrificato la vita e migliaia di combattenti coraggiosi che sono rimasti invalidi per sempre, siamo davvero disposti a rinunciare a tutto ciò che abbiamo fatto e permettere a Sinwar di uscire dal suo tunnel, riorganizzare i suoi uomini, invitare le masse a una festa della vittoria, segnare "V" e dichiarare "Abbiamo vinto contro i sionisti"? Mi è incomprensibile come si possa attribuire a Benjamin Netanyahu la responsabilità del massacro del 7 ottobre, e allo stesso tempo spingerlo a permettere a Hamas di celebrare i suoi successi e tornare al punto di partenza del 6 ottobre come se non fosse accaduto nulla.
(Kolot, 9 settembre 2024)
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Israele attaccato anche dalla Giordania
Ormai subisce assalti da ogni parte
di Claudia Osmetti.
Attentato al valico di Allenby, al confine con la Giordania. Mancava solo questo nuovo fronte, un attacco terroristico anche dal confine giordano, che teoricamente dovrebbe essere in pace dal 1994. Sono stati uccisi tre israeliani: Yohanan Shchori di 61 anni, Yuri Birnbaum che ne ha 65, e il 57enne Adrian Marcelo Podsmeser.
Poi, però, sono tutti contro Bibi.
La sinistra, non solo quella israeliana; i manifestanti, non solo quelli a Tel Aviv; i commentatori della domenica che, specie da noi, cioè qui, al sicuro, in Europa, non fanno che puntare il dito contro il governo di Israele: è Netanyahu che non vuole l’accordo con Hamas (come se ci si possa tranquillamente sedere a un tavolo coi tagliagole del 7 ottobre e discutere di chicchessia), è Netanyahu che non riesce a riportare a casa gli ostaggi, è Netanyahu che ha voluto la guerra.
Un ritornello che va avanti da mesi e che, da mesi, ha stufato perché la realtà dei fatti, per chi non sia mosso da un semplice pregiudizio di partito o, peggio ancora, da quell’innato antisemitismo che è duro a morire, è diversa. È, per esempio, che lo Stato ebraico, in Medioriente, è attaccato da ogni parte. Dal Libano di Hezbollah a nord (che sabato notte ha scaricato oltre confine la sua dose quotidiana di missili e verso il quale il premier Netanyahu, ancora lui, apriti cielo, ha «incaricato le Idf e le forze di sicurezza di prepararsi a cambiare la situazione»), dalla Striscia di Gaza a sud ovest, più a oriente dall’Iran (che da tutta l’estate promette scenari apocalittici salvo poi, e andrebbe ricordato più spesso, non essere in grado di sparare nemmeno un petardo) e adesso pure dal valico di Allenby, nella zona est del Paese, al confine tra la Cisgiordania e la Giordania.
L’ultimo atto di un conflitto a cui Israele si limita a rispondere (e continua ad averne pieno diritto). Un check-point, di quelli che di solito non creano problemi, ieri mattina, alle 10 ora locale, le 9 in Italia: un camionista di 39 anni, è giordano, fa parte di una famiglia potente che abita a sud di Amman, parcheggia il suo tir in mezzo alla strada e apre il fuoco, a casaccio, contro il personale israeliano della postazione. I morti sono quattro: tre ebrei (Yohanan Shchori di 61 anni, Yuri Birnbaum che ne ha 65, e il 57enne Adrian Marcelo Podsmeser) e l’attentatore, perché di attentato si tratta. Il tutto, però, precipita nell’arco di una mezz’ora.
«Siamo circondati da un’ideologia assassina», dice, giustamente, Netanyahu, «sono assassini che non fanno distinzioni e ci vogliono eliminare fino all’ultimo: di destra, di sinistra, laici o religiosi. Ma ciò che impedisce la distruzione di Israele sono gli apparati dello Stato e della Difesa».
Gerusalemme chiude i valichi con la Giordania, tutti; mentre la Jihad islamica palestinese (a conferma che le parole di Bibi sono corrette) festeggia «l’attacco eroico al valico del ponte di Allenby», Hamas fa lo stesso (lo definisce una «risposta naturale all’olocausto perpetrato dal nemico sionista-nazista», oltre ogni qualsiasi senso del pudore, anche letterario) e all’Onu la delegazione palestinese si spinge a presentare una bozza di risoluzione per chiedere il ritiro ebraico da Gerusalemme est e dalla stessa Cisgiordania (senza, ovvio, alcuna contropartita). Però il problema è Netanyahu.
Libero, 9 settembre 2024)
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Benny Gantz: “Israele deve concentrarsi su Hezbollah e Iran”
«La storia di Hamas è vecchia, occorre concentrarsi sull'Iran e sui suoi proxy. E' già tardi»
L’ex membro del gabinetto di guerra Benny Gantz sostiene che Israele dovrebbe spostare la sua attenzione verso Hezbollah e il confine libanese, avvertendo che “siamo in ritardo su questo”.
Israele e Hezbollah, questi ultimi sostenuti dall’Iran, si sono scambiati quasi quotidianamente fuoco transfrontaliero, con il gruppo terroristico libanese che dice di agire a sostegno di Hamas – suo alleato palestinese – nella guerra in corso a Gaza.
“Abbiamo già forze sufficienti sul posto per affrontare il conflitto a Gaza e dovremmo concentrarci su ciò che sta accadendo nel nord”, ha dichiarato Gantz, intervenendo a Washington a un forum sul Medio Oriente, dove ha anche affermato che l’Iran e i suoi proxy sono ‘il vero problema’.
“Il tempo del nord è arrivato e in realtà penso che siamo in ritardo su questo”, ha aggiunto l’ex capo dell’esercito e politico centrista.
Gantz afferma che Israele ha commesso un errore nell’evacuare gran parte del nord del Paese quando le ostilità con Hezbollah sono divampate dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre che ha scatenato la guerra di Gaza.
“A Gaza abbiamo superato un punto decisivo della campagna”, ha dichiarato. “Possiamo fare tutto quello che vogliamo a Gaza. Dovremmo cercare di trovare un accordo per liberare i nostri ostaggi, ma se non ci riusciamo nei prossimi tempi, pochi giorni o poche settimane, o qualunque cosa sia, dovremmo andare a nord”.
“Siamo in grado di… colpire lo Stato del Libano, se necessario”, afferma.
“La storia di Hamas è vecchia”, aggiunge, affermando invece che ‘la storia dell’Iran e dei suoi proxy in tutta l’area e quello che stanno cercando di fare è il vero problema’.
(Rights Reporter, 9 settembre 2024)
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Israele – Il 7 ottobre non ha fermato l’aliyah
Secondo i dati raccolti dal Global Aliyah Centre dell’Agenzia Ebraica in collaborazione con il Ministero israeliano per l’Aliyah «Israele sta attraversando una delle sue crisi più grandi e in tanti vogliono partecipare alla ricostruzione di un Paese che considerano casa». C’è stato un aumento notevole nel numero di pratiche di immigrazione: si arriva al +355% dalla Francia, +87% dal Canada, +63% dal Regno Unito e +62% dagli Stati Uniti. Shay Felber, direttore dell’Unità per l’Aliyah e l’Integrazione dell’Agenzia Ebraica ha ricordato che c’è stato un esodo simile dopo la guerra dello Yom Kippur, nel 1973. Felber attribuisce i dati dello scorso anno anche all’aumento dell’antisemitismo: in molti valutano che è tempo di andarsene e Israele è visto come il futuro. Per Felber si tratta di una tendenza che dovrebbe continuare nel 2025: «Non stiamo parlando solo di potenziali olim», ovvero delle pratiche descritte sopra, «sono dati che si sono già tradotti in nuovi arrivi, c’è già un aumento del 50% dell’aliyah dalla Francia e del 25% dal Nord America».
Come ha scritto Amelie Botbole sul Jewish Chronicle il 2 settembre Dov Lipman, ex membro della Knesset e fondatore e amministratore delegato di Yad L’Olim, ha dichiarato che dal 7 ottobre la sua organizzazione ha aiutato un numero crescente di immigrati ebrei a stabilirsi in Israele: «Per alcuni è il desiderio di stare con il proprio popolo nel momento del bisogno. Per altri è l’aumento dell’antisemitismo e riconoscere che Israele è la patria del popolo ebraico». Per esempio Warren e Leah Phillips hanno iniziato da poche settimane la loro nuova vita, si sono trasferiti da Manchester in Israele a metà agosto con le figlie, di 18 e 14 anni: hanno iniziato a informarsi nel dicembre 2023 perché volevano un futuro migliore ed essere più vicini a Israele e alla sua popolazione, soprattutto dopo il 7 ottobre. «Avevamo più paura di rimanere in Inghilterra che di venire in Israele, e tutti sono stati incredibilmente accoglienti: ci guardano con ammirazione e rispetto perché abbiamo deciso di venire qui mentre la guerra è in corso».
Secondo i nuovi dati dell’Agenzia Ebraica, circa 30 mila persone hanno espresso il desiderio di immigrare in Israele negli ultimi dieci mesi, e tra di loro c’è anche chi ha agito d’impulso, come Eric Rubin e sua moglie Sue, che si sono trasferiti dal Maryland meno di una settimana dopo l’attacco di Hamas: «Ho guardato mia moglie e le ho detto che non era più possibile restare. Lei mi ha risposto che se fossi riuscito a trovare i biglietti aerei sarebbe partita subito… avevamo programmato da tempo di trasferirci, ma abbiamo anticipato la data della partenza dopo il massacro. Sia per essere presente, per la mia gente, che per dimostrare ai terroristi che nulla ci avrebbe impedito di venire! Sono orgoglioso di essere qui, è qualcosa che ci ha reso più forti: in America quando qualcosa va storto si resta a casa, qui abbiamo preso a svegliarci ogni mattina con l’idea di vivere la nostra vita al meglio, non sappiamo cosa ci riserverà il domani».
Dal New Jersey invece sono arrivati a luglio Jonathan Deluty con la moglie e due figlie piccole: «Avevo prestato servizio nella Brigata Paracadutisti dell’IDF nel 2014 e durante il servizio militare avevo fatto un voto: se tutti i membri del mio plotone fossero tornati a casa interi avrei fatto l’aliyah entro dieci anni – ha raccontato lui al JC – Il 7 ottobre mi è stato chiaro che era arrivato il momento di partire». Lavorava a New York e, ha spiegato, si è sentito come l’11 settembre, e i suoi amici hanno iniziato a partire per la guerra. Ha aggiunto che ritiene importante crescere le sue figlie in un Paese in cui possono avere un ruolo nel futuro del popolo ebraico: «Non mi sono sentito in fuga dall’America ma mi sono chiesto se si sarebbero sentite così le mie figlie, magari tra quarant’anni».
(moked, 9 settembre 2024)
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Le scelte difficili chieste a Israele
Il 6 settembre Bild pubblica un documento rinvenuto a Gaza dall’IDF in cui è esplicitata la strategia di Hamas relativa agli ostaggi ancora detenuti a Gaza e alla conduzione della guerra. Massima deve essere la pressione psicologica esercitata sulle famiglie degli ostaggi, in modo che “i parenti delle vittime siano portati ad un livello tale di disperazione da richiedere che venga fatto di tutto per liberare i loro cari”. La tecnica, implacabile e spietata è tipica di chi detiene un ostaggio avendo come scopo principale quello di ottenere dalla sua detenzione il massimo vantaggio. Dopo l’uccisione a sangue freddo da parte di Hamas di sei ostaggi che teoricamente avrebbero dovuto essere tra quelli rilasciati nella prima fase di un eventuale accordo tra Israele e l’organizzazione terrorista, la reazione è stata esattamente quella prevedibile: l'intensificarsi delle manifestazioni di piazza in Israele per chiedere che il governo di Netanyahu raggiunga l’accordo, (ieri, a Tel Aviv si è avuta la più grande manifestazione in questo senso dall’inizio della guerra, con circa 400,000 mila manifestanti) e le accuse rivolte soprattutto a quest’ultimo di essere l’ostacolo principale al suo raggiungimento. Sempre ieri, a Londra, durante un incontro organizzato dal Financial Times, Richard Moore direttore dell’intelligence britannica e Robert Burnes, direttore della CIA e uno dei mediatori principali per conto degli Stati Uniti negli incontri che si sono svolti e sono ancora in corso tra Doha e il Cairo, hanno entrambi convenuto che per giungere a un accordo sarà necessario sia per Israele che per Hamas fare delle scelte difficili che comportino dei compromessi politici importanti. Ora, appare del tutto evidente a chiunque sia smaliziato il giusto, che le scelte difficili, le più difficili, dovrebbero spettare allo Stato ebraico, essendo esso e non Hamas, la parte lesa, essendo esso e non Hamas uno Stato democratico costretto dalle circostanze a intavolare dei negoziati con una efferata organizzazione criminale, essendo esso e non Hamas a dovere mettersi nella posizione di fare cessioni particolarmente impegnative per riavere gli ostaggi vivi. L’ipocrisia dei due alti funzionari dell’intelligence è palese, così come è del tutto palese che la pressione della piazza sul governo e le accuse rivolte a Netanyahu facciano solo ed unicamente il gioco di Hamas. Hamas non libererebbe mai tutti gli ostaggi, ne andrebbe della sua sopravvivenza. Anche in un eventuale accordo farebbe il possibile per trattenerne una riserva e con questa continuare a ricattare Israele. Non esiste alcuna possibilità che Hamas possa vincere militarmente una guerra contro Israele, soprattutto adesso, dopo quasi dieci mesi e mezzo di guerra, con il grosso della sua struttura operativa politica e militare fortemente compromessa, ma sarebbe da ingenui pensare che Hamas abbia mai pensato solo un attimo, di sconfiggere Israele militarmente. La strategia di Hamas, così come esplicita il documento pubblicato da Bild, è sempre stata, fin dall’inizio, di vincere la guerra politicamente, in virtù dell’enorme apparato di fiancheggiamento, intenzionale e non intenzionale, di cui ha potuto usufruire in tutti questi mesi, e la cui finalità è la criminalizzare di Israele per una guerra che esso è stato costretto a combattere a seguito dell’eccidio del 7 di ottobre scorso. Nonostante ciò, e l’indubbio successo conseguito nell’opera di criminalizzazione senza precedenti, (al cui confronto la condanna occidentale nei confronti della Russia per l’aggressione dell’Ucraina, appare carezzevole), Israele ha proseguito nelle operazioni militari, ottenendo lentamente ma inesorabilmente il raggiungimento di numerosi obiettivi, tra cui quello del controllo del corridoio Filadelfia, la striscia di terra a Gaza al confine con l’Egitto la quale rappresenta per Hamas la principale arteria di alimentazione per il flusso in entrata di armi. Le scelte “difficili”, quelle che chiedono i funzionari americani e inglesi soprattutto a Israele, e va ricordato che il Regno Unito con il nuovo governo laburista in carica ha recentemente bloccato una fornitura di armi a Israele per ragioni squisitamente demagogiche, si possono facilmente riassumere in una formula: Israele deve ribaltare la sua posizione di forza a vantaggio della debolezza di Hamas, deve cedere in modo da ottenere che Hamas guadagni tempo e possa continuare a giocare come il gatto con il topo, lucrando il più non posso sulla vita degli ostaggi. Solo restando fermo sulle posizioni acquisite, Israele può realisticamente vincere la guerra, ogni compromesso avvantaggerebbe esclusivamente i jihadisti.
(L'informale, 9 settembre 2024)
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Il 15 settembre torna la Giornata della Cultura Ebraica, occasione di apertura e conoscenza
Conoscere l’ebraismo, la sua storia bimillenaria in Italia, i precetti religiosi e gli aspetti culturali per combattere i pregiudizi e gli stereotipi. Questo è l’obiettivo della Giornata Europea della Cultura Ebraica, appuntamento giunto alla venticinquesima edizione che torna domenica 15 settembre 2024 in 106 località italiane distribuite in 16 regioni. Conferenze, dibattiti, visite guidate, apertura di siti archeologici, degustazioni di cibo kasher, concerti, spettacoli, laboratori per bambini e tante altre attività animeranno la manifestazione; sinagoghe, musei, archivi, catacombe, locali comunitari si apriranno a cittadini, turisti e semplici curiosi, per un’iniziativa finalizzata proprio alla condivisione, all’incontro, al confronto e al dialogo.
Le varie iniziative si terranno in tutte le città dove si trovano le 21 comunità ebraiche italiane e in quelle località grandi o piccole dove la presenza ebraica è di poche decine di persone o addirittura assente da secoli, ma che ha lasciato una traccia profonda della propria presenza in passato.
Città Capofila sarà Torino: nel capoluogo piemontese la Giornata verrà simbolicamente inaugurata alla presenza delle autorità locali e nazionali. Una scelta non casuale, dal momento che ricorrono i 600 anni dalla nascita della comunità.
Tema prescelto per questa edizione, filo rosso tra i vari eventi, sarà “la famiglia”. Molteplici le declinazioni possibili: dalle intricate e appassionanti “storie di famiglia” delle narrazioni bibliche alle famiglie ebraiche nella storia e nelle società; la concezione ebraica di educare i figli nella continuità della tradizione e, al tempo stesso, nel rispetto e nella valorizzazione dell’unicità di ciascuno; l’idea (biblica e talmudica) delle “famiglie della terra”, in base alla quale ogni popolo e ogni individuo è figlio del Dio unico e quindi parimenti degno dei diritti fondamentali di uguaglianza, libertà, rispetto e solidarietà. Il tentativo di enucleare un punto di vista ebraico sulla famiglia – pur sempre tenendo conto dell’irriducibile pluralità e diversità di tempi, geografie, interpretazioni, comunità storiche – sarà lo spunto per connettere e far dialogare il passato e il presente, le tradizioni con le trasformazioni e con le questioni sociali, etiche, bioetiche, politiche e normative, cruciali per le famiglie contemporanee.
La Giornata è coordinata a livello europeo, dall’AEPJ – European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage – e, per l’Italia, dall’UCEI – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
“Una giornata importante dedicata alla cittadinanza per trasmettere un messaggio fondamentale di come la cultura ebraica scorra nella cultura italiana ed europea e di come nei secoli abbia plasmato concetti, istituzioni e tradizioni – afferma la presidente Ucei Noemi Di Segni -. La famiglia oggi è il nucleo più essenziale al quale prestare attenzione, come spazio che deve generare sicurezza, certezza e affetti, per trovare forze e risorse da condividere negli altri ambiti in cui si svolge la vita quotidiana. È il presupposto della convivenza democratica, tra fatiche e crisi, con la convinzione dell’essenzialità e ricchezza della relazione. La cultura e la conoscenza sono il presupposto per arginare fenomeni di odio, sospetto e antisemitismo”.
(Shalom, 9 settembre 2024)
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Antisemitismo evangelico
Questo articolo è stato scritto dieci anni fa ed è presente da allora sul nostro sito nella rubrica “Approfondimenti”. Lo riproponiamo adesso per mostrare che l’«antisemitismo quiescente» di cui allora si parlava ora si è svegliato, e dopo il 7 ottobre è diventato addirittura assordante. Ripresentiamo l’articolo così com’era, con la sola aggiunta del risalto in colore.
di Marcello Cicchese
«Antisemita io? Ma per carità! Ci mancherebbe.» Di questo tipo è spesso la reazione di chi si sente dire che forse il suo atteggiamento verso gli ebrei assomiglia molto a quello degli antisemiti. Chi reagisce così di solito ha in mente un antisemitismo dichiarato, esplicito, attivo, nel quale naturalmente non si riconosce. Ma accanto a un antisemitismo militante, facilmente riconoscibile, esiste un antisemitismo quiescente che può restare in stand by per molto tempo e, purtroppo, attivarsi nei momenti critici meno adatti. Del resto, per diventare o rimanere antisemiti non ci vuole molto: basta non fare niente. In questo modo, senza neanche accorgersene, si viene tranquillamente trasportati dal main stream, la principale corrente di questo mondo che segue gli impulsi del principe di questo mondo, che detesta e tenta continuamente di distruggere il popolo che Dio si è scelto. E' un antisemitismo per default, cioè in assenza di... In assenza di interesse e conoscenza si rimane, rispetto a Israele, indifferenti e ignoranti. L'antisemita per default "non ce l'ha" con gli ebrei e con Israele per il semplice fatto che di loro non si interessa: i suoi problemi sono altri. Fosse per lui, non ne parlerebbe proprio. Ma per sua sventura gli ebrei ci sono, Israele esiste e il mondo ne parla. Quindi, prima o poi anche lui è costretto a parlarne, e quando lo fa quasi sempre dice qualcosa di sbagliato. Naturalmente però non se ne accorge, a causa della sua ignoranza, e si sorprende se gli si fa notare che sta semplicemente ripetendo quello che tanti antisemiti dicono. La cosa è particolarmente grave quando l'antisemita per default è un cristiano evangelico, che in quanto tale dovrebbe avere la Bibbia come fondamento della sua fede e delle sue convinzioni. Perché è un fatto indiscutibile che nella Bibbia di Israele si parla dappertutto. Dicendo allora qualcosa di sbagliato su questo argomento si rischia di cadere nell'eresia; il che è grave, perché si può non essere d'accordo con molti, anche con gli ebrei, anche con Israele, ma non essere d'accordo con Dio è rischioso, perché si finisce per essere d'accordo con il suo nemico, che è Satana. In molti casi però l'eresia non si esprime con formulazioni di dottrine sbagliate, ma con l'assenza di dottrine giuste. E' un'eresia di omissione. Come ci sono i peccati di omissione, ci sono anche le eresie di omissione. Questo avviene quando un aspetto importante della rivelazione biblica, che compare più volte in tutte le parti della Scrittura, viene sistematicamente negletto e trascurato. E' il caso della dottrina su Israele. Qualche anno fa è comparso in Italia un "Dizionario di teologia evangelica" di più di 800 pagine. Ebbene, tra le oltre 700 voci elencate nel dizionario non si trova il termine "Israele". Non c'è. Non è strano? Non è significativa un'omissione come questa? E non è strano che certe parti della Bibbia vengano sistematicamente escluse dall'insegnamento nelle chiese? Ad un qualsiasi evangelico si potrebbe chiedere: quante volte nella tua chiesa hai sentito predicare sul libro di Ezechiele? E in particolare sugli ultimi nove capitoli che parlano del nuovo Tempio a Gerusalemme? E quante volte hai sentito un'istruzione ordinata sul concetto di "Regno di Dio" nei Vangeli? Riflettendoci su con calma, potremmo arrivare alla conclusione che la Bibbia per noi è come certi grossi programmi del computer: la usiamo sì e no al 30 per cento. Non potrebbe trovarsi in quel residuo 70 per cento l'eresia di omissione che riguarda la dottrina di Israele? La questione dunque è grave e non può essere trattata in poche battute, ma qui si vuole sottolineare che il tema Israele non è un'appendice della dottrina cristiana, ma sta al centro del messaggio evangelico, perché sta lì dove Gesù stesso sta. Il tentativo sempre ripetuto nella storia di staccare Gesù da Israele e Israele da Gesù è di natura diabolica, perché corrisponde all'interesse storico di Satana. E' triste doverlo riconoscere, ma in questa trappola diabolica sono caduti nel passato e cadono ancora oggi molti cristiani autentici, anche evangelici, anche nati di nuovo. Lo scandaloso caso di Lutero dovrebbe far capire che l'autenticità della fede personale in Gesù, se non è accompagnata da una dipendenza reale dallo Spirito Santo e dalla Parola di Dio nel preciso momento storico in cui si vive, non è una garanzia contro la possibilità di cadere in un autentico antisemitismo evangelico. Il quale - ed è una cosa grave - fa diventare anche i credenti in Gesù strumenti di Satana nel suo tentativo di disonorare prima e distruggere poi il popolo ebraico e, oggi, lo Stato d'Israele. Come l'acqua, che in natura si presenta in diversi stati ma ha sempre la stessa struttura molecolare, così l'antisemitismo si presenta nella storia in diverse forme ma ha sempre la stessa struttura spirituale: l'odio per gli ebrei. Si parla di "struttura spirituale" perché l'odio che si manifesta è espressione dell'intima ribellione a Dio dell'uomo peccatore. L'antisemitismo è un frutto della carne: una carnalità che ha l'aggravante pericoloso di non essere quasi mai riconosciuta come tale. Anzi, in molti casi si presenta come anelito ad una superiore virtù. Nel periodo storico in cui viviamo la carnalità dell'antisemitismo assume due forme tra loro collegate: una anti e una filo. C'è l'antisionismo e il filopalestinismo. Il primo è più esteso, il secondo più ristretto, ma entrambi sono presenti negli ambienti evangelici, e in questo caso meritano il nome di antisemitismo evangelico perché le sue motivazioni pretendono di essere tratte dalla Scrittura. E questo ne aumenta la gravità. Qualcuno sarà sconcertato da affermazioni così forti, altri saranno in netto disaccordo, altri ancora chiederanno di avere argomenti a sostegno di quanto si dice. Gli argomenti ci sono: chi è interessato può cercarli in questa rivista o in altri libri che possono essere indicati a chi lo desideri, ma qui è importante sottolineare ancora una volta che il tema Israele non può essere accantonato, perché è di enorme gravità spirituale. La preannunciata biblica apostasia degli ultimi tempi si sta avvicinando a grandi passi ed è penetrata anche in chiese evangeliche che un tempo si distinguevano per la loro fedeltà alla Scrittura. Una delle forme più gravi che questa apostasia sta assumendo è la conformazione al mondo nell'odio verso il popolo che Dio si è scelto per il suo piano di salvezza. Gli eventi incalzano e il tempo stringe: su Israele ciascuno ha il dovere di chiarirsi le idee e fare la sua propria scelta. Sulla sua responsabilità davanti a Dio.
