Notizie su Israele 169 - 21 aprile 2003


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«Volgetevi a me e siate salvati, voi tutte le estremità della terra! Poiché io sono Dio, e non ce n'è alcun altro. Per me stesso io l'ho giurato; è uscita dalla mia bocca una parola di giustizia, e non sarà revocata: Ogni ginocchio si piegherà davanti a me, ogni lingua mi presterà giuramento. "Solo nel SIGNORE", si dirà di me, "è la giustizia e la forza"»; a lui verranno, pieni di vergogna, quanti si erano adirati contro di lui. Nel SIGNORE sarà giustificata e si glorierà tutta la discendenza d'Israele.

(Isaia 45:22-25)



ARAFAT E SADDAM HUSSEIN: GLI EROI VITTORIOSI DEI PALESTINESI


Quando c'è di mezzo Israele, le cose sono sempre speciali. Durante l'ultima guerra in Medio Oriente i palestinesi hanno chiaramente preso posizione per l'Iraq con entusiastiche manifestazioni di popolo in appoggio a Saddam Hussein. Hanno inneggiato al «macellaio di Bagdad» e l'hanno accomunato a Yasser Arafat con visibilissimi cartelli. Arafat e il primo ministro designato, Abu Mazen, hanno tranquillamente lasciato che la piazza si esprimesse per Saddam e contro Bush. Al presidente palestinese però gli americani non hanno chiesto di dissociarsi pubblicamente, minacciando eventuali ritorsioni, come sarebbe stato naturale aspettarsi. No, gli americani adesso si accingono a premiare Arafat e compagni con la promessa di riprendere il percorso che porterà alla formazione di uno Stato Palestinese. Una voce che comincia a circolare dice che gli arabi non erano favorevoli a Saddam, ma pur essendo contrari al dittatore iracheno non possono accettare l'occupazione americana. Per i palestinesi questa spiegazione certamente non sta in piedi. Ecco alcune foto che confermano quello che in realtà è ben noto, ma su cui, come su molti altri fatti, si preferisce sorvolare. M.C.

  
Giovani palestinesi esibiscono i ritratti di Yasser Arafat e Saddam Hussein agitando una bandiera dell'Iraq durante una dimostrazione che si è tenuta il 3 aprile nel campo profughi di Jenin. Migliaia di dimostranti hanno marciato per le strade di Jenin in occasione del primo anniversario dell'operazione "Muraglia di difesa" fatta dall'esercito israeliano.


  
Terroristi palestinesi di Hamas con il lenzuolo bianco dei martiri e la scritta rossa "martire" sul petto marciano tenendo un'immagine di Saddam Hussein durante una dimostrazione tenuta a Nablus il 4 aprile. Migliaia di palestinesi cantano cori in sostegno di Saddam e avvertono il Presidente Bush che i "guerrieri dell'Islam" lo sconfiggeranno.
Un ragazzo palestinese avente sulla fronte una fascetta della brigata dei martiri di Al Aqsa prende parte a un corteo di macchine durante le manifestazioni del 3 aprile. Ben visibili le immagini di Arafat e Saddam.

  
Saddam Hussein e Yasser Arafat sono rappresentati insieme come eroi vittoriosi in un ritratto esposto nella vetrina di un negozio di Jenin, in occasione delle manifestazioni del 3 aprile scorso in Cisgiordania.




Arafat e Saddam, due grandi amici accomu- nati da un grande «ideale»: distruggere Israele. Uno di loro è stato già distrutto. E l'altro?


Per avere un'idea dei collegamenti tra l'Iraq di Saddam Hussein e il terrorismo palestinese ---> cliccare



