Notizie su Israele 147 - 5 gennaio 2003


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Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annunzia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: «Il tuo Dio regna!» Ascolta le tue sentinelle! Esse alzano la voce, prorompono tutte assieme in grida di gioia; esse infatti vedono con i propri occhi il SIGNORE che ritorna a Sion. Prorompete assieme in grida di gioia, rovine di Gerusalemme! Poiché il SIGNORE consola il suo popolo, salva Gerusalemme. Il SIGNORE ha rivelato il suo braccio santo agli occhi di tutte le nazioni; tutte le estremità della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

(Isaia 52:7-10)



FONDI EUROPEI E AMMINISTRAZIONE PALESTINESE


Un gruppo di deputati del Parlamento Europeo ha richiesto una Commissione di indagine sui finanziamenti all'A.N.P.

I conti di Arafat non tornano più

di Claudio Vercelli

Come esiste un problema di oblio della memoria si dà anche un fenomeno di indifferenza o di estraneità riguardo al presente. E se c'è una materia dove i conti, letteralmente, non tornano, questa riguarda l'uso dei fondi e dei finanziamenti che periodicamente, così come in via straordinaria, l'Unione Europea stanzia per il sostegno sociale ed economico delle popolazioni palestinesi e della stessa struttura amministrativa istituita dall'Autorità Nazionale presieduta da Yasser Arafat.
    Se ne stanno occupando, ed attivamente, quegli europarlamentari che hanno promosso la Richiesta di costituzione di una commissione d'inchiesta concernente la prestazione di assistenza da parte dell'Unione Europea nel Medio Oriente. Affinché tale iniziativa possa avere buon esito necessitano 157 firme, quelle dei loro colleghi. La lista delle firme è lunga e in essa spiccano, ma per la loro assenza, quelle di nomi importanti. Tra gli italiani, con vivo rammarico, si riscontra la latitanza del nome di Francesco Rutelli. Per la verità pare che il Commissario responsabile per le relazioni esterne dell'UE, Chris Patten, abbia avanzato ripetute pressioni per ottenere il ritiro della mozione di richiesta, che evidentemente deve risultargli politicamente poco condivisibile. Tuttavia, a fronte della sostanziale assenza di controlli, il quadro che va configurandosi è quello di una violazione della legislazione comunitaria, dovuta all'impiego delle sue risorse economiche per obiettivi che nulla hanno a che fare con i fini della politica mediterranea e con quel ruolo di bilanciamento nelle vicende mediorientali che a stento cerca di assumere.
    Si potrà obiettare che una questione di tale genere è secondaria rispetto all'intera vicenda del conflitto israelo-palestinese, laddove a mancare all'appello sono non solo i denari ma anche e soprattutto gli esseri umani, vittime di violenza, nell'una come nell'altra parte. Ma l'aspetto della destinazione delle cifre che vengono generosamente offerte ad uno dei due contendenti (il palestinese) non è indifferente per capire il destino dell'altro (l'israeliano), che misura in termini di morti gli effetti degli storni che – e si hanno oramai le prove – vengono effettuati nei confronti di ingenti quantità di contributi. Poiché, ad essere chiari, si sta ragionando dell'uso a fini terroristici di fondi pubblici, alla cui formazione ognuno di noi concorre in qualità di contribuente.
    Ma procediamo con ordine.
    In un documento ufficiale presentato nel maggio di quest'anno dal Ministero degli Affari Parlamentari dello Stato d'Israele, dicastero condotto da Dani Naveh, gli estensori denunciavano, con una impressionante mole di documenti a sostegno delle loro affermazioni, il coinvolgimento ripetuto dell'amministrazione palestinese nelle attività dei gruppi terroristici e, più in generale, nel sostegno ad una pluralità di iniziative illegali e criminali.
    Una sorta di intreccio d'interessi tra pochi e circoscritti beneficiari, coalizzati nel controllare ogni aspetto della società palestinese attraverso il monopolio della gestione politica ed economica, è il quadro che si ricava dalla lettura di "The Involvement of Arafat, PA Senior Officials and Apparatuses in Terrorism against Israel, Corruption and Crime": l'Autorità Nazionale Palestinese, più che legittimarsi e consolidarsi nel suo ruolo attraverso la rappresentanza e la tutela delle istanze della popolazione locale, pare muoversi come un gruppo di azione disposto a fare ricorso a qualsiasi strumento, pur di non perdere il potere. Mentre buona parte dei residenti in Cisgiordania e Gaza vive in condizioni di miseria, la leadership dei territori, graniticamente legata ai privilegi conquistati con il sangue altrui, manovra le leve che ha a disposizione per escludere i più e difendere le proprie gelose prerogative. Tra questi strumenti si pongono anche quei fondi ai quali può accedere attraverso finanziatori privati e istituzionali. Va da sé che soprattutto le risorse derivanti da trasferimenti da parte di soggetti pubblici dovrebbero essere distribuite, in più modi e forme, alla collettività, per agevolarne lo sviluppo economico e il benessere materiale. Ma le cose, comprova il rapporto, sono andate fino ad oggi assai diversamente dalle aspettative.
