Notizie su Israele 166 - 8 aprile 2003


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Come gli uccelli spiegano le ali sulla loro nidiata, così il SIGNORE degli eserciti proteggerà Gerusalemme; la proteggerà, la libererà, la risparmierà, la farà scampare. Tornate a colui dal quale vi siete così profondamente allontanati, o figli d'Israele!

(Isaia 31:5-6)



RISERVE ISRAELIANE SULLA "MAPPA STRADALE"


Gli Stati Uniti avrebbero garantito agli israeliani che potranno avanzare le loro riserve alla cosiddetta "mappa stradale" per la pace in Medio Oriente prima che essa venga resa pubblica ufficialmente. Lo ha dichiarato sabato sera un alto funzionario della diplomazia israeliana.
    Dov Weisglass, capo dell'ufficio del primo ministro israeliano Ariel Sharon, si rechera' a Washington questa o la prossima settimana e probabilmente discutera' il piano con l'amministrazione Bush. Gli Stati Uniti hanno detto che pubblicheranno la "mappa" quando il "parlamento" palestinese approvera' il nuovo governo guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), cosa che dovrebbe avvenire entro le prossime due settimane. Weisglass, che e' il principale referente israeliano presso l'amministrazione americana e si reca a Washington circa una volta al mese per discutere un'ampia serie di questioni bilaterali, ha dichiarato in un'intervista sabato scorso a Israel Radio che Israele avviera' negoziati con Abbas una volta che questi sara' effettivamente diventato primo ministro dell'Autorita' Palestinese. Weisglass ha detto che se Abbas agira' "in modo appropriato e si muovera' in una direzione positiva, la sua azione suscitera' una immediata risposta positiva da parte di Israele". Uno dei passi che Israele prenderebbe in considerazione in questo senso sarebbe il ritiro delle forze da una citta' palestinese se Abbas garantira' che verranno sostituite da forze di sicurezza palestinesi disposte e capaci di contrastare il terrorismo. Circa la questione insediamenti, tema su cui ci si attende forti pressioni internazionali dopo la conclusione della campagna militare in Iraq, Weisglass ha definito una "questione interna israeliana" quella degli avamposti che, secondo le bozze della "mappa stradale", dovrebbero essere rimossi "immediatamente". La "mappa" prevederebbe inoltre che, "a seguito di un cessate il fuoco globale", Israele dovra' congelare tutte le attivita' di insediamento, compresa la loro crescita naturale, e progetti specifici che minaccerebbero la continuita' territoriale delle aree abitate palestinesi, come quelle attorno a Gerusalemme. Nell'intervista Weisglass ha chiarito che cio' non accadra' finche' i palestinesi non adotteranno le misure cui sono tenuti nella prima fase della "mappa stradale", e cioe' lo smantellamento delle strutture del terrorismo.
    Secondo una fonte diplomatica, vi e' la possibilita' che l'amministrazione Bush ascolti educatamente le riserve presentate da Weisglass, e poi pubblichi la "mappa" senza cambiamenti offrendo a entrambe le parti la possibilita' di presentare di nuovo le proprie riserve. Gli europei, dal canto loro, non vogliono esporre il piano a lunghi negoziati. D'altra parte il segretario di stato Colin Powell, durante la recente visita a Bruxelles, ha affermato che il piano semplicemente non potra' funzionare se verra' imposto alle parti. Secondo il Washington Post, sia fra i Repubblicani che fra i Democratici americani sta montando una crescente opposizione verso cio' che sembra profilarsi come un tentativo di imporre il piano a Israele. Il quotidiano lascia intendere che peserebbe in questo senso l'approssimarsi dell'anno elettorale. La "mappa stradale" sara' probabilmente una delle questioni sul tappeto nel prossimo incontro in Irlanda fra il presidente Usa George W. Bush e il primo ministro britannico Tony Blair: quest'ultimo ha chiesto infatti la pubblicazione immediata del piano cosi' com'e'. La posizione di Blair viene generalmente attribuita a preoccupazioni di politica interna, ma vari osservatori a Gerusalemme fanno notare che anche Bush ha problemi al suo interno che spingono invece contro l'idea di esercitare una pressione eccessiva su Israele.
    Nel frattempo e' stata messa in agenda una prossima riunione fra il primo ministro israeliano Ariel Sharon, il ministro degli esteri Silvan Shalom e quello della difesa Shaul Mofaz per discutere la bozza della "mappa" e la posizione israeliana. Israele avanza infatti una serie di riserve. Le principali sono:
    - il calendario previsto dalla "mappa" non e' realistico;
    - deve essere messo in chiaro che i palestinesi devono fare uno sforzo al cento per cento per fermare il terrorismo prima che Israele faccia altre concessioni;
    - il piano di pace saudita (con il suo riferimento al cosiddetto "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi all'interno di Israele) deve essere tolto dalla "mappa";
    - i palestinesi devono riconoscere il diritto di Israele a esistere come stato ebraico, cioe' in sostanza devono abbandonare la pretesa di un "ritorno" in massa all'interno di Israele, prima che venga loro riconosciuto uno stato entro confini provvisori.
    Non c'e' alcuna ragione per discutere adesso la questione insediamenti: essa sara' discussa nel quadro dei negoziati con i palestinesi sullo status finale, come previsto dagli accordi di Oslo. Questa la posizione espressa da Sharon nella riunione di governo di domenica. Sharon ha anche detto che non intende divulgare adesso i dettagli sulle quindici riserve che Israele presentera' agli americani circa la "mappa stradale", e che la mappa verra' sottoposta al governo israeliano, per avere la sua approvazione, solo nella sua versione definitiva.
    Il ministro degli esteri Shalom ha specificato che Israele intende appoggiare la "mappa" nella misura in cui essa rispecchiera' in modo fedele la prospettiva indicata dal presidente Bush nel suo discorso sul Medio Oriente del 24 giugno scorso. In questo senso, secondo Shalom, Israele respinge l'interpretazione palestinese che vede la "mappa" come due binari di impegni paralleli, israeliani e palestinesi. "La lotta contro il terrorismo e' la prima condizione per ogni ulteriore progresso" ha spiegato Shalom, aggiungendo che Israele non e' piu' disposto ad accettare che il terrorismo palestinese accompagni lo svolgimento di negoziati. Israele inoltre vuole che l'applicazione della "mappa" avvenga sotto la guida degli Usa piu' che degli altri tre membri del "quartetto" (Ue, Russia, Onu).
    Durante la discussione di gabinetto, il ministro Tzipi Livne ha chiesto che fosse messo in chiaro che la questione dei profughi palestinesi deve essere affrontata fin dalla prima fase. Secondo la Livne, Israele deve insistere affinche' sia sancito il principio che la nascita di uno stato palestinese estinguera' la questione dei profughi palestinesi. Sharon ha detto che queste preoccupazioni sono tenute presenti nelle riserve che Israele sottoporra' agli Stati Uniti.

