Notizie su Israele 85 - 12 aprile 2002


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"Ecco, i giorni vengono", dice il SIGNORE, "in cui io manderò ad effetto la buona parola che ho pronunziata riguardo alla casa d'Israele e riguardo alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, ed esso eserciterà il diritto e la giustizia nel paese. In quei giorni, Giuda sarà salvato e Gerusalemme abiterà al sicuro; questo è il nome con cui sarà chiamata: SIGNORE nostra giustizia".

(Geremia 33:14-16)


IL PRESIDENTE DELLO STATO DI ISRAELE SCRIVE AL PAPA


"Intollerabile l'irruzione di duecento palestinesi armati in un luogo santo cristiano"
   
    Il presidente dello Stato d'Israele Moshe Katsav ha mandato una lettera a papa Giovanni Paolo II il 9 aprile 2002. Eccone il testo:
  
Moshe Katsav

"Sono consapevole della vostra personale preoccupazione per i recenti avvenimenti in Terra Santa.
    La nostra viva speranza era che i palestinesi rispettassero l'impegno, da loro firmato, di impedire il terrorismo contro il nostro paese e la nostra gente. Purtroppo, invece, il governo israeliano si e' trovato costretto a difendersi da una massiccia ondata di violenza terroristica, culminata nel sanguinoso attentato della vigilia della pasqua ebraica; una violenza diretta dai piu' alti livelli dell'Autorita' Palestinese e volta a distruggere lo Stato di Israele.
    Nel corso di questa campagna le nostre forze adottano ogni misura ragionevole per evitare danni ai civili e alle istituzioni. D'altra parte, i terroristi palestinesi sfruttano regolarmente e deprecabilmente i civili innocenti per compiere le loro azioni. L'intollerabile irruzione di circa duecento palestinesi armati nella Chiesa della Nativita' e' motivo di grande preoccupazione per voi come per noi.
    Lo Stato di Israele tiene nella massima considerazione tutte le comunita' religiose entro i suoi confini. Percio', nella situazione attuale, tutti i membri delle Forze di Difesa israeliane hanno ricevuto l'ordine di non sparare su proprieta' della chiesa e di non violarne la santita'. Da parte loro i palestinesi hanno invece ripetutamente profanato la santita' delle chiese sotto la loro giurisdizione, trasformando i luoghi santi in basi per le loro azioni militari.
    Nel caso particolare della Chiesa della Nativita', il governo israeliano ha scrupolosamente garantito che essa non diventasse un centro di scontri. Sebbene le operazioni vengano condotte nelle sue vicinanze, la Chiesa stessa non e' stata toccata dalle Forze di Difesa israeliane benche' sia accertata la presenza al suo interno di terroristi armati appartenenti a Hamas, Jihad Islamica e Tanzim.
    Il nostro obiettivo rimane quello di far uscire illesi questi terroristi armati dalla Chiesa. A tal fine le nostre forze evitano di prendere iniziative che potrebbero danneggiare la Chiesa o i religiosi. Siccome dare un salvacondotto ai pericolosi terroristi attualmente asserragliati nella Chiesa costituirebbe un grave rischio per la sicurezza pubblica, non possiamo fare altro che mantenere la nostra presenza nelle aree immediatamente circostanti. Affermiamo fin d'ora che le nostre forze ripiegheranno una volta che i terroristi si saranno consegnati.
    Purtroppo, date le circostanze, con tutto il rispetto e la considerazione che abbiamo per i luoghi santi cristiani, non possiamo fare altro che impedire a terroristi palestinesi in armi, che sono responsabili dell'assassinio di ebrei innocenti e che si sono rifugiati in un luogo santo cristiano, di fuggire e continuare a compiere i loro sanguinosi attentati.

(Comunicato dall'Ufficio del portavoce del Presidente d'Israele, 9.04.02)
    


MILLENARIO ANTISEMITISMO AGGIORNATO E CONFERMATO


    Sul Corriere della Sera del 3 aprile 2002 scrive Vittorio Messori:

    "Queste pietre di Giudea che già videro la 'strage degli innocenti' sono ora insanguinate dal confronto feroce tra i due popoli semiti, l'ebraico e l'arabo. Entrambi confidano nella legge del taglione ('occhio per occhioˇ') che può sembrare efficace nel suo realismo brutale ed è invece terribilmente ingannevole. Proprio qui nacque il Maestro che fu mandato a morte perché, in un mondo devastato dall'odio, annunciava uno scandalo: il perdono, l'amore per i nemici, il porgere l'altra guancia, il disarmare l'avversario mostrandogli affetto invece che ostilità".