(Chiamata di Mezzanotte, Nr.11/12 2014)
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Netanyahu contro tutti
di Giulio Meotti
Lo scorso luglio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu voleva visitare Praga e Budapest sulla strada per gli Stati Uniti, dove avrebbe parlato per la quarta volta Congresso, un onore concesso soltanto a Winston Churchill. Ma alla fine, Netanyahu ha rinunciato: niente sosta europea per i timori che la Corte dell’Aia spiccasse un mandato di arresto. “Bibi” non mette piede in Europa dal 7 ottobre.
A quasi un anno dal conflitto più difficile di Israele dalla guerra d’indipendenza del 1948, una cosa è sempre più chiara. Che lo si stimi o lo si detesti, Netanyahu ha imposto la sua volontà sui grandi eventi del suo tempo. Tutti lo davano per spacciato l’8 ottobre. Ma nonostante le sue vulnerabilità politiche in patria e l’isolamento israeliano internazionale, Netanyahu ha mantenuto i fili del potere nelle sue mani molto più a lungo e con un’efficacia molto maggiore di quanto tutti si aspettassero dopo l’eccidio di Hamas.
“Un robot giapponese programmato da allenatori americani”. Così il commentatore politico più famoso d’Israele, Nahum Barnea, definì Netanyahu nel 1996, quando vinse le prime elezioni e l’Economist gli dedicò una copertina su cui campeggiava il titolo: “Il grande sbruffone”.
Una carriera in una Sayeret Matkal dell’esercito, inglese perfetto, due lauree prese in quelle università americane che oggi paragona a quelle naziste, bugiardo politico di talento, sempre pronto a prendersi il merito e mai la responsabilità, Netanyahu è forte di un eloquio televisivo sensazionale, iniziato come vice ambasciatore in America e poi come capo della delegazione israeliana all’Onu. Era la prima guerra del Golfo e Bibi, indossando la maschera antigas in diretta tv, diventò il preferito della Cnn, per l’America l’espressione più autentica del sabra emancipato. Da allora, parte dell’istinto di sopravvivenza di Netanyahu è dimostrare di poter tenere testa all’America.
Oggi Bibi guida un paese profondamente polarizzato. I casi penali contro di lui stanno macinando nei tribunali. Migliaia di israeliani scendono regolarmente in piazza per chiederne le dimissioni. L’establishment militare israeliano è in aperta rivolta. La Corte suprema lo considera una minaccia costituzionale. Ex premier e suoi ex alleati, come l’intelligenza egolatrica fatta persona di Ehud Barak, invocano apertamente la sedizione contro Netanyahu, la cui politica è riassumibile con una parola yiddish: “chutzpah”. Vuol dire sfacciataggine, quella determinazione insieme sentimentale e ideologica, oggi così poco occidentale, di non arrendersi e di eliminare il nemico che vuole distruggerti e che Netanyahu ha preso dal padre, il durissimo Benzion, che nella casa del quartiere di Katamon, un modesto quartiere di Gerusalemme, fino a 102 anni ha seguitato a scrivere libri sulle infinite persecuzioni degli ebrei. Quando Benzion è morto, nel 2012, Netanyahu si rivolse direttamente a suo padre: “Mi hai sempre detto che una componente necessaria per qualsiasi corpo vivente, e una nazione è un corpo vivente, è la capacità di identificare un pericolo in tempo, una qualità che è andata perduta per il nostro popolo in esilio”. Chissà cosa avrebbe detto il padre il 7 ottobre.
La guerra di Gaza è iniziata con Hamas che ha esposto i catastrofici fallimenti strategici dello stato ebraico. Ci vorranno anni per attribuire una responsabilità precisa per la serie di errori di intelligence, politici e militari che hanno lasciato così tanti israeliani vulnerabili alla barbarie dei terroristi, ma i fallimenti chiave si sono verificati sotto Bibi, che aveva promesso due cose agli israeliani: “Sicurezza e un’economia forte”. L’idea di fortificare tutti i confini dello stato ebraico è di Netanyahu. La dottrina di Bibi è sempre stata pessimista: Israele deve chiudersi nei confini, come in un gigantesco vallo di Adriano, sviluppando i rapporti economici e diplomatici con il resto del mondo arabo che odia Teheran. Dopo il 7 ottobre, la dottrina ha mostrato lacune drammatiche. Ora si scopre che seimila palestinesi da Gaza sono entrati in Israele quella mattina di festa.
Il 7 ottobre cambia anche la politica di Netanyahu. Consapevole che la sicurezza di Israele richiede l’annientamento militare di Hamas, Bibi, finora così restio ad azzardi bellici su vasta scala, lancia una lunga guerra impopolare a livello internazionale e interno, per il suo rifiuto di anteporre il ritorno degli ostaggi alla vittoria militare che ha mobilitato l’opposizione interna, consapevole che, in caso di uno sciagurato accordo al ribasso, Israele diventerebbe “debole come la tela del ragno”, come disse Hassan Nasrallah in un famoso discorso quando Israele si ritirò dal sud del Libano nel 2000 per opera del suo rivale politico, Ehud Barak. Yahiya Sinwar, il brillante diavolo di Hamas, conosce gli ebrei e sa che il moderno stato costituzionale occidentale non è in grado di sostenere per sempre le guerre nel deserto: anche il paese più potente della terra si è ritirato dall’Iraq e dall’Afghanistan.
Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti sotto Netanyahu, ha affermato che il primo ministro è arrivato a pensare che la sopravvivenza di Israele sia intrinsecamente legata alla sua. “Questa convinzione gli consente di resistere a una pressione tremenda”. E da quante parti gli arriva: la destra radicale partner di governo, l’establishment militare nella persona del ministro della Difesa Yoav Gallant, gli Stati Uniti di Joe Biden, i famigliari degli ostaggi che lo accusano della morte dei loro cari, Hamas, l’Onu, gli alleati occidentali che devono gestire elettoralmente l’appoggio precario a Israele. E se non bastassero le decine di filmati in cui Hamas costringe i rapiti israeliani ad attaccare Bibi e chiederne la resa, ora ci si mettono anche i sindacati a paralizzare il paese. Forse non dimenticano le politiche thatcheriane con cui Netanyahu da ministro delle Finanze di Ariel Sharon li rimise al loro posto.
Netanyahu è diventato la bestia nera dell’intellighenzia internazionale e il capro espiatorio della stampa mondiale, che lo accusa di tenere in ostaggio i rapiti da Hamas e di voler continuare la guerra per motivi politici. Mentre l’antisemitismo si diffonde nel mondo, è Netanyahu che scatena l’odio. C’è chi lo paragona a Sinwar, che sa come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, ha condiviso un post su X che accosta un’immagine di Hitler, celebrato da una folla acclamante con saluti nazisti, a una di Netanyahu accolto da membri del Congresso degli Stati Uniti. Bibi è diventato Hitler nelle piazze di Londra, nei proclami di Erdogan, negli editoriali dei giornali scandinavi. Il mondo intero, l’esercito israeliano, le istituzioni politiche e intellettuali, l’Amministrazione Biden, hanno cercato di spezzare la sua presa sul potere o almeno di costringerlo a cambiare direzione. Ma per ora hanno tutti fallito. Bibi rimane al timone ed è già da tempo il più longevo primo ministro della storia israeliana, anche più di David Ben Gurion.
Nicolas Sarkozy: “Netanyahu? Non posso vederlo”. Replica Barack Obama: “Tu sei stufo, io devo trattare con lui tutti i giorni”. Così un famoso fuorionda al G20 di Cannes. Sarkozy oggi è l’ombra di quello che era, Obama è impegnato nell’elezione di Kamala Harris e Netanyahu è ancora al potere. “A pain in the ass”, ebbe a definirlo Obama. Un dito al culo. E Biden, “a bad fucking guy”. Un esasperato Bill Clinton disse in privato, dopo il suo primo incontro con Netanyahu nel 1996: “Chi cazzo si crede di essere? Chi è la fottuta superpotenza qui?”. Nonostante la straziante tragedia degli ostaggi e delle loro famiglie, Netanyahu ha resistito alla richiesta di consentire ad Hamas di trarre profitto da stupri, rapimenti e torture facendo pagare a Israele un prezzo impossibile per il loro rilascio. Netanyahu ha superato in astuzia Biden, rifiutandosi di lasciare che una politica americana confusa in medio oriente dettasse l’agenda di Israele in una guerra esistenziale come non se ne vedevano dal 1948. E oggi Netanyahu è l’unico ostacolo sulla strada di Hamas, che chiede che Israele abbandoni il corridoio Filadelfi, la fondamentale striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sotto la quale Hamas fa passare armi ed equipaggiamento; che interrompa la guerra e assicuri di non uccidere Sinwar. In altre parole, vittoria per Hamas e resa di Israele.
Fu Netanyahu primo ministro nel 2011 a volere il rilascio di mille terroristi palestinesi, tra cui Sinwar, in cambio di un solo soldato israeliano, Gilad Shalit. Il prezzo per la sua liberazione fu di 1.027 terroristi responsabili della morte di 569 israeliani. E dal primo giorno del rapimento, la stampa come Haaretz incolpava Netanyahu di non volere lo scambio con Hamas. Corsi e ricorsi storici.
I terroristi palestinesi hanno appena ucciso sei ostaggi israeliani, tra cui un americano con doppia cittadinanza, e il colpevole è comunque Netanyahu. Non importa che il governo israeliano abbia inviato una delegazione dopo l’altra per negoziare con Hamas. Non importa che sia Hamas, non Netanyahu, a rifiutare qualsiasi accordo. Sfumature: è Bibi che ha abbandonato Ori Danino, Carmel Gat, Hersh Goldberg-Polin, Alexader Lobanov, Almog Sarusi ed Eden Yerushalmi. Bibi deve accettare qualsiasi accordo, subito, e riportare a casa il resto degli ostaggi, a qualunque costo. E poi dovrà dimettersi. Magari andarsene in esilio in Florida assieme a Ron Dermer, il cui padre e fratello sono stati entrambi sindaci di Miami Beach.
La reazione della Casa Bianca, del governo britannico, della stampa occidentale e di parti di Israele è stata di dare la colpa al premier. Biden ha accusato Bibi di non aver “fatto abbastanza” per garantire un accordo sugli ostaggi. Il nuovo governo laburista britannico ha scelto il giorno del ritrovamento dei cadaveri dei sei per annunciare la fine di trenta licenze di esportazione di armi verso Israele. La spiegazione è che c’è un “rischio” che le armi possano essere utilizzate in violazione delle leggi umanitarie. Il governo di Keir Starmer intende le violazioni di Hamas che spara alla testa a degli innocenti?
L’opposizione americana ha tenuto Israele fuori da Rafah, dove Hamas ha tenuto i sei prima di ucciderli, per tre mesi. Kamala Harris aveva detto che un’invasione di Rafah avrebbe condannato i suoi civili. “Ho studiato le mappe, non c’è nessun posto dove quella gente possa andare”, disse Harris. Bibi ha dimostrato che si sbagliava, evacuando un milione di abitanti in due settimane.
Ora anche la marea politica sembra nuovamente essere girata a favore di Bibi. Per la prima volta dal 7 ottobre, i sondaggi lo danno in vantaggio sul suo principale rivale, l’ex capo di stato maggiore il centrista Benny Gantz, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, alto, laconico e che trasuda pragmatismo. Ma nel caso di elezioni anticipate nessuna coalizione naturale avrebbero i 63 seggi per governare.
Hezbollah e l’Iran sembrano scoraggiati dalla risposta militare israeliana, con gli strike di Gerusalemme sul Libano e l’eliminazione a Teheran del capo di Hamas, Ismail Haniyeh. Ma tutti sanno che per sferrare un colpo efficace ai suoi nemici a nord, Israele dovrà non solo assassinare i capi del terrore, ma anche tornare a nord del fiume Litani e creare vaste zone cuscinetto.
La sopravvivenza dello stato ebraico rimane un immenso work in progress e il conflitto con l’Iran resta irrisolto. Eppure, una cosa è chiara. Netanyahu sta lasciando impronte profonde nella storia e nella storia del popolo ebraico. Quanto alle piazze e ai media, Bibi taglia corto: “Preferisco avere cattiva pubblicità che un buon necrologio”.
E in fondo subito dopo la fondazione di Israele, quando gli fu posta l’attenzione sulla probabile reazione negativa delle Nazioni Unite, anche David Ben Gurion sbottò: “E’ stata l’audacia degli ebrei a fondare lo stato, non una decisione di quell’Um Shmum”. Um Shmum si riferisce all’Onu (“Um” in ebraico) abbinandogli il prefisso “Shm” con cui si prende in giro. Tradotto: chi se ne frega dell’Onu? Israele è nato contro il parere del resto del mondo. Sopravviverà anche senza.
Il Foglio, 7 settembre 2024)
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Odiare Israele usando Netanyahu come paravento
di Davide Cavaliere
«Blogger» presso Il Sole 24 ore, Ugo Tramballi è specializzato nel diffondere la peggior propaganda palestinese, che cerca di spacciare sotto forma di analisi «imparziali». Il giornalista, infatti, è uno di quelli che ama celarr la propria avversione per Israele dietro a un discorso anti-Netanyahu e, più in generale, «antifascista».
Come tutti i conformisti di sinistra rimpiange Yitzhak Rabin, trasformato in santo laico dopo l’omicidio, dimenticando che i suoi compagni e amici progressisti, forse lui stesso, ma non lo sappiamo, non mancarono di accusare anche il leader laburista di «fascismo», soprattutto in relazione alla frase sulla necessità di rompere le braccia ai palestinesi che tiravano pietre durante la prima Intifada.
Tramballi è ossessionato dalla destra israeliana. Non esiste, praticamente, suo articolo che non contenga un riferimento a un presunto «messianismo ebraico» o alle «destre nazional-religiose». Si è convinto che Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir siano la versione ebraica di Hamas e che vogliano realizzare il progetto della «Grande Israele». Si tratta del riciclo della menzogna fabbricata, negli anni Trenta, da Amin Al-Husseini, il Muftì filonazista di Gerusalemme, secondo cui i sionisti volevano impadronirsi di tutte le terre arabe e radere al suolo la moschea di al-Aqsa.
In realtà, Ben-Gvir e Smotrich, sono solo due ebrei israeliani fieri di esserlo, che non intendono continuare a fare da bersaglio ai terroristi di Hamas per soddisfare i sogni irenici e ingenui di gente come Tramballi. Mentre compila i suoi trafiletti per Il Sole 24 ore su come faccia fatica ad accettare un governo «nazional-religioso», gli israeliani, soprattutto se residenti in Giudea e Samaria, cercano di non farsi sparare lungo la strada che li riporta a casa o di evitare che le loro auto di seconda mano vengano rubate e portate nel territorio controllato dalla «Autorità Palestinese».
I cosiddetti «coloni», che il nostro dipinge come subumani «razzisti», sono persone normali che ogni giorno si battono per vivere in una terra nella quale hanno diritto di risiedere.
Tramballi, sebbene ami sfoggiare il suo curriculum di giornalista, non ha compreso nulla della realtà israeliana e della mentalità islamica, ancorato com’è a idee e concetti sconfessati dalla realtà. Il jihad condotto da Hamas e da Hezbollah col supporto dell’Iran non è la reazione violenta a una disputa territoriale. Gli arabi-palestinesi non combattono una guerra per la terra, bensì una guerra ideologica, «santa», volta a sterminare i circa sette milioni e mezzo di ebrei che vivono nei confini dello Stato d’Israele.
A questi fanatici, Tramballi vorrebbe regalare uno stato, anzi, a suo dire lo vorrebbero tutti: «lo stato palestinese che invocano l’amministrazione Biden, cinesi, russi, europei, Sud globale, arabi buoni e cattivi. Tutto il mondo, tranne Israele». Viene da chiedergli: dove dovrebbe sorgere questo «Stato palestinese»? Sui monti della Giudea così che i cecchini arabi possano mirare più facilmente agli israeliani? Oppure in una Gaza nuovamente retta da un gruppo jihadista?
Israele è un Paese piccolo e stretto, circondato da grandi e instabili Stati arabo-musulmani. Sottrargli altro territorio equivarrebbe a condannarlo a morte. Inoltre, come ha chiarito Yoram Ettinger proprio su queste pagine: «Uno stato palestinese significherebbe una base navale o aera russa al suo interno, e possibilmente una base militare iraniana che sconvolgerebbe drammaticamente il corrente equilibrio dei poteri nel Mediterraneo, già il ventre molle dell’Europa. Comporterebbe anche la devastazione di ciò che resta dei centri cristiani di Giudea e Samaria. Betlemme e Bet Jalla una volta erano centri a maggioranza cristiana fino agli Accordi di Oslo del 1993».
Sono queste, però, considerazioni strategiche e politiche che non interessano a Tramballi, troppo impegnato a sfoggiare i suoi buoni sentimenti e a coccolare il «Sud globale», gli arabi «buoni» e soprattutto quelli «cattivi», che difende con un ardore sospetto. Non si stanca mai, infatti, di ripetere che «Hamas non può essere sconfitto». Nel ’39 avrebbe detto che Hitler non poteva essere sconfitto (e avrebbe avuto ben più ragioni per pensarlo).
Secondo lui, Netanyahu dovrebbe accettare un accordo con Hamas, ossia con macellai imbottiti di Captagon, per far cessare una guerra che, a suo dire, non può essere vinta. In altri termini: vuole preservare il dominio di Hamas nella Striscia, così che in futuro possa esserci un nuovo 7 ottobre.
Tramballi, come direbbe John Bolton, è uno che fa della diplomazia un fine quando è solo un mezzo. Decenni di accomodamenti con Hamas non hanno prodotto nessuna pace, perché adesso dovrebbe essere diverso? Dubitiamo abbia una risposta razionale. I suoi articoli trasudano una pelosa indignazione, ma non forniscono nessuna soluzione concreta. Si limita a evocare idee platoniche e concetti puri: «Pace» e «Democrazia».
Non si capisce mai se sia un collaborazionista del jihad o un ingenuo utopista. Forse, la seconda ipotesi è la più probabile. Il conflitto israelo-palestinese gli permette di sfoggiare la sua «umanità». Leggere Tramballi è il miglior modo per continuare a non capire nulla del Medio Oriente, in compenso aiuta a farsi un’idea delle dimensioni del suo ego.
(L'informale, 7 settembre 2024)
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Engagé a metà. L’ottusità degli attori di Hollywood nel chiedere a Biden il cessate il fuoco di Israele
La gente del cinema che ha scritto al presidente americano per proporgli una «immediata de-escalation» ha dimenticato di citare i massacri di Hamas, il 7 ottobre e gli sfollati interni causati dai missili di Hezbollah. Sarà stato per questioni di spazio.
di Iuri Maria Prado
La bella gente di Hollywood che l’altro giorno scriveva al presidente Joe Biden chiedendogli di impegnarsi per una «immediata de-escalation» non ha dimenticato nulla dei numeri che raccontano la tragedia di Gaza: i «più di quarantamila uccisi negli ultimi undici mesi, e i più di novantaduemila feriti». «Crediamo», hanno aggiunto, che «ogni vita è sacra, a prescindere dalla fede o dall’etnia e condanniamo l’uccisione dei civili palestinesi e israeliani». Equanimi, quindi.
E sicuramente, dunque, erano le ristrettezze di spazio a precludere a quelle decine di artisti di menzionare i numeri del carico residuo, cioè quelli degli ebrei ammazzati il 7 ottobre, quelli degli ostaggi trattenuti e assassinati a grappoli dall’innominabile Hamas, quelli degli israeliani – un settantamila – profughi in terra propria perché l’innominabile Hezbollah ha incenerito la Galilea.
Nel reclamare il “cessate il fuoco”, la brochure delle celebrities engagé du côté de chez Intifada ricorda doverosamente che «più dei due terzi» dei residenti di Gaza «sono rifugiati e i loro discendenti sono stati obbligati ad abbandonare le loro case». Ancora ragioni di spazio impedivano agli artisti firmatari di ricordare che gli israeliani – non due terzi: tutti – sono rifugiati e discendenti di rifugiati. E che, se fosse per quelli che gli attori e i registi di “Artist4Ceasefire” non nominano, sarebbero alternativamente ammazzati o ributtati in mare.
Vogliono «la fine del bombardamento di Gaza», gli attori, come Laura Boldrini, Andrea Orlando, Angelo Bonelli, Alessandro Zan e soci quando, imbandierati di arcobaleno, mostravano cartelli con la scritta “Ceasefire on Gaza now”. Ceasefire from Gaza, from Lebanon, from Yemen e from Iran la prossima volta.
«Salvare vite», scrivono, «è un imperativo morale». Quanta giustizia nell’apoftegma. Avrebbero potuto rivolgerlo – quanto meno anche – agli innominabili che rivendicano di usare i bambini palestinesi «come attrezzi contro Israele». Ma la scelta avrebbe deturpato il nitore di quella deplorazione umanitaria. Una che non ha firmato è Gwyneth Paltrow. Sarà perché è un’ebrea non meritevole, come Ben Stiller e – figurarsi – Gal Gadot. Sinwar non ha firmato perché non lo sapeva.
(LINKIESTA, 7 settembre 2024)
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Mala tempora currunt sed peiora parantur
di Kishore Bombaci
Verso quale società ci stiamo dirigendo se oggi, annus Domini 2024 siamo costretti ad assistere attoniti a cittadini inglesi di religione ebraica felici perché il Sindaco di Londra Khan ha riservato loro degli autobus che potranno assicurarne in sicurezza gli spostamenti?
A quale livello è giunto l’antisemitismo violento che costringe cittadini ebrei a mutare le proprie abitudini fino alla gioiosa autoghettizzazione per motivi di sicurezza e tutela dell’incolumità?
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A quale vette di insulsa viltà morale è pervenuta la nostra società se asseconda tale assurdità che tanto assurda non pare visti i tempi che corrono?
Sembra un mondo al contrario, una fotografia mossa degli anni 30 del secolo scorso, con la differenza che, adesso, il condizionamento mentale imposto con la violenza dagli estremisti opera a priori, spinge all’autoesclusione per stanchezza, distrugge dall’interno la voglia di combattere per qualcosa che è semplice e banale e che sta diventando invece una chimerica utopia: viaggiare in sicurezza.
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Il sindaco londinese riferisce che molti ebrei gli hanno confessato che «Le famiglie [ebree], quando cambiavano autobus da Stamford Hill a Golders Green a Finsbury Park, erano spaventate dagli abusi subiti» e da qui la richiesta di viaggiare separati
Una forma di apartheid autoinvocata. La vita che muore nella morte della libertà! Si possono biasimare gli ebrei londinesi che vogliono viaggiare in pace e sicurezza? No e il paradosso è proprio questo.
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Perché la decisione del sindaco di Londra offre lo spaccato di un mondo che sta rapidamente cambiando ed involvendo avvitandosi in spire antiche che conducono alla paralisi della ragione e alla morte dello spirito
La vittima anticipa il carnefice, esce dal gioco, sacrifica la libertà per la sicurezza. Segno evidente della crisi profonda in cui versa la nostra democrazia occidentale, che proprio sulla libertà si era fondata e che, incapace di offrire sicurezza, si appresta ad essere surclassata da nuove forti identità che della libertà non sanno proprio che farsene.
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Le istituzioni occidentali non possono altro che assecondare queste spinte uguali e contrarie
Da un lato la violenza aggressiva di chi con le proprie minacce vorrebbe imporre nuovi paradigmi e dall’altra la vittima che si fa prona per salvare il salvabile. La dinamica del servo-padrone di hegeliana memoria risplende in tutta la sua fulgida dinamica paradossale lasciando inerte chi invece, sulle macerie del 900, avrebbe dovuto costruire una nuova società fondata su una “identità democratica” che facendo i conti con la propria storia, dimostrasse che “mai più” era davvero “mai più”.
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In questo la società occidentale ha fallito clamorosamente
Non c’è via di ritorno Quel che resta da decidere sono i tempi in cui questo fallimento si rivelerà patente agli occhi degli stolti che ancora non vedono quanto sia ormai troppo tardi. Quanto ormai a forza di giocare con il fuoco, ci si sia scottati. Quanto si sia varcata la triste soglia del non ritorno!
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Ci sono singoli che possono integrarsi, ma certe culture no
Oggi no. Tramonta l’idea progressista del multiculturalismo frizzante. E al contrario, si staglia all’orizzonte (invero forse ci siamo già immersi) uno scontro di civiltà che non fa prigionieri. Che non lascia spazio a compromessi. Che invita ciascuno di noi a una precisa scelta di campo. O di qua o di là. O con la cultura della vita, o con quella della morte.
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E‘ chiara la visione in chi, con occhio disincantato, osserva la realtà attuale e di cui le scelte londinesi sono una cartina di tornasole perfetta
Una realtà ampiamente preannunciata da Oriana Fallaci più di vent’anni fa, ma volutamente sottovalutata perché non in linea.