(israele.net, 06.04.03 - dalla stampa israeliana)
    


I NEOPACIFISTI IN GUERRA CONTRO LA PACE


Non c'è niente di più tragico che il destino del pacifismo

di Robert Redeker

    Affermando di combattere l'imperialismo, [il pacifismo] si è generalmente schierato a fianco del peggio, come il fascismo, il nazismo, il comunismo, ritrovandosi poi, nella maggior parte dei casi, nel campo dei più decisi nemici della libertà.
    Le manifestazioni contro la guerra che si registrano un po' dappertutto nel mondo non aiutano il pacifismo a uscire dal suo equivoco storico. La retorica pacifista, che divide il mondo in due, l'America e gli altri popoli, non è dissimile dagli slogan antiamericani degli anni Cinquanta, quando i Partigiani della Pace ricevevano gli ordini da Mosca.
    Per esistere, il pacifismo dei nostri giorni è costretto a darsi da fare per occultare le sue radici e la sua storia.
    La retorica usata in tutte le manifestazioni, insistente e dicotomica, oggi che il comunismo è finito nella spazzatura della Storia, ha raggiunto un obiettivo segreto: far dimenticare un evento così importante e mai ricordato come la vittoria degli americani contro il nazismo hitleriano. L'evento rimosso, diventato oggetto di un tabù della memoria che dura ormai da decenni, è che l'America ha protetto l'Europa occidentale dal comunismo.
    Il miracolo americano in Europa occidentale ha avuto un aspetto particolare, quello di avere formato una barriera efficace, impedendo al totalitarismo sovietico di allargare il suo impero fatto di gulag, di manicomi politici, di esecuzioni di massa e di reticolati fino all'Atlantico, rendendo possibile, nei paesi protetti, Francia, Italia, Germania, Benelux, il fiorire di una prosperità generalizzata quale il mondo non aveva mai conosciuto, e con un livello di libertà individuale storicamente inedita fino a quel momento.
    Il Maggio 1968, figlio di Marx e della Coca-Cola, non ha potuto nascere che in seno a questa prosperità e libertà, all'interno dello spazio geografico, ideologico, commerciale e storico, posto al riparo della potenza militare americana.
    Se si considera quello che erano diventate nazioni europee come la Cecoslovacchia, la Germania Orientale o l'Ungheria sotto la dominazione comunista, si può misurare l'entità del bene che ci è stato dispensato dagli americani.
    La retorica pacifista - assai poco pacifica nella virulenza aggressiva manifestata nei confronti degli Stati Uniti - si presenta come la retorica dell'oblio di quell'evento memorabile. Sono i benefici di civiltà dell'America che tutte le manifestazioni di oggi tentano di nascondere, inserendosi nella storia filototalitaria del pacifismo.
    "Guerra all'America" costituisce, dopo sessant'anni, l'unica parola d'ordine di tutti i pacifismi. Eppure è grazie agli Stati Uniti, alla potenza del suo esercito se oggi, malgrado gli odî pacifisti, non siamo né «rossi» né «morti».
    I neopacifisti di questi giorni si danno da fare per nascondere i benefici che ci ha portato l'America. Lo fanno perché sarebbero costretti a riconoscere uno doppia verità: da un lato, non sono i popoli che si sono liberati dal nazismo, ma è l'esercito americano, gli «angloamericani», come li chiamava con odio la propaganda di Vichy, cui si deve la liberazione; e d'altro lato, non sono i popoli che hanno protetto l'Europa occidentale dal comunismo, nel quale i pacifisti hanno sempre trovato un certo fascino, ma è la politica americana. Il sintagma «gli anglo-americani» in un contesto di demonizzazione, come succede tutti i giorni nelle manifestazioni di piazza, suona strano alle nostre orecchie francesi.