    L'Unione Europea sostiene il processo di pace in Medio Oriente con robusti stanziamenti. Dal 1993 ad oggi, circa 1,4 miliardi di Euro sono stati offerti, a vario titolo, in omaggio al principio che la soluzione dei conflitti passa anche attraverso gesti concreti. A partire dal giugno del 2001 l'UE ha sostenuto finanziariamente il bilancio dell'ANP, in forma diretta, per mezzo della corresponsione di 10 milioni di Euro mensili. L'intendimento di fondo, che presiede a tale condotta, è quello di permettere al gruppo dirigente palestinese di fronteggiare le croniche difficoltà di cassa, soprattutto a breve scadenza, che ne vincolano l'operato. In tale modo l'Unione concorre così alla formazione e alla copertura di quasi il 10 per cento del bilancio dell'amministrazione presieduta da Arafat (da alcuni già ribattezzato Arraffat). Per altro, già da tempo sono attivi corposi programmi di sostegno all'economia e alle comunità palestinesi per un totale di circa 60 milioni di Euro annuali, ai quali vanno poi aggiunti un flusso pressoché ininterrotto di interventi di ogni genere, da quelli legati ai beni di prima necessità il cui acquisto è a carico dell'Unione, agli aiuti umanitari, passando per il co-finanziamento dei progetti delle Organizzazioni Non Governative, la copertura del 42 per cento del bilancio dell'Ufficio Onu per i "rifugiati di Palestina" ed altro ancora. Nel complesso, le ultime due annualità fiscali hanno misurato un intervento per parte UE di circa 330 milioni di Euro. Il vincolo che è stato posto al prosieguo di questo complesso di iniziative è la ricerca di una soluzione pacifica del conflitto per parte palestinese e la costituzione di istituzioni democratiche e pluraliste nella West Bank come nella striscia di Gaza. Le raccomandazioni scritte che si accompagnano alle generose elargizioni non hanno mai omesso questo richiamo che tuttavia, a giudicare dall'operato dell'ANP, deve essere stato inteso da quest'ultima più come una clausola formale che non come un obbligo sostanziale. Infatti, a fronte dei ripetuti inviti a chiarire la propria posizione dinanzi al fenomeno del terrorismo (tra i più autorevoli figura quello della Commissione Mitchell) e ad adoperarsi nella lotta contro di esso, Arafat e i suoi sodali non solo hanno fatto seguire un silenzio particolarmente pesante, ma nei fatti hanno dato corso ad una vera e propria politica del "doppio binario": ambiguità nella condotta ufficiale e contiguità, nei comportamenti concreti, al terrorismo.
    Il tutto attraverso l'uso discrezionale dei fondi esteri, tra cui anche quelli europei.
    La relazione del team diretto dal ministro Naveh ha posto in rilievo la meccanica di un procedimento di occultamento per mezzo del quale i soldi vengono stornati dalla loro legittima destinazione. Attraverso la trasmissione di relazioni false e di dati inattendibili agli organismi di controllo; la creazione, diffusione e gestione di fondi neri; il falso in bilancio; la manipolazione dei tassi di conversione della valuta; l'iscrizione obbligatoria ad Al-Fatah per gli impiegati pubblici; l'alterazione e la lievitazione del numero dei dipendenti degli enti pubblici; l'istituzione di fittizi obblighi di spesa, presentati come automatici ed irrinunciabili ed altro ancora, l'ANP ha sviato almeno il 10 per cento delle somme poste nel suo bilancio ufficiale dalla loro originaria funzione.
    La vicenda richiama in sé una serie di passaggi critici, la cui soluzione è obbligata se si intende addivenire ad una pace fondata sulla giustizia e sulla sicurezza. Intanto segnala il grado di devastante collusione che intercorre tra apparati dell'ANP e la galassia del terrorismo a matrice islamica. Legami strutturali, per la reciprocità di interessi che li connotano e che pregiudicano le residue credibilità della prima in qualità di interlocutrice nel processo di risoluzione di un conflitto. Ma ci dice anche dell'altro, poiché il problema non è solo degli israeliani ma anche e soprattutto dei palestinesi. Qual'è l'attendibilità di un gruppo, quello che egemonizza l'Autorità Nazionale nei territori, il cui unico operato è quello di preservare il monopolio politico di Arafat e delle grandi famiglie a scapito dei bisogni e degli interessi di una collettività in serie difficoltà? Dove si situa il grado di separazione tra politici e amministratori pubblici nella gestione dei flussi di denaro che dovrebbero aiutare un'economia povera di risorse e di mezzi a trovare almeno qualche opportunità di investimento e crescita? Si può forse pensare che questo intreccio tra corruzione, e discrezionalità nell'uso dei fondi altrui, assenza di democrazia, terrorismo e povertà possa ancora essere tollerato dalla popolazione locale? E, in caso affermativo, a quale prezzo per le generazioni future?
    Non sono quesiti retorici, perché riguardano la vita di milioni di persone e la possibilità di giungere alla pace.
    Anche per questo motivo l'assenza di alcune firme pesa ancor più della presenza di tante altre. Perché ci dice che non tutti hanno colto il senso e la dimensione delle carte in gioco. Non lo ha colto l'Unione Europea, che continua a ragionare sulla base di equilibrismi e con machiavellismi di circostanza. Non lo hanno colto quei politici che fingono di non vedere e che ragionano di Medio Oriente con le lenti deformanti dei vecchi luoghi comuni, senza rendersi conto che i problemi del terrorismo e dell'insicurezza sociale si alimentano anche di silenziose omissioni; non lo ha capito il leader della Margherita, che parla di conflitto d'interessi in patria ma che non vede gli interessi in conflitto e le falsificazioni in atto a poche miglia dalle nostre coste.