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Oggi farebbe bene rileggere La “Rabbia e l’Orgoglio”
Libro profetico al pari di Orwell e Huxley. E come questi, frainteso e emarginato. L’Occidente sta abdicando al proprio ruolo, vacilla con gambe malferme su una identità vista come un nemico da autoabbattere.
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Un’identità che viene fieramente negata dall’imperante cultura mainstream, censurata in un falso senso di colpa che assurge a parametro di interpretazione della storia e a strumento per rimodellare il futuro
E quindi, il cambiamento della cornice di riferimento occidentale, la caduta degli dei ci rende permeabili a una forma di invasione senza armi (ma all’occorrenza ci sono pure quelle), per contaminazione.
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L’Europa si fa vuoto, e il vuoto viene riempito da altri
Non c’è spazio per nessuna resistenza non dico militare, ma nemmeno culturale, a fronte di questa colonizzazione mentale di cui l’Occidente è vittima anestetizzata. Una forma di sindrome di Stoccolma si dipana nelle mente delle masse informi annichilite dal buonismo progressista; e i pochi che riescono a scorgere il disegno che si cela dietro fatti apparentemente scollegati, a individuare una direzione, a ammonire sul futuro, vengono tacciati di fascisti e messi a tacere.
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L’Europa muore nel silenzio dei più
I valori che ne hanno costruito l’essenza e l’esistenza sono prostituiti in vista di nuove sorti magnifiche e progressive. L’Europa si trasforma in Eurabia per dirla con le parole di Bat Ye’Or intellettuale di riferimento di Oriana Fallaci. Gente visionaria e perciò da mettere a tacere.
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Gente coraggiosa e perciò da silenziare
Gente libera, e quindi pericolosa.
Ecco, oggi mancano i visionari. Oggi quello di cui avremmo bisogno e che non esiste è una classe intellettuale coraggiosa che si rifiuti di affogare nelle sabbie mobili del perbenismo suicida e che, al contrario, denunci la vergognosa deriva che l’Occidente sta prendendo.
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Che ci rende morti prima ancora di essere uccisi
Quello di cui avremmo bisogno è di qualcuno che si alzi e dica NO! Io non voglio un autobus per me. Io voglio viaggiare con gli altri. Perché l’essenza della libertà è non farsi condizionare, non subire il ricatto morale e materiale degli antisemiti, degli islamisti, dei violenti e dei loro corifei buonisti.
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A tutto questo dico no!
E questo manca. E certo, non è colpa degli ebrei.
(AdHoc News, 7 settembre 2024)
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La truffa del multiculturalismo, l’ideologia europea che ci porta alla sottomissione
Parla l’autrice di “Eurabia”, Bat Ye’or. Una dottrina, oggi nel Dna dell’Unione europea, veicolo politico dell’immigrazione di massa che in pochi decenni ha trasformato l’Europa.
di Davide Cavaliere
Bat Ye’or, ovvero “Figlia del Nilo”, è autrice di studi pionieristici sulla condizione sociale delle minoranze religiose nel mondo islamico. È lei ad aver introdotto i termini “Dhimmitudine” ed “Eurabia” nel dibattito pubblico. Con lucida precisione e competenza storica, in questa intervista affronta temi cruciali per il futuro dell’Europa. • COME NASCE IL MULTICULTURALISMO
DAVIDE CAVALIERE: Vorrei cominciare da quanto è avvenuto nel Regno Unito, dove comuni cittadini e militanti identitari si sono scontrati con bande di musulmani e gruppi filo-palestinesi. Il multiculturalismo, inteso come pacifica convivenza tra gruppi etnici e religiosi differenti, è fallito? BAT YE’OR: È chiaro che il multiculturalismo, oggi, appare come una truffa su vasta scala. Il suo obiettivo proclamato è la coesistenza pacifica tra le culture, dove il termine cultura è qui usato, in senso lato, per mascherare il termine religione. Perché questa omissione? Esistono religioni nemiche? Il presidente Barack Obama ha detto che tutte le religioni predicano l’amore e la pace, ma no! Le religioni non sono identiche, alcune sono intolleranti e dominatrici e hanno provocato guerre. Facciamo attenzione all’irenismo. Possiamo stabilire una coesistenza pacifica tra le culture se le religioni che ne plasmano le espressioni e i valori predicano la nostra distruzione? Il multiculturalismo è un’ideologia politica di origine europea, che sostiene la coesistenza pacifica tra diversi gruppi etno-religiosi. Questa dottrina è stata creata dal Consiglio europeo, il massimo organo dell’Unione europea, che rappresenta i capi di Stato degli Stati membri. È stata espressa per la prima volta in Europa negli anni ’70 da storici e arabisti filo-islamici. Essa sottolineava la benefica tolleranza della dominazione araba nei confronti delle “minoranze” ebraiche e cristiane, in particolare in Andalusia e nell’Impero Ottomano. Un flusso di pubblicazioni di eminenti storici in tutti i campi ha inondato il pubblico per decenni. Esaltavano la tolleranza del governo islamico e la sua superiorità rispetto al cristianesimo arretrato e bigotto. Questo indottrinamento accompagnava la politica di massiccia immigrazione islamica in Europa e mirava ad abbattere i freni nazionalisti che ostacolavano la fusione intraeuropea dell’Unione. Jacques Berque, uno dei suoi più attivi sostenitori in Francia, voleva vedere diverse “Andalusie”, cioè Stati musulmani, sparsi per l’Europa. Oltre all’Andalusia, i militanti del multiculturalismo portavano il Libano come esempio di meravigliosa coesistenza multiculturale islamo-cristiana e accusavano Israele, uno Stato nazionale, di volerlo distruggere per gelosia. Il multiculturalismo promuoveva un’Europa senza confini, sottomessa all’Islam, come in Andalusia, e fortemente ostile al sionismo e allo Stato di Israele, accusato, per la sua sola esistenza, di essere la causa degli attuali conflitti islamico-europei. Se solo Israele scomparisse, la convivenza euro-islamica tornerebbe ad essere idilliaca. Il multiculturalismo è un movimento consensuale saldamente radicato nell’Unione europea, nel cuore dei settori educativo, sociale e politico. È rappresentato ai massimi livelli da vaste reti di lobby, comitati, associazioni e progetti, a cui si aggiungono organi di censura per neutralizzare e sopprimere qualsiasi opinione contrastante. Possiamo ora chiederci se questo multiculturalismo benevolo e felice sia davvero esistito nelle relazioni tra musulmani e cristiani. Forse nell’impero Judenrein del Terzo Reich tra il 1940 e il 1945, dove c’era una vera e propria fraternizzazione tra gli europei nazisti e i loro colleghi musulmani nelle SS e nella Wehrmacht. Numerosi libri hanno recentemente sfondato il muro della censura per denunciare le falsificazioni storiche del mito andaluso. Se questo paradiso di ebrei e cristiani governato dalla sharia non è mai esistito, a cosa è servita la costruzione di quell’immensa macchina politica transnazionale che è il multiculturalismo? Non è riuscito nemmeno a salvare il Libano dal caos. Questa dottrina, che oggi costituisce il Dna dell’Unione europea, è stata il veicolo politico dell’immigrazione di massa che ha trasformato l’Europa nel giro di pochi decenni. Dietro la sua facciata umanista si nascondevano questioni strategiche ed economiche transcontinentali. Sembra quindi che la violenza che ha lacerato la società britannica, nota per la sua tolleranza, sia un sintomo del caos e della destabilizzazione nazionale causati dalla collisione dei costumi stranieri importati e imposti alla Gran Bretagna. È il confronto tra la dottrina irenica e immaginaria del multiculturalismo, che predica l’amore e la pace sociale attraverso la mescolanza delle culture e, dall’altra parte, la violenza di una realtà vissuta dal popolo e negata dalle élites al potere, pronte a punire il proprio popolo se si ribella alla loro dottrina.
• L’ALLINEAMENTO EURO-ARABO
- DC: Ogniqualvolta gli europei manifestano la loro contrarietà all’immigrazione o denunciano l’eccessiva tolleranza delle autorità verso l’Islam, le classi dirigenti dell’Occidente parlano di “rigurgiti” di fascismo e di “fake news” russe. Da dove deriva questa incapacità di comprendere le cause della rabbia e del malessere dei popoli? BYO: Il rifiuto di comprendere l’opposizione nazionalista all’immigrazione islamica di massa non deriva da una mancanza di informazione da parte delle élites al potere, ma dall’inesorabile rifiuto di rompere gli accordi e gli impegni assunti dai Paesi dell’Ue negli ultimi quattro decenni con i Paesi arabi e musulmani. I due Paesi in prima linea in questa politica, Francia e Gran Bretagna, hanno promosso una politica di associazione tra gli Stati della Comunità europea e i Paesi musulmani, soprattutto quelli produttori di petrolio, sin dalla fine del 1969. In quel periodo, i Paesi arabi si stavano unendo sotto la bandiera del nazionalismo arabo modellato sulla jihad. Il riavvicinamento euro-arabo degli anni Sessanta e Settanta ha proseguito l’alleanza stretta dagli Stati fascisti e nazisti con i movimenti antisemiti arabi e musulmani degli anni Trenta e Quaranta. Le Camicie Verdi in Egitto, che negli anni Trenta riunirono decine di migliaia di giovani, e il Movimento Popolare Siriano di Antoun Saadé si ispirarono apertamente a questi movimenti. Questi gruppi propugnavano lo sterminio degli ebrei e l’eliminazione del sionismo. All’interno di questa convergenza nazista euro-islamica, una corrente cristiana ostile alla civiltà giudaico-cristiana esprimeva la sua ammirazione per l’Islam. Pertanto, accusare oggi i movimenti nazionali dell’Ue di essere nazisti e fascisti quando combattono l’islamizzazione dei loro Paesi è un sovvertimento della storia e una negazione della realtà.
• L’INFLUENZA DEL JIHAD
- DC: Cosa ci può dire dell’allenza tra estrema sinistra e Islam? BYO: L’alleanza tra i movimenti marxisti e terzomondisti e l’Islam è stata oggetto di numerosi studi. Ma qui mi concentrerò su un argomento tabù: l’influenza del movimento jihadista sull’Ue e sulla politica internazionale. Come ho detto, il multiculturalismo, che è in realtà il desiderio irriducibile di legare l’Europa all’Islam, è nel Dna dell’Unione europea, che nel 1957 ha eletto Walter Hallstein come primo presidente della Commissione europea per dieci anni. Hallstein era stato un ufficiale nazista molto favorevole all’Islam, proprio come i suoi colleghi collaborazionisti dell’epoca. Tutti i principali testi internazionali a partire dagli anni Settanta, siano essi politici, strategici o culturali, sottolineano questo desiderio occidentale di legarsi all’Islam. Lo si vede chiaramente nei testi dell’Alleanza delle Civiltà creata nel 2005. Si tratta di una forte tendenza che risale agli anni Venti, basata sulla lotta comune euro-islamica contro il sionismo e contro il Trattato di Losanna del 1923, che confermava la legittimità di uno Stato ebraico nella sua patria. Questa lotta ha portato alla Shoah nei territori del Terzo Reich, ai raid contro gli ebrei nei Paesi arabi, alla loro espulsione e, a partire dal 1947-48, alle guerre di sterminio contro lo Stato di Israele. Questo movimento euro-arabo e cristiano-islamico è durato per tutto il XX secolo. L’emigrazione in Egitto e in Siria, durante il periodo nasseriano, di criminali nazisti convertiti all’Islam gli diede una struttura. Essi assunsero posizioni di rilievo nel governo egiziano in relazione alla guerra contro lo Stato ebraico e fornirono istruttori militari all’OLP e nella propaganda. Fu questa collaborazione con Amin al-Husseini, in particolare, a dare origine al movimento del jihad nazificato, che è ancora vivo oggi ed è stato studiato dagli specialisti nell’ultimo decennio. Mi riferisco al “palestinismo” nato dalla fusione dei fondamenti teologici della jihad con le tematiche antisemite naziste. È qui che l’odio antiebraico cristiano e musulmano si fondono. L’Unione europea non cambierà strada. Sta brandendo sanzioni e minacce contro l’Ungheria ribelle e ha bloccato i popoli europei in una rete di leggi che li paralizzano. È chiaro che questa politica rifiuta il giudeo-cristianesimo proprio come il nazismo. Infatti, i nazisti disprezzavano le origini ebraiche del cristianesimo e si rammaricavano che l’Europa non fosse stata islamizzata nel 732 a Poitiers. D’altra parte, non dobbiamo minimizzare le pressioni esercitate sulla Ue dai Paesi della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), che riunisce 56 Paesi musulmani o a maggioranza musulmana. Come dimostrano i numerosi testi che ho pubblicato, questa pressione mirava a mantenere aperta l’immigrazione islamica, a promuovere l’entrisme, la discriminazione positiva (favoritismo verso i musulmani), la mescolanza e a incoraggiare lo sviluppo di costumi e leggi islamiste nell’istruzione e nella cultura. Ciò ha portato allo sviluppo di quello che è noto come il “nuovo antisemitismo”, che non è altro che la giudeofobia manifesta, rivendicata e comune nei Paesi musulmani e familiare agli ebrei di quei Paesi. - DC: All’Università di Torino, durante le proteste anti-Israele degli ultimi mesi, un imam è stato invitato dagli studenti filopalestinesi a tenere un sermone. Le foto dell’evento mostrano gli studenti maschi separati dalle loro colleghe. Come è stato possibile che studenti universitari occidentali, benpensanti e progressisti, simpatizzino per l’Islam e per organizzazioni come Hamas? BYO: Credo che dalla guerra del petrolio dell’ottobre 1973 stiamo vivendo un periodo di jihad in Occidente e soprattutto in Europa. La jihad è un tipo particolare di guerra che non si limita a dispute territoriali come altri conflitti che si concludono con trattati di pace. L’obiettivo della jihad è islamizzare il pianeta e sradicare la miscredenza. È una guerra di civiltà con codici militari propri e principi giuridici religiosi ben sviluppati. Secondo questa ideologia, fermare l’immigrazione musulmana potrebbe essere considerato un casus belli per lanciare la jihad. Le continue vessazioni di Hamas e Hezbollah ai confini di Israele sono una tattica jihadista tradizionale. Gaza è stata trasformata, sotto gli occhi e con l’approvazione dell’Ue, in una roccaforte sotterranea del terrorismo, ossia in un ribat, una di quelle fortezze militari che, per oltre un millennio, hanno riunito i jihadisti per razziare, uccidere, bruciare e rapire ostaggi nelle terre di confine cristiane.
• OCCIDENTALI ISLAMIZZATI
Il comportamento degli studenti a cui lei fa riferimento è quello di persone ormai profondamente islamiche, che aderiscono ai criteri religiosi della separazione dei sessi e della guerra contro i miscredenti ebrei e cristiani, perché le due cose sono inscindibili. Questo comportamento è perfettamente normale in qualsiasi società islamica. Se cambiate la parola progressista con islamista, avrete la risposta alla vostra domanda. In un’atmosfera islamista si può essere progressisti e continuare a sostenere la guerra di sterminio del popolo ebraico da parte di Hamas, che è l’incarnazione della fede jihadista contro l’Occidente miscredente. Non vogliamo vedere che questi occidentali sono stati islamizzati perché crediamo che tutti gli occidentali condividano i nostri valori. Ma è chiaro che l’Occidente ha addestrato degli islamisti all’odio verso il modello giudaico-cristiano. Si può anche sostenere il piano palestinese di sterminio degli ebrei pur essendo cristiani, per odio verso gli ebrei. Abbiamo una lunga storia di questo tipo. La sua domanda pone quindi un problema fondamentale: i nostri leader hanno tollerato l’importazione e la riproduzione nei Paesi dell’Ue dei modelli educativi, religiosi e sociali dei Paesi musulmani? La risposta è chiaramente sì, perché i risultati di quarant’anni di politica sono sotto i nostri occhi. Se avessimo avuto una politica diversa, non avremmo avuto questi risultati. Sono le conseguenze delle decisioni prese e della loro attuazione. Non appaiono all’improvviso. Dobbiamo avere il coraggio di uscire dalla negazione e imparare a vedere e affermare l’ovvio.
• UNA DOTTRINA EUROPEA
La seconda domanda è: perché? La mia risposta è: perché era esattamente quello che volevano questi capi di Stato. In tre libri ho studiato l’introduzione nei Paesi membri dell’Ue delle decisioni che hanno portato alle conseguenze che vediamo oggi. Si tratta di Eurabia (Lindau, 2007), Verso il Califfato Universale (Lindau, 2008) e Comprendere Eurabia (Lindau 2015). Contro i miei libri è stata condotta una campagna diffamatoria di criminalizzazione nelle principali università britanniche e statunitensi, sulla stampa internazionale e su Wikipedia. La dottrina europea del multiculturalismo nasconde e nega totalmente la realtà storica della jihad e quella della dhimmitudine, ovvero lo studio dello status giuridico di ebrei e cristiani e di altri popoli non musulmani che vivono sotto la sharia. Il multiculturalismo – che non parla di jihad – elogia la tolleranza dell’Islam e incolpa l’Occidente per le crociate e per la colonizzazione, per Israele e per il sionismo. Tuttavia, solo la conoscenza dei concetti storici fondamentali dell’ideologia del jihad e dei principi teologici e giuridici della dhimmitudine può permetterci di comprendere la continuità e il significato degli eventi contemporanei. È importante sottolineare che né tutti gli attuali capi di Stato musulmani né tutti i musulmani aderiscono all’ideologia jihadista. Tuttavia, avremmo voluto sentire la voce forte di un Islam moderno che rifiuta i principi di sterminio della jihad.
(ATLANTICO, 7 settembre 2024)
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Un anno dal 7 ottobre: la normalizzazione dell’odio
di Ariela Piattelli
Potrebbe essere una vignetta ma purtroppo non lo è. È la fotografia della realtà. Al netto della sua drammaticità, vista anche la tragedia sfiorata, è di grande impatto l’immagine del responsabile dell’attentato alla sinagoga Beth Yaakov di La Grande – Motte, un algerino di 33 anni, che si allontana con una kefiah in testa, armato di ascia e pistola, con due bottiglie di liquido esplosivo in mano e avvolto dalla bandiera palestinese. Un’immagine alla quale un bravo disegnatore potrebbe ispirarsi perché racchiude, evidenzia e riassume ogni singolo elemento del male, vecchio e nuovo, (ri)emerso con forza nel giro di uno schiocco di dita dal pogrom jihadista del 7 ottobre. Abbraccia tutti gli ingredienti dell’odio e della violenza antiebraica con le sue bugie: il terrore, le armi, le bombe e la maschera di chi ce l’ha con gli ebrei perché, a suo dire, gli rubano la terra. E sullo sfondo il disegnatore potrebbe aggiungere l’immagine (anche questa reale) della statua di Anna Frank deturpata ad Amsterdam con le scritte su Gaza. Ci sarebbe davvero tutto per tentare di sensibilizzare qualche coscienza. Non servirebbe neanche una parola e, senza ironia, stupisce davvero che i vignettisti, almeno tanti di quelli italiani, che si sono sbizzarriti in questi mesi in interpretazioni allusive e temerarie del conflitto Israele-Gaza, rispolverando simboli, fantomatici deicidi e pregiudizi vari, come tanti nostri colleghi, non abbiano colto questa occasione.
Non servono maestri del disegno satirico e dissacrante per descrivere, enfatizzare e denunciare l’onda lunga di antisemitismo e violenza che gli ebrei stanno vivendo in Israele, in Europa e in tanti altri paesi del mondo: ogni fotogramma della storia di questo ultimo anno è un evidenziatore di un dato di realtà, una denuncia di fatti talmente eloquenti che se ci si volta altrove per non guardare, se ne vedono altri pullulare come in un moltiplicatore. Eppure l’attentato terroristico del 24 agosto in Francia (dove anche prima del 7 ottobre si uccidevano gli ebrei e si scaraventavano dalla finestra), nella cittadina turistica vicino a Montpellier, che per miracolo non ha lasciato a terra decine di vittime, ha avuto nei giornali italiani, tranne rare eccezioni, lo spazio di una notizietta che non merita più di 20 righe.
Ci si abitua a tutto, purtroppo, ma ad essere sinceri bisogna riconoscere che al ribaltamento della realtà, all’antisemitismo, alla barbarie che ha colpito e colpisce Israele, ci si è forse abituati un po’ di più e in tempi rapidissimi. Gli ebrei e gli israeliani no, loro naturalmente non si sono abituati e considerano ancora insostenibile l’idea un bambino che ha compiuto un anno nelle mani dei terroristi di Hamas, delle donne da loro stuprate, dei centinaia di israeliani rapiti o uccisi nella strage di un anno fa, poi negli attentati, delle migliaia di sfollati cacciati dalle loro case dai missili di Hezbollah che ammazza i ragazzini mentre giocano a calcio, del numero impressionante dei giovani soldati dell’IDF rimasti uccisi o mutilati in una guerra contro il male che Israele non ha mai cercato. Degli ostaggi qui in Italia non se ne parla più, se non come “posta” sul tavolo delle trattative che per volontà dei terroristi, oramai promossi al rango di credibili interlocutori, falliscono miseramente da mesi. Ormai è tutto normale, come essere in una lista di proscrizione antisemita, una specie di odioso menu che offre i nomi di ebrei e cosiddetti “sionisti” per circoscriverli, puntarli ed invitare a colpirli.
“Questa normalizzazione è spaventosa perché porta all’indifferenza, noi sappiamo cosa significa”, mi confessa una voce italiana da Gerusalemme. È un grave e preoccupante segno del nostro tempo, un altro effetto dell’accelerazione, di quella miccia antisemita innescata di nuovo un anno fa con la strage del 7 ottobre.
Allora ripenso ad un amico israeliano che andò qualche anno fa in Polonia a girare un film sulla Shoah: la sua famiglia veniva proprio da lì e aveva vissuto le persecuzioni. Al suo arrivo, travolto dalla profonda emozione, spinto dal bisogno di condividere con qualcuno le ragioni di quel viaggio e finalmente di riconciliarsi con la storia, iniziò a parlare con l’anziano tassista: lui da bambino viveva accanto ad una famiglia di ebrei, poi un giorno li portarono via. Dopo ne portarono via altri ed altri ancora. E a lui non gli venne proprio da pensare a dove fossero finiti. In fondo era normale che gli ebrei sparissero nel nulla, accadeva così spesso a quei tempi da lasciare tutti gli altri indifferenti. E anche lui si era abituato in fretta.
(Shalom, 6 settembre 2024)
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Ecco come Hamas vuole prolungare i colloqui per mettere pressione a Israele
Da rabbrividire, un documento rinvenuto dalla Bild rivela la tattica di Hamas per garantirsi la sopravvivenza militare attraverso una forza araba di interposizione, il tutto ignorando completamente la popolazione di Gaza
Un documento di Hamas appena rivelato indica che la principale preoccupazione del gruppo terroristico nei negoziati per il cessate il fuoco con Israele è quella di riabilitare le sue capacità militari, e non di alleviare le sofferenze della popolazione civile di Gaza. Lo ha riferito venerdì il quotidiano tedesco Bild. Il documento della primavera 2024, che Bild ha dichiarato di aver ottenuto in esclusiva, senza offrire ulteriori dettagli, sarebbe stato trovato su un computer a Gaza appartenente al leader di Hamas Yahya Sinwar. Il documento illustra le strategie e gli obiettivi di Hamas nei negoziati con Israele su un potenziale accordo che vedrebbe il rilascio di ostaggi in cambio di un cessate il fuoco e della liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Secondo il rapporto, Hamas è indifferente al fatto che la guerra in corso finisca rapidamente, dando invece priorità al mantenimento delle capacità militari del gruppo terroristico, allo “sfinimento” degli apparati militari e politici di Israele e all’aumento della pressione internazionale su Israele. Sebbene il gruppo terroristico ammetta nel documento che la guerra, giunta al 12° mese, ha diminuito le sue capacità militari, Hamas cerca ancora di “migliorare importanti clausole dell’accordo, anche se i negoziati continueranno per un periodo prolungato”. In particolare, il documento non menziona le vittime civili palestinesi. Il rapporto dice anche che Hamas ha definito una strategia di guerra psicologica attraverso gli ostaggi, chiedendo di “continuare a esercitare una pressione psicologica sulle famiglie degli [ostaggi], sia ora che nella prima fase [del cessate il fuoco], in modo da aumentare la pressione pubblica sul governo nemico”. Questa strategia è stata dimostrata dalla pubblicazione periodica da parte di Hamas di video di ostaggi che implorano il loro rilascio. Nell’ultima settimana, Hamas ha pubblicato tali video con ostaggi i cui corpi sono stati recentemente recuperati a Gaza, pochi giorni dopo la loro esecuzione da parte del gruppo terroristico. Nel documento, Hamas pianifica anche punti di discussione, incolpando “la testardaggine di Israele” di ritardare un accordo. Secondo quanto riferito, il documento elenca anche i principali obiettivi di Hamas in un accordo. Uno è garantire il rilascio di 100 prigionieri palestinesi detenuti da Israele e condannati all’ergastolo, di solito per omicidio. Un altro presunto obiettivo di Hamas è che le forze dei Paesi arabi stazionino lungo il confine tra Israele e Gaza come parte di un cessate il fuoco più permanente, per fare da cuscinetto tra Israele e Hamas, consentendo così a Hamas di recuperare e riorganizzarsi sotto la protezione di queste forze. In particolare, Israele avrebbe anche suggerito che una coalizione di forze arabe amministri l’enclave in futuro. A differenza della proposta di Hamas, il piano israeliano prevede che le forze arabe assicurino che Hamas non riabiliti le sue capacità militari. Va inoltre notato che il documento non menziona il Corridoio di Filadelfia, nonostante la striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sia diventata di recente un punto critico nei negoziati. Questo potrebbe essere attribuito al momento in cui il documento è stato scritto, dato che Israele ha preso il controllo del Corridoio di Filadelfia solo a maggio. Si ritiene che 97 ostaggi rimangano a Gaza, compresi i corpi di almeno 33 morti confermati dall’IDF. Hamas ha rilasciato 105 civili durante una tregua di una settimana alla fine di novembre, e quattro ostaggi sono stati rilasciati prima.