    Aggiungere, come succede spesso in queste manifestazioni, anche attacchi contro Israele, ci riporta agli anni oscuri, antinglesi, antiamericani e antisemiti dell'occupazione nazista. A quel tempo la propaganda nazista e di Vichy mostrava nei cinema le immagini dei bombardamenti «angloamercani» per accusarli di barbarie e d'inumanita.
    Il pacifismo attuale, con il suo vocabolario ambiguo, non si pone al disopra dei due campi, all'altezza dell'idea filosofica di pace, ma si rivela, quando si analizzano i suoi slogan truculenti, l'esatto contrario del pacifismo, si esprime con un discorso a due dimensioni, l'America e gli altri, dicotomico e fazioso, senza sfumature, rivolto esclusivamente contro gli americani e a volte contro gli israeliani, in modo particolarmente aggressivo.
    Questo neopacifismo planetario è, per la sua violenza e la sua ostilità contro l'America, un altro discorso di guerra. Chiama alla mobilitazione, al combattimento, a forme di guerra.
    Non è che Bush abbia avuto per forza ragione, con una propaganda fallimentare, a demonizzare a sua volta l'Iraq, trasformando l'antica Bagdad in nemica del genere umano, ma i neopacifisti riducono l'America a capro espiatorio di tutti i popoli.
    Il debito non riconosciuto verso la potenza dominatrice si aggiunge all'astio massiccio contro il più forte e il più ricco. Al di fuori della politica, il rifiuto astioso della potenza genera irresponsabilità storica.
    Rifiutare la potenza, in particolare quella di un impero non totalitario e portatore di valori democratici come gli Stati Uniti, significa militare a favore di una legge planetaria della giungla, della divisione del mondo tra signori della guerra e tecnocrati, favorire il neofeudalesimo di interminabili conflitti, la guerra civile senza fine.
    La battaglia dei neopacifisti, senza che essi se ne rendano conto è la battaglia contro la pace, perché resta inchiodato all'astio contro la potenza.
    I pacifisti non arrivano a capire che occorre diffidare dei popoli. Essi vedono nel numero la ragione. Credono che il popolo sia il vero Bene e la parola del popolo l'enunciazione di tale Bene. Ora, in genere i popoli non vogliono il Bene, vogliono essere lasciati in pace ad alienarsi, consegnandosi al consumo, alle religioni, alle tradizioni, al loro particulare. Vogliono una servitù volontaria e pacifica ai simboli.
    Gli iraniani in lotta contro lo Scià, lotta sostenuta dagli intellettuali occidentali, tra cui Michel Foucault, col pretesto dell'assoggettamento dello Scià agli Stati Uniti, lungi dal lottare per la loro libertà, lottavano per un servaggio ancora maggiore, ma ai loro occhi più esaltante, quello dell'alienazione religiosa assoluta del governo degli ayatollah e dei mullah.
    I popoli vivono la politica - e nel caso degli Stati Uniti la politica s'identifica con la potenza - come l'ostacolo alla loro alienazione tanto desiderata.
    Nell'identificazione del Vero e del Bene con i popoli e con il moto della Storia, hanno origine tutti gli errori sistematici dei pacifisti e la loro scelta a favore dei totalitarismi - le cui ideologie pretendono sempre di essere popolari - piuttosto che degli Stati Uniti, il cui sistema di valori individualisti e democratici dispiace nella misura esatta che viene assimilato alla potenza.