("Shalom", dicembre 2002)



UN'ALTRA GIGANTESCA TRUFFA DEGLI UOMINI DI ARAFAT


Arafat truffa miliardi alle spalle dell'ONU

di Dimitri Buffa
   
Rubano gli aiuti umanitari ai poveri per rivenderli ai ricchi.
    I medicinali spediti da mezzo mondo per il popolo palestinese vengono rivenduti al mercato nero e vanno a finire fin dentro le farmacie degli arabi israeliani a Tel Aviv.
    Storia di un'altra gigantesca truffa degli uomini di Arafat che, oltre ai soldi degli aiuti provenienti dall'Europa, dagli Usa, dai paesi arabi e dallo stesso stato di Israele (qualcosa come 2 mila miliardi di vecchie lire annue), adesso hanno messo le mani sugli aiuti umanitari, un budget di quasi 500 milioni di dollari l'anno che passano anche attraverso l'organismo apposito delle Nazioni Unite, l'Unrwa (United nations reliefs and work agency) già al centro di molte polemiche per il sostegno oggettivo dato da alcuni suoi collaboratori di nazionalità araba al terrorismo palestinese.
    Il nuovo scandalo , paragonabile a quello della "missione Arcobaleno" ma mille volte più consistente , è esploso nei giorni scorsi dopo che il sito internet dell'esercito israeliano ha messo in rete sei documenti (il più recente del giugno di quest'anno, altri addirittura risalenti al 1996) sequestrati lo scorso dicembre in una delle tante incursioni effettuate a Gaza, nel quartiere generale della polizia di sicurezza dell'Anp.
    Sono lettere di un carteggio molto più corposo in cui alcuni uomini della commissione sul controllo della cosa pubblica nei territori occupati chiedono conto allo stesso Arafat di come sia possibile che in alcune farmacie israeliane, prevalentemente gestite dagli arabi di nazionalità israeliana, siano messi in vendita sotto costo prodotti medicinali, anche scaduti, con ancora apposta l'etichetta Unrwa che contraddistingue gli aiuti umanitari. La storia va avanti dal 1996 e ha subito uno stop solo con lo scoppio della seconda intifada allorchè Gerusalemme ha cominciato a negare i permessi ai commercianti palestinesi che si recavano per affari in Israele.
    Addirittura imbarazzante la risposta scritta di pugno da Arafat in data 10 giugno 2002: "non ne sappiamo niente, ma controlleremo".
    Ma già in una lettera spedita nell'agosto del 1996 al fratello di Arafat, Mussa, uomo messo a capo dell'intelligence dell'Olp dell'epoca, si fa cenno a una situazione che "si sta complicando perchè nessuno rispetta gli ordini di Arafat".
    Nell'occhio del ciclone, come presunto responsabile della sparizione di interi colli di medicinali e di altri generi di prima necessità, c'è il ministro dell'approvvigionamento del governo provvisorio dell'Anp, Abu Ali Sha'in, che a Gaza chiamano affettuosamente "ministro dei ladri". Un altro nome noto che compare in questa storia è quello di Amid Fuhad Shubaki, capo della polizia preventiva di Arafat già implicato nel traffico d'armi della nave iraniana Karine A.
    Secondo i documenti messi in rete da Tsahal la soluzione allo scandalo architettata per "salvare il buon nome dell'Autorità palestinese" sarebbe stata la seguente: per ordine di Arafat tutti i prodotti contrassegnati dal marchio Unrwa vanno requisiti al mercato nero e di nuovo ridati al ministero di Abu Ali Sha'in che provvede a redistribuirli. In pratica gli aiuti giocano a ping pong con chi li ha sottratti e venduti al mercato nero una prima volta che si vede così autorizzato a sequestrarli e a rivenderli una seconda .