(Rights Reporter, 7 settembre 2024)
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Sinwar pronto a fuggire con gli ostaggi: il ruolo chiave del corridoio di Filadelfia
di Luca Spizzichino
Secondo fonti dell’intelligence israeliana riportate dal Jewish Chronicle, il leader di Hamas Yahya Sinwar starebbe pianificando di utilizzare il corridoio di Filadelfia per fuggire con i leader rimanenti dell’organizzazione e con gli ostaggi israeliani verso il Sinai, per poi essere trasferiti in Iran. Queste informazioni sono state ottenute dall’interrogatorio di un alto funzionario di Hamas catturato e dall’analisi di documenti sequestrati dopo il recupero dei corpi di sei ostaggi il 29 agosto.
Sinwar sembra ormai consapevole che la guerra è persa per Hamas e che la sua unica via di salvezza è la fuga. Il capo dell’organizzazione terroristica palestinese vede un’unica soluzione per sopravvivere: abbandonare Gaza e cercare rifugio fuori dai confini. In quest’ottica, il controllo del corridoio di Filadelfia diventa cruciale per attuare il suo piano.
Tuttavia, Israele si è fermamente opposta a cedere il corridoio, ritenendo che farlo rappresenterebbe un grave rischio per la sicurezza nazionale. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, durante una conferenza stampa, ha spiegato che il corridoio di Filadelfia è la “linfa vitale” che ha permesso ad Hamas di rafforzarsi negli anni grazie al contrabbando di armi e rifornimenti. Cedere questo passaggio, secondo Netanyahu, significherebbe permettere a Hamas di continuare le proprie operazioni militari, e una volta perso il controllo, Israele non sarebbe in grado di riappropriarsene a causa delle inevitabili pressioni internazionali.
Nonostante il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant abbia proposto di concedere temporaneamente il controllo del corridoio per facilitare il rilascio di 33 ostaggi, Netanyahu rimane categoricamente contrario. Secondo il Primo Ministro, una concessione temporanea rischierebbe di trasformarsi in una perdita definitiva, compromettendo la sicurezza di Israele e rafforzando ulteriormente Hamas.
(Shalom, 6 settembre 2024)
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Giovani Palestinesi d’Italia esaltano il 7 ottobre
Appello al Ministro dell’interno Matteo Piantedosi
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il messaggio pubblicato dalla Associazione dei Giovani Palestinesi d’Italia che si configura come reato di apologia di delitti di terrorismo, punito dall’art. 414 del Codice Penale
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L’Associazione Italia-Israele di Milano denuncia con ferma condanna l’iniziativa di “giovani palestinesi” che il 5 ottobre prossimo a Roma intendono promuovere una manifestazione, che in modo blasfemo esalta come “rivoluzione” l’esecrando genocidio perpetrato da Hamas in Israele al confine con Gaza nel Pogrom del 7 ottobre 2023. Proporre e diffondere l’odio, il genocidio, la violenza e il terrorismo, come strumenti per annientare l’avversario, è contrario alla nostra Carta costituzionale che esalta i valori della pace, della convivenza e del dialogo civile. Inoltre, definire – come i promotori – lo Stato d’Israele (membro dell’ONU) “invasore e Stato coloniale” senza neppure nominarlo, è contrario ai diritti dell’autodeterminazione dei popoli, internazionalmente riconosciuti dalle Nazioni Unite. Desiderosi di un costruttivo confronto nella verità e nella giustizia, anche per la dignità e la difesa dei legittimi diritti palestinesi, facciamo appello, pertanto, al Signor Ministro degli Interni, perché manifestazioni simili alla suddetta del 5 ottobre vengano severamente vietate. Associazione Italia-Israele di Milano Email: itaisraele.milano@gmail.com Milano, 4 settembre 2024
(Bet Magazine Mosaico, 6 settembre 2024)
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Autobus e linee di trasporto riservate agli ebrei
Il doppio scandalo dell’iniziativa del sindaco di Londra Khan
di Iuri Maria Prado
Nei giorni scorsi il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha comunicato con entusiasmo la sperimentazione di una nuova linea di autobus che collegherà direttamente, per la prima volta, due zone della città densamente abitate da ebrei. Un provvedimento per rendere più spedito lo spostamento da un punto all’altro? Macché. Serve invece a limitare il pericolo che, lungo le tappe del tragitto, i passeggeri ebrei siano esposti ad aggressioni, aumentate a livelli mai registrati prima. Le comunità ebraiche interessate hanno accolto con favore l’iniziativa, e si può capire. Dovrebbe tuttavia far riflettere e suscitare qualche trasalimento il fatto che nel 2024, in una città europea, ci si costringa a organizzare linee di trasporto riservate agli ebrei perché altrimenti c’è caso che li accoppino. Quelli, d’accordo, preferiscono così, e appunto c’è da capirli: perché se devi scegliere tra il ghetto ambulante e le botte o le coltellate, beh, per evitare queste scegli quello e tanti saluti. Ma la società costretta a presidiare sé stessa perché, se lasciata libera si sfogherebbe violentemente su una minoranza, è in buona salute? E gli amministratori costretti a separare quella minoranza dal resto della società che minaccia di aggredirla, preservandone l’incolumità al prezzo di incapsularla in una riserva semovente, possono ritenersi soddisfatti? Non si dice che quel sindaco avrebbe dovuto rinunciare a fare qualsiasi pubblicità dell’iniziativa, questo magari no. Ma farne sfoggio tutto contento, come lui ha creduto di fare, significa non accorgersi del doppio scandalo che una simile vicenda drammaticamente denuncia: lo scandalo di una situazione in cui gli ebrei devono temere per la propria incolumità, e lo scandalo di una società che per proteggerli deve ricorrere a un regime speciale loro dedicato. Se il discorso pubblico europeo non fosse ormai destituito di qualsiasi tempra civile, se non fosse ormai completamente ottuso nella propria capacità di intelligenza delle cose, qualcuno con influenza e voce in capitolo avrebbe identificato e denunciato in quella “piccola” vicenda londinese l’enorme spettro di una trafila speculare. Non è successo. Ma non accorgersi di quanto sia grave dover ricorrere a uno statuto speciale per “proteggere” gli ebrei, sia pur solo relativo a un po’ di fermate di bus, significa non accorgersi che i lombi della società sono maturi per dare fuori materia di segno esattamente opposto. Il ghetto faceva due cose. Disegnava il perimetro di qualche guarentigia. Circoscriveva l’ambito del pogrom.
(Il Riformista, 6 settembre 2024)
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Il primo computer in Israele
La costruzione del primo computer nello Stato ebraico è iniziata circa 70 anni fa. Il WEIZAC rimase in funzione fino al 1963. Einstein era ancora scettico.
di Jörn Schumacher
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Il WEIZAC in funzione
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Nel 1955, il WEIZAC (Weizmann Automatic Calculator) fu il primo computer ad entrare in funzione in Israele. Era anche uno dei primi grandi calcolatori al mondo e il prodotto di alcuni rinomati scienziati ebrei emigrati.
Anche Albert Einstein faceva parte del comitato che doveva decidere sulla realizzazione del progetto. Era scettico, e si chiedeva se avesse senso costruire computer costosi. Il gruppo comprendeva anche John von Neumann, sulla cui idea si basò il primo computer di Israele e, in ultima analisi, del mondo intero. Nato nel 1903, il figlio di un banchiere ebreo di Budapest emigrò negli Stati Uniti nel 1933 ed è tuttora considerato uno dei più grandi matematici del XX secolo.
L'iniziatore del progetto fu il fisico e matematico Chaim L. Pekeris, trasferitosi in Israele dagli Stati Uniti nel 1948. Einstein gli chiese perché il piccolo e povero Paese di Israele avesse bisogno di un computer. Von Neumann rispose: “Non si preoccupi di questo problema. Se nessun altro usa il computer, Pekeris lo userà sempre!”.
Il “Weizmann Automatic Calculator”, in breve WEIZAC, fu costruito presso il Weizmann Institute tra il 1954 e il 1955. Eseguì i primi calcoli nell'ottobre 1955. Il WEIZAC gettò le basi dell'industria informatica e tecnologica israeliana. Per sei anni è stato l'unico computer in funzione in Israele.
Per l'input e l'output si usava il nastro perforato e successivamente il nastro magnetico. Il WEIZAC era costantemente occupato. Gli utenti (soprattutto di altre istituzioni) erano desiderosi di tempo di calcolo e chiedevano che venissero messi a disposizione altri computer.
• Calcolo di maree e atomi
Il WEIZAC fu utilizzato per la ricerca matematica, ad esempio per risolvere problemi legati al calcolo delle maree oceaniche. Ciò richiedeva calcoli complessi che non potevano essere eseguiti manualmente in modo significativo.
I calcoli con WEIZAC richiedevano centinaia di ore. Hanno permesso agli scienziati di creare mappe che riflettevano in modo molto accurato le fluttuazioni delle alte e basse maree in tutto il mondo. Di conseguenza, i ricercatori del Weizmann hanno previsto la posizione esatta di un punto dell'Atlantico meridionale in cui non si verificano mai alte e basse maree. Le misurazioni effettuate nel corso della scoperta hanno confermato l'esistenza e la posizione di questo punto.
In un'altra ricerca, gli scienziati hanno utilizzato WEIZAC per calcolare lo spettro di un atomo di elio - che consiste di tre particelle: il nucleo atomico e i due elettroni che si muovono intorno ad esso. Ancora oggi, risolvere le relazioni dinamiche tra tre corpi è considerato un compito matematico molto complesso. Tuttavia, il problema dell'atomo di elio è stato completamente risolto e ha fornito risultati confermati sperimentalmente dal Brookhaven National Laboratory negli Stati Uniti.
In altri progetti, WEIZAC è stato utilizzato per calcoli volti a studiare diversi modelli teorici della struttura interna della Terra, tenendo conto dei suoi diversi strati. Questi studi si basavano sui calcoli della propagazione delle onde d'urto attraverso i diversi strati; dopo il verificarsi di diversi terremoti in tutto il mondo, sono stati effettuati confronti con le misurazioni reali.
• Il progetto consumava un quinto del budget dell'Istituto Weizmann
Chaim Weizmann nacque nel 1874 nell'attuale Bielorussia e inizialmente era un chimico. Weizmann, che in precedenza aveva insegnato a Manchester, divenne direttore dell'Istituto di ricerca Daniel Sieff, fondato a Rechovot nel 1934. Fu anche attivo politicamente e si impegnò per la creazione di uno Stato ebraico; nel 1949, Weizmann divenne il primo presidente israeliano. Tuttavia, continuò a vivere a Rechovot e a occuparsi dell'istituto di ricerca, che prese il suo nome.
Per la costruzione del primo computer in Israele, Weizmann mise a disposizione 50.000 dollari USA, che rappresentavano un quinto del budget totale dell'Istituto Weizmann. Oggi l'importo corrisponderebbe a un valore di circa 680.000 dollari USA.
L'ingegnere americano Gerald Estrin fu responsabile della costruzione del WEIZAC. Tra gli altri, reclutò Aviezri Fraenkel, un matematico ebreo di Monaco emigrato in Israele nel 1939, per unirsi al suo team. Weizmann stesso non visse abbastanza per vedere il completamento del computer; morì il 9 novembre 1952.
Il WEIZAC rimase in funzione fino al 29 dicembre 1963. Ancora oggi si trova presso l'Istituto Weizmann e può essere visitato. Il suo successore fu inizialmente chiamato “WEIZAC 2”, ma su consiglio dello studioso di cabala Gershom Scholem gli fu dato il nome di “Golem”. Si trattava di un'allusione al Golem di Praga, che secondo una leggenda medievale era una creatura di argilla che prendeva vita.
Il primo computer al mondo è considerato lo “Z3”, costruito nel 1941 dal tedesco Konrad Zuse. Egli costruì il primo computer controllato da un programma durante il tumulto della Seconda Guerra Mondiale, completamente da solo. La sua presentazione nel suo laboratorio di Berlino attirò poca attenzione all'epoca.
(Israelnetz, 6 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Parashà di Shofetim: Cosa succede dove non ci sono giudici
di Donato Grosser
La parashà inizia con queste parole: “Porrai su di te dei giudici (shofetìm) e dei ufficiali (shotrìm) in tutte le città che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; ed essi giudicheranno il popolo con giusti giudizi (Devarìm, 16:18). Rashì (Troyes, 1040- 1104) commenta questo versetto nel modo seguente: “I shofetìm sono i giudici che decidono la legge; i shotrìm sono gli ufficiali che governano il popolo seguendo gli ordini dei giudici…” e quindi usano anche metodi coercitivi affinché le decisioni dei giudici vengano obbedite. R. Yaakov Yosef Hakohen di Polnoye (Ucraina, 1710-1783), che fu il principale discepolo del Ba’al Shem Tov, compose un’opera dal titolo Toledot Ya’akov Yosef che fu pubblicata nel 1780 a Koretz in Ucraina. È un libro molto prezioso perché fu il primo libro di Chassidismo ad andare in stampa. In quest’opera che comprende commenti alla Torà, r. Ya’akov Yosef citò centinaia di volte gli insegnamenti del Ba’al Shem Tov. In questa parashà, r. Ya’akov Yosef si sofferma sulla parola “Porrai su di te”. Egli afferma che questo significa che devi giudicare te stesso nello stesso modo in cui tu giudichi il tuo prossimo. Inoltre r. Ya’akov Yosef aggiunge che da questo versetto si può imparare come resistere alle tentazioni dello yetzer hara’, dell’istinto naturale. L’uomo è come una piccola città e lo yetzer hara’ è paragonato a un Re che la mette d’assedio. L’uomo deve quindi proteggere le sette “porte” della sua città che sono i due occhi, le due orecchie, le due narici e la bocca. La bocca è la “porta” più importante e richiede maggiore protezione. Infatti nei Pirkè Avòt (Massime dei Padri, 1: 16) r. Shim’on ben Gamliel disse: “Ho trascorso la mia vita tra i maestri e non ho riscontrato nulla di meglio per l’uomo che il silenzio, e non è la sola teoria quel che conta, ma la teoria vissuta e praticata, e chiunque si prolunga in discorsi inutili porta il peccato”. Così pure nel vedere e nel sentire, afferma r. Ya’akov Yosef, bisogna saper avere giudizio su cosa guardare e su cosa sentire. R. Avraham Kroll (Lodz, 1912-1983, Gerusalemme) in Bepikudekha Asicha (p.372) cita i Proverbi di Salomone (6:6-8) dove è scritto: “Và, pigro, alla formica; considera come si comporta, e diventa savio! Essa non ha né capo, né ufficiale, né governante; prepara il suo cibo nell’estate, e raduna il suo mangiare durante la raccolta”. Nel Midràsh (Devarìm Rabbà, 5:2) i maestri si soffermano sull’espressione “considera come si comporta e diventa savio”. Viene citato r. Shim’on figlio di Chalaftà il quale racconta che una volta una formica aveva fatto cadere un chicco di grano. Le altre formiche si avvicinavano per annusarlo e nessuna glielo portava via. Per questo nel Talmud (‘Eruvìn, 100b) è detto che se non ci fosse stata data la Torà avremmo potuto imparare le leggi del furto dalla formica. Nel versetto succitato dei Proverbi è anche scritto che la formica “non ha né capo, né ufficiale, né governante”. Rashì spiega: “Che non la ammonisca e le faccia restituire quello che ha rubato dalla sua compagna”. Questa affermazione è problematica perché appare contraddire quello che disse r. Shim’on ben Chalaftà che le formiche non portarono via il chicco di grano caduto da una loro compagna. Ma nello stesso midràsh viene citato Shim’on figlio di Yochay che dice che nel nascondiglio di una formica trovarono una quantità enorme di grano. E se le formiche stanno attente a non rubare da dove veniva questa enorme quantità di grano? Rav Kroll conclude che è per questo che re Salomone sottolinea che se non c’è un capo, un ufficiale e un governante, si può stare attenti a non toccare un chicco di grano che non ti appartiene e d’altra parte rubare in grande scala.
(Shalom, 6 settembre 2024)
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Parashà della settimana: Shoftim (Giudici)
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Un rapporto svela la strategia di Hamas per nascondere le perdite di combattenti a Gaza
In un rapporto citato dal quotidiano Haaretz e riportato dal Times of Israel, una fonte ha spiegato che per Hamas la guerra con Israele non si limita al campo di battaglia, ma include anche la battaglia per preservare la propria immagine globale. Nascondendo le informazioni sui combattenti uccisi e concentrandosi solo sulle perdite civili, Hamas spera di ottenere maggiore sostegno internazionale nella sua lotta contro Israele. Tuttavia, a Gaza, la segretezza con cui Hamas gestisce le proprie operazioni contrasta nettamente con la trasparenza che lo stesso gruppo mostra in Cisgiordania. In quest’ultima area, non esita infatti a rivelare i nomi dei combattenti uccisi dall’esercito israeliano e li svela pure con orgoglio. Hezbollah, in Libano, segue una prassi simile: mantiene un elenco aggiornato delle sue vittime negli scontri con Israele. Questo approccio solleva interrogativi: perché questa segretezza a Gaza per nascondere le perdite dei suoi soldati? Si tratta di una strategia per preservare la loro forza morale o c’è qualcosa di più? Un altro aspetto è legato al timore delle ritorsioni. A Gaza, chi perde un familiare affiliato a Hamas può avere paura a parlarne apertamente, temendo ripercussioni. Citando residenti anonimi della Striscia di Gaza, il rapporto – che giunge nel bel mezzo della guerra – afferma che la norma non ufficiale viene applicata a tal punto che perfino i familiari degli agenti di Hamas uccisi si astengono dal lutto pubblico. «C’è paura di parlare pubblicamente degli agenti di Hamas, compresi quelli che sono stati uccisi», ha detto un residente di Gaza ad Haaretz, spiegando che c’era paura di essere etichettati come «traditori» o «collaboratori» e di essere molestati dal gruppo terroristico. Secondo le voci che circolano per le strade, se i nomi degli uomini armati uccisi venissero resi pubblici, le persone in tutto il mondo potrebbero sentirsi meno colpite dalle sofferenze dei gazawi, e questo potrebbe giustificare il bombardamento di Gaza, ha detto un altro residente, conosciuto con lo pseudonimo di Adnan. «Finché si mostrano filmati e storie della popolazione civile, nessuno protesta. Ma se qualcuno osa criticare Hamas o nominare un combattente ucciso, verrà considerato un traditore e trattato come tale». Bushra (nome di fantasia), una donna che vive in questa realtà difficile, racconta qualcosa di sorprendente: spesso i familiari non sanno nemmeno cosa fanno i loro cari quando entrano in Hamas. Quando poi muoiono in combattimento, la notizia arriva in modo frammentato, come un eco lontano. A volte ci vogliono giorni, settimane addirittura, prima che i genitori ne siano informati. La notizia della loro morte viene trasmessa solo per passaparola diffondendosi da una persona all’altra fino a raggiungere i loro cari. Nonostante tutto questo silenzio soffocante, la gente di Gaza ha imparato a trovare informazioni in modi diversi. Non si può sempre contare sulle vie ufficiali, perciò molti si affidano ai social. Questi strumenti digitali sono diventati essenziali per cercare di capire chi è stato ucciso. È una rete sotterranea di notizie che non sarà perfetta, ma, senza altro, è quello che c’è. Nel frattempo, il Ministero della Salute di Gaza, che è sotto il controllo di Hamas, ha diffuso cifre impressionanti: oltre 40.000 persone sarebbero state uccise o risultano disperse dall’inizio del conflitto. Ma quei numeri, dicono gli esperti, non possono essere verificati in modo indipendente, e c’è anche da dire che non fanno distinzione tra chi fosse un civile e chi un combattente. Israele, dal canto suo, ha dichiarato di aver eliminato circa 17.000 combattenti di Hamas e 1.000 terroristi nel famoso attacco del 7 ottobre. Le autorità israeliane continuano a sottolineare che fanno il possibile per limitare i danni ai civili, puntando il dito contro Hamas, accusandoli di usare la popolazione come scudi umani, nascondendosi tra case, scuole, ospedali e, addirittura, moschee. Un dato interessante viene da una recente analisi dell’Associated Press: da giugno, la percentuale di donne e bambini uccisi è scesa sensibilmente. Come mai? Pare sia dovuto a un cambiamento nelle tattiche di Israele, cosa che va a contraddire quanto detto da Hamas. A ottobre, oltre il 60% delle vittime erano donne e bambini. Ma già ad aprile, quel numero era sceso sotto il 40%. Eppure, questa riduzione non ha attirato grande attenzione, né dalle Nazioni Unite né dai media. Hamas, da parte sua, non sembra aver mostrato interesse a correggere questi dati in pubblico. Ci si rende conto, insomma, che questa guerra non è fatta solo di proiettili e bombe, ma anche di informazioni. Ogni parte cerca di modellare la propria narrativa per guadagnare terreno, mentre la popolazione civile resta, come sempre, intrappolata in mezzo. E, alla fine, che cosa sono? Numeri. Freddi numeri. Questa mancanza di trasparenza da parte di Hamas non sembra solo una strategia di guerra. È anche un modo per mantenere un certo controllo sulla narrativa interna. Tuttavia, in tutto questo gioco di potere, fatto di silenzi e mezze verità, trovare la realtà diventa sempre più complicato. Alla fine, come sempre, sono i civili a pagarne il prezzo più alto. Bloccati in una guerra di cui spesso non comprendono né le cause né l’orizzonte.
(Bet Magazine Mosaico, 5 settembre 2024)
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Ostaggi – Il Global Imams Council condanna la violenza di Hamas
«Prendere di mira e brutalizzare i civili, soprattutto quelli indifesi e trattenuti contro la loro volontà, è un atto di malvagità assoluta e una grave violazione delle leggi stabilite da tutte le principali tradizioni religiose, Islam incluso».
È una ferma condanna quella espressa dal Global Imams Council dopo l’assassinio a sangue freddo dei sei ostaggi israeliani da parte di Hamas. Fondata dopo l’invasione irachena e siriana dell’Isis e non nuova a prese di posizione contro l’odio, l’ong islamica raggruppa oltre 1400 leader religiosi musulmani in tutto il mondo, sciiti e sunniti, con l’obiettivo di contrastare e disinnescare il radicalismo interno a quel mondo. Una piccola ma significativa goccia nel mare di tanta violenta intolleranza, anche perché il documento è stato emesso nel corso di un seminario in Iraq, paese che ha più volte guardato verso Israele (anche in questi mesi) con propositi distruttivi.
«Riteniamo Hamas direttamente responsabile della morte e della sofferenza di tutte le vite innocenti perse dal 7 ottobre, poiché le sue azioni non solo hanno portato morte e distruzione nella regione, ma hanno anche causato immense sofferenze al popolo palestinese», precisano gli imam aderenti alla ong, definendo le tattiche di Hamas «sconsiderate e disumane» per l’utilizzo di scudi umani, per aver intensificato il ciclo delle violenze e più in generale per aver indebolito la causa della giustizia e della pace. Il Consiglio Globale degli Imam si scaglia anche contro il regime iraniano, che a suo dire «condivide la stessa responsabilità per queste tragedie, per via del continuo sostegno e appoggio alle azioni di Hamas». Chissà cosa penserà di questa nota Ahmad al-Tayyib, Grande Imam dal 2010 di Al-Azhar, la massima espressione dell’Islam sunnita, che aveva definito il 7 ottobre un’azione di «resistenza dell’orgoglioso popolo palestinese».
(moked, 5 settembre 2024)
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"Quando a Forlì si attuò la soluzione finale da parte delle SS eliminando ebrei e antifascisti"
Ricorre l'ottantesimo anniversario del primo eccidio di settembre in via Seganti
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Il monumento che ricorda le vittime dell'eccidio
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Sono trascorsi ottant'anni da primo eccidio di settembre in via Seganti. Ricostruisce lo storico Gabriele Zelli: "Nel tardo pomeriggio del 5 settembre 1944, il gruppo di nazisti delle SS che si era insediato a Forlì provenienti da Roma, avendo lasciato la capitale in seguito all'arrivo dell'esercito alleato, e fascisti italiani della Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) prelevarono dal carcere di via della Rocca ventuno persone. L’Aussenkommando della Sicherheitsdienst (Sd) di Forlì deteneva i prigionieri sia negli scantinati trasformati in prigione della propria sede in viale Salinatore 24, con una capacità di circa cinquanta posti (per i quali non sono sopravvissuti registri o documenti), sia nel carcere civile di via della Rocca, dove aveva un ufficio con due uomini addetti agli interrogatori dei prigionieri politici (per il quale esistono i registri di ingresso e uscita)".