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Robert Redeker è docente di filosofia e fa parte del comitato di redazione di «Les Temps Modernes» (trad. di l.t.).

(Le Monde, 25 marzo 2003 - da livuso)



TESTIMONIANZA DI EBREI FUGGITI DALL'IRAQ


"Non smettiamo di preoccuparci"
   
D. e P. Sono immigrati in Israele dall'Irak diciotto mesi fa. "A Baghdad avevamo una vita segreta. Nessuno sapeva che eravamo ebrei, nemmeno i nostri figli. Dall'inizio della guerra sono incollati alla televisione: "Stiamo tentando di vedere che cosa hanno bombardato gli americani nel nostro quartiere, le case dei nostri amici". E no, non hanno sigillato una stanza.
   
di Yossi Yehoshua
   
    È da oltre una settimana che D. e P., di Ramat Gan, non hanno avuto un'intera notte di sonno. Quanto più le forze della coalizione si avvicinano a Baghdad, tanto meno essi dormono. E non per paura che i missili di Saddam colpiscano la loro città, ma piuttosto perché sono i missili della coalizone che colpiscono Baghdad. Perché là, in uno dei quartieri centrali della città, non lontano da uno dei lussuosi palazzi di Saddam, sono rimasti i loro parenti più stretti.
   
    D. e P., entrambi di 38 anni, sono fra gli ultimi ebrei iracheni immigrati in Israele. Sono arrivati diciotto mesi fa. Dall'inizio della guerra, sono incollati al televisore, tentando di individuare le zone colpite dai missili, in quella città da cui sono fuggiti: "Tentiamo di individuare i posti che gli americani hanno colpito – spiegava ieri D. – nel nostro quartiere, nel quartiere dove vivono i nostri parenti, le case degli amici o i loro posti di lavoro. Fino a questo momento non abbiamo visto nessuno che sia stato colpito e speriamo che duri".
    D. ha dei parenti in Israele, immigrati negli anni '50. "Quando ho cominciato a pensare di immigrare in Israele, ho preso contatto con una delle mie sorelle – afferma – Le ho chiesto quale fosse la situazione nel paese. Le ho detto: 'Dimmi la verità. Ho sentito che la situazione della sicurezza non è delle migliori'. Lei mi ha parlato dei problemi con i palestinesi e ciò non mi ha spaventato. Ho deciso che Israele era meglio dell'Irak".
    D. racconta che la vita a Baghdad si svolgeva sempre all'ombra del tiranno Saddam e dei suoi due figli, Kusay e Uday. "Mi sono imbattuto diverse volte in Uday – dice – Era sempre circondato dalle guardie del corpo e da molte ragazze. Se vedeva una bella donna, la prendeva immediatamente. Scappavamo, quando lo vedevamo, perché mia moglie è una bella donna ed io avevo paura che me la portasse via".
    Secondo D., anche l'altro figlio, Kusay, è un grande donnaiolo: "Un giorno, le sue guardie del corpo si presentarono in casa di un mio amico e chiesero di sua moglie. Egli chiese chi fossero ed essi risposero che erano 'uomini di Kusay'. Il mio amico, che temeva per la propria vita, chiamò sua moglie, che fu portata via dalle guardie del corpo. Il giorno dopo, il mio amico fu costretto al divorzio".
    Stando a D., la vita degli ebrei a Baghdad andava 'bene', finché non dicevano a nessuno di essere ebrei. "Gli ebrei fanno di tutto per nascondere la loro appartenenza religiosa – dice – Nessuno, a parte i nostri parenti più stretti ed i nostri amici della Comunità, sapeva che mia moglie ed io eravamo ebrei. Nemmeno ai nostri figli avevamo detto che erano ebrei. Glielo abbiamo detto solo dopo aver lasciato l'Irak.".
    La coppia mantenne il segreto sulle loro intenzioni di lasciare l'Irak con i loro tre figli di tenera età. La sola persona con cui parlarono dei loro piani fu un loro fedele amico, Ali, abitante a Baghdad. "Invitai Ali e gli dissi: 'Senti, siamo amici da quasi