    Per di più i commercianti, in una lettera allegata ad altro documento ufficiale spedito dal capo dell'autocontrollo pubblico palestinese Jarar Nahman Al Kidwa ai capi dell'Anp nel novembre del 1996 dopo la geniale soluzione architettata da "Arraffat", avevano protestato più o meno così: "avevamo chiesto che cessassero le ruberie, non che ci sequestraste la roba che uomini armati dell'Anp ci avevano venduto per buona dopo averla rubata".

("Libero", 3 gennaio 2003)



CONSIDERAZIONI SUL CAMBIO DI REGIME IN IRAQ


di Bernard Lewis

Tra i molti argomenti che sono stati addotti per non intervenire contro il presente regime in Iraq, due hanno ricevuto una speciale enfasi. Il primo è che i governi e i popoli del Medio Oriente attribuiscono un'importanza molto più grande al conflitto arabo-israeliano che all'Iraq o a qualsiasi altro problema nella regione, e che perciò bisognerebbe cominciare dal risolvere la questione palestinese. Il secondo è che anche un tentativo riuscito di cambio di regime in Iraq avrebbe pericolosi effetti destabilizzanti sul resto della regione e potrebbe condurre a un conflitto generale e al caos.
    Il conflitto con Israele riceve certamente l'attenzione di gran lunga maggiore nei media arabi, ma poiché questa è l'unica precisa lagnanza che può essere pubblicamente espressa in una regione con numerosi e gravi problemi, la cosa non sorprende. Ci si può anzi chiedere se i governi mediorientali desiderano veramente un accordo di pace che li priverebbe di una preziosa valvola di sfogo, lasciandoli di fronte a tutta la rabbia dei loro sottoposti, inclusi quelli che vivono sotto il governo dell'Autorità Palestinese. Dalla quasi monotona regolarità con cui una serie di promesse di pace sono venute meno, al momento in cui sembrano avere probabilità di successo, si è portati a concludere che loro preferiscono mantenere il conflitto irrisolto, ma a fuoco basso, e quindi agevolmente controllabile.
    In ogni caso, richiedere la soluzione della questione palestinese come prerequisito per affrontare il problema di Saddam significa mandargli il chiaro segnale che lui deve a tutti i costi impedire una simile soluzione. Saddam Hussein infatti ha già risposto a questo segnale in vari modi, sia segreti che pubblici. La più notevole delle sue risposte aperte è l'aumento del premio che paga alle famiglie degli attentatori suicidi, da 10.000 a 25.000 dollari. Questo è il più visibile, ma probabilmente non il più importante dei suoi contributi al conflitto. Fare della soluzione di questo conflitto - che anche nella sua forma attuale è vecchio di più di mezzo secolo - un prerequisito per ogni azione riguardante l'Iraq è una sicura formula per un'indefinita immobilità.
    La paura di una destabilizzazione è genuina e seria, ed è facile capire l'ansietà provocata nei regimi del Medio Oriente dalla prospettiva di un cambio di regime in Iraq. Il problema cruciale qui non è come o da chi Saddam deve essere rimosso, ma chi arriverà al suo posto. La soluzione che alcuni gruppi di influenza nel nostro paese e altrove evidentemente preferiscono è per un cambiamento con un tiranno più cortese e gentile, che sia più malleabile verso i