    Questa affermazione è doppiamente falsa. Anzitutto la formula 'occhio per occhio' non è mai stata interpretata dai Maestri del popolo ebraico nel modo in cui viene letta dai cristiani, appositamente per costruire la loro teoria del popolo ebraico feroce e vendicativo. Mai, questa formula, nella storia ebraica è stata applicata come ritorsione corporale, ma piuttosto ha ispirato il principio della proporzionalità del risarcimento economico del danno arrecato (cfr. Talmud Babilonese, tratt. Baba Kama, p. 84 a).
    È inaccettabile che, a duemila anni dall'accaparramento cristiano - per usare un termine del teologo cattolico H. Kung - delle Scritture ebraiche, si ignori o si faccia finta di ignorare la lettura ebraica di passi chiave, che vengono ancora oggi usati in funzione antiebraica.
    È ancora di più moralmente abbietto compiere la solita operazione di proiezione da un testo travisato su una realtà storica inesistente: mai, in tutta la storia ebraica, la pretesa "legge del taglione" è stata applicata secondo questa lettura cristiana.
    Dice Messori: "c'è, nel Vangelo, un messaggio che non sarà accolto da alcuno dei contendenti [i due popoli semiti], ma che potrebbe rivelarsi il solo risolutivo".
    Viene da chiedersi, piuttosto, in quale occasione storica concreta i seguaci del Vangelo abbiano accolto lo "scandalo del perdono", l'amore per i nemici, il porgere l'altra guancia. Forse durante l'Inquisizione oppure durante le Crociate, quando furono massacrate in Europa e in Terra Santa (vedi il massacro di Gerusalemme del luglio 1099) intere comunità ebraiche, per vendicare il presunto delitto di deicidio? Soltanto nel 1965 si è cercato di porre fine alla più lunga vendetta della storia umana.
    Purtroppo, come scrive il teologo cattolico H. Kung, "la Chiesa ha predicato amore e seminato l'odio più mortifero, ha annunciato la vita e diffuso la morte più sanguinosa" (cfr. La chiesa, tr.it. Brescia 1969, p. 153).
    Nonostante i recenti tentativi da parte della Chiesa cattolica di abbandonare il proprio millenario antisemitismo, il linguaggio utilizzato da illustri esponenti cattolici per descrivere la situazione in Medio Oriente testimonia il permanere dell'antica visione cristiana dei "perfidi giudei". Per quale motivo, di un conflitto tragico e di natura prevalentemente politica si parla in termini che ricalcano i più tradizionali pregiudizi cristiani contro gli ebrei?
    Ultimamente si è scritto di "legge del taglione", di "vendetta" e di "sterminio nella terra del Risorto": tutti concetti inadeguati a descrivere quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente.
    La scoraggiante realtà è che ancora oggi la Chiesa mantiene lo stesso approccio che ha avuto da sempre riguardo al ritorno del popolo ebraico nella sua terra. Agli albori del Sionismo scriveva la Civiltà Cattolica :

    "Secondo le sacre pagine, il popolo ebraico deve sempre sussistere disperso e vagabondo fra gli altri popoli, affinché non solo con deposito delle scritture, ch'ei venera e tiene in riserbo, ma ancora col suo stato medesimo renda testimonianza della fede in Cristo. Quanto poi al ricostruire una Gerusalemme che divenga centro di un risorto Regno israelitico, va osservato come sia ciò contrario alla predizione del medesimo Cristo" (1 maggio 1897).

    Questa posizione riflette la teologia dei Padri della Chiesa e la dottrina di Agostino del "popolo testimone e reietto". Il vescovo di Ippona scriveva già nel IV secolo: "dopo la passione di Cristo, [gli ebrei] furono sradicati dalla loro terra poiché non avevano voluto riconoscere Cristo re; da allora non ebbero più fissa dimora né stabilità politica" (Enarr. In Psalmos, 56, 9).
    Mi chiedo come la Chiesa possa pretendere di svolgere un ruolo di mediazione nel conflitto mediorientale, finché il suo linguaggio manifesterà il permanere degli antichi pregiudizi.

Marco Ottolenghi

(Federazione Associazioni Italia Israele, 11.04.02)