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vent'anni. In tutti questo tempo, ti ho tenuto nascosto il mio più grande segreto. Sono ebreo'. Rimase sbigottito e mi chiese: 'Perché non me lo hai mai detto?' Dopo pochi minuti, quando si fu calmato, gli dissi che avevo bisogno del suo aiuto per arrivare in Israele. Ali era un vero amico e disse che lo sarebbe rimasto".
    Un giorno, era inverno, dissi ai bambini che partivamo per una vacanza in Kurdistan. Facemmo i bagagli, prendendo solo i vestiti, e lasciammo la casa in taxi, alle due del mattino. Fu una notte terribilmente difficile per me e mia moglie, lasciare la nostra casa e la nostra città senza nemmeno salutare gli amici ed i vicini".
    " Quando arrivammo al posto di confine con il Kurdistan era già giorno. I miei figli passarono per primi, poi passò mia moglie ed io rimasi indietro da solo. Avevo davvero paura. Lo stomaco mi tremava. Quando arrivò il mio turno, la guardia mi disse: 'Torna indietro a Baghdad'. Gli risposi: 'Sono un commerciante di Baghdad. Ho lasciato là i mei beni. Lasciami passare'. Non me lo permise ed io tentai di offrirgli del denaro. Lo rifiutò, dicendo: 'No, no, torna indietro'. I capelli  bianchi che ho in testa, mi vengono da quei pochi minuti, in cui fui separato da mia moglie ed i miei figli. Poi vidi che guardava con interesse il mio accendino, che era d'oro ed era appartenuto a mio padre. Glielo diedi e passai la frontiera".
    La famiglia passò poi la frontiera con la Turchia senza problemi e ad Istambul presero contatto con l'Ambasciata israeliana, da cui ebbero aiuto per fare l'alià in Israele. "Ho affittato un appartamento a Ramat Gan. Avevo sentito dire che ci sono molti iracheni a Ramat Gan e che mi sarebbe stato più facile, per via della lingua e dell'ambiente culturale", afferma D., sorridendo.
    La coppia ha cercato a lungo lavoro, senza successo. Dopo sei mesi, D. si è rivolto al sindaco di Ramat Gan, Zvi Bar, chiedendo aiuto. "Il mio incontro con Zvi Bar mi ha cambiato la vita", ha affermato ieri, emozionato.
    Bar ha aperto le porte al nuovo immigrato, aiutandolo a pagare l'affitto ed a trovare un lavoro che gli piacesse: un chisco per la vendita di sabiach, servita nella pita fatta in casa da P.
    Sei settimane fa, D. di si è recato alla stazione del Comando del Fronte interno di Ramat Gan, per rinnovare il kit di protezione e ricevere le nuove maschere anti-gas. "Faccio ciò che mi dicono di fare. Anch'io so che [Saddam] ha le armi chimiche e non voglio correre rischi". Ciononostante, la famiglia non ha approntato una stanza sigllata. "Per questo c'è tempo – dice D. – Penso che la battaglia durerà ancora qualche tempo e solo quando gli americani avranno vinto e Saddam deciderà di suicidarsi, userà le armi che ha a disposizione".
    Uno dei parenti di D. dice che la storia della coppia è unica: "Non è stata un'alià, è stata una fuga. È dall'inizio della guerra che D. sta male. Ha l'animo diviso. Deve preoccuparsi sia per la famiglia in Israele che per quella in Irak".
    "Sono tempi difficili per noi – ripete D. – Abbiamo sentito del bombardamento del mercato a Baghdad e ne siamo affranti. Sappiamo che la gente là non è come Saddam, ma per causa sua, essi sono condannati a morte".
    La coppia contatta i famigliari di Baghdad ogni due giorni, per essere sicuri che stiano bene. "Parliamo in codice e la parola Israele non viene nominata– dice P. – Ieri ci hanno detto che un missile è attarrato vicino a casa loro. Per fortuna non si sono fatti nulla".
   