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nostri interessi e le nostre richieste, evitando i rischi di un cambio di regime. Questa sarebbe certamente anche la soluzione preferita dai nostri cosiddetti alleati nella regione, la maggior parte dei quali si sentirebbe mortalmente minacciata dalla nascita di qualsiasi cosa che assomigli a una democrazia in Iraq.
    Ma per quale ragione noi dovremmo sentirci minacciati da un simile cambiamento? E' più che evidente che la maggioranza dei nostri nemici terroristi viene dai cosiddetti paesi amici, e la loro maggiore protesta contro di noi è che, ai loro occhi, abbiamo la responsabilità di sostenere i regimi tirannici che li opprimono: un'accusa che, per dirla in modo leggero, non manca di plausibilità. A parte la Turchia e Israele, i due paesi di quella regione dove i governanti sono eletti e possono essere non rieletti dal popolo, la maggior parte dei paesi del Medio Oriente può essere divisa in due gruppi: quelli che hanno governi che noi amiamo chiamare "amici", le cui popolazioni ci sono sempre più ostili perché ci ritengono responsabili dell'oppressione e dello sfruttamento operato dai loro governi, e, dall'altra parte, quelli che hanno governi duramente ostili, le cui popolazioni di conseguenza sperano di ottenere da noi aiuto e liberazione.
    I più importanti tra questi ultimi sono l'Iraq e l'Iran. In paesi che si trovano sotto dittatura, la satira politica è spesso la sola autentica e incensurata espressione di opinione politica. Secondo una battuta iraniana che circolava durante la campagna in Afghanistan, molti iraniani avevano messo sulle loro case una scritta in inglese con il testo: "Per di qui, prego!"
    E' significativo il fatto che dopo i fatti dell'11 settembre nelle città iraniane molte persone sono scese in strada e, sfidando le autorità, hanno acceso candele e hanno vegliato manifestando simpatia e solidarietà con le vittime di New York e Washington. Questo contrasta nettamente con le scene di giubilo in altri luoghi. E' stato spesso detto che se riuscissimo a rovesciare i regimi che il Presidente Bush ha giustamente chiamato "l'asse del male", le scene di gioia nelle loro città sarebbero ancora maggiori di quelle che hanno seguito la liberazione di Kabul.
    Il rovesciamento di un regime fa inevitabilmente sorgere delle domande su chi succederà e su quale sarà l'impatto sui paesi circostanti. Il cambiamento di un regime può certamente essere pericoloso, ma qualche volta i pericoli dell'immobilità possono essere ancora maggiori.
    Ci può essere infatti, come spesso è stato detto, una connessione tra la soluzione del conflitto palestinese e un cambio di regime nella regione, ma in ordine inverso a quello di solito indicato. Si ripete spesso, e generalmente si è d'accordo, che le democrazie non cominciano le guerre. I governi democratici sono eletti dal popolo e rispondono al popolo, e salvo rare eccezioni il popolo preferisce la pace. Anche il grande Winston Churchill, che certamente non era un guerrafondaio ma era considerato dalla popolazione un leader di guerra, fu estromesso dal potere dal popolo britannico nelle elezioni politiche del 1945. Ed è altrettanto vero, ma meno riconosciuto, che le dittature non fanno la pace. La guerra iniziata dall'Asse è finita con la sua sconfitta. La guerra fredda iniziata dall'Unione Sovietica è finita con il suo collasso.
    Allo stesso modo, le dittature che oggi governano la maggior parte dei paesi del Medio Oriente non vogliono, anzi non possono, fare la pce, perché hanno bisogno della guerra per giustificare la tirannica oppressione che esercitano sul loro proprio popolo, e per deviare la rabbia della popolazione contro un nemico esterno. Come nel caso dell'Asse e dell'Unione Sovietica, la pace reale ci sarà soltanto con la loro sconfitta, o, preferibilmente, con il loro collasso e la sostituzione con governi che sono stati eletti e possono essere fatti cadere dal loro popolo, e quindi cercheranno di risolvere i conflitti, non di provocarli.