LA PARTE PALESTINESE IGNORA LE RICHIESTE DI BUSH


Da un Comunicato dell'Ambasciata d'Israele a Roma


    "Israele e America condividono gli stessi obiettivi. Israele non ha alcun interesse a rimanere nelle aree sotto controllo dell'Autorita' Palestinese e vuole andarsene il piu' presto possibile. Tuttavia, come ha detto il consigliere americano per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice, un ritiro di questo tipo non puo' essere fatto in modo frettoloso e confuso". Lo afferma un comunicato dell'Ambasciata d'Israele a Roma volto a fare "il punto della situazione" alla data di lunedi' 8 aprile.
    "La maggior parte del discorso del presidente Bush del 4 aprile - prosegue il comunicato - era rivolta alla parte palestinese: il presidente Bush ha insistito che i palestinesi fermino il terrorismo e l'istigazione, e ha chiesto che Arafat parli in questo senso alla sua gente. Naturalmente Arafat non ha parlato alla sua gente, anche se volendo poteva farlo anche subito. Anzi, non si vede il minimo segnale che indichi che i palestinesi abbiano intenzione di accogliere le richieste del presidente Bush di fermare il terrorismo e l'istigazione. Israele, al contrario, ha accettato entrambe le parti del discorso del presidente americano, e lo ha detto molto chiaramente".
    L'Ambasciata ricorda inoltre che "la dirigenza dello Stato di Israele ha dichiarato in diverse occasioni che e' pronta ad accettare la creazione di uno stato palestinese: uno stato palestinese che conviva pacificamente a fianco di Israele, e non al posto di Israele. La richiesta intransigente da parte palestinese di attuare il cosiddetto 'diritto al ritorno' dei profughi palestinesi altererebbe la natura stessa e il carattere dello stato di Israele in quanto stato ebraico. In pratica cio' significherebbe la creazione di due stati palestinesi, una cosa evidentemente inaccettabile dal punto di vista di Israele".
    Intanto "continua l'escalation al confine settentrionale d'Israele. Siria e Libano sono responsabili di questa escalation di attacchi terroristici, perpetrati dal territorio libanese sotto il patrocinio della Siria. Nei giorni scorsi Israele ha chiesto invano sia alla Siria che al Libano di impedire gli attacchi. Continuiamo a sperare che la cosa si possa risolvere con mezzi diplomatici - conclude il comunicato - ma Israele non potra' frenare all'infinito la propria reazione di autodifesa".

(Comunicato Ambasciata d'Israele a Roma, 8.04.02)
    


CHI E' CHE RIFIUTA LA CONVIVENZA?



«Il rifiuto della convivenza è arabo e palestinese»

di Piero Ostellino

«Dietro la guerra c' è il no alla spartizione con gli ebrei» «Gli ebrei di Palestina si batterono a fianco degli inglesi, gli arabi con Hitler». «Nel 1880 a Gerusalemme la maggioranza della popolazione era ebraica»