"Nove dei ventuno prelevati erano parenti di Tonino Spazzoli e furono tutti deportati nei campi di concentramento - prosegue Zelli nel racconto -. Gli altri dodici prigionieri, dieci ebrei e due antifascisti, vennero portati alla caserma “Caterina Sforza” in via Romanello, un luogo di "visita medica" per coloro che dovevano essere deportati in Germania. Da viale Salinatore, altri otto prigionieri - quattro donne e quattro uomini - furono trasferiti sempre in via Romanello. Questi movimenti facevano parte di una decisione presa dai comandanti tedeschi Karl Schütz e Hans Gassner nel tentativo di mantenere segrete le eliminazioni e giustificare le sparizioni con la deportazione in Germania. In tarda serata, le venti persone furono caricate su diversi automezzi e portate verso l’aeroporto. All’altezza delle “casermette” del Ronco, occupate dalle truppe tedesche che le avevano ribattezzate Caserma “Adolf Hitler”, alcuni automezzi svoltarono, mentre gli altri proseguirono verso l’aeroporto, dove li attendevano gli esecutori. Le uccisioni non ebbero testimoni diretti".
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Il primo monumento in granaglia a ricordo delle vittime della strage dell'aeroporto e collocato nel 1946 in via Seganti
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"Alle cinque del mattino successivo, 6 settembre, gli altri prigionieri furono prelevati dalle casermette, condotti all’aeroporto e eliminati - prosegue il drammatico racconto -. Le venti vittime furono uccise in tre gruppi: uno composto da dieci persone e due da cinque. Non sappiamo quanti furono uccisi la sera e quanti al mattino. Tra le vittime si trovavano, tra gli altri, Edoardo Cecere, colonnello dell’XI Brigata Casale, uno dei primi a salire in montagna per combattere i tedeschi; Pellegrina Rosselli del Turco, moglie del marchese Gian Raniero Paulucci De Calboli; Pietro Alfezzi, partigiano appartenente ai GAP; Chino Bellaganba, dipendente del Comune di Cesena e dirigente dell’Ufficio Leva, accusato di aver alterato documenti per sottrarre giovani alla deportazione in Germania e forse anche per favorire ebrei. Solo nel 2005 la famiglia di Bellaganba scoprì che era stato fucilato a Forlì, analogamente a quanto accadde per Lissi Lewin, che nel 2000 scoprì che il fratello Lewin fu eliminato nello stesso contesto e luogo".
(ForlìToday, 5 settembre 2024)
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L’Idf rivela: gli ostaggi uccisi sono stati trovati in un tunnel sotto un’area per bambini
di Michelle Zarfati
L’IDF ha recentemente rivelato di aver ritrovato l’entrata del tunnel, in cui gli ostaggi Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Carmel Gat, Almog Sarusi, Alexander Lobanov e Ori Danino sono stati uccisi, sotto un’area civile, in un cortile per bambini.
In un video pubblicato dall’esercito, un soldato ha spiegato che l’IDF ha ricevuto informazioni chiare sulla posizione dell’entrata del tunnel, un elemento importante per determinare la posizione esatta in cui operare. “Come potete vedere, il tunnel era nascosto nel cortile di un luogo utilizzato dai bambini, un luogo dove i ragazzi dovrebbero essere al sicuro e non essere usati come scudi umani per Hamas”, ha spiegato il soldato nel video. La 162ª Divisione dell’IDF e lo Shin Bet hanno localizzato il tunnel in un cortile utilizzato per far giocare i bambini, in un’area ad uso civile piena però di trappole.
“Questo è un altro esempio dell’uso cinico da parte di Hamas dello spazio civile per attività terroristiche” ha aggiunto l’IDF che ha recuperato i corpi degli ostaggi da un tunnel sotto la città di Rafah, a Gaza. I corpi sono stati trovati a solo un chilometro da dove Kaid Farhan al-Alkadi, 52 anni, di Rahat, è stato trovato vivo la scorsa settimana. Da quando Alkadi è stato salvato, l’IDF ha dato istruzioni di prestare la massima attenzione nella zona. Tuttavia, è possibile che Hamas abbia ucciso le sei vittime, sapendo che l’esercito era vicino e che gli ostaggi potevano essere salvati vivi dall’esercito israeliano.
(Shalom, 5 settembre 2024)
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Scoperto a Gerusalemme un Sigillo di Pietra di 2.700 anni fa
L’oggetto, inciso con scritta specchio, serviva al suo proprietario sia come amuleto che per firmare legalmente documenti e certificati
Un sigillo in pietra estremamente raro e insolito del periodo del Primo Tempio, di circa 2.700 anni, recante un nome inciso in scrittura paleo-ebraica e una figura alata, è stato scoperto nei pressi della parete meridionale del Temple Mount, nel Giardino Archeologico di Davidson, durante gli scavi condotti dalle Antichità Israel Autorità e organizzazione Città di David. Secondo il Dr. Yuval Baruch e Navot Rom, direttori degli scavi per conto dell’Autorità Israel Antichities:
Il sigillo, realizzato in pietra nera, è uno dei più belli mai scoperti negli scavi nell’antica Gerusalemme, ed è eseguito al più alto livello artistico.
L’oggetto, inciso con scritta specchio, serviva al suo proprietario sia come amuleto che per firmare legalmente documenti e certificati. Ha un taglio convesso su entrambi i lati, e un foro perforato attraverso la sua lunghezza, in modo che possa essere attaccato ad una catena ed essere indossato al collo. Al centro una figura è raffigurata di profilo, possibilmente un re, con le ali; indossa una lunga camicia a righe e va verso destra. La figura ha una criniera di lunghi riccioli che copre la nuca del collo, e sulla testa c’è un cappello o una corona. La figura alza un braccio in avanti, con un palmo aperto; forse per suggerire qualche oggetto che tiene. Su entrambi i lati della figura è incisa un’iscrizione in paleo-ebraico:
Secondo l’archeologo e assiriologo Dr. Filip Vukosavovi, della Israel Antiquity Authority, che ha studiato il sigillo:
Si tratta di una scoperta estremamente rara e insolita. È la prima volta che un ‘genio’ alato – una figura magica protettiva – viene trovato nell’archeologia israeliana e regionale. Le figure dei demoni alati sono note nell’arte neo-assira del IX – VII secolo a.C., ed erano considerate una sorta di demoni protettivi.
I ricercatori ritengono che l’oggetto, sul quale originariamente apparve l’immagine del demone, fosse indossato come amuleto al collo di un uomo di nome Hosh ʼayahu, che ricopriva una posizione di alto livello nell’amministrazione del Regno di Giuda. In virtù della sua autorità e del suo status, questo Hosh ʼayahu si è permesso di nobilitare se stesso e ostentare un sigillo con incisa su una figura che ispira lo stupefacente, che incarna un simbolo di autorità. Il Dr. Vukosavovi afferma:
Sembra che l’oggetto sia stato realizzato da un artigiano locale che ha prodotto l’amuleto su richiesta del proprietario. È stato preparato ad altissimo livello artistico.
L’ipotesi è che, dopo la morte di Hosh ‘ayahu, suo figlio Yeho ‘ezer abbia ereditato il sigillo, aggiungendo il suo nome e il nome di suo padre su entrambi i lati. Questo lo fece, forse, per appropriarsi direttamente a sé stesso delle qualità benefiche che credeva che il talismano incarnasse come oggetto magico. Il nome Yeho ‘ezer ci è familiare dalla Bibbia (Chron. I 12:7) nella sua forma abbreviata – Yo ‘ezer, uno dei combattenti di re Davide. Inoltre, nel libro di Geremia (43:2), che descrive gli eventi di questo stesso periodo, viene menzionata una persona con un nome parallelo, ‘Azariah ben Hosh ‘aya. Le due parti del suo nome sono scritte in ordine inverso al nome del proprietario del sigillo, e il suo secondo nome è lo stesso, compare nella sua forma abbreviata. Questa scritta nel testo corrisponde al nome del sigillo appena scoperto ed è quindi appropriata per questo periodo. Secondo il Prof. Ronny Reich dell’Università di Haifa:
Confrontando la forma delle lettere e la scrittura con quelle di altri sigilli e bulle di Gerusalemme si evidenza che, a differenza dell’attenta incisione del demone, l’iscrizione dei nomi sul sigillo è stata fatto in maniera approssimativa. Non è impossibile che forse è stato Yeho ‘ezer stesso a incidere i nomi sull’oggetto.
Il Dr. Yuval Baruch, Direttore degli scavi e Vicedirettore presso l’Israel Antiquites Authority, afferma:
Questa è un’ulteriore prova delle capacità di lettura e scrittura che esistevano in questo periodo. Contrariamente a quanto si può pensare comunemente, sembra che l’alfabetizzazione in questo periodo non fosse solo riservata all’élite della società. La gente sapeva leggere e scrivere – almeno a livello base – per le esigenze del commercio. Conosciamo molti sigilli in scrittura paleo-ebraica, provenienti dai dintorni della Città di Davide e del periodo del Regno di Giuda. La figura di un uomo alato in uno stile neo-assiro è unica e molto rara negli stili glifici del tardo primo Tempio. L’influenza dell’Impero Assiro, che aveva conquistato l’intera regione, è chiaramente evidente qui. Giuda in generale, e Gerusalemme in particolare all’epoca, era soggetta all’egemonia dell’Impero assiro e ne fu influenzato – realtà questa che si riflette anche negli aspetti culturali e artistici. Il fatto che il proprietario del sigillo abbia scelto un demone come insegne del suo sigillo personale può attestare la sua sensazione di appartenere al contesto culturale più ampio, proprio come le persone oggi in Israele, che si vedono parte della cultura occidentale. Tuttavia, all’interno di quel sentimento, questo Yeho ʼezer ha tenuto saldamente la sua identità locale, e quindi il suo nome è scritto in ebraico e il suo nome è un nome ebraico che appartiene alla cultura di Giuda. Negli ultimi anni, le testimonianze archeologiche sono in aumento, specialmente negli scavi della Città di David e alla base del Monte del Tempio, testimoniano l’entità dell’influenza della cultura assira soprattutto a Gerusalemme.
Il Ministro israeliano del patrimonio artistico rabbi Amichai Eliyahu ha accolto con favore la scoperta:
La spettacolare e unica scoperta negli scavi dell’Autorità per le Antichità Israeliane e della città di David ci apre un’altra finestra sui giorni del Regno di Giuda durante il periodo del Primo Tempio, e attesta i legami internazionali di quell’amministrazione. Così facendo, dimostra l’importanza e la centralità di Gerusalemme già 2.700 anni fa. È impossibile non lasciarsi commuovere da un incontro così poco mediato e diretto con un capitolo del nostro passato.
(ExPartibus, 5 settembre 2024)
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Conversione secolarizzata
di Antonio Cardellicchio
Un antisemitismo che è aumentato del 400 per cento, con ossessiva violenza. Un aumento vertiginoso, dopo la Shoah e il 7 ottobre, indicatore di un mondo molto storto e cieco. La vittoria politica e mediatica di Hamas e Hezbollah, dei loro padroni e soci, con questa stortura e cecità del mondo, che segue e adotta la voce dei genocidi sadici, stupratori, tagliagole, nuovo Isis, e anche peggio.
La polarizzazione-lacerazione del popolo di Israele, vista da lontano è, in un certo senso, un effetto dell’assedio antisemita e della pressione pesante e costante della cosiddetta comunità internazionale ribaltata contro l’indipendenza ebraica e consociata con il terrore israelofobico. E anche delle difficoltà a fronteggiarlo. Vista da vicino, costituisce l’esplosione di una situazione incandescente, insostenibile di un Paese assediato da sette lati, da una morsa sterminazionista, davanti a scelte di per sé difficili, dilemmatiche, irte di inevitabili contraddizioni.
Da un lato Israele, in guerra di difesa da mostri implacabili, isolato dall’ondata antisemita senza vergogna e limiti, ricattato dalla lacerante necessità della liberazione degli ostaggi – assassinati e seviziati con orribile, inenarrabile ferocia – si mostra un’ultra democrazia dove ognuno esprime la sua, perfino i vertici militari dissentono, sono rese pubbliche le riunioni del gabinetto di guerra, libere manifestazioni di piazza, sciopero politico illegale, accanito e puntiglioso dibattito permanente.
Perfino alcuni dei dichiarati nemici di Israele si confessano colpiti da tanta visibilità iper-democratica. Una realtà in netto spartiacque con l’oscurità totalitaria dei nemici genocidi e dei regimi loro alleati e sponsor. Ma è una vitalità che rischia fortemente di convertirsi in mortalità.
La luminosa definizione del grande rabbino pensatore Lord Jonathan Sacks sull’ebraismo, grande “modello autocritico”, rischia di trasformarsi in un modello autodistruttivo.
Una opposizione isterica accusa il governo di essere “per la morte”, la maggioranza accusa l’opposizione di essere allineata e complice di Hamas sulla controversia per la liberazione degli ostaggi. Le minoranze di sinistra non accettano le scelte della maggioranza legittima degli Ebrei di Israele per la guerra di difesa dalla pianificazione sterminazionista di un nemico totalitario, genocida, sadico, apocalittico. Contrastano l’esigenza prioritaria di un’unità nazionale antiterrorista, strumentalizzano a fini di parte politica la comprensibile, umanissima rabbia delle famiglie degli ostaggi nelle mani dei mostri torturatori-assassini.
Ma il popolo e il governo di Eretz Israel, nella piena realizzazione della cultura e dell’etica ebraica del primato della vita contro la mistica fascista della morte di Hamas, hanno il diritto-dovere di salvare la vita e la libertà di tutte le famiglie e le persone, ebrei e minoranze.
Mentre il primo ministro Netanyahu si destreggia con una certa abilità tra la priorità della difesa, con la sconfitta dei nazisti del 7 ottobre, e la necessità di liberare gli ostaggi, una parte dell’opposizione lo demonizza in termini analoghi a quelli ostentati dalla costellazione Hamas, Hezbollah, Iran e Putin. Si tratta di una grave, inammissibile forma di allineamento a chi vuole eliminare Israele. Netanyahu non viene criticato per il 7 ottobre indifeso, o per l’illusione di addomesticare Hamas con finanziamenti e permessi di soggiorno; ma mostrificato per la fermezza su ragioni elementari di difesa di Israele.
Gli oppositori non vogliono la capitolazione di Hamas, ma di fatto agiscono per la capitolazione ad Hamas, con effetti letali.
Una strategia di cedimenti e complicità con la guerra psicologica programmata da Yahya Sinwar. Un “pizzino” a lui attribuito stabilisce in modo esplicito: massacro degli ostaggi prima della liberazione da parte di Tsahal, scaricare la colpa su Netanyahu, fare degli ostaggi una rendita criminale incentivata dalla piattaforma politica degli organizzatori delle manifestazioni; preparare nuovi 7 ottobre.
Sinwar, prigioniero di Israele per crimini efferati, liberato nello scambio di un’enorme massa di terroristi con il soldato Gilad Shalit, curato con la massima cura in un ospedale israeliano, conosce bene la realtà, la lingua, l’opinione pubblica israeliana, e la sfrutta per alimentare divisioni laceranti.
Da qui il suo ordine ai mostri infernali, di catturare quanti più ostaggi possibili. Per questo, cedere sugli ostaggi significa incentivare nuovi ostaggi di nuovi 7 ottobre.
La società israeliana condanna i gruppi estremisti minoritari che compiono azioni di violenza simmetrica su comunità e persone arabe palestinesi in Giudea e Samaria, dovrebbero condannare altrettanto la propaganda simmetrica ad Hamas, contro la volontà di difesa della maggioranza del popolo di Israele.
L’isteria e la virulenza antisemita di massa di questo ultimo anno punta a dividere gli ebrei in Israele, e le comunità ebraiche della diaspora da Israele.
Come per millenni l’antigiudaismo cristiano voleva la conversione dei “perfidi Giudei”, oggi si vuole una conversione secolarizzata, cioè la rottura degli ebrei da Israele come una nuova forma di battesimo forzato. Oppure l’uniformazione a un’idea astratta e omogenea di “umanità”, con la rinuncia alla propria diversità-particolarità ebraica.
Da qui, la valanga di stereotipi antiebraici riverniciati, da una storia millenaria di discriminazione, persecuzione, eliminazionismo fisico.
L’attuale antiebraismo israelofobico è un concentrato di filisteismo, tartufismo, bigottismo, laico e religioso. Il più diffuso e ottuso conformismo di massa, una mistura di cecità ideologica e analfabetismo trionfante. La parola “filisteo” viene dall’ebraico ‘Pelishtin’, a designare gli appartenenti ai filistei, antica popolazione immigrata sulla costa di Israele, tradizionale avversaria del popolo ebraico.
L’ebreo tra gli Stati è l’oggetto di un attacco concentrico. Il bombardamento mediatico contro Israele che affianca quello fisico, non è solo un potente tossico antiebraico di falsificazione e mostrificazione, ma è un delitto di conoscenza, che corrode e annulla il tessuto democratico di quei paesi che ancora in qualche modo lo mantengono.
Il potere illimitato dei media limita ulteriormente i poteri limitati delle democrazie liberali in un punto nevralgico. La deliberazione democratica di fonda sulla conoscenza, secondo il noto principio chiave “Conoscere per deliberare” (l’insistenza di Luigi Einaudi e Marco Pannella). Quando i media seguono la voce di Hamas, Hezbollah e soci e diventano una mezza Al Jazeera, non solo compiono un’aggressione quotidiana antiebraica ma ribaltano una conoscenza fondata sulle fonti e gli eventi reali. Dunque, la degenerazione della democrazia, in un mare di demagogia populista, di isteria vendicativa. Il sistema informativo normalizza Hamas, e per questo si pone su un terreno anti-democratico. La demagogia sostituisce la democrazia, non si limita a corromperla.
La quotidiana dose mediatica di oppio antiebraico è la forma attuale della persecuzione. L’antiebraismo si rivela la punta d’assalto di un pensiero unico massificato contro il pensiero libero, plurale e creativo.
Il terzo totalitarismo, quello islamista califfale terrorista, oltrepassa l’eredità, che pure contiene, del nazifascismo tedesco e del comunismo, raggiunge livelli senza precedenti di azione genocida, a livelli sadici e apocalittici. Anche la sola “equidistanza” tra Hamas e Israele è incivile, è una forma di collaborazionismo con il nuovo nazismo. E i Quisling dell’islam sono tanti.
La barbarie antisemita in atto è doppia: antisemitismo ancestrale, stratificato, ora carsico ora emergente, nel senso dell’”inconscio collettivo” (Jung) e la barbarie digitale virale (B. H. Lèvy) con l’idiozia dell’istante. Un totalitarismo mediatico per l’uomo-massa con l’esclusione sistematica di conoscenza e pensiero. Un meccanismo implacabile per disumanizzare l’ebreo e umanizzare il terrorista disumano.
Siamo al caso limite di osservare una relativa giustificazione della Shoah: se gli Ebrei sono tanto cattivi e duri, se sono percepiti come nazificati, vorrà dire che il nazionalsocialismo hitleriano qualche ragione doveva pure averla. Qualche intellettuale di sinistra proclama risentito che la Shoah l’hanno fatta i suoi nemici, i nazifascisti; ma ora, davanti al 7 ottobre del totalitarismo nazi-islamico, con il peggioramento di una ferocia esibita, lui sta dalla parte di costoro o, nel migliore dei casi, si pone come equidistante.
Per gli ebrei, un’assimilazione coatta sembra essere l’unico modo per sfuggire alla condanna a morte. Ma neppure questo è possibile, perché anche gli ebrei assimilati, “pacifisti”, “filo-palestinesi”, vengono ammazzati lo stesso, e certe volte per primi.
(L'informale, 5 settembre 2024)
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Sciopero nazionale in Israele, la Corte ne decreta la fine
Scintille tra Biden e Netanyahu mentre il paese piange i sei ostaggi.
di Anna Balestrieri
Lunedì 2 settembre, centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade di Israele, esprimendo la loro furia per il fallimento del governo nel concludere un accordo di cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas. La giornata di sciopero ha portato gran parte del paese a fermarsi, in seguito all’appello del sindacato più grande del paese, Histadrut, per bloccare l’intera economia. Le proteste si sono diffuse in città come Gerusalemme, Tel Aviv e Cesarea, dopo che sei ostaggi sono stati uccisi a Gaza e i loro corpi recuperati dai soldati israeliani.
• GLI ADERENTI ALLO SCIOPERO Lo sciopero ha coinvolto diverse categorie di lavoratori e servizi pubblici. Uffici governativi e municipali, inclusi ministeri cruciali come quello dell’Interno e parti dell’ufficio del Primo Ministro, sono stati chiusi. Anche molte aziende private hanno aderito allo sciopero. I voli da e per l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv sono stati sospesi per due ore. Gli ospedali e le strutture sanitarie hanno operato secondo un orario ridotto, simile a quello del fine settimana, e in modalità di emergenza. Nonostante il sostegno di molte istituzioni, alcune categorie non hanno partecipato allo sciopero. Ad esempio, il sindacato degli insegnanti ha scelto di non aderire, sebbene il personale di supporto nelle scuole abbia partecipato. Tuttavia, le principali università israeliane, tra cui l’Università Ebraica di Gerusalemme e l’Università di Tel Aviv, hanno aderito alla protesta.
• “SCIOPERO POLITICO”: LA SENTENZA DELLA CORTE DEL LAVORO La Corte del Lavoro di Tel Aviv ha ordinato la fine dello sciopero dopo otto ore, affermando che era di natura politica e non legata a motivi economici. Lo sciopero è stato il primo di questa portata dal marzo 2023, quando il paese si era fermato a causa delle controverse riforme giudiziarie proposte da Netanyahu.
• LE CRITICHE A NETANYAHU Molti manifestanti hanno preso di mira le residenze del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, accendendo falò e scandendo slogan come “Tu sei il leader – tu sei colpevole!” vicino a una delle sue residenze private a Cesarea. A Tel Aviv, i manifestanti fuori dall’ambasciata americana hanno gridato “Vergogna!” fino a tarda notte. Le critiche a Netanyahu si sono intensificate, con alcune famiglie degli ostaggi che lo hanno accusato di ritardare gli sforzi per un accordo. Più di 100 ostaggi, vivi e morti, sono ancora detenuti a Gaza, la maggior parte catturata durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando oltre 1.200 persone furono uccise e più di 200 prese in ostaggio. Durante una conferenza stampa lunedì sera, Netanyahu ha respinto le critiche, incluse quelle del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, affermando che Hamas deve fare concessioni. Il premier israeliano ha chiesto perdono alle famiglie dei sei ostaggi per non averli riportati a casa vivi, ma ha promesso di vendicarsi e far pagare un “prezzo pesante” a Hamas per le loro morti.
• LA REAZIONE DI HAMAS Hamas ha risposto intensificando le minacce, avvertendo che altri ostaggi torneranno “nelle bare” se Israele tenterà di liberarli militarmente. Il disaccordo su un’area di confine nota come il corridoio di Philadelphi ha ulteriormente complicato i negoziati per un cessate il fuoco. Netanyahu insiste sul controllo di questa striscia di terra lungo il confine di Gaza con l’Egitto per prevenire il contrabbando di armi da parte di Hamas, ma questa posizione è stata duramente criticata, incluso dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, che ha definito la priorità del corridoio un “disgusto morale”.
(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2024)
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Missione compiuta: nel tunnel di Sinwar staranno brindando.
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Il Regno Unito sospende la vendita di armi a Israele. Netanyahu: “Vergognoso, incoraggia i terroristi”
di Luca Spizzichino
La decisione del governo britannico di sospendere la vendita di alcune componenti per armi destinate a Israele ha suscitato forte indignazione da parte di leader israeliani e organizzazioni ebraiche. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha duramente criticato la mossa, definendola “vergognosa” e avvertendo che essa non farà altro che incoraggiare Hamas, il gruppo terroristico responsabile del massacro di oltre 1200 persone il 7 ottobre, tra cui 14 cittadini britannici.
In una dichiarazione molto dura, l’ufficio del premier israeliano ha affermato che “la decisione vergognosa della Gran Bretagna non cambierà la determinazione di Israele a sconfiggere Hamas, un’organizzazione terroristica genocida che ha brutalmente assassinato 1200 persone il 7 ottobre, inclusi 14 cittadini britannici”. Tracciando un parallelo con la lotta del Regno Unito contro la Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, il governo israeliano ha aggiunto: “Invece di schierarsi con Israele, una democrazia che si difende contro la barbarie, la decisione fuorviante della Gran Bretagna non farà altro che incoraggiare Hamas”.