Gli ebrei iracheni. Circa 40 ebrei nel centro di Baghdad

    Nella Comunità di origine irachena in Israele, vi è grande preoccupazione per la sorte dei loro parenti rimasti a Baghdad. Mordechai Ben Porat, presidente del Centro di Retaggio Babilonese [così vengono chiamati gli ebrei iracheni] in Israele ha detto ieri che "per il momento non vi sono informazioni sulla loro sorte. Spero sinceramente che non siano stati colpiti".
    "Sappiamo che vi sono circa 40 ebrei nel distretto di Taween, nel centro della città, nelle vicinanze dell'ultima sinagoga rimasta, delle 53 che funzionavano negli anni '50", ha aggiunto.
    Secondo Ben Porat, 200 ebrei hanno lasciato l'Irak nel corso degli ultimi cinque anni. La maggioranza è emigrata in Europa e alcuni sono venuti in Israele, stabilendosi in tutto il paese.
    "Agli ebrei non mancano i viveri – afferma Ben Porat – Lavorano, si guadagnano da vivere e vivono in una comunità molto legata. Nel corso degli anni ho ricevuto spezzoni di notizie sulle loro condizioni, tramite diversi canali, che, per ovvie ragioni, non posso rivelare. Fino ad ora, gli iracheni non hanno quasi mai fatto loro del male".

(Yedihot A'haronot, 29.03.03 - da Keren Hayesod, n. 223)



MEZZI ONU USATI COME COPERTURA DA TERRORISTI PALESTINESI


    Gruppi terroristici palestinesi usano le strutture e i veicoli dell'UNWRA (l'agenzia Onu per l'assistenza ai profughi palestinesi) in Libano, Siria e nelle aree dell'Autorita' Palestinese per nascondere e trasportare armi e terroristi sfuggendo ai controlli israeliani, e si avvalgono di personale Onu per coprire le loro attivita'. La denuncia viene dalle Forze di Difesa israeliane che hanno trovato conferma ai loro sospetti nelle dichiarazioni di diversi terroristi arrestati.
    E' il caso ad esempio di Nahed Rashid Ahmed Attalah, 38 anni, impiegato dell'UNWRA, residente nel campo palestinese di Jabaliyah (striscia di Gaza), arrestato lo scorso agosto al suo rientro da un viaggio in Egitto. Attalah, direttore di un magazzino dell'UNWRA, aveva a disposizione un veicolo e un lasciapassare che gli permettevano di spostarsi tra Cisgiordania, striscia di Gaza e Israele senza limitazioni. Attalah ha confermato d'aver usato piu' volte le credenziali Onu per trasportare terroristi e armi nella sua auto, che era esente dalle perquisizioni delle forze di sicurezza israeliane, e d'aver usato il lasciapassare per recarsi in Egitto, Libano e Siria dove si incontrava con rappresentanti del Fronte Popolare palestinese, dai quali riceveva soldi, armi e istruzioni.

(Jerusalem Post, 01.04.03 - da israele.net)



HUDA AMMASH, CAPO DEL PROGRAMMA IRACHENO DI ARMI BIOLOGICHE


Huda Ammash è la figlia di Saleh Mahdi Ammash, un ex ministro della Difesa che si suppone sia stato assassinato da Saddam Hussein perché visto come un potenziale concorrente per il potere. Un'immagine, recentemente trasmessa in televisione, di una riunione della leadership irachena mostra Huda seduta accanto al figlio di Saddam Hussein, Qusai Saddam Hussein. La sua apparizione ha portato ad un breve articolo scritto su di lei da Zuhair Al-Mukh, un accademico iracheno che risiede a Vienna. L'articolo è stato pubblicato dal quotidiano saudita pubblicato a Londra Al-Sharq Al-Awsat (1). Ecco alcuni estratti dell'articolo:


Una leader del partito Ba'ath dell'Iraq

"Nella cultura politica comune, c'è un detto spesso ripetuto secondo cui l'entrata di una donna da qualsiasi porta nella campagna politica non è altro che un'attività cosmetica per uomini che esercitano l'autorità assoluta. In questo giudizio c'è molto di vero, ma non è una regola utile per tutti i casi. Un'eccezione a questa regola è Huda Saleh Mahdi Ammash che è diventata, dal maggio 2001, la prima donna, e forse l'ultima, a far parte della leadership del partito Ba'th al potere in Iraq".
 