Per l' articolo di fondo di giovedì 4 aprile («Il velo di sangue delle ideologie») e «Il dubbio» di sabato 6, («Quei "pacifisti" poco pacifici») ho ricevuto circa seicento email, di gran lunga più di quante non ne abbia mai ricevute per un articolo, il 90 per cento di consenso, il restante 10 di civile dissenso o di insulti. Il motivo conduttore di questi ultimi si è concretato nella seguente domanda: che cosa farei io se mi trovassi nei panni dei palestinesi. Rispondo così: se ne sapessi quanto ne sanno loro delle condizioni storiche e politiche che hanno portato alla nascita di Israele e alla loro permanenza nei campi profughi mi comporterei probabilmente come loro; se ne sapessi di più, allora, ragionerei e mi comporterei in modo del tutto opposto. Lo dico per cercare di spiegare il loro estremismo, non per assolverlo, come ad esempio fanno Andreotti e Dini; per ricordare, cioè, una volta per tutte che essi non sono vittime di Israele, ma dei loro dirigenti e dei Paesi arabi; per denunciare quanto sia inqualificabile, moralmente, culturalmente e politicamente, il comportamento di chi marcia «per la pace», innalzando le bandiere dell' antisemitismo.
    Primo: chi, da noi, giustifica l' estremismo palestinese ricordando che migliaia di palestinesi hanno abbandonato le proprie terre a seguito della nascita di Israele sembra non capire che con ciò delegittima Israele, finisce col rappresentare la sua nascita come un sopruso e con avvalorare, infine, la tesi che Israele dovrebbe essere distrutto per consentire ai profughi palestinesi di tornare da dove sono partiti. Se lo capisce, se ne assuma tutte le responsabilità morali e politiche. Chi, a sua volta, sostiene il diritto di Israele alla propria esistenza e continua contemporaneamente a considerare la diaspora palestinese un' ingiustizia, non sembra capire che la sua è una contraddizione logica, politica e storica che allarma Israele e contribuisce solo a alimentare il pericoloso e improponibile revanscismo palestinese. Se lo capisce, la smetta di dare un colpo al cerchio e l' altro alla botte. Forse, vale la pena di ricordare che le statistiche demografiche del 1880 dicono che a Gerusalemme la maggioranza della popolazione era ebraica; che già fra il 1882 e il 1914 erano arrivati in Palestina oltre 60 mila ebrei dalla sola Russia per sfuggire alle persecuzioni zariste e che nella Seconda guerra mondiale gli ebrei di Palestina avevano costituito una brigata, a fianco degli inglesi, per combattere il nazismo, mentre gli arabi erano dalla parte di Hitler. Forse, vale la pena di ricordare che Israele è il solo Paese al mondo cui sia stato chiesto di ritirarsi da territori conquistati a seguito di una guerra. Mi piacerebbe sapere perché, accettata come buona la tesi che l'Unione Sovietica non si è ritirata dai territori (di mezza Europa) conquistati dall' Armata Rossa nella Seconda guerra mondiale per ragioni di sicurezza, non si riconoscano a Israele, che ha subito tutta una serie di guerre di aggressione, le stesse ragioni. In buona sostanza, i palestinesi, che non hanno mai avuto un loro Stato, sono in qualche modo equiparabili alle popolazioni della Prussia orientale (Pomerania), ora «occupata» dalla Polonia cui nessuno chiede di restituirla. Le popolazioni della Pomerania, peraltro, a differenza dei palestinesi, abitavano in uno Stato riconosciuto internazionalmente, mentre i palestinesi sono passati da un possesso ottomano a un mandato coloniale britannico e da una occupazione (giordana ) a un' altra (israeliana). Forse, a proposito dell' esodo palestinese, vale la pena di ricordare alcune affermazioni di fonti non sospette. «Venne il 15 maggio (...) quello stesso giorno il muftì di Gerusalemme fece appello agli arabi di Palestina affinché abbandonassero il Paese, in quanto gli eserciti arabi stavano per entrare al loro posto» (Akhbar El-Yom, il Cairo, 12 ottobre 1963). «Se esistono questi profughi è conseguenza diretta dell'azione degli Stati arabi contro la spartizione e contro lo Stato ebraico» (Emile Ghorizi, segretario del Supremo comitato arabo al Beiruth Telegraph del 6 settembre 1948). «Ogni sforzo è compiuto dagli ebrei per convincere la popolazione araba a rimanere e a condurre insieme a loro una vita normale» (da un rapporto della polizia britannica del 26 aprile 1948). Ciò non esclude, naturalmente, che ci siano stati episodi di violenza, peraltro condannati dai dirigenti israeliani, che hanno provveduto inoltre a smantellare tutte le organizzazioni armate ebraiche clandestine o che Israele non si debba ritirare dai territori occupati nel 1967 per ragioni di opportunità politica e persino morale: facilitare una soluzione pacifica del conflitto e non ostacolare la nascita di uno Stato palestinese.
    Secondo: che a volere la distruzione di Israele come premessa del ritorno sui territori dai quali sono partiti siano i palestinesi della diaspora, peraltro ormai pochi dopo oltre cinquant' anni, è emotivamente comprensibile, anche se moralmente e politicamente inaccettabile. Che a volere la distruzione di Israele lo siano le migliaia di giovani nati e cresciuti nei territori dove sarebbe dovuto nascere lo Stato palestinese è meno comprensibile e ancor meno accettabile. Le loro convinzioni non sono la conseguenza della percezione di un sopruso subito, come è per i palestinesi della diaspora, ma dell' indottrinamento cui sono stati sottoposti dalla propaganda araba e dei propri dirigenti, entrambi responsabili di averli tenuti nei campi di «raccolta» (sempre meno, generazionalmente, «campi profughi»), invece che costruire lo Stato palestinese dopo la risoluzione dell' Onu che sanzionava la spartizione della Palestina. Forse, vale la pena ricordare che i kamikaze, prima di andare a farsi saltare in aria, recitano in video che gli ebrei sono «figli di maiali e di scimmie». Dice la cantante israeliana Noa: «Mi chiedo se, similmente alla società israeliana, anche tra i palestinesi esista una corrente di pensiero che abbia il coraggio e la volontà di esprimere liberamente opinioni che non siano quelle del fondamentalismo religioso e dell' odio». E' inutile aggiungere che, quella di Noa, è una domanda retorica che ha una sola risposta: no.
    Terzo: la politica è l' arte del possibile. La spartizione della Palestina voluta dall' Onu con la risoluzione 181 del 1947 come preludio alla creazione di uno Stato palestinese a fianco di quello israeliano era il «possibile» che tendeva a conciliare l' aspirazione degli ebrei a un proprio focolare e il diritto dei palestinesi ad averne uno proprio. Gli Stati arabi, con la prima guerra a Israele, nel 1948, hanno inseguito l' «impossibile» perseguendone la distruzione per ragioni «imperialistiche» loro proprie che spiegano la mancata nascita dello Stato palestinese: l' annessione della Cisgiordania da parte della Giordania e della striscia di Gaza da parte dell' Egitto, cioè la confisca del territorio sul quale lo Stato palestinese sarebbe dovuto nascere. Il «settembre nero» giordano, 1970, nel corso del quale l' esercito di re Hussein fece strage di palestinesi e del quale, da noi, ci si dimentica volentieri, è stato l' episodio più clamoroso, ma non il solo, del conflitto latente fra interessi arabi e interessi palestinesi.