La decisione del Regno Unito è stata annunciata dal Segretario degli Esteri David Lammy, che ha dichiarato che la sospensione di circa 30 licenze di esportazione di armi, tra cui parti per aerei da caccia, elicotteri e droni, è stata presa dopo una revisione che ha concluso che esiste un rischio reale che queste armi possano essere utilizzate in violazione del diritto umanitario internazionale.
Anche il Rabbino Capo del Commonwealth, Sir Ephraim Mirvis, ha espresso profonda preoccupazione per la decisione del governo britannico, affermando su X che “è incredibile che il governo britannico, alleato strategico di Israele, abbia annunciato una sospensione parziale delle licenze per armi in un momento in cui Israele sta combattendo una guerra per la sua stessa sopravvivenza su sette fronti, forzata il 7 ottobre, e proprio nel momento in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo da crudeli terroristi venivano sepolti dalle loro famiglie”.
Mirvis ha aggiunto che “questo annuncio servirà a incoraggiare i nostri nemici comuni. Non contribuirà alla liberazione dei restanti 101 ostaggi, né contribuirà al futuro pacifico che desideriamo”.
L’annuncio del Regno Unito ha anche sollevato critiche interne, con esponenti del partito conservatore e gruppi pro-Israele che hanno messo in dubbio la saggezza e il tempismo della decisione. Helen Whateley, portavoce del Partito Conservatore, ha insinuato che la decisione potrebbe essere stata influenzata dalla pressione dei membri laburisti, piuttosto che basata su un’analisi strategica corretta.
Tuttavia, il Segretario alla Difesa britannico, John Healey, ha difeso la decisione, sottolineando che il Regno Unito ha il dovere “di dire le verità più difficili” ai suoi “amici più stretti” e ha ribadito l’impegno del Regno Unito a sostenere Israele in caso di un nuovo attacco diretto.
Mentre la sospensione riguarda solo una parte delle 350 licenze di esportazione attive verso Israele, alcuni critici ritengono che il governo britannico non sia andato abbastanza lontano. Amnesty International ha richiesto una sospensione totale delle esportazioni di armi verso Israele, comprese quelle destinate al programma dei jet F-35, preoccupata per l’impatto delle armi britanniche nel conflitto in corso.
Nonostante la parziale sospensione, Netanyahu ha ribadito la determinazione di Israele a vincere questa guerra, dichiarando che “con o senza armi britanniche, Israele vincerà questa guerra e garantirà il nostro futuro comune”.
(Shalom, 4 settembre 2024)
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Il boicottaggio contro Israele tocca il più grande fondo sovrano norvegese
Il Consiglio per l'Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere diverse aziende (israeliane e non) che producono armi o componenti per armi usate da Israele
Il fondo sovrano norvegese da 1.700 miliardi di dollari denominato Government Pension Fund Global potrebbe essere costretto a cedere azioni di società che violano la nuova e più severa interpretazione degli standard etici per le imprese che aiutano le operazioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania. Il 30 agosto il Consiglio per l’Etica del più grande fondo sovrano del mondo ha inviato una lettera al ministero delle Finanze norvegese che riassume la definizione recentemente ampliata di comportamento aziendale non etico. La lettera non specifica il numero e i nomi delle società che potrebbero essere vendute, ma suggerisce che si tratterebbe di un numero ridotto, se il consiglio della banca centrale, che ha l’ultima parola, dovesse seguire le raccomandazioni del consiglio. Secondo il Consiglio, una società è già stata individuata per essere disinvestita in base alla nuova definizione. “Il Consiglio per l’Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere alcune altre società dal Fondo Pensione Governativo Global, oltre a quelle già escluse”, scrive l’organismo di vigilanza, indicando il nome formale del fondo sovrano norvegese. Il fondo è stato un leader internazionale nel campo degli investimenti ambientali, sociali e di governance (ESG). Possiede l’1,5% delle azioni quotate a livello mondiale di 8.800 società e le sue dimensioni sono influenti. Dall’inizio della guerra a Gaza, in ottobre, l’organo di controllo etico del fondo sta indagando per verificare se un numero maggiore di aziende non rientri nelle linee guida per gli investimenti consentiti. Nella lettera si legge che, con la nuova politica, “ci si aspettava che la portata delle esclusioni aumentasse un po’”. Tra le società che l’organo di controllo potrebbe esaminare vi sono RTX Corp, General Electric e General Dynamics. Secondo le organizzazioni non governative, queste società producono armi utilizzate da Israele a Gaza. Secondo i dati del fondo, al 30 giugno il fondo deteneva investimenti in Israele per un valore di 16 miliardi di corone (1,41 miliardi di dollari) in 77 società, tra cui aziende del settore immobiliare, bancario, energetico e delle telecomunicazioni. Rappresentano lo 0,1% degli investimenti complessivi del fondo.
(Rights Reporter, 4 settembre 2024)
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Eliminato dall’IDF Muhammad Wadiyya: responsabile dell’invasione del 7 ottobre a Netiv Haasara
di Michelle Zarfati
Eliminato, in un recente attacco aereo israeliano, Ahmed Fawzi Nasser Muhammad Wadiyya, comandante della compagnia Nukhba di Hamas, responsabile di aver guidato l’invasione e il massacro del 7 ottobre di Netiv Haasara, un moshav vicino al confine di Gaza. L’uomo era arrivato a Nevit Haasara con il parapendio e lì aveva supervisionato il massacro di 22 dei 900 residenti della comunità.
Wadiyya, è tra gli otto terroristi di Hamas che sono stati eliminati ieri in un’operazione congiunta dell’IDF e dello Shin Bet, durante la quale i caccia dell’aeronautica hanno attaccato un complesso utilizzato da Hamas vicino all’area dell’ospedale Al-Ahli a Gaza City. L’IDF ha confermato che l’attacco ha mirato ad eliminare alcuni membri del Battaglione Daraj-Tuffah, uno dei quali coinvolto nella fornitura di bombe utilizzate per violare la barriera di sicurezza di Gaza. L’esercito ha confermato di aver adottato misure di sicurezza per ridurre al minimo i danni ai civili durante l’operazione.
Ahmad Wadia, il 7 ottobre aveva fatto irruzione nella casa della famiglia Ta’asa. Mentre gli altri terroristi uccidevano il quarantaseienne Gil Ta’asa davanti ai suoi figli più piccoli, Koren, 12 anni, e Shay, 8 anni, l’uomo aveva preso possesso della casa della vittima e lì era stato ripreso dalle telecamere di sicurezza della famiglia mentre apriva il frigorifero e beveva una Coca-Cola, proprio di fronte ai due bambini feriti e sanguinanti. Un filmato agghiacciante, annoverato ormai tra le immagini più scioccanti del massacro del 7 ottobre.
(Shalom, 3 settembre 2024)
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Ostaggi e terrorismo psicologico: il piano di Hamas per colpire Israele dall’interno
di Luca Spizzichino
Se Israele continuerà ad attaccare la Striscia di Gaza, gli ostaggi torneranno a casa “dentro le bare“. Questa è la minaccia lanciata da Hamas attraverso una dichiarazione di Abu Obeida, portavoce delle Brigate Ezzedine Al-Qassam. Il gruppo terroristico prosegue la sua guerra psicologica, cercando di dividere l’opinione pubblica, soprattutto in Israele, e attribuendo la responsabilità della morte degli ostaggi al governo di Netanyahu.
Un piano dettagliato è emerso da un pizzino manoscritto ritrovato nei tunnel di Gaza. Secondo quanto riportato da La Repubblica, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno trovato un elenco di punti, mostrato da Channel 12, uno dei canali televisivi israeliani più informati, che sembra essere stato redatto da Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza.
Dal documento emerge l’intenzione di Hamas di intensificare la pressione sulla questione degli ostaggi, con l’obiettivo di destabilizzare l’andamento della guerra. Si evidenzia inoltre come Hamas miri a sfruttare le divisioni sociali all’interno della società israeliana. Per raggiungere questo scopo, il piano prevede la diffusione di immagini e video degli ostaggi israeliani, l’intensificazione della pressione psicologica sul ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e, cosa più importante, “spingere sulla linea narrativa che Netanyahu è responsabile unico di quanto sta succedendo”.
L’ultimo punto del documento fornisce una risposta all’uccisione di Hersh e agli altri cinque ostaggi. L’esecuzione degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre viene presentata come un mezzo per contrastare la narrativa israeliana secondo cui un’intensificazione militare aumenterebbe le probabilità di liberarli. In questo contesto, Hamas ha recentemente impartito nuove istruzioni alle guardie su come gestire gli ostaggi nel caso in cui le truppe israeliane si avvicinassero ai luoghi in cui sono detenuti.
(Shalom, 3 settembre 2024)
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Netanyahu ha ragione: gli errori della coppia Biden/Harris
Gli ostaggi sono stati uccisi da Hamas a Rafah, cioè dove Biden, Harris, Egitto e Qatar (praticamente tutti i negoziatori) non volevano che Israele andasse.
di Franco Londei
Quello che sta avvenendo intorno all’assassinio dei sei ostaggi da parte di Hamas ha davvero dell’incredibile. A partire da Biden alla Harris passando per migliaia di manifestanti nonché pseudo giornalisti “esperti” sui social, attribuiscono al Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, la colpa di quelle morti. A Netanyahu viene rimproverato di non essersi arreso ad Hamas. Sì, è esattamente quello di cui è accusato il Premier israeliano. Per Biden, Harris e contestatori vari, Israele doveva deporre le armi e permettere ad Hamas di rientrare in pompa magna nella Striscia di Gaza. Così, come se niente fosse. Nessuno dei tanti che contestano Netanyahu ha il coraggio di affermare che su Rafah aveva ragione. Nessuno dirà che se a suo tempo fosse stato permesso a Netanyahu di entrare a Rafah a quest’ora probabilmente il conflitto sarebbe finito. Invece lo hanno bloccato, lo hanno minacciato, gli hanno fermato o rallentato la fornitura di armi per costringerlo a non attaccare quello che palesemente era la base di Hamas. Anzi, se c’è una cosa di cui rimproverare il Premier israeliano, è quella di non aver attaccato sin da subito la roccaforte dei terroristi. Dicevano che non poteva garantire la sicurezza di centinaia di migliaia di civili, invece l’IDF ha spostato un milione di civili in due settimane e ha smantellato la Brigata Rafah di Hamas. I gruppi umanitari dicevano che sarebbe stata una strage, invece non c’è stata nessuna strage. L’IDF ha scoperto decine di tunnel che portavano in Egitto. Già l’Egitto, il “negoziatore imparziale” che come Hamas non vuole la presenza israeliana nel Corridoio Filadelfia, quel corridoio da dove sono passati indisturbati milioni di metri cubi di cemento, migliaia di missili, polvere da sparo, armi di ogni tipo. Il Cairo voleva rivedere il trattato di pace con Israele se l’IDF attaccava Rafah. Forse sarebbe il caso che sia Gerusalemme a rivedere il trattato di pace con l’Egitto visto che è palese la sua connivenza con Hamas. Forse sarebbe il caso che Israele revochi all’Egitto il permesso di entrare con mezzi pesanti nella Penisola del Sinai e che addirittura sia di nuovo Israele a controllare quel territorio, visto che l’Egitto non ci riesce. Come sarebbe il caso che Joe Biden e Kamala Harris chiedano scusa a Netanyahu e ai genitori degli ostaggi per non aver permesso a Israele di fare il suo lavoro quando era il momento e per le frasi del tutto fuori luogo pronunciate ieri, perché è stato Hamas e non Netanyahu a uccidere gli ostaggi e lo ha fatto a Rafah, cioè proprio dove l’Amministrazione americana non voleva che Israele andasse.
(Rights Reporter, 3 settembre 2024)
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Il nemico è Sinwar, non Netanyahu
di Giovanni Giacalone
Le manifestazioni di piazza e lo sciopero generale che si sono verificate in Israele in risposta alla scoperta, da parte delle IDF, dei corpi di sei ostaggi, assassinati a sangue freddo da Hamas, hanno aiutato l’organizzazione terroristica palestinese a raggiungere i suoi obiettivi di sopravvivenza e di perseveranza nell’uccidere israeliani. Secondo le fonti, Hersh Goldberg-Polin (23), Carmel Gat (39), Eden Yerushalmi (24), Almog Sarusi (26), Alex Lobanov (32) e Ori Danino (25), tutti catturati il 7 ottobre, sono stati colpiti a distanza ravvicinata in uno dei tunnel di Rafah, circa 24-72 ore prima dell’arrivo dell’IDF. Il fatto è avvenuto la scorsa settimana, molto probabilmente dopo che Qaid Farhan al-Alkad è stato recuperato vivo dall’esercito. Ciò che risulta assurdo è che una parte consistente dell’arena politica e degli attivisti israeliani stiano incolpando il Primo Ministro Benjamin Netanyahu per la morte dei sei ostaggi, piuttosto che Hamas. Caroline B. Glick ha presentato il problema in modo estremamente chiaro e approfondito in un articolo per il Jewish News Syndicate, nel quale ha anche affermato:
“All’unisono, Benny Gantz, Yair Lapid, Yair Golan e i loro subordinati si sono uniti ai gruppi di sinistra che hanno usato tumulti di massa, violenza politica e il caos generale dal 2019 nel tentativo di estromettere Netanyahu dal potere e hanno invitato gli israeliani a scendere in piazza in risposta alle esecuzioni degli ostaggi e a fare cadere il governo attraverso la violenza. Il comportamento di gente come Lapid, Gantz, Golan, del 90% degli organi di informazione israeliani e del resto dei rappresentanti della sinistra, solleva la domanda: hanno perso la testa”?
A quanto pare, molti in Israele e all’estero sembrano odiare Netanyahu più di Hamas e del suo leader assassino, Yahya Sinwar. Dopo tutto, abbiamo visto i doppi standard della comunità internazionale, con continue pressioni su Israele per fermare l’offensiva a Gaza invece di spingere Hamas all’angolo e costringerlo a rilasciare gli ostaggi. Netanyahu può piacere o meno e può essere sostenuto o meno, ma qui la questione è molto più grande e riguarda principalmente la sicurezza e la protezione dello Stato di Israele e dei suoi cittadini. In secondo luogo, la guerra di Israele con Hamas ha un impatto più ampio sulla guerra transnazionale all’estremismo e al terrorismo islamista, perché Hamas non è solo un’organizzazione terroristica palestinese, è anche uno strumento iraniano per la destabilizzazione e un’ideologia (che può essere sconfitta, contrariamente a quanto alcuni hanno affermato). “Se Israele cade nelle mani degli islamisti, l’Occidente è il prossimo”. Abbiamo sentito questa affermazione in diverse occasioni da parte della leadership israeliana e non potrei essere più d’accordo. Abbiamo avuto tutti sotto gli occhi le situazioni nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Francia, con gli islamisti in massa nelle strade, nelle università e in alcuni casi con il loro ingresso persino in politica. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che Israele si arrenda quando sta per raggiungere il suo obiettivo di sconfiggere Hamas a Gaza. Dobbiamo affrontare la realtà per quella che è, perché vivere nella fantasia è pericoloso. La possibilità di vedere gli ostaggi tornare a casa a causa di una decisione presa da Hamas è estremamente remota se non impossibile. L’organizzazione terroristica palestinese non ha alcun interesse a rilasciarli perché è l’unica leva che ha per sopravvivere e mantenere il controllo su Gaza. Inoltre, il numero di ostaggi ancora vivi è plausibilmente molto piccolo. Hamas sta facendo un uso eccellente delle emozioni di molti israeliani per raggiungere i suoi obiettivi e, sfortunatamente, queste persone stanno aiutando i terroristi loro malgrado. Ovviamente, non possiamo biasimarle, non possiamo aspettarci che tutti abbiano una mente fredda per affrontare una questione così problematica come il terrorismo. Ma dovremmo aspettarci un po’ più di responsabilità dall’establishment politico in un momento in cui è in gioco la sopravvivenza del paese. Cos’è il terrorismo, dopotutto? L’uso deliberato della violenza perpetrata contro i civili per raggiungere obiettivi politici (Boaz Ganor). Violenza fisica e psicologica. Omicidi, stupri, mutilazioni e poi l’uso di tattiche psicologiche per torturare ulteriormente la mente della popolazione al fine di fargli fare pressione sull’establishment politico. Sinwar vuole sopravvivere e vuole garanzie che non verrà eliminato; Hamas vuole mantenere il controllo su Gaza. Questo risultato equivarrebbe alla sconfitta di Israele. Hamas vuole che l’IDF se ne vada dal corridoio Filadelfia in modo da potere riprendere le forniture di armi e uomini. In effetti, Israele non può permetterlo, poiché centinaia di tunnel tra Gaza e il territorio egiziano sono stati scoperti e distrutti. È incredibile come tutto questo traffico abbia potuto svolgersi sotto gli occhi delle autorità egiziane che, curiosamente, non si sono accorte di nulla. Lasciare che Hamas riprenda il controllo di Gaza e lasciare Sinwar al suo posto causerebbe più morti israeliane, più attacchi come l’eccidio del 7 ottobre (come affermato dai rappresentanti di Hamas) e sarebbe una vittoria anche per il regime iraniano. Dopo tutto, i precedenti negoziati e le concessioni a Hamas hanno portato al 7 ottobre, questo è un dato di fatto. C’è un principio chiamato “ragione di Stato” che in alcuni casi deve essere applicato. Questo è uno di questi. Non si può pensare di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini, la sopravvivenza di una nazione in guerra per l’interesse di pochi. Lo Stato ha il dovere di proteggere tutti, e cedere alla richiesta di Hamas andrebbe nella direzione opposta. Inoltre, come già detto, è ingenuo credere che Hamas rilascerà gli ostaggi rimasti, perché sono plausibilmente pochi e sono l’unica garanzia che ha per la sua sopravvivenza. Sinwar trascinerebbe questa situazione per mesi, anni, mentre allo stesso tempo ricostruirebbe l’organizzazione, riprenderebbe Gaza e continuerebbe a uccidere israeliani. Hamas è un’organizzazione terroristica composta da spietati assassini, va tenuto bene a mente prima di affidarci alla sua parola. L’unico modo per riportare a casa gli ostaggi rimasti è attraverso l’azione militare. Quanto all’Amministrazione Biden, sarebbero felici di andare alle elezioni con il “successo” di un cessate il fuoco per cercare di calmare la rabbia del loro elettorato filo-islamista. Di nuovo, tutto a scapito di Israele. Questo è il momento per tutti di essere uniti contro Hamas, contro il terrorismo islamista. Sarebbe anche un ottimo momento per prendere Sinwar.
(L'informale, 3 settembre 2024 - trad. Niram Ferretti)
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La società occidentale, che nella sua ideologia libertaria sostiene un ordine inevitabilmente destinato a degradare in libertino caos, ha nella sua struttura originale un’intrinseca tendenza all’autodistruzione. Tendenza sostenuta soprattutto dalla parte sinistra della società, quella più “moderna”, più aperta anche a laceranti modifiche “evolutive”, come quelle invocate dall’anglosassone cancel culture. L’ideologia autodistruttiva della società occidentale è penetrata ormai anche in Israele, ed è condivisa soprattutto dalla parte laica di sinistra della società. E' possibile allora che la tendenza autodistruttiva dell’Occidente stia mietendo i suoi frutti più dissolventi proprio nello Stato che per tanti aspetti è in posizione d'avanguardia nel mondo: Israele. Qual è infatti la parte politica dello Stato ebraico che oggi di fatto ne caldeggia l’autodistruzione favorendo gli atti di chi ha dichiarato apertamente di volerlo distruggere? E’ la parte che più di altre sottolinea l’importanza del rapporto privilegiato con quello stato occidentale che più occidentale non ce n’è: gli Stati Uniti. I quali potrebbero pensare che se proprio si va verso l’autodistruzione, è meglio che i primi a farlo siano gli ebrei con il loro Stato. Ci stanno gli ebrei? M.C.
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UK – Rav Mirvis: Chi taglia armi a Israele rafforza i suoi nemici
Il governo britannico ha annunciato un parziale alle taglio alle esportazioni di armi in Israele perché, così ha presentato la questione il ministro degli Esteri David Lammy, sarebbe stato rilevato un «chiaro rischio che possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale» nel corso delle operazioni militari a Gaza. L’annuncio, accolto con «profonda amarezza» dal governo israeliano, ha suscitato reazioni anche nelle istituzioni ebraiche d’Oltremanica. Tra i più colpiti sembra esserci il rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth, rav Ephraim Mirvis, intervenuto con un preoccupato “cinguettio” su X. Secondo il rav, in carica dal 2013, la decisione del governo Starmer non sarà d’aiuto alla causa della pace e non aiuterà nemmeno gli ostaggi ancora prigionieri di Hamas, incoraggiando al contrario «i nostri comuni nemici». Colpisce il rav che il taglio sia stato comunicato «nel momento in cui Israele combatte una guerra per la sua sopravvivenza su sette fronti impostigli il 7 ottobre e nel momento stesso in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo venivano sepolti dalle loro famiglie». E sgomenta inoltre che venga accreditata dal ministro «la falsità secondo cui Israele stia violando il diritto internazionale umanitario, quando in realtà fa di tutto per rispettarlo».
Nessuno «dovrebbe dimenticare le ragioni per cui Israele è oggi in guerra», ha commentato la Jewish Leadership Council (JLC) sottolineando come il 7 ottobre i terroristi di Hamas abbiano invaso Israele «per uccidere, mutilare, torturare, stuprare e rapire». Ma non è finita lì, viene ricordato, perché negli undici mesi successivi «Israele ha dovuto affrontare nuove minacce ai suoi confini, mentre Hamas continuava a minacciare da Gaza, mentre Hezbollah colpiva dal Libano e gli Houthi cercavano di espandere il conflitto dallo Yemen». Senza dimenticare «l’importante offensiva» lanciata in aprile dall’Iran, in combutta con i suoi alleati regionali. In considerazione di tali eventi, conclude JLC, non è questo il momento «di intraprendere azioni che limitino la capacità di Israele di difendersi». Anche per Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies of British Jews, la decisione dell’esecutivo «rischia di inviare un messaggio pericoloso a Hamas e ad altri nemici del Regno Unito, che possono commettere atrocità spaventose, condannate dal governo britannico, e tuttavia vedere ancora Israele castigato».
(moked, 3 settembre 2024)
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Il numero dei terroristi di Hamas responsabili del 7 ottobre è il doppio di quanto si era inizialmente stimato
Un’indagine approfondita, a cura delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) della Divisione Gaza, ha portato ad aggiornare il numero dei terroristi, autori del pogrom del 7 ottobre 2023, quando su direttive di Hamas, hanno invaso i confini occupando il sud di Israele. Sarebbero ben 7000 i gazawi complici del massacro, praticamente il doppio di quanto in origine si credeva. I nuovi risultati sono stati diffusi dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Tenente Generale Herzi Halevi. Come riporta il sito Algemeiner, quel terribile giorno nel Negev nordoccidentale si sono infiltrati circa 3800 terroristi dell’unità Nukhba di Hamas, in aggiunta ad altri 2200 terroristi e saccheggiatori, sempre provenienti da Gaza. E ancora, circa 1000 terroristi sono rimasti all’interno della Striscia mentre lanciavano su Israele, solo in quel momento, ben 4300 razzi, aiutando gli altri nella traversata sul territorio israeliano, compiendo uccisioni e stupri di massa, rapimenti e altre inaudibili atrocità. I confini sono stati violati in 119 punti e non 60 come si riteneva in precedenza. In quello che è stato definito il giorno peggiore per gli ebrei dopo la Shoah sono stati assassinati 1200 esseri umani, 251 rapiti a Gaza, di cui 101 ancora in ostaggio, oltre a migliaia di feriti. «L’indagine operativa non è ancora stata conclusa e continua in conformità con la valutazione della situazione e in vista dei vincoli operativi. Una volta conclusa, sarà presentata al pubblico in modo trasparente», ha affermato il portavoce dell’IDF.
(Bet Magazine Mosaico, 3 settembre 2024)
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Stiamo facendo il gioco di Hamas
di Maurizia De Groot Vos
Sebbene le contestazioni mosse al Primo Ministro Benjamin Netanyahu non siano campate in aria, sebbene il Governo avrebbe potuto senza dubbio fare qualcosa di più per liberare gli ostaggi, quello che sta accadendo in Israele è esattamente quello che voleva Yahya Sinwar quando ha ordinato di giustiziare i sei ostaggi ritrovati morti dall’IDF.
Il capo terrorista dall’inizio della guerra ha indovinato ogni mossa mediatica riuscendo persino a trasformare degli spietati assassini in vittime innocenti. Questo grazie ai tantissimi megafoni anti-israeliani che non hanno perso occasione per diffondere le veline di Hamas e le tante bugie sul conflitto.
Ieri abbiamo avuto centinaia di conferme eclatanti di questo “aiuto al terrorismo” quando la vasta platea anti-israeliana sui social ha usato la tragedia dei sei ostaggi assassinati da Hamas per capovolgere totalmente la verità.
Uno dei casi più eclatanti, quello messo in piedi ad arte da Tiziana Ferrario che è riuscita in un Twitt a sciacallare sui morti per poi riversare tutta la responsabilità su Netanyahu facendo appena un cenno ad Hamas. Non sazia di tanto odio ha persino chiesto la fine delle operazioni in Cisgiordania, chiaramente senza sapere né il perché né gli obiettivi di quella operazione.