"Alcuni la considerano come una leonessa pronta a piombare sulla sua preda; altri la chiamano 'una volpe'. La verità è che lei è tutt'e due: ha il coraggio di una leonessa e la furbizia di una volpe. Lei sa quando apparire con efficacia sulla scena... e quando avvalersi di un'opportunità. Lei rappresenta la maggiore incongruenza conosciuta nella politica irachena contemporanea: suo padre Saleh Mahdi Ammash, che verso la fine degli anni Sessanta dell'ultimo secolo occupava l'incarico di vice presidente e ministro della Difesa... fu assassinato da Saddam, ma la figlia è ubbidiente all'assassino di suo padre".
 
"Huda Ammash è nata nel 1953 a Bagdad in una casa intrisa di politica. Suo padre, che partecipò attivamente al rovesciamento del regime di Abd Al-Rahman Aref nel 1968, procurò molte opportunità a sua figlia quando lei decise di entrare nel partito Ba'ath mentre era ancora una studentessa della scuola superiore".

"Agli inizi degli anni '70, si iscrisse agli studi di biologia nello Science College dell'Università di Baghdad, laureandosi nel 1975.  Furono anni difficili per lei a causa dei travagli di suo padre…".
  
"In realtà, la timida ed esitante studentessa non prestò molta attenzione al destino di suo padre, considerandolo una tassa nella lotta per gli alti princìpi in cui lei credeva. Ci fu una notevole trasformazione nella sua personalità, dato che conseguì una crescente fiducia nell'organizzazione e nella realizzazione. Lei è della seconda generazione del Ba'ath, ma improvvisamente decise di lasciare l'Iraq perseguendo un'istruzione più alta... Ha conseguito un Master in Microbiologia nell'Università del Texas e un Ph.D. nello stesso campo nell'Università del Missouri nel 1983.  E' tornata immediatamente in Iraq come una donna con una vocazione e con un messaggio".

"Essendo infaticabile, è stata inviata dal partito in molti paesi arabi, inclusi Giordania, Libano e Yemen, per svolgere un ruolo attivo nello stimolare le cellule irachene del partito Ba'ath... Lei racchiude più di una personalità. Oltre a essere una personalità politica, è stata docente di biologia all'Università di Baghdad (1990-1995), oltre ad essere incaricata degli studenti e dell'ufficio della gioventù [del partito] ".


Il ruolo di Huda Ammash nello sviluppo delle armi biologiche

"Il suo assolutamente più pericoloso incarico è stata la presidenza della "Società irachena delle scienze mediche" nel 1996.  I servizi segreti americani ritengono che Huda Ammash abbia avuto un ruolo centrale nel rivitalizzare il programma per lo sviluppo di armi biologiche dalla metà degli anni '90".
  
"Fonti vicine al Gruppo di ispezione delle Nazioni Unite suggeriscono che Huda Ammash abbia ricevuto un addestramento concertato [da parte di] Nasser Al-Hindawi, generalmente ritenuto all'estero 'il padre' del programma di armi biologiche dell'Iraq".

"Huda Ammash non si è lamentata, come altri camerati, dei compiti pesanti che si è addossata. Ha continuato, come il fuoco dell'inferno, a cercare di più. Infatti, più tardi è stata nominata segretaria dell'ufficio professionale del partito. Ed è anche diventata un membro del comitato centrale del partito".

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Nota:
(1) Al-Sharq Al-Awsat (Londra), 29 marzo 2003.

(The Middle East Media Research Institute, 03.04.2003)



IDEALISMI SENZA SAGGEZZA


Chi ha ucciso Rachel Corrie?