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    Quarto: sulla scia del panarabismo degli Stati arabi, anche ladirigenza palestinese ha inseguito l' «impossibile», respingendo le proposte di pace israeliane, o non dando loro, di fatto, attuazione dopo averle discusse. Dai «tre no» di Arafat a Karthoum, dopo la guerra del 1967, quando Israele offrì il ritiro dai territori occupati in cambio della pace, agli accordi di Oslo, 1993, fino ai giorni nostri. Così, l' occupazione israeliana dei territori sui quali sarebbe dovuto nascere lo Stato palestine se è diventata l'alibi sia dei Paesi arabi sia di Arafat per giustificare i propri errori davanti al popolo palestinese e il laboratorio all' interno del quale è nato e si è sviluppato il terrorismo. Forse, vale la pena di ricordare che fra la stretta di mano di Rabin e Arafat del 13 settembre 1993 alla presenza di Clinton e l' assassinio di Rabin (4 novembre 1995), c' è stata tutta una serie di attentati. Dopo di che la destra è scesa in piazza al grido di «Rabin traditore» e un estremista israeliano lo ha ucciso. Forse, vale la pena di ricordare che, nel solo mese di marzo di quest' anno, sono rimaste uccise dai kamikaze 150 persone e ferite mille; in proporzione alla popolazione ebraica di Israele (4,5 milioni), come se in Italia (57 mi lioni) i morti fossero stati 1900 e i feriti oltre 12.600. Dopo di che è pur vero che a eleggere Ariel Sharon sono stati gli israeliani, ma sarebbe difficile non aggiungere che a volerlo alla testa delle truppe di Israele che sono a Ramallah e a Betl emme ci siano stati anche Arafat, Hamas e la Jihad.
    Quinto: l' occupazione dei territori con la guerra del 1967 è diventata per Israele, dopo aver dovuto affrontare una serie di guerre di aggressione che ne hanno messo in pericolo l' esistenza, una opzione militare e una carta negoziale. Il che spiega i suoi rifiuti di ottemperare alle ripetute risoluzioni dell' Onu che le impongono il ritiro. Quel che è peggio, il ripetuto rifiuto arabo-palestinese di pervenire concretamente a una conciliazione fra i «due diritti», quello di Israele alla propria esistenza e alla propria sicurezza, quello dei palestinesi a un proprio Stato, e l' acuirsi del terrorismo, inducono ora la maggioranza degli israeliani a temere che uno Stato palestinese ai propri confini rappresenterebbe un pericolo costante per il proprio Paese. Il che spiega l' opposizione della destra oltranzista israeliana alla nascita stessa di uno Stato palestinese e le difficoltà che incontrano laburisti e moderati in Israele a continuare a sostenere la formula «territori in cambio di pace e sicurezza».
    Sesto: è in questo contesto storico e politico che si è sviluppata la politica degli insediamenti (nei territori occupati) ed è nata l' ipotesi del «grande Israele». Personalmente , considero sbagliata la politica degli insediamenti, perché alimenta il revanscismo palestinese, rende più problematica la restituzione dei territori e più difficile una soluzione di pace; ritengo, inoltre, illusoria e utopistica l' ipotesi del «grande Israele». Illusoria, perché contraria alla risoluzione 181 dell' Onu sulla spartizione e perché introduce pericolosamente un fattore di ordine religioso nelle già difficili relazioni con i palestinesi. Utopistica, perché postula la possibilità di una pacifica convivenza con la popolazione palestinese (maggioritaria) che si era rivelata già difficile negli anni precedenti la nascita di Israele. Per le stesse, ma simmetriche, ragioni, è illusoria e utopistica la richiesta di Arafat di un rientro in Israele dei profughi palestinesi che ne avevano abbandonato il territorio all' atto della sua nascita. Illusoria e utopistica perché postula lo snaturamento della logica politica della spartizione e lo snaturamento della logica demografica di I sraele (che rischierebbe di non essere più uno Stato a maggioranza ebraica). Gli inconfutabili fatti qui esposti, e le considerazioni che ne derivano, sono altrettante tessere di quel complesso mosaico che è il conflitto israelo-palestinese. Essi potrebbero essere integrati, se non addirittura smentiti, da altri fatti e da altre considerazioni ugualmente inconfutabili, perché il mosaico mediorientale è costituito da un numero infinito di tessere, non di rado in contraddizione fra loro. Senza che l' intero mosaico ne risulti sostanzialmente modificato. E il mosaico dice che Israele è percepito dal mondo circostante come un corpo estraneo, per ragioni politiche (è il solo Paese democratico dell'area), strategiche (è l' avanguardia dell' Occidente), religiose (l' antisemitismo islamico).
    Il «rifiuto» della convivenza non è israeliano, ma arabo e palestinese. Questa è la sola verità, fra tante possibili verità parziali.