Ora, non sto dicendo che sono contenta di questo governo, tutt’altro, non sto dicendo che Benjamin Netanyahu non abbia severe responsabilità sia su quanto successo il 7 ottobre, figlio di una scelta politica suicida, che sullo sviluppo della guerra (tra i tanti errori, perché il corridoio Filadelfia non è stato occupato da subito?), sto però dicendo che quello che stiamo vedendo oggi in Israele è esattamente quello che voleva Hamas.
Comprendo il dolore dei genitori dei ragazzi assassinati come comprendo quello dei parenti di coloro che sono ancora in mano di Hamas, ma questo loro comportamento non può che portare ad un ulteriore irrigidimento delle posizioni di Netanyahu, perché cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere ad Hamas.
Lo sa benissimo Yahya Sinwar che infatti gioca cinicamente sui sentimenti dei parenti dei rapiti e sulle vite dei pochi che ancora saranno in vita, aiutato in questo dai tanti megafoni anti-israeliani sempre pronti ad aiutare la causa dei terroristi.
(Rights Reporter, 2 settembre 2024)
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Che l’azione delle famiglie degli ostaggi sarebbe stata una carta preziosa in mano a Hamas avrebbe dovuto essere subito evidente a tutti coloro che sono dalla parte di Israele, e quindi avrebbe dovuto essere “compresa” quanto si vuole ma fortemente “osteggiata”. Perché non è avvenuto? Per non fare un favore a Netanyahu, questa sarebbe la risposta di molti, se volessero essere sinceri fino in fondo. Dire che “cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere a Hamas” è come dire che Netanyahu aveva ragione e i suoi avversari torto. Ma l’odio implacabile per Netanyahu, dentro e fuori Israele, ha qualcosa di arcano, proprio come l’odio per Israele, con cui in molte menti indissolubilmente si confonde. Da riflettere. M.C.
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«Noi ebrei traditi dai progressisti»
L'editore: «A sinistra dilaga l'antisemitismo: inseguono i musulmani per qualche voto in più. Dal 7 ottobre mi sento solo perfino a Livorno, dove la mia famiglia arrivò 500 anni fa. La Digos mi consiglia di non andare in giro».
di Carlo Cambi
Livorno è la sola città a non aver mai conosciuto un ghetto ebraico; i sefarditi vennero chiamati da Ferdinando I de' Medici a fertilizzare la nascente città nel 1591 e dettero vita a una loro cucina, una loro cultura e a una loro lingua: il bagitto. Joseph Belforte nel 1805 stampò il primo libro di preghiere in ebraico e poi suo figlio Salomone Belforte dette vita ad una casa editrice che è il faro della cultura ebraica nel mondo. Attività che continua con Guido Guastalla, 82 anni, ma scritti solo sulla carta d'identità, scampato da neonato alla Shoah laureato in filosofia con Nicola Badaloni, amico personale di Giorgio Amendola, con una militanza giovanile nel Pci, grandissimo mercante d'arte ed editore per scelta: essere un pilastro della cultura ebraica.
- Guardandolo da Livorno c'è un rigurgito di antisemitismo? Come si vive da ebreo? «Si vive nell'ansia perché l’antisemitismo è potente e pervasivo. Ho visto che a Roma e a Milano, le ha animate Klaus Davi, ci sono state iniziative per rispondere dopo il 7 ottobre al clima di odio verso di noi; qui a Livorno, è strano a dirsi, siamo soli. È la stessa atmosfera del '38, la comunità nazionale ci dice di stare tranquilli, di stare nascosti. Ci sentiamo traditi dalla sinistra come gli ebrei italiani che erano in larga misura fascisti si sentirono traditi da Mussolini. Una mano ce l'ha data il governo: ha blindato l'ingresso della sinagoga, ha affidato alla Folgore, i paracadutisti del generale Roberto Vannacci, la nostra sicurezza. Il sindaco di Livorno, Luca Salvetti, indipendente eletto dal Pd che non si è mai fatto vedere nella nostra comunità, quando il 12 ottobre abbiamo fatto una manifestazione per il massacro perpetrato da terroristi di Hamas ci ha impedito di esporre la bandiera di Israele».
- Anche nell'unica città senza ghetto essere ebrei e diventato rischioso? «Io sono in là con gli anni e non mi faccio intimidire, ma mia moglie dice di sì, Su un social un ragazzotto pro Pal mi ha apostrofato: ebreo torna a casa. Gli ho replicato: sono già a casa mia. Ci stiamo da 2.200 anni in Italia, ci siamo da prima di Cesare. E poi dove devo andare? Se mi dite che Israele, perché occupa i territori, deve sparire, dov'è la mia casa? Giorni fa in piazza Grande qui a Livorno c'era una manifestazione pro Palestina, sempre con gli slogan “a morte Israele", che significano "morte agli ebrei". Una funzionaria della Digos mi ha ripetuto: Guastalla non stia in piazza, vada a casa, è meglio per lei e per noi. Le ho risposto: le pare che io non possa stare nella mia città, libero dove la mia famiglia è arrivata mezzo millennio fa? Una signora che passava ha aggiunto: gli ebrei hanno fatto Livorno; si devono rintanare quelle m.... che fanno confusione. Dopo il 7 ottobre però i nostri giovani sono andati via, siamo rimasti in 400 tutti in là con l'età».
- È un clima da triangolo giallo? «È ancora più pervasivo. Mi spiego con un episodio. Il professor Samuele Rocca che vive tra Milano e Gerusalemme ha scritto un bellissimo libro sui Cesari e l'ebraismo. Doveva presentarlo all'Università di Pisa dove c'è il Cise, centro studi sull'ebraismo. Ebbene il professor Arturo Marzano - delegato alle attività gender dell'ateneo che ha dedicato un suo libro al proprio compagno: un inviato Onu a Gaza - storico dell'Asia nonché fratello di tanta sorella -, e la dottoressa Carlotta Ferrara degli Uberti che dovrebbe occuparsi di antisemitismo, hanno deciso che il libro di Rocca non doveva essere presentato perché lui insegna all'Università di Ariel che secondo loro sta nei territori occupati. In realtà Ariel è in Samaria, ma Rocca non è potuto entrare all'Università di Pisa e ha subito una sorta di "linciaggio mediatico" in chat. Siamo alla discriminazione e all'esaltazione della Palestina che è un falso storico».
- ln che senso la Palestina è un falso storico? «Non è mai esistita una nazione palestinese, né mai c'è stato un popolo palestinese. Si è determinato solo dopo che gli ebrei alla fine dell'Ottocento hanno fertilizzato i terreni e hanno prodotto sviluppo economico nell'area, cosi alcune tribù arabe che venivano dai Paesi confinanti si sono insediate in quelle terre. A creare la Palestina è stata l'Unione sovietica che nel '64 s'inventa l'Olp e agita una sorta di colonialismo ebraico perché ha bisogno di strappare l'Occidente, perseguendo il disegno ateista alla Robespierre, dalla sua radice. Cosi iniziano a circolare parole d'ordine come razzismo, antisionismo che è sinonimo di antisemitismo e s'inventano la Palestina».
- L'antisemitismo sta tutto a sinistra? «Sì, duole dirlo, ma è così: oggi la sinistra è antisemita. Su questo la sinistra è cambiata molto. Quando ci fu il massacro di Sabra e Shatila nell’82, mio figlio che andava al liceo fu bersaglio di intolleranza. Arrivarono a telefonare a mia moglie dicendole: sei convinta che tuo figlio sia a scuola, ma ce lo abbiamo noi e non lo rivedrai. Allora il sindaco di Livorno Pino Raugi e l'onorevole Nelusco Giachini del Pci vennero a casa nostra a offrirci solidarietà e protezione. Oggi vanno dietro ai pro Pal. Il clima è cambiato. Molti nostri amici prendono le distanze da noi. E sono convinti che aprire ai musulmani, aprire indiscriminatamente all'immigrazione, sia segno di progresso. Si sono dimenticati in fretta della testimonianza di Oriana Fallaci. A destra ci sono rarissimi episodi di antisemitismo. Prendo per esempio Ignazio La Russa: il presidente del Senato è da sempre amico della famiglia Meghnagi e della comunità milanese».
- Ha ragione Olaf Scholz in Germania a preoccuparsi? «Sì, ha ragione Scholz e noi in Italia dovremmo stare attenti. L'islam si presenta con la faccia buona, dialogante, ma ha in testa l'umma: il creare un mondo solo islamico dove noi, cristiani ed ebrei perché obbedienti alle religioni del libro, siamo considerati dhimmi: gli schiavi privilegiati. L'islam è convinto che Abramo fosse musulmano e che poi il mondo si è corrotto e la loro missione è di ricostituire attraverso la umma, che è insieme religione e Stato, l'armonia del mondo. Hanno deciso di conquistarci: in Gran Bretagna ormai quasi tutti i sindaci sono islamici. Usano l'immigrazione come mezzo di istillazione dell'islam e ci sono anche forme terroristiche. Tra l'altro per loro non esiste il concetto di popolo, esiste solo quello di ubbidienza religiosa. Loro negano che esista il popolo d'Israele che fu cosi designato da Dio quando affidò a Mosè il compito di guidarlo nella terra promessa, perciò vogliono la distruzione d'Israele».
- L'Europa è sotto scacco dell'islam? «Sì e non lo dico io. Lo ha detto l'abate e vescovo di York, che in un libro scrive: l'Europa è in preda a un cupio dissolvi. Lo ha gridato quasi Shmuel Trigano - di cui sto pubblicando un bellissimo libro su Gerusalemme: è uno dei massimi intellettuali francesi - che mi ha confidato: sono reduce da un incontro con i socialisti, mi hanno spiegato che loro stanno con i musulmani perché sono di più degli ebrei e hanno tanti voti. Sembra di sentire Jean Luc Mélenchon. Per gli ebrei in Francia la vita sta diventando impossibile. Dal Sud, dove c'è stato l'ultimo attentato, la diaspora verso Israele è continua. Mia moglie che è vicepresidente della comunità delle donne ebree riceve continuamente appelli dalla Francia».
- Bisogna dunque fermare l'immigrazione? «Bisogna integrare facendo rispettare la nostra identità. Quando Giovanni Paolo II ha posto il tema delle radici giudaico-cristiane, aveva ben presente che l'Europa avrebbe avuto bisogno di rafforzarsi per poter ospitare».
- Ma Francesco predica porte aperte ... «Francesco fa del marketing della fede: ha capito che i musulmani sono di più e si accoda a loro. Non ha la forza teologica di Ratzinger. A Francesco di rispondere al bisogno di sacro dell'uomo non interessa nulla. Per tenersi buoni gli islamici tifa per l'immigrazione indiscriminata e ha azzerato i rapporti con gli ebrei; tra i cattolici i focolarini e i comboniani sono pro Pal e pro islam. Se ne accorgeranno: l'islam è come i coccodrilli. Il vescovo di Livorno da noi non è mai venuto, neppure dopo il 7 ottobre, e pensare che un tempo il dialogo tra ebrei e cattolici era quotidiano».
- È vero che lei fa il tifo per Donald Trump? «Sì, per gli ebrei americani e anche per noi. Con Kamala Harris i conflitti non finiranno mai. E poi come si fa a credere a una che ha allestito alla convention democratica lo spazio Lgbtq+ per gli americani di religione islamica? Ma lo sanno che cosa succede ai gay nell'islam e anche in Palestina? Basta questo per pensare che Trump è meglio».
- E la simpatia per il generale Vannacci? «Nasce dall'aver constatato che è un uomo colto: tre lauree, parla sei lingue, si è formato a Parigi, ha una visione dell'Europa che molti non hanno e conosce perfettamente il pericolo islamico. Mi ha detto una sera a cena: "Guastalla, si rende conto che dicono di me che sono antisemita? Io che ho combattuto come ufficiale della Folgore contro il terrorismo islamico". Mi sono accorto che i giornali mainstream gli fanno dire cose che lui neppure si sogna. E sono convinto che abbia una statura istituzionale molto alta».
- Eppure lei è stato comunista, militante del Pci, Come mai tanta distanza? «Sono stato convintamente comunista fino al '67 quando ci fu la guerra dei 6 giorni. Allora Emilio Sereni venne e mi disse: compagno Guastalla, devi scegliere tra la tua appartenenza ebraica e il partito. Io lo guardai e dissi: voi pensate che si possa scambiare un' appartenenza che si perpetua da 3.500 anni per una storiella che ha appena 70 anni? Me ne andai, tenendo buoni rapporti. Ma ripensandoci mi spiego tante cose di questi nostri giorni difficili e penso a persone degnissime come Emanuele Fiano. Chissà che fatica fanno».
(La Verità, 2 settembre 2024)
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Grazie al fatto che Israele esiste, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia
di Paolo Salom
[Voci dal lontano occidente] Abbiamo avuto altri momenti difficili in passato. Ma questo 5784 promette di essere il più duro da decenni a questa parte. Eppure, mentre si avvicinano Rosh haShanah, Kippur e la stagione delle feste autunnali, nonostante le difficoltà che il futuro ci presenterà, è forse giunto il momento di rasserenarci un pochino. Perché dico questo? Lo scorso novembre, a poche settimane dal 7 ottobre, ho avuto l’occasione di parlare con Lior Keinan, vice ambasciatore di Israele a Roma. Allora, lo ricordo bene, eravamo tutti in stato di choc. E ricordo la sorpresa sul volto del diplomatico che cercava di infondere nell’interlocutore (io) la giusta dose di fiducia, nonostante l’impazzimento del lontano Occidente. “È presto per pensare a come sarà il dopo – mi aveva spiegato tra l’altro parlando del conflitto a Gaza -. Ma se vogliamo aprirci alla speranza, e dobbiamo farlo anche in queste ore buie, dobbiamo essere onesti e dire che una parvenza di normalità potrà esserci soltanto quando Hamas uscirà dall’equazione”. Ecco: queste parole, pronunciate all’inizio di una guerra non voluta da Israele e comunque atroce per tutti, potevano sembrare propaganda, wishful thinking, mentre tutto sembrava precipitare nell’assurdo di una ferocia che stava avvolgendo il mondo intero, con le frange di estremisti pro palestinesi impegnate ad attaccare gli ebrei ovunque si trovassero. Eppure, il vice ambasciatore aveva visto con obiettività la situazione e, oggi, possiamo dire che aveva ragione: nonostante il duro prezzo pagato, le vittime civili, i soldati e i riservisti bruciati nei loro anni più belli in difesa di Israele, si comincia a intravedere una luce diversa attorno allo Stato ebraico. E di conseguenza anche attorno a noi. È fallito il tentativo dell’Iran di isolarlo (di fronte ai missili lanciati dagli ayatollah si sono mobilitati Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia). Sono falliti tutti i movimenti di pressione per separare le comunità della Golah dai fratelli in Terra di Israele. Hamas è ridotta al lumicino. E, soprattutto, nonostante la paura, gli ebrei hanno scelto di resistere, combattere (con le parole) e non cedere alla tentazione di lasciare tutto o nascondersi di fronte all’oscena rappresentazione di un antisemitismo “moderno” studiato e riproposto dai soliti noti. Insomma, possiamo dire che il peggio è alle nostre spalle? No. Non è il momento di fare previsioni. Il futuro non è conoscibile. Però è onesto dire che quest’anno ci ha messo tutti a dura prova. Ma, anche grazie al fatto che Israele è lì, nella Terra dei nostri Padri e delle nostre Madri, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia che spazzano il mondo come se l’umanità non avesse imparato nulla dal passato. Dunque, sì, viviamo un’era di cambiamenti grandi e terribili (a volte). Ma la nave che ci trasporta ha dimostrato di saper affrontare le onde più alte. Scusate le metafore. Credo che un briciolo di retorica, in un momento come questo, sia giusto concedersela. Auguro a tutti Shanà tovà umetukà: sia davvero dolce e sereno per ciascuno di noi. Am Israel chai.
(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2024)
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Il rabbino capo del Sudafrica sferza Canterbury e il Vaticano
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Warren Goldstein, rabbino capo del Sudafrica
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Il rabbino capo del Sudafrica, Warren Goldstein, ha criticato in maniera molto dura sia l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby che Papa Francesco. In videomessaggio postato su Twitter/X ha accusato i due leader religiosi di «abbandonare il loro più sacro dovere di proteggere e difendere i valori della Bibbia». Invece, sostiene, «Papa Francesco e l’arcivescovo anglicano sono indifferenti agli omicidi di cristiani in Africa e alla minaccia del terrorismo in tutta Europa, e allo stesso tempo sono ostili ai tentativi di Israele di combattere le forze jihadiste guidate dall’Iran».
Come ha ricordato Jenni Frazer su JewishNews il 28 agosto, l’arcivescovo Welby ha raccontato di aver visitato i cristiani palestinesi molte volte negli ultimi decenni, aggiungendo: «Mi è chiaro che il regime imposto dai governi israeliani nei Territori palestinesi occupati è un regime di discriminazione sistemica. Sono consapevole di come questo abbia un impatto sui cristiani palestinesi, minacciando il loro futuro e la loro sopravvivenza. È chiaro che porre fine all’occupazione è una necessità legale e morale».
Il rabbino Goldstein ha criticato in particolare il sostegno dato dall’arcivescovo Justin Welby alla sentenza della Corte internazionale di giustizia secondo cui la presenza di Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è illegale e ha osservato che l’arcivescovo «dovrebbe sapere che Gerusalemme era la capitale di Israele prima che si sentisse parlare di Gran Bretagna».
Nè Lambeth Palace, la sede della residenza ufficiale dell’arcivescovo di Canterbury, né l’ufficio del rabbino capo del Regno Unito Sir Ephraim Mirvis hanno dato disponibilità a commentare.
(moked, 1 settembre 2024)
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I difficili rapporti con l’Egitto e i negoziati di pace
di Ugo Volli
• La decisione del gabinetto e le trattative
Il consiglio di gabinetto – l’organo ristretto del governo israeliano che ha la responsabilità della conduzione della guerra – su proposta del primo ministro Bibi Netanyahu e con il solo voto contrario del ministro della difesa Yoav Gallant, ha stabilito giovedì notte che anche nel quadro di un possibile accordo di cessate il fuoco, le forze armate di Israele dovranno restare a presidiare il “corridoio Filadelfia”, cioè il breve tratto di confine (14 km) che separa Gaza dall’Egitto. È una decisione importante, perché proibisce all’equipe negoziale che ricomincia oggi a Doha per l’ennesima volta le trattative per una tregua, di accettare una delle tre richieste centrali di Hamas, lo sgombero di Israele dal corridoio Filadelfia. Le altre due pretese, altrettanto problematiche, sono la possibilità per gli sfollati di rientrare nella parte settentrionale della Striscia senza subire alcun controllo, il che evidentemente permetterebbe ai terroristi di insediarvisi di nuovo con le loro armi, e l’impegno di Israele a non riprendere le operazioni belliche alla fine della tregua. Sembra che vi sia aggiunta di recente la richiesta del capo dei terroristi Sinwar di una garanzia per la sua vita.
• Da dove vengono le armi di Hamas
Chi ha ragionato in questi 11 mesi sulla forza imprevista di Hamas e sulla sua capacità di continuare a combattere nonostante l’autodifesa di Israele e il blocco imposto da molti anni sull’importazione di materiali di uso bellico, chi si è interrogato sulla consistenza dei grandi arsenali di armi e in particolari di missili che si continuano a scoprire, sull’addestramento dei terroristi da parte di istruttori iraniani, sulle macchine sui carburanti e sui prodotti necessarie per scavare tunnel più lunghi della metropolitana di Londra, si è certamente chiesto da dove tutte queste notevolissime risorse militari provenissero. La risposta è doppia: in parte minore questo materiali sono importati con gli aiuti umanitari: ancora pochi giorni fa si sono scoperti esplosivi nascosti fra gli aiuti alimentari dell’Onu. Ma la maggior parte viene dal contrabbando nel corridoio Filadelfia, cioè dall’Egitto.
• L’Egitto e il contrabbando
Si tratta di un punto molto delicato. L’Egitto ha sempre sostenuto di combattere questo contrabbando, e ha molto propagandato alcune operazioni di distruzione dei tunnel da cui esso era condotto. Ma di fatto si è comportato in maniera opposta, favorendo di nascosto l’importazione di armi. Molti si sono sorpresi vedendo che Al Sisi si è opposto ferocemente alla presa israeliana del corridoio; ma si è visto presto il perché. Oltre 80 tunnel di contrabbando sono stati scoperti nella zona, alcuni abbastanza grandi da far passare camion.. Le armi vengono da lì, e così il cemento, gli esplosivi, gli esperti iraniani e a quanto sembra anche cinesi. Ovviamente Hamas vuole che l’esercito di Israele se ne vada dal Filadelfia proprio per poter riprendere il contrabbando di armi che è vitale per continuare la guerra (si dice che vi sono carichi interi di missili nascosti fra i beduini del Sinai). La meraviglia è che l’Egitto lo sostenga. In teoria, si dice, Hamas è un braccio di quella stessa Fratellanza Musulmana di cui il generale Al Sisi si è liberato con un colpo di stato nel 2013 e quindi dovrebbe essere un nemico del regime attuale. Ma sono passati 10 anni, si dice che perfino i parenti del dittatore abbiano parte nel grande business economico del contrabbando militare, e molti funzionari del regime vi prendano parte. Ma soprattutto vi sono ragioni politiche per questo atteggiamento.
Il confine fra Israele ed Egitto è lungo 266 chilometri lungo il Negev e negli ultimi 45 anni non vi sono state difficoltà in questo, anche se non sono mancati alcuni incidenti provocati dalla parte egiziana, come il lancio di missili su Eilat o l’assassinio di due militari israeliani di guardia qualche anno fa. Perché dunque Al Sisi non vuole assolutamente la sorveglianza israeliana degli ultimi 14 chilometri che sono il corridoio Filadelfia? Le ragioni sono diverse. Da un lato, nonostante la pace firmata da Begin e Sadat nel 1979, che costò la vita a quest’ultimo, Israele è sempre nella psicologia collettiva egiziana il nemico storico contro cui l’esercito egiziano combatté nelle guerre nel 1948, ‘56, ‘67. ‘73, sempre perdendole. A differenza dei più recenti “accordi di Abramo”, la pace con l’Egitto è sempre stata “fredda” senza aperture commerciali o turistiche: la “normalizzazione” è sempre deplorata, la propaganda antisemita è sempre diffusa fra le masse e anche ai più alti livelli. L’esercito dell’Egitto, nonostante le enormi difficoltà economiche del paese, ha condotto un piano di riarmo imponente, comprando aerei in Cina, sottomarini in Germania, migliaia di carri armati in Usa. Oggi in Medio Oriente è il meglio armato dopo Israele e Iran; la speranza di una rivincita è sempre sottintesa, anche i dirigenti egiziani sanno di non poterla evocare. Al Sissi insomma sembra voler ripetere certe mosse della Turchia. Sunnita sì, potenzialmente nemico dell’Iran, ma senza nessuna simpatia per Israele.
• Perché restare sul confine
In questo quadro la sopravvivenza di Hamas, soprattutto se oltre che dall’appoggio iraniano dipende anche dalla complicità egiziana al contrabbando di armi, è una cosa che al vertice egiziano evidentemente non dispiace. E questa è anche la ragione per cui Israele fa bene a non fidarsi e a non cedere all’illusione di una delega all’Egitto di un passaggio così essenziale alla sua sicurezza come il corridoio Filadelfia. La divisione che si è avuta negli ultimi mesi fra il vertice militare e quello politico su questo tema deriva anche dall’esperienza dell’incapacità di barriere elettroniche e delle forze internazionali di garantire la sicurezza del paese, come si è visto purtroppo il 7 ottobre, ma anche prima con Unfil in Libano, con le forze di interposizione dell’Onu fra Israele ed Egitto che si sono squagliate nel 1973, le numerosi operazioni a Gaza lasciate a metà perché lo stato maggiore assicurava che si fosse restaurata la mitica “deterrenza”. Insomma, nonostante l’immensa fiducia che tutto il paese ha nell’impegno e nella dedizione delle forze armate, fra i politici della maggioranza e nei media c’è diffidenza sulla concezione strategica dello stato maggiore.
• Sono davvero mediatori?
Vi è un dato in più da tener presente, Le trattative per il cessate il fuoco non sono condotte direttamente fra Israele e Hamas o il suo burattinaio Iran: fra le due parti si interpone da un terzetto di “mediatori”, gli Usa, il Qatar e l’Egitto. L’amministrazione americana certo non vuole la distruzione di Israele, ma nemmeno la sua vittoria che sconfesserebbe la politica di Obama, Biden e se vincerà di Harris di accordo con l’Iran. Gli Usa oltretutto fanno il possibile per estendere questo modo di vedere all’interno di Israele, sia nell’ambito politico che negli apparati di sicurezza, fino influenzare fortemente la delegazione negoziale. Il Qatar è il più diretto protettore di Hamas, ne ospita i dirigenti e ne gestisce la propaganda con la sua rete Al Jazeera. Ma anche l’Egitto, per i motivi appena visti, non è certo neutrale nei confronti di Israele. Dunque, come accade con le organizzazioni politiche internazionali (per esempio l’ONU) e le corti come quella dell’Aja, Israele deva difendersi un ambiente sostanzialmente ostile. Quando ci si interroga sulla difficoltà del governo israeliano di prendere decisioni e iniziative forti, bisogna pensare che resistere a queste pressioni è un compito difficilissimo, ma essenziale per il futuro del paese.