di Dennis Prager

    Rachel Corrie, la studentessa universitaria di Olympia (Washington), uccisa per aver tentato di proteggere una casa palestinese – una casa, ricordate, non un essere umano – da un bulldozer israeliano, probabilmente non meriterà neanche una nota a piè di pagina nei libri di storia. E' veramente terribile, poiché la sua vita e la sua morte, il modo in cui è stata ritratta da alcuni media, e le reazioni della sua università sono esempi potenti di un'America con molti individui moralmente confusi.
    Un giornalista del Seattle Times l'ha descritta come una martire. Il quotidiano della sua città, The Olympian, ha pubblicato numerose fotografie di una donna dall'aspetto dolce, dall'infanzia in poi. Ha omesso una foto di Rachel Corrie pubblicata dal quotidiano USA Today, per suo credito – quella di Corrie che inveiva contro l'America, bruciando una bandiera americana a Gaza.
    Chiunque abbia un cuore deve estendere le sue più profonde condoglianze ai genitori di Rachel Corrie. Ma chiunque abbia una coscienza deve considerare le attività di Rachel Corrie con disprezzo. Si spera che non sia troppo chiedere alla gente di provare simultaneamente due sentimenti in conflitto fra di loro – dolore per i genitori e disprezzo per la figlia.
    Rachel Corrie ha scelto di stare dalla parte di una società che ha nutrito i più crudeli assassini di gente innocente nel mondo. Rachel Corrie ha dato la sua vita, cercando di proteggere delle persone il cui scopo dichiarato è quello di annichilire un altro paese. Con la pretesa di salvare vite di bambini, Rachel Corrie ha scelto di difendere una società che insegna ai suoi giovani a farsi saltare in aria, e che sceglie deliberatamente dei bambini per farli morire. E Rachel Corrie si è recata dai nemici americani per bruciare la bandiera del suo paese.
    Lei è stata uno dei tanti folli che ogni anno producono le nostre università. Il College dell'Evergreen State è considerato il migliore in questo campo. Qualcuno è a conoscenza di un solo studente o membro di facoltà che ha ripudiato le sue attività?
    Ci viene detto ripetutamente che Rachel era un'idealista – come se è questo che importa. Virtualmente chiunque commetta un grande male – un Nazista, un Comunista, un terrorista islamico – è un'idealista. L'idealismo è moralmente neutrale. E' retto solo se
   
 
  Rachel Corrie
diretto a fini giusti. Ma nei giovani, l'idealismo conduce sia al bene che al male, poiché solo pochi giovani sono saggi – un idealismo senza saggezza è molto pericoloso.
    Ci ripetono alla nausea che Rachel Corrie era una "attivista pacifista". Allora diciamo una volta per tutte che la maggior parte di queste persone sono moralmente fraudolente. Perché? Perché "gli attivisti pacifisti" protestano continuamente solo contro i paesi pacifici. C'è stato mai qualche universitario o "attivista pacifista" in Sudan mentre erano in corso i massacri e lo schiavismo di milioni di neri, ad opera del governo islamico? Dov'erano gli "attivisti pacifisti" quando la singolare cultura del Tibet veniva sradicata dai Comunisti cinesi? Avete mai notato qualche "attivista pacifista" che cercava di salvare i milioni di nord coreani morti per le mani del loro governo lunatico? Naturalmente no. Rachel Corrie ed altri "attivisti pacifisti" prendono di mira solo Israele e l'America, che amano la pace.
    Perché lo fanno?
    La risposta è una sola.
    Il mondo è pieno di male, ed ai  giovani idealisti come Rachel Corrie questo non piace. Il che è anche bello. Ma non attaccano il male vero, perché sanno che potranno farsi molto male. Per questo non ci sono "attivisti pacifisti" o "scudi umani" che affrontano il terrore islamico, o il regime totalitario della Corea del Nord, o il dispotismo della Cina Comunista.
    Allora cosa fa un idealista che rifiuta di affrontare il vero male ma si vuole sentire bene? Ironicamente, affronta quelli che combattono il vero male. Per questo Rachel Corrie ed i milioni che marciano per proteggere l'Iraq di Saddam Hussein non hanno mai detto nulla contro il terrorismo palestinese, contro il totalitarismo iracheno o contro i gulag nord coreani. Al contrario, concentrano i loro rancori sui paesi che affrontano questi mali – gli Stati Uniti ed Israele.
    Perciò Olympia, piangi pure per i parenti di Rachel Corrie, ma risparmiaci l'agiografia. Rachel Corrie è morta combattendo per il Movimento di Solidarietà Internazionale, un dedito gruppo palestinese che si è dichiarato apertamente in "lotta armata" contro Israele. Rachel ha finito per essere un'utile idiota (ma anche un'altra vittima) del terrorismo palestinese.

(Town Hall, 25.03.2003)

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Questo articolo è stato tradotto da Susanna Giovannini, che si è anche offerta di tradurre in futuro altri articoli per questo notiziario, in modo regolare e disinteressato, "solo per un profondo amore verso Israele", come ha detto. La ringraziamo calorosamente per questa sua preziosissima, fraterna collaborazione . M.C.



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