COME TRASFORMARE UNA SCONFITTA MILITARE IN UNA VITTORIA POLITICA


Arafat si sta muovendo per riempire il vuoto nel mondo arabo

di Neill Lochery

La storia ci ha insegnato che gli arabi non reagiscono ad una schiacciante umiliazione sul campo di battaglia correndo a fare concessioni al tavolo politico. Il presidente egiziano Gamal Nasser, dopo l'umiliante sconfitta dell'Egitto nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, non si mise al telefono con il primo ministro israeliano Levi Eshkol. Piuttosto, nei mesi successivi diede inizio ad un'altra guerra di minor impeto con Israele, per quello che definì "la rivendicazione dei territori arabi attraverso la guerra di logoramento". Fondamentale nella strategia di Nasser era il bisogno di riconquistare l'onore arabo. In una società dove l'onore vale più della verità, non bisogna sottovalutare l'importanza di questo aspetto. D'altra parte, noi occidentali semplicemente non riusciamo a capire appieno la correlata idea che i leader arabi possano trasformare una sconfitta militare in una vittoria politica.
    Al posto di Nasser nel 1967, metti Yasser Arafat nel 2003. Il mondo arabo è appena uscito dalla sua peggiore sconfitta dopo il 1967. I carri armati americani occupano una capitale araba, e c'è un'avvisaglia (attualmente non molto palese) che quegli stessi carri armati potrebbero procedere verso la Siria. Detto questo – ed il fatto che due anni e mezzo di violenza palestinese hanno ridotto la possibilità di realizzare uno stato palestinese – la cultura politica democratica occidentale si aspetterebbe che Arafat mostrasse una certa flessibilità nell'attuale posizione verso Israele. Davanti a questo bivio, la logica occidentale vorrebbe che almeno non provocasse l'ira di Washington. Sbagliato! In una chiara dimostrazione della cultura politica araba, Arafat si è mosso nella direzione opposta. Ha intrapreso quella che per lui è una strategia ad alto rischio, usando la guerra in Iraq come mezzo per ricostruire il suo traballante potere nella comunità palestinese, piuttosto che per riparare i suoi disintegrati rapporti con l'amministrazione Bush.
    La costernazione diffusasi a Washington in questa settimana per la decisione di Arafat di opporsi ad un nuovo Gabinetto Palestinese nominato dal primo ministro palestinese Abu Mazen, riflette una mancanza di comprensione da parte dei dirigenti americani per la scelta strategica fatta dal signor Arafat. In breve, il signor Arafat ha sprecato la rara apertura di opportunità che gli si era aperta davanti. Con gli Stati Uniti ormai divenuti impopolari nella società palestinese, dopo tutte le immagini trasmesse dai canali televisivi arabi sui civili iracheni feriti ed uccisi, Arafat vuole vincere la sua politica domestica continuando a resistere agli Stati Uniti.
    In verità, il signor Arafat sta guardando al più vasto mondo arabo. Con Saddam Hussein morto o nascosto, il presidente egiziano Hosni Mubarak e il re Abdullah di Giordania nei guai con il proprio popolo per aver dato agli americani il via libera per procedere in Iraq, e l'ex leader ideologico del mondo arabo - il presidente Assad di Siria - con un piede nella tomba, Arafat si sta muovendo per  riempire un vuoto importante nel mondo arabo. In breve, Arafat si considera il più anziano statista del mondo arabo, il suo nuovo, cruciale leader ideologico. L'ideologia qui viene definita come opposizione (vera o apparente) ad un governo imperiale estero (Israele o gli Stati Uniti).
    Il momento che ha scelto non poteva essere più significativo, poiché non sarebbe troppo drammatico prevedere che le prossime settimane saranno le più importanti nella storia del movimento nazionale palestinese dopo il 1948. Con una posta in palio così alta, non sorprende che sia così aspra la lotta per il potere fra quelli che potremmo liberamente definire "i modernisti" o "i riformisti" all'interno dell'Autorità Palestinese e la vecchia guardia dei "rivoluzionari ". Il Primo Ministro era un "protetto" di Arafat e gli è servito da deputato, ma negli scorsi mesi i due sono giunti a rappresentare ciò che un commentatore ha definito "il futuro e il passato".
    Ci si dovrebbe congratulare con Mazen per aver nominato un Gabinetto che allontana la sicurezza e le finanze palestinesi dal potere del signor Arafat e dei suoi rivoluzionari non riformisti. Il suo problema maggiore, tuttavia, è che non è particolarmente apprezzato dai palestinesi. Ed è qui che Arafat sta usando la guerra irachena per minare ulteriormente la posizione di Mazen nella società palestinese, con i suoi appelli al sentimento popolare. Purtroppo, ancora una volta pare che Arafat stia mettendo la sua sopravvivenza politica e personale al di sopra e prima dei bisogni della gente.
    Da tutto questo appare chiaro che gli Stati Uniti debbono trattare con cautela Arafat, altrimenti rischiano di permettergli di indossare la veste dell'eroe arabo, nel suo tentativo di restaurare l'onore arabo per i suoi scopi personali. In mezzo a tutta questa bassa politica, bisognerebbe ricordare che Mazen offre la strada migliore sia alla popolazione palestinese che alla regione. Sono momenti di tensione, ma se Mazen tiene a bada i suoi nervi e se gli Stati Uniti ed Israele gli danno quel che gli basta per aiutarlo senza farlo apparire un fantoccio, ci potrebbe essere veramente la possibilità di portare avanti quei negoziati fra gli israeliani e i palestinesi che già procedono in segreto.
    L'alternativa è permettere ad Arafat di trasformare l'attuale sentimento antiamericano in una giustificazione per continuare la lotta armata contro Israele.