Bernard Lewis è professore emerito di studi mediorientali all'Università di Princeton. Di recente ha pubblicato "What Went Wrong? Western Impact and Middle Eastern Response" (Oxford, 2002).

(segnalato da Yosef Tiles, 28.07.2002)



GLI STUDENTI IRANIANI: «LASCIAMO LA PALESTINA DA SOLA, PENSIAMO A NOI!»


Nel mezzo delle recenti dimostrazioni studentesche su vasta scala in Iran, che reclamano libertà di espressione e condannano la sentenza di morte emessa per il dott. Hashem Aghajari, i leader del regime, in particolare il presidente Mohammad Khatami, hanno esortato gli studenti a manifestare per l'International Qods (Gerusalemme) Day (1) contro Israele e il sionismo. In risposta a queste sollecitazioni, lo Student Movement Coordination Committee for Democracy in Iran (SMCCDI) ha emesso una dichiarazione critica per i gruppi terroristici islamisti e per l'antisemitismo nel mondo arabo e musulmano. Il comunicato ha anche criticato aspramente il governo iraniano per la sua politica. Ecco alcuni estratti della dichiarazione :


"Onorevole e libertario popolo dell'Iran,

"giorno dopo giorno, la crisi militare e politica nella regione del Golfo Persico e del Medio Oriente sta diventando più profonda.  Nella regione, ogni governo e forza politica che sia realistica... sta cercando una soluzione logica che eviti uno scontro militare... In tali circostanze,  gli usurpatori del potere politico in Iran ˆ che sin dall'inizio avevano basato l'istituzione... del loro ordine disumano su un sistematico terrorismo sostenuto dal governo contro il proprio popolo ˆ stanno tentando spudoratamente di appoggiare le fazioni favorevoli alla guerra e i gruppi terroristici palestinesi attraverso il raduno forzato di dipendenti del governo e di teppisti Hezbollah".

"Mentre gli Stati Uniti d'America definiscono il regime che governa in Iran come un membro dell'asse del male, l'Unione europea ribadisce che una delle sue condizioni indispensabili per espandere il suo commercio e i rapporti economici con la Repubblica islamica [dell'Iran] è il riconoscimento ufficiale [da parte dell'Iran] dei due governi di Israele e di Palestina. In ogni occasione la nazione iraniana grida ' Lasciamo la Palestina da sola, pensiamo a noi '. [Ma] i governanti della tirannia, infischiandosene delle richieste del proprio popolo e anche dell'opinione pubblica in Occidente, continuano a radunare le loro forze mercenarie e i loro dipendenti governativi per la loro sorpassata commedia del cosiddetto Universal Day of Ghods ['Jerusalem Day'], e continuano con i loro spettacoli e con le loro dichiarazioni di antisemitismo".

"E' significativo che,  malgrado l'estendersi delle proteste popolari - con slogan come 'Khatami, Khatami, dimissioni, dimissioni', ' Capo: sei finito' e 'Abbasso i Talebani, a  Kabul e a Teheran' - ancora una volta il presidente senza potere del regime [Khatami], che biascica di illegalità e di interessi nazionali, chiudendo i suoi orecchi e per ingannare il pubblico,  abbia invitato il popolo a partecipare alla manifestazione del  'Ghods [Day]'...".

"Bollando gli Stati Uniti come... il 'Grande Satana' e Israele come ... l''Occupatore di terre musulmane', [la Repubblica] iraniana li ha presentati come i nemici giurati dell'Iran;  e i governanti successivi hanno rispettato questa 'tradizione' ".