(Corriere della sera, 9 aprile 2002)



IL PIROMANE E I SUOI AMMIRATORI


La Guerra di Arafat

di Fouad Ajami

    I partecipanti al vertice arabo di Beirut stavano per recarsi a cena, quando - si è poi saputo - un giovane proveniente dalla città cisgiordana di Tulkarm ha colpito a Natania, provocando l'orrendo "massacro di Pesach". In una terra inzuppata di sangue, si tratta di un'azione il cui ricordo non sarà facilmente cancellato dagli anni.
    L'uomo di Tulkarm ha colpito nel cuore di Israele vero e proprio, all'interno della "Linea verde", lontano dagli insediamenti israeliani della Cisgiordania e dai mancati confini di Gerusalemme. Ma in questa guerra, dove non esiste un fronte chiaro, tutto il paese è territorio conteso: sono gli "usurpatori" sionisti, quelli che il terrorista di Tulkarm è venuto ad ammazzare. Egli ha scelto il"martirio" e l'ethos del suo mondo, la cultura del suo movimento gli hanno dato il mandato esecutivo per la più terribile delle azioni.

La Cultura dell'istigazione

L'uomo di Tulkarm non è piovuto dal cielo: è uscito direttamente dalla cultura dell'istigazione che fa furore nel paese, una minaccia che sovrasta Israele, un grande rifiuto palestinese ed arabo di permettere a quel paese di esistere, di fargli posto fra le nazioni. Egli condivideva la cultura di tutti quelli che gli stavano intorno – la gioia con cui vengono accolti questi brutali atti di terrorismo, il culto che si forma intorno ai martiri ed alle loro famiglie.
    Umm al-shahid (la madre del martire) è il nome con cui, da ora in poi, sarà conosciuta sua madre. Abu al-shahid (il padre del martire) diventerà l'appellativo di suo padre. Donne ed uomini onesti lo celebreranno e se ne approprieranno, altri più astuti giocheranno sull'equivoco, dicendo alla fine che il bravo ragazzo di Tulkarm è stato spinto lì, fin dentro Natania, dall'occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza.
    I leaders dell'Autorità Palestinese, particolarmente Yasser Arafat, la figura nell'occhio di questo crudele ciclone, emetteranno una  "tiepida" condanna, e poi faranno sapere al mondo che la "lotta armata" ed i shahid, i martiri, stanno scrivendo capitoli gloriosi negli annali della storia di quel movimento nazionale. Il sangue è una calamità terribile ed un movimento nazionale che ceda alla sua ubriacatura è destinato ad affogare nel proprio radicalismo.
    Con azioni ed omissioni, Arafat nutre questo culto del terrorismo, questa piaga.  In questa stagione di caccia, Arafat dispiega una strana ed inquietante qualità: si trova nel proprio elemento, adora "l'assedio di Ramallah", si gloria delle celebrità e della gente dei media e della diplomazia che vanno a fargli visita; egli vede in questa guerra, che ha scatenato nel settembre del 2000, la sua grande ora.
    Arafat non ha tentato di governare o di costruire; questa qualità non l'ha mai avuta. Gli piace l'opera del piromane, è un talento che ha perfezionato anni fa in Giordania ed in Libano, un'attitudine che ha portato con se in Israele e nei Territori Palestinesi, quando gli israeliani, nel lontano 1993, lo tirarono fuori dalla bancarotta e dalla disgrazia, garantedogli un quadrato di terra, una "partecipazione" per mettere fine ai problemi.
    La prima intifada del dicembre 1987 fu un'eruzione dal basso, sul terreno. Allora egli era in Tunisia, considerato ormai una figura del passato e dell'esilio. Questa seconda guerra è sua: Arafat la rivendica. Ed attraverso tutte le azioni terribili, attraverso i suoi sotterfugi, si possono distinguere il suoi metodi e le sue intenzioni: Arafat ha creato, accanto ad Israele, uno strumento di guerra assai efficiente: Arafat ha intrapreso una guerra brutale; egli mira all'anima di Israele, per logorarla.
    E' riuscito ad abbattere Ehud Barak, un soldato esemplare, che gli aveva offerto, nel settembre del 2000, tutto ciò a cui Israele poteva politicamente rinunciare ed anche di più. Ora Arafat ha intrapreso una guerra simile contro Ariel Sharon. Una strana soddisfazione gli proviene dal fatto di essere diventato l'arbitro della vita politica israeliana, assicurandosi un potere sulle maggiori scelte politiche del paese.
    "Se vado a Beirut, sarò un re, se rimango con il mio popolo diventerò un imperatore", ha proclamato il megalomane Arafat, mentre la folla pendeva dalle sue labbra. Non mostra alcuna pietà per i suoi, offre loro una storia vecchia e sbagliata, una messe di dolore, ma il suo popolo, in una peculiare dimostrazione dei limiti della ragione nella storia umana, è con lui. "Con il nostro sangue e con le nostre anime, ti riscatteremo, oh Arafat!", scandisce la folla, garantendogli l'esonero da ogni calcolo di guadagni e perdite.
    Circa diciotto mesi fa gli era stato offerto uno stato. Se ne è allontanato ed ha scatenato un fantasma di potere incalcolabile: il Diritto al Ritorno, una rivendicazione non solo della Cisgiordania e di Gaza, ma anche di Giaffa, di Haifa, della Galilea, un modo, insinuante ma ben capito dal suo popolo e dal resto degli arabi, di contestare l'esistenza stessa di Israele e del suo essere uno stato.
    Uno dei vecchi "duri" nella cerchia di Arafat, Farouk Kaddoumi, una persona che si fa passare, come è nella natura stessa di tali titoli ed onoreficenze, per il ministro degli Esteri di Arafat, è andato diritto, alcuni giorni fa, al cuore della questione: "Il Diritto al Ritorno dei profughi a Haifa a Giaffa – ha detto alla vigilia del vertice arabo, durante un incontro in Libano con il leader dei Hezbollah (il Partito di Dio) – è più importante dell'avere uno Stato". Tale affermazione ha rivelato la nuda logica delle cose: qualsiasi cosa vogliano o dicano i partecipanti al vertice, un vento cattivo soffia sulle terre arabe, una convinzione ha messo radici nell'immaginazione popolare araba: che Israele sia in rotta e che forse il verdetto della guerra del 1948 (non quello delle Guerra dei Sei Giorni del 1967) possa essere invalidato.
    E' difficile stabilire quando questa logica ha preso piede. Esiste un certo consenso sul fatto che questa nuova convinzione sia emersa dopo il ritiro israeliano dal Libano, nel maggio 2000. Vi è una certa verità in tutto ciò: Israele ha rinunciato all'avventura libanese, poiché non ha mai avuto rivendicazioni territoriali sul Libano. La "piazza" araba, tuttavia, lo ha interpretato come l'inizio di un ritiro più vasto, forse la millenaria realizzazione dell'idea che lo Stato ebraico non sia destinato a durare.