(Shalom, 1 settembre 2024)
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Perché ci interessiamo di Israele
L'articolo che segue è presente da anni nella sezione di Presentazione del nostro sito. Lo ripresentiamo ora in questa forma sia perché molti vanno subito alle notizie di attualità e rimandano ad altri momenti letture più impegnative, sia perché intendiamo ribadire, anche nei particolari, che l'atteggiamento di fondo con cui ci poniamo nei confronti di Israele non è cambiato col passar del tempo e con lo scorrere degli avvenimenti. Dire questo è tanto più importante in quanto dopo il 7 ottobre le simpatie per Israele, da sempre molto poche, sono drasticamente diminuite nelle statistiche. Per noi non è così, la ripresentazione di questo articolo vuol esserne una conferma.
Il problema di Israele in realtà è stato sempre il problema dell'esistenza di Israele. La ragione del disagio non va cercata in quello che gli ebrei fanno o sono. La gente non li odia perché fanno gli strozzini o hanno il naso adunco: il problema sta nel fatto che ci sono.
Da una parte questa constatazione può tagliare le gambe agli ebrei di buona volontà, quelli che vogliono avere un comportamento giusto e rispettoso verso gli altri, che cercano di evitare atteggiamenti di superbia che possano ferire, che fanno sforzi per favorire il dialogo e lo stare insieme dei diversi. Tutto questo è buono e lodevole in sé, ma non cambia il fatto che le cose buone può farle soltanto qualcuno che c'è. E più un ebreo si muove, anche per venire incontro al suo prossimo non ebreo, più gli fa sentire che c'è. E questo non fa che aumentare l'avversione del non ebreo ostile.
UNA MALATTIA DEI GENTILI
D'altra parte, proprio questa amara constatazione può liberare l'ebreo da un inutile senso di colpa. «Sarò imperfetto, farò molte cose sbagliate, sarò un poco di buono come tanti altri - può pensare - ma se i guai provengono dal fatto che ci sono, allora la colpa non è mia, perché io ho il diritto di esserci, come tutti gli altri».
Sì, su questo punto gli ebrei possono tranquillizzarsi: il "problema Israele" in realtà è una malattia dei gentili.
C'è un particolare della vita di Theodor Herzl che fa capire quanto può essere pesante per un ebreo il sentirsi non accolto dall'ambiente circostante, e quanto può essere grande e sincero il desiderio di fare qualcosa per venire incontro alle aspettative degli altri. Riporto alcune notizie della sua vita tratte da "A History of Israel from the Rise of Zionism to our Time", di Howard M. Sachar.
Herzl non era un religioso, e in gioventù tendeva piuttosto all'assimilazione. Provava anzi un po' di disagio davanti ai comportamenti sconvenienti di certi "cattivi ebrei". Ma il suicidio di un suo caro amico, Heinrich Kana, molto probabilmente dovuto ai disagi legati al suo essere ebreo, lo scosse profondamente. Nella sua attività di giornalista cominciò allora a dedicare sempre più attenzione all'antisemitismo, e nel privato continuò a rimuginare dentro di sé su quello che si poteva fare per eliminare questa piaga sociale. Un'idea che gli venne in mente, e che riportò soltanto nelle sue note, fu «una volontaria e onorevole conversione» di massa degli ebrei al cristianesimo. Immaginava che la cosa sarebbe dovuta avvenire «alla chiara luce del sole, in un pomeriggio di domenica, con una solenne, festosa processione accompagnata dal suono delle campane ... con fierezza e gesti dignitosi». L'autore aggiunge che Herzl lasciò cadere quasi subito quest'idea, ma il semplice fatto che gli sia venuta in mente fa intuire il peso che aveva in cuore, e la sua sincerità nella ricerca di una soluzione che non danneggiasse nessuno.
Resta la domanda del perché. Perché i gentili non sopportano la presenza degli ebrei come persone, come popolo, come nazione? Anche qui le spiegazioni date sono innumerevoli, ma quella biblica resta la più semplice, ed è anche quella giusta: gli ebrei ricordano Qualcuno. Qualcuno a cui non si vuole pensare perché non si vuole che ci sia. O, se proprio deve esserci, che almeno stia zitto. Si sarà capito che è il Dio d'Israele, l'unico vero Dio, che non solo ha creato i cieli e la terra, ma li ha creati con la sua parola, e quindi ha parlato, e continua a parlare. Cosa che a molti non fa piacere.
Si capisce allora perché periodicamente si è sempre fatto avanti qualcuno che ha manifestato la "buona intenzione" di beneficare l'umanità risolvendo una volta per tutte il problema nell'unico modo adeguato: sterminando gli ebrei. E questa non è un'idea che sia venuta in mente per la prima volta a Hitler. L'intenzione risale ai tempi biblici. Sentiamo come prega il salmista:
"O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio! Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto contro di te: le tende di Edom e gl'Ismaeliti; Moab e gli Agareni; Ghelal, Ammon e Amalec; la Filistia con gli abitanti di Tiro; anche l'Assiria s'è aggiunta a loro; presta il suo braccio ai figli di Lot" (Salmo 83:1-8).
Tramano insidie contro il tuo popolo, congiurano, si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto, dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Sembra di assistere a una seduta della Lega Araba. Anche loro, infatti, hanno stretto un patto, che dà tutta l'impressione di essere soltanto contro Israele.
In questo salmo c'è tutta la spiegazione del "problema Israele". Abbiamo detto che la causa profonda dell'ostilità verso gli ebrei sta nel fatto che ci sono, e infatti qui si dice: "distruggiamoli come nazione". Abbiamo detto che non si vuole che gli ebrei ci siano perché non si vuole che la loro presenza tenga vivo un ricordo, e qui si dice: "... e il nome d'Israele non sia più ricordato!". Abbiamo detto che quello che non vuol essere ricordato è il Dio d'Israele, e qui si dice che i popoli stringono un patto contro di te, cioè contro Dio che ha scelto Israele.
Il salmista non prega dicendo: "Aiuto, Signore, siamo in mezzo ai guai, liberaci dai nostri nemici", come avremmo fatto noi che pensiamo sempre e soltanto agli affari nostri. Il salmista dice: "I tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa". Quello che succede a noi è un problema tuo, dice il salmista a Dio, perché i nostri vicini stanno congiurando "contro quelli che tu proteggi", e allora se noi andiamo a fondo, sarà il tuo nome che ci va di mezzo. Diranno che non sei un Dio potente, che non sei stato capace di proteggere il tuo popolo, arriveranno fino a Gerusalemme, al monte che tu hai scelto per tua dimora (Salmo 68:16), e faranno quello che vuol fare Arafat (anacronismo calcolato), «poiché hanno detto: Impossessiamoci delle dimore di Dio» (Salmo 83:12). E nel seguito il salmista non chiede al Signore di aiutare il popolo d'Israele, ma di colpire i nemici di Dio. Cattiveria? No, difesa del nome di Dio e desiderio che i popoli vicini, proprio quelli che vogliono far sparire il nome d'Israele dalla terra (tanto da non volerlo nemmeno scrivere sulle carte geografiche del Medio Oriente), si ravvedano e cerchino il nome del SIGNORE, buttando nella spazzatura tutti gli altri nomi. Infatti conclude:
Copri la loro faccia di vergogna perché cerchino il tuo nome, o SIGNORE! Siano delusi e confusi per sempre, siano svergognati e periscano! E conoscano che tu, il cui nome è il SIGNORE, tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra (Salmo 83:16-18).
Il salmista quindi non va in depressione per l'odio che sente contro Israele, e non si limita neppure a dire a se stesso: "Io ho il diritto di esistere come tutti gli altri", ma in sostanza dice a Dio: "Tu hai il dovere di farmi esistere per tutti gli altri".
Ma è chiaro che chi osa pregare in questo modo deve anche, coerentemente, lui per primo, cercare e onorare il nome del Signore. E questo è il vero problema di Israele.
EBREO, GENTILI... E CRISTIANI
Cominciamo adesso a dire qualcosa su di noi, che ci professiamo cristiani e abbiamo un particolare rapporto con Israele e con gli ebrei.
Diciamo anzitutto che mentre il dualismo ebrei-gentili è giustificato biblicamente ed è chiaro nella sua formulazione, anche se non sempre nella sua esatta delimitazione, la contrapposizione ebrei-cristiani è ambigua e fuorviante. Anzitutto, entrambi i termini sono di radice ebraica. Se invece di usare la derivazione dal greco si usasse quella dall'ebraico, si dovrebbe parlare di "messianici", invece che di "cristiani", e allora il collegamento con l'ebraismo sarebbe più evidente. Ma a parte questo, non ha senso contrapporre ebraismo e cristianesimo come se fossero due religioni che una volta si combattevano ma adesso hanno finalmente imparato la civile arte del dialogo e della coesistenza pacifica. O meglio, il senso è che quando questo avviene, vuol dire che s'incontrano due religioni create dagli uomini, senza reale collegamento con la rivelazione biblica. All'inizio i cristiani erano tutti ebrei. Solo dopo qualche anno ai cristiani ebrei si sono aggiunti anche i gentili, che adesso certamente sono in larga maggioranza. Ma questo non giustifica una delimitazione di campo tra ebrei e cristiani.
Prendiamo infatti i principali documenti dei cristiani: i vangeli. Qualcuno forse pensa che i vangeli siano libri da sacrestia, che parlino di chiese, messe, sacramenti, processioni, statue della madonna, cattedrali. Chi li conosce sa invece che non c'è niente di tutto questo. E molti forse sarebbero sorpresi nel sapere che nei vangeli il termine "chiesa" è usato solo 3 volte in due soli versetti, mentre il termine "Israele" è usato 30 volte in altrettanti versetti. Un rapporto di 1 a 10. Questo dà una prima idea di questi libri che, contrariamente a quello che si può pensare, hanno un carattere interamente ebraico, anche se sono scritti in greco. Una persona che cominciasse a leggere l'Antico Testamento e proseguisse nel Nuovo fermandosi ai vangeli, potrebbe legittimamente chiedersi: "Ma che c'entrano i non ebrei in tutto questo?". Un ebreo nato in Israele e cresciuto con un'educazione ortodossa, che in età adulta si è deciso infine a leggere i vangeli, non solo vi ha ritrovato un paesaggio a lui ben familiare, ma a un certo momento si è chiesto: "Ma come fanno i gentili a capire questi libri?" E la domanda è comprensibile, perché per veder comparire il primo gentile che occupi un posto significativo nella storia della salvezza si deve arrivare al capitolo 10 del libro degli Atti.
Riporto un passo del vangelo che dovrebbe essere noto, ma non è molto sottolineato:
Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: «Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio». Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: «Mandala via, perché ci grida dietro». Ma egli rispose: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele». Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, aiutami!» Gesù rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini». Ma ella disse: «Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le disse: «Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi». E da quel momento sua figlia fu guarita (Matteo 15:22-28).
E' un passo tosto. Ci presenta un Gesù che entra a fatica nelle varie iconografie religiose o laiche. C'è da scommettere che il racconto riesce a scontentare tutti. Scontenta i palestinesi, perché vedono una di loro umiliarsi in modo indecoroso davanti a un ebreo; scontenta gli ebrei, perché si sentono chiamare "pecore perdute" e perché non possono lasciare Gesù ai polacchi e al loro Papa, come avrebbero fatto più che volentieri; scontenta gli antisemiti, perché vedono un Gesù che privilegia in modo inaccettabile gli ebrei; scontenta i promotori dei rapporti umani tra israeliani e palestinesi, perché il dialogo si deve fare su un piano di parità e non in quel modo; scontenta infine tutti quelli dal cuore tenero, perché "così non ci si comporta, ed è pure maleducazione non rispondere, e poi, sì, va bene, la donna alla fine è stata esaudita, ma a prezzo di quale umiliazione! Non si fa così!"
Non è possibile entrare qui nella spiegazione di quel passo del vangelo, ma vale la pena segnalarlo perché è uno di quei passi della Bibbia che si riescono a ingranare in modo legittimo nel contesto solo se si ha una comprensione della rivelazione biblica che tiene conto in modo corretto del posto che occupa Israele nella storia della salvezza.
C'è anche un'altra donna non ebrea che Gesù ha trattato in modo non proprio conforme a certi canoni di comportamento usualmente accettati: la donna samaritana. Gesù la incontra e le chiede un favore. Lei si sorprende, prima in modo positivo, perché Gesù si degna di rivolgerle la parola, poi in modo negativo, perché certe parole di Gesù sulla sua vita privata avrebbe volentieri fatto a meno di sentirle. E alla fine, dopo aver capito che Gesù era un profeta, gli pone un problema teologico:
«I nostri padri hanno adorato su questo monte, ma voi dite che a Gerusalemme è il luogo dove bisogna adorare». Gesù le disse: «Donna, credimi; l'ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma l'ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l'adorano, bisogna che l'adorino in spirito e verità». La donna gli disse: «Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa». Gesù le disse: «Sono io, io che ti parlo!» (Giovanni 4:20-26).
C'è un altro fondamentale errore, molto comune, che deve essere corretto. La Bibbia dei cristiani si divide in Antico e Nuovo Testamento, e, com'è noto, la parola testamento significa patto. Si parla dunque di due patti che Dio ha fatto con gli uomini. Il lettore provi a fare un test con se stesso, e eventualmente anche con altri. Che patti sono? Dove si parla nella Bibbia di questi due patti? Con chi ha fatto Dio i due patti? Forse soltanto a quest'ultima domanda molti si sentirebbero sicuri di poter dare la risposta giusta: l'antico patto è stato fatto con gli ebrei, e non vale più; quello nuovo è stato fatto con i cristiani, e vale ancora. La risposta è sbagliata. Da Abraamo in poi, tutti i patti di cui parla la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) sono stati conclusi sempre e soltanto con il popolo d'Israele. E di tutti questi patti, soltanto uno è da considerarsi superato, ma non per scadenza dei termini o per progresso culturale, come potrebbero pensare i laici illuminati, ma semplicemente perché è stato violato da una delle due parti: il patto con Mosè. Tutti gli altri patti, quelli con Abraamo, con Davide e il nuovo patto, sono sempre in vigore perché sono patti incondizionati, che Dio si è impegnato a mantenere soltanto per essere fedele al suo nome. Non possono essere violati, e quindi sono sempre validi.
Nell'ultima cena Gesù ha parlato di patto quando ha detto ai suoi dodici discepoli ebrei: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Marco 14:24). Questa frase non è una formula magica che fa cambiare il vino in sangue, anche perché in quel momento il sangue di Gesù stava ancora scorrendo nelle sue vene; questo è un linguaggio tipicamente ebraico, come quello che usò Mosè quando suggellò il patto con Dio al Sinai:
Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo e disse:
«Ecco il sangue del patto che il SIGNORE ha fatto con voi sul fondamento di tutte queste parole»(Esodo 24:8).
Nella Bibbia ogni patto importante doveva essere suggellato con il sangue, e quindi questo è accaduto anche per il nuovo patto. Dice infatti l'evangelista Luca:
«Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi» (Luca 22:20).
Il sangue del patto, dunque, è quello di Gesù, ma il contraente umano del nuovo patto, chi è? La risposta si trova nell'Antico Testamento, prima che nel Nuovo:
«Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d'Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore», dice il SIGNORE; «ma questo è il patto che farò con la casa d'Israele, dopo quei giorni», dice il SIGNORE: «io metterò la mia legge nell'intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo. Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello, dicendo: "Conoscete il SIGNORE!" poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande», dice il SIGNORE. «Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò del loro peccato» (Geremia 31:31-34).
Geremia scrive mentre sta per avvenire il tragico dramma della presa e della distruzione di Gerusalemme, cioè in un momento in cui si poteva pensare che la storia d'Israele sarebbe finita lì. Parla del patto che essi violarono, riferendosi evidentemente a quello del Sinai, e annuncia un nuovo patto. Ed è questo il patto di cui parla Gesù nell'ultima cena, come viene anche attestato dalla citazione del passo di Geremia che si fa in Ebrei 8:8-13. Ma si noti che questo nuovo patto è stato fatto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda, non con i cristiani, non con la chiesa. Fino a quel momento noi gentili non eravamo stati neppure interpellati, non sapevamo niente, eravamo tutti ignoranti, come Pilato. Come lui non avremmo potuto capire chi era Gesù, e come lui l'avremmo condannato a morte.
L'apostolo Paolo, che qualcuno considera un traditore del popolo ebraico, sottolinea invece che agli israeliti "appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse" (Romani 9:4). Mentre ai gentili dice:
Ricordatevi che un tempo voi, stranieri di nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:11-12).
Noi gentili eravamo dunque senza speranza e senza Dio nel mondo perché eravamo senza Cristo, cioè senza Messia. Ed è a questo punto che viene fuori la caratteristica inattesa del nuovo patto che Dio ha stabilito con la casa d'Israele. Per una precisa volontà rivelata da Dio agli apostoli, questo patto apre la possibilità di estendere anche ai non ebrei la grazia spirituale che è compresa in questo patto: il perdono dei peccati e il dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, come Dio ha promesso alla casa di Giuda.
Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. Con la sua venuta ha annunziato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito. Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l'edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore. In lui voi pure entrate a far parte dell'edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito (Efesini 2:13-22).
In questo modo abbiamo toccato il punto fondamentale della fede cristiana che avvicina ebrei e gentili, perché inserisce questi ultimi (i lontani) nell'ambito della benedizione promessa ai primi (i vicini): la persona di Gesù, che però nel presente resta ancora una pietra di scandalo e un elemento di divisione.
«E voi, chi dite che io sia?» chiese a un certo momento Gesù ai suoi discepoli (Matteo 16:15). La risposta fu data, ed era quella giusta, ma solo un ebreo poteva darla: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16:16). Solo chi risponde nello stesso modo a questa domanda, entra a far parte di quell'unico corpo di cui parla l'apostolo Paolo.
Ma se il Messia è già venuto, che cosa si deve fare di tutte le profezie messianiche che parlano di un regno di Israele trionfante e vittorioso? Un giorno tutte inevitabilmente si compiranno, perché il Messia, che una prima volta è venuto come servo sofferente dell'Eterno per espiare i peccati del popolo d'Israele e di tutti gli uomini, un giorno ritornerà come il Leone della tribù di Giuda per regnare sul mondo da Sion. I cristiani evangelici letteralisti non "spiritualizzano" l'Antico Testamento, facendone un'allegoria della chiesa. Quando la Scrittura parla di Israele, intende sempre e soltanto Israele, mai la chiesa, anche se spesso si possono trarre utili analogie e applicazioni pratiche. Per questo i cristiani fedeli alla Bibbia aspettano che le sue parole riguardanti il futuro di Israele si compiano, predicando il vangelo a tutti gli uomini e cercando di occupare il giusto posto nel tempo dell'attesa.
MA ALLORA VOI VOLETE SOLTANTO CONVERTIRCI!
L'obiezione che i cristiani s'interessino di Israele soltanto per convertire gli ebrei dev'essere attentamente esaminata. E' assolutamente vero che tutti i cristiani desiderano, o dovrebbero desiderare, che ogni persona, ebreo, musulmano, ateo, cristiano nominale o altro ancora, si ravveda, creda nel Signore Gesù Cristo e sia salvato, perché sta scritto che
In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati (Atti 4:12).
E' chiaro dunque che un cristiano fedele non si esime mai dall'annunciare il vangelo, tanto meno a un ebreo. Anzi, l'apostolo Paolo dice che il vangelo dev'essere annunciato prima di tutto agli ebrei, poi agli altri.
Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (Romani 1:16).
Chiedere a un vero cristiano di non parlargli mai di Gesù equivale a dirgli di stare alla larga. E se richiesto, naturalmente questo avverrà.
L'annuncio del vangelo è un compito che il cristiano deve e vuole svolgere verso ogni essere umano, senza distinzione, mentre l'interesse per Israele è dettato dalla particolare, unica posizione che questo popolo occupa nella storia della salvezza.
TRE MOTIVI
Ci sono almeno tre motivi per cui i cristiani s'interessano di Israele e degli ebrei.
1. Manifestare amore. Gli ebrei avvertono che verso di loro c'è un odio gratuito, cioè un'ostilità che non può essere interamente spiegata da nessuna motivazione razionalmente giustificabile: sono odiati perché ci sono. E anche quando l'ostilità non si concretizza in atti di violenza, la percezione di questi sentimenti di avversione li fa soffrire. Abbiamo detto che questo non dipende dagli ebrei, ma dal rapporto degli uomini con Dio. L'astio contro gli ebrei non è che l'espressione dell'umana ribellione contro Dio, è quindi manifestazione di peccato. I credenti in Gesù sanno di aver ricevuto il perdono dei peccati attraverso il Messia d'Israele, vivono in comunione con Dio e di conseguenza diventano partecipi del suo amore verso il suo popolo. L'amore dei veri cristiani verso Israele è quindi un amore gratuito, cioè un sentimento che non può essere spiegato da nessuna motivazione o interesse razionalmente giustificabili: il popolo d'Israele viene amato soltanto perché c'è, perché è un'espressione della volontà di quel Dio con cui i cristiani vivono in comunione d'amore. Sarebbe una grave perdita per gli ebrei se fossero capaci di percepire soltanto l'odio gratuito contro di loro, senza saper riconoscere e avvertire anche l'amore gratuito di cui sono oggetto. Se è vero che non c'è popolo sulla terra che sia stato tanto odiato, è anche vero che non ce n'è un altro che sia stato tanto amato. E anche se in questo periodo della storia del mondo l'odio è molto più appariscente dell'amore, non è vero che sia più reale.
2. Mettersi dalla parte della verità e della giustizia. Le ingiustizie nel mondo sono infinite, e altrettante sono le menzogne, ma quelle che si commettono contro Israele sono uniche per grandezza, estensione e sfacciataggine. Il credente in Gesù Cristo deve stare sempre dalla parte della verità e della giustizia, quindi è suo compito prendere la parola per difendere chi viene ingiustamente colpito, quando ne ha l'occasione e la possibilità. Questo dev'essere fatto verso tutti, ma si potrebbe dire, con l'apostolo Paolo, prima al Giudeo e poi al Greco. Chi, pur essendo adeguatamente informato, non è capace di riconoscere gli enormi soprusi e le spudorate calunnie che deve subire Israele, ha una coscienza morale assopita e un'intelligenza critica ottusa. E queste forme di rilassamento spirituale un vero cristiano non se le deve permettere.
3. Essere vigilanti. Quello che succede agli ebrei, prima o poi ha delle conseguenze sul resto del mondo. Questo è stato ormai accertato, e vale in primo luogo per il corpo dei veri credenti in Gesù Cristo che il Nuovo Testamento chiama "chiesa". Per poter colpire il popolo d'Israele, l'Avversario spirituale di Dio cerca di confondere e fuorviare prima di tutto quelli che potrebbero essergli d'aiuto, e questi sono proprio gli autentici seguaci di Gesù. In tempi difficili per Israele, i credenti vengono messi sotto pressione in vari modi, soprattutto attraverso false informazioni e false dottrine. Questo è successo in Germania ai tempi del nazismo: le persecuzioni contro i cristiani sono state poche perché pochi sono stati i cristiani che hanno capito quello che stava veramente succedendo, e molti sono stati sedotti da false dottrine che si accordavano con la realtà diabolica che si stava svolgendo sotto i loro occhi. Non sono stati soltanto i "Deutsche Christen", con il loro pervertito "cristianesimo positivo" nazionalsocialista, a profanare il nome di Cristo: molte altre chiese e movimenti cristiani, anche evangelici, hanno subito l'influsso dell'ideologia del tempo, e se non sempre hanno adottato dottrine perverse dal punto di vista biblico, certamente si sono lasciati trasportare in un'annebbiata atmosfera di torpore che non ha permesso loro di rendersi conto della realtà in cui vivevano. E questo non deve più accadere. O per lo meno, per quel che ci riguarda non vogliamo che accada più. Anche per questo riteniamo nostro dovere interessarci di Israele e, per quanto possibile, aiutare altri a capire quello che succede, in modo da saper prendere al momento opportuno la giusta posizione che le circostanze richiedono.
UN'ULTIMA OSSERVAZIONE
Secondo la nostra comprensione della Bibbia, i veri cristiani non devono cercare di costituirsi come forza politica organizzata al fine di esercitare un potere sul resto della società. Devono vivere come semplici cittadini nella società in cui si trovano, assumendosi di volta in volta le responsabilità sociali che a loro competono, ma come comunità devono essere presenti solo come testimoni di Gesù Cristo, e in quanto tali assumere come arma soltanto la parola: la Parola di Dio innanzi tutto, e la parola umana che l'accompagna, ma senza fare ricorso ai consueti mezzi di lotta politica organizzata.
Certo, questa è una debolezza, ma una debolezza voluta, perché sorretta dalla parola di Dio giunta fino a noi anche attraverso un noto ebreo, nato a Tarso di Cilicia, allevato a Gerusalemme, educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri (Atti 22:3):
I Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i gentili pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1 Corinzi 1:22-25).
(Notizie su Israele, 1 settembre 2024
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