"Ora che il popolo dell'Iran vuole stabilire rapporti pacifici con gli Stati Uniti e crede che entrambe le nazioni di Israele e di Palestina abbiano il diritto di esistere, la Repubblica islamica non vede altra scelta che [lanciare] una vasta propaganda sui media governativi e rilasciare dichiarazioni a sostegno dell'obbligatoria osservanza del 'Day of Ghods' ".

"I reggenti della Repubblica islamica sono incapaci di capire il semplice fatto che  - in un ambiente politico in cui... opposte forze si stanno radunando l'una contro l'altra, cosicché da una parte ci sono le forze a favore della guerra e i sostenitori della cultura del terrore e della violenza, e dall'altra esistono forze che desiderano una soluzione pacifica e costruttiva per il conflitto arabo-israeliano... - l'osservanza del 'Day of Ghods' in sostegno della violenza è una follia, che non è vantaggiosa per la nazione palestinese e non coincide con gli interessi nazionali del popolo dell'Iran".
 
"La difesa della pace e della calma in Medio Oriente non può essere raggiunta con il sostegno dei gruppi terroristici e guerrafondai; dev'essere acquisita invece con la ricerca di un dialogo politico tra le due parti, rimuovendo contemporaneamente le radici del fondamentalismo, del terrore e della violenza".
  
"Lo Student Movement Coordination Committee for Democracy in Iran crede che, in conformità con gli statuti internazionali, entrambe le nazioni di Israele e di Palestina abbiano il diritto e la capacità di vivere l'una accanto all'altra come due stati liberi e indipendenti. Questo comitato, mentre condanna gli atti che agitano la Repubblica islamica, richiede che la libertaria e combattente nazione dell'Iran, specialmente la gioventù e gli studenti, [dia] una schiacciante risposta ai promotori di antisemitismo e di terrorismo, boicottando la fasulla e obbligatoria dimostrazione della cosiddetta Giornata mondiale di Ghods".

"Viva la libertà!
Viva il laicismo!"

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Nota:
(1) L'Internazional Qods Day è un evento annuale introdotto dall'Ayatollah Khomenei per solidarietà con i palestinesi e contro Israele e il sionismo. È celebrato in Iran l'ultimo venerdì del Ramadan.

(The Middle East Media Research Institute, 24.12.02)



STATISTICHE ANNUALI IN ISRAELE


L'Ufficio Centrale di Statistiche in Israele ha pubblicato i nuovi risultati statistici. Alla fine di ottobre i cittadini di Israele erano 6.615.300, di cui 5,3 milioni ebrei e 1,3 milioni arabi. 137.000 bambini sono nati in Israele e 35.600 ebrei sono immigrati, di cui 18.772 dagli Stati dell'ex Unione Sovietica, la più bassa quota di immigrati dal 1990. E' salito invece il numero degli immigrati dall'Argentina (5.960) e Francia (2.326). Dall'Etiopia sono arrivati in Israele 2.693 ebrei.

    Il Primo Ministro Ariel Sharon, nella settimanale seduta di gabinetto, si è dichiarato favorevole ad una riduzione dei tempi di preparazione che precedono la conversione all'ebraismo. Sharon considera l'immigrazione in Israele come l'obiettivo centrale e più importante dello Stato d'Israele. L'immigrazione contribuisce grandemente alla sicurezza e allo sviluppo economico del paese: "Abbiamo il dovere di contribuire all'integrazione dei nuovi immigrati", ha detto il Primo Ministro. Nello stesso tempo ha detto di avere come obiettivo di riportare in Israele, nel prossimo anno, un altro milione di ebrei.

    Nel frattempo il sindaco della città di Gerusalemme, Ehud Olmert, in un discorso tenuto al Forum dei rabbini ha auspicato l'abolizione dei Consigli religiosi. La legislazione ebraica religiosa è causa di notevoli difficoltà nella vita pubblica degli ebrei in Israele, e in conseguenza di questo molti Israeliani non vogliono più avere niente a che fare con la religione.

(Ambasciata di Israele a Berlino, 2.1.2003)



LETTERA APERTA DI UN FRANCESE EBREO AL PRESIDENTE CHIRAC


Strasburgo, 4 gennaio 2003

Signor Jacques CHIRAC
Presidente della Repubblica
Palazzo dell'Eliseo
7500 PARIGI

Signor Presidente,

 "Le scrivo una lettera,
 Che lei forse leggerà
 Se avrà tempo...
 Ho appena ricevuto
 La cartolina militare..."