Il Regno Crociato

    Gli arabi di oggi rammentano la storia del Regno Crociato, che fu creato nel Levante, durò per quasi 200 anni (1099-1291), poi piegò le tende, lasciando sul terreno i suoi castelli, i suoi ponti e le sue rovine. Per innumerevoli arabi, Israele recita nuovamente questo dramma storico – con le sue furie, il peso delle masse, le ondate di assalti, il culto politico-religioso del martirio e della sacra custodia, che sopraffanno lo straniero. E' una particolarità dell'ordine politico arabo, che molti dei governanti e delle dinastie siano più moderati della plebe. I governanti possono conoscere la logica delle cose, ma il popolo è abbandonato ai suoi istinti più oscuri.
    La settimana, che i partecipanti al vertice credevano sarebbe stata tutta loro, è stata rivendicata dall'uomo di Tulkarm, Abdel-Basset Odeh, un membro, come è stato detto nel modo proprio a questi annunci, dell' "ala militare di Hamas". Conosceva la strada per Natania, come si è visto: aveva lavorato negli alberghi della città. E' tornato per ripagare quelli che gli avevano dato lavoro, ed i loro vicini, nella moneta del sangue e dell'ingratitudine.


Fouad Ajami, professore alla Johns Hopkins School of Adavanced International Studies, è l'autore del libro "Il Palazzo di sogno degli arabi" (Vintage 1999).

(Keren Hayesod, 11.04.02)



POSSIBILE OFFENSIVA PROPAGANDISTICA DELL'OLP



TEL AVIV - In Israele cresce la preoccupazione di un'offensiva propagandistica in grande stile dell'OLP dopo il ritiro delle forze armate dai territori dell'Autonomia. Sembra che i Palestinesi abbiano dei piani per sotterrare i loro morti in fosse comunI, per dimostrare all'opinione pubblica che sono stati compiuti dei "massacri".
    Questo scrive uno dei più noti giornalisti israeliani, Nachum Barnea, sul quotidiano di Tel Aviv "Yediot Ahronot". Evidentemente la direzione dell'OLP vuole presentare al mondo una seconda Sabra e Shatila. In quei due campi di Beirut nel 1982 i cristiani libanesi fecero un massacro di palestinesi.
    Barnea scrive: "A Ramallah c'erano 20 cadaveri, e i palestinesi insistettero per seppellirli tutti nel cimitero dell'ospedale. Adesso ripongono molte speranze in Jenin. Lì potrebbero mostrare alle telecamere centinaia di morti. Israele verrebbe accusata di crimini di guerra, come i Serbi in Bosnia.
    Il giornalista si chiede ancora: "Come si fa a spiegare al mondo che i morti erano terroristi armati, tra cui alcuni che si sono fatti saltare in aria in un attentato suicida?"