No, non la "cartolina militare"... Avrei voluto redigere la mia lettera al modo di Boris Vian nella sua celebre canzone, ma non ho la forza di cantare, né la voglia di ridere...
    Ho appena ricevuto, dicevo, il colpo finale. Questa mattina sono venuto a sapere, come molti miei correligionari ebrei, ma neppure francesi, che un rabbino è stato fatto oggetto di un tentativo di attentato all'interno della sua sinagoga, proprio prima del sabato, venerdì 3 gennaio 2003.
    Signor Presidente, questa azione è un fatto gravissimo. E' la prima volta che un islamista s'introduce, in Francia, in un luogo di culto ebraico, per attentare a un rappresentante di  questo culto. Fino ad ora abbiamo registrato "soltanto" attacchi - più di un migliaio - contro edifici o istituzioni ebraiche, con qualche aggressione fisica in strada (oh! roba da poco...) senza reazione da parte delle nostre autorità, stranamente silenziose fino al 21 aprile 2002.
    Dopo la sua rielezione alla testa del nostro paese, noi abbiamo sperato che le cose sarebbero cambiate, vede, senza crederci troppo, ma sperando tuttavia, perché siamo un popolo che ha vissuto di speranza, senza la quale, e senza la Provvidenza divina, non saremmo più qui...
    Signor Presidente, io non mi sento più sicuro in questo paese, nel mio paese. E ho paura. Per i miei figli che portano la kippa, segno distintivo per eccellenza, paura per me stesso, medico, solo nel mio studio, ebreo praticante che va in sinagoga tutti i sabati, paura di trovare un giorno il mio rabbino assassinato, o peggio, tutta la mia comunità...
    Allora le faccio una domanda: devo togliere ogni segno che fa riferimento alla mia fede e al mio popolo, segni altamente pericolosi in questo paese di Francia, e devo camminare rasente i muri per recarmi in sinagoga e anche avvertire i miei figli in una riunione familiare drammatica, ricordandomi che non molto tempo fa dei cittadini ebrei francesi l'hanno fatto, sotto il regime di Vichy, avvertirli di fare ben attenzione in strada, e di non rispondere alle provocazioni verbali o di altro tipo provenienti dagli islamisti di Francia?...
    Allora? Non mi resta altro che "la valigia o la cassa da morto"?... Nel mio paese di Francia? In questo paese di Liberté-Egalité-Fraternité?
    Dovrò forse confezionare per i miei cari delle stelle gialle, per essere tollerato in questo paese, come "Caino, scarmigliato, livido nel mezzo delle tempeste..."?
    Non aspetterò questo momento, Signor Presidente, e porterò la mia stella... Fin da domani... ma non sarà gialla, né porterà una qualsiasi scritta, no, perché non ci sarà bisogno di questo per riconoscermi... Sarà blu bordata di bianco... come la stella di Davide, e soffrirà, a mia gioia e... a mio onore.
    Perché, vede, Signor Presidente, una stella, alla fine, è tanto piccola, quasi insignificante, e tuttavia, senza di lei quanti marinai ed esploratori si sarebbero persi... Ebbene, lo sappia, il popolo ebreo è questa stella, senza la quale il mondo andrà verso la sua perdizione.
    Lei sa - ho bisogno di ricordarglielo? - che tutte le volte che se la sono presa col popolo ebreo, il mondo è entrato in una tormenta senza precedenti. Ho ancora bisogno di ricordarle quello che diceva colui di cui avete appena festeggiato la nascita, appena duemila anni fa: "LA SALVEZZA VIENE DAI GIUDEI..."
    "Salve", dal latino "salus", dal punico "shalus", dall'ebraico "shalosh", cioè "tre", come LIBERTE'-EGALITE'-FRATERNITE'...
    Ringraziandola di avermi letto, voglia accettare, Signor Presidente, i miei auguri più sinceri e l'espressione della mia alta considerazione.

Dott. Claude Bensoussan
67000 Strasburgo

(réinfo-israël.com, 4 gennaio 2003)


INDIRIZZI INTERNET


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