(Israelnetz.de, 11.04.02)



LA TRAGICA ATTUALITA' DELL'OLOCAUSTO

    
    Abbiamo passato anche quest'anno la Giornata dell'Olocausto e l'atmosfera in Israele era tragica, arida, disperata.
    Come potevamo stare in piedi, sull'attenti, piangendo al suono delle sirene? Avevamo lacrime da piangere per i nostri sei milioni di morti?
    Come  potevamo raccontare ai nostri giovani che, sì  i loro nonni erano finiti nei forni ma che era stato un periodo di  follia del mondo, un periodo di odio  irripetibile. Come potevamo dire che, sì, era successa la  Shoa', l'abominio dell'umanita', ma non temete, figli,  non accadra' mai piu' : oggi noi viviamo  liberi a casa nostra.
    Con che coraggio potevamo dire  questo ai nostri figli?
    Una settimana prima un ragazzo palestinese aveva scelto la sera del Seder di Pesach per farsi saltare nella sala ristorante di un albergo di Nataniah.
    Durante il Seder di Pesach, la festivita' piu' importante dell'ebraismo, si legge la "Haggada", la storia del popolo ebraico che si libera fuggendo  dalla schiavitu' del Faraone.
    In quel albergo di Nataniah c'erano molti anziani che si apprestavano a ricordare, dopo 4000 anni e nel libero Stato di Israele, la storia del popolo ebraico  schiavo in Egitto. Si preparavano ad assaggiare le erbe amare e a bere i quattro calici di vino. Come tutti gli ebrei nel mondo. Come tutti in Israele.
    Il  ragazzo palestinese, nella grandezza del suo odio barbaro,  ha voluto  impedire che quelle persone  ricordassero la loro storia antica, dalla schiavitu' fino alla liberta' agognata, dicendo alla fine, quasi gridando in un'esplosione di gioia,  le parole di sempre, le parole della speranza  e del sogno, le parole di ogni anno negli ultimi duemila "L'anno prossimo a Gerusalemme" !   
    Li ha fatti saltare per aria  e morire prima che riuscissero a dirlo. E forse, mentre si apprestava a morire per uccidere, quel ragazzo avra' sorriso per il suo odio soddisfatto e placato dal sangue e dalla disperazione degli odiati giudei.
    Tra le  28 vittime una in particolare  ci ha sconvolti , aveva 92 anni e sul suo braccio hanno trovato stampato il numero  della morte, Auschwitz.  
    Era sopravissuta all'inferno per morire in un altro inferno, a casa sua, nella libera Israele, per mano di un altro giovane nazista che non si chiamava Adolf o Heinrich ma Mohamad o Abdul. L'odio invece aveva lo stesso nome:  era il solito odio, freddo e feroce oggi come 60 anni fa.
    Come dire dunque ai nostri figli di piangere col cuore in pace  al suono straziante delle sirene? 
    Come dire loro di ricordare i  morti della Shoa' con lacrime chiare e dolci ? 
    Come dir loro tutto questo quando per le strade di Israele, casa loro, altri ebrei, donne anziani bambini, vengono ancora ammazzati intenzionalmente?
    Come dire che una nonna novantaduenne era appena morta ammazzata  perche' ebrea,  in Israele , dopo essersi salvata da chi voleva ucciderla, perche' ebrea,  60 anni prima, in Polonia?
    E' difficile spiegare tutto questo ai nostri figli che oggi cantano di pace e muoiono per odio e non capiscono perche'. Ancora. Sempre. Senza pieta'.
    
    Cantano una canzone oggi  i nostri figli:
    
    "Ci avevate promesso la pace,
    ci avevate promesso ramoscelli d'ulivo e fiori,
    ci avevate promesso una colomba....
    invece siamo qui a fare la guerra, ancora, come avete fatto voi.
    Diteci, quali promesse potremo fare noi ai nostri figli?"
    
    E noi non sappiamo cosa rispondere.
    Non abbiamo risposte.
    Fino a quando ebrei saranno ammazzati perche' ebrei, non avremo risposte.
    L'unica risposta e' Israele: credete in Israele, figli,  amate Israele, e' il nostro miracolo.
    E i nostri figli capiscono.
    
    Deborah Fait
    Rehovot - Israele

(Federazione Associazioni Italia Israele, 11.04.02)



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ATLANTI UNIVERSALI GIUNTI, Ebraismo, Firenze 1996, pp. 94, € 8,26


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