(National Post, 17 aprile 2003)



E' ESISTITO SADDAM HUSSEIN?


«No, Saddam Hussein & C. non sono mai esistiti. La prova? Nonostante le ricerche che durano da tre settimane, i soldati della coalizione non sono mai riusciti a trovarli né a scovare la minima traccia...»
    Questo finiremo per sentir dire dai pensosi commentatori che dagli schermi televisivi tutti i giorni ironizzano sulle armi chimiche o di distruzione di massa «che erano state il pretesto dell'intervento in Iraq» e che i soldati «non riescono a trovare».
    Non le trovano, dunque non ci sono. Del resto, francamente, da quando sono in Iraq, paese grande come la Francia, non hanno avuto nient'altro da fare che cercare!
    Idem per i legami col terrorismo: inesistenti, ci dicono. Beh, Abbu Abbas, d'accordo... ma questo risale a 18 anni fa. Quanto a Leon Klinghoffer, «un americano ucciso sull'Achille Lauro», spesso si dimentica di dire che l'anziano ebreo assassinato era legato su una sedia a rotelle che è stata fatta rotolare in mare.
    E la villa con gli ostaggi, il campo di addestramento del FLP in funzione, tutto questo non prova niente. Proprio niente!
    Non più delle centinaia di vesti imbottite d'esplosivo, ultimo grido della moda per bombe umane, accuratamente appese sulle loro grucce. Neppure l'ombra di un legame col terrorismo, dunque.
    Non più delle migliaia di dollari versati da Saddam Hussein alle famiglie delle bombe umane palestinesi. Di questo non si parla mai.
    E' normale, perché Saddam Hussein, introvabile, non è mai esistito; e perché ammazzare a caso dei civili negli autobus, nei ristoranti, nelle discoteche, durante le feste religiose, non è terrorismo. Soprattutto quando le vittime sono israeliene. Dunque, nessun legame.
    Quanto alla popolazione, ha terribilmente sofferto per gli anni di embargo, ci ricordano spesso. Embargo che, stranamente, non ha impedito agli inesistenti Hussein di sedersi su troni d'oro, di bere del Don Perignon, di fumare sigari Avana grossi come bastoni da caccia, di guidare delle Ferrari.
    Però, i kalashnikov dei fantasmi erano soltanto placcati, e non di oro massiccio.
    Quanto al Presidente della Repubblica Francese, pochi giorni fa ha emesso un grido di collera. Per i diritti dell'uomo calpestati dal regime di Saddam (che non è esistito) o da qualcuno dei suoi alleati del campo della pace? No. Perché il museo di Bagdad è stato saccheggiato.
    Dimmi quali sono le tue priorità e ti dirò chi sei.

H. Keller-Lind  

(UPJF, 14.04.2003)



PRESSIONI AMERICANE SU ISRAELE


L'amministrazione Bush ha aumentato le sue pressioni sul governo israeliano affinché alleggerisca le misure prese in Giudea-Samaria e nella striscia di Gaza dopo la formazione del nuovo gabinetto palestinese. Così ha scritto il New York Times, citando i propositi espressi da alti funzionari americani.
    Il giornale precisa che martedì [15 aprile] gli Stati Uniti avrebbero pregato i dirigenti israeliani di procedere rapidamente al trasferimento delle somme congelate nelle casse dell'Autorità Palestinese. Questa richiesta è stata presentata nel corso di un incontro tra il Segretario di Stato americano, Colin Powell, e il consigliere della Sicurezza Nazionale, Condoleeza Rice, i quali si sono intrattenuti con i membri di una delegazione israeliana composta in particolare da Ariel Sharon, Dov Weisglass e l'ex direttore del Mossad, Efraim Halévy. I responsabili americani hanno dichiarato che Israele deve ritirare le sue truppe dai centri urbani dell'Autorità Palestinese, alleggerire i controlli ai posti di blocco e accordare un più gran numero di permessi di lavoro agli operai palestinesi.
    Dopo la vittoria degli alleati sull'Iraq, le pressioni arabe ed europee su Washington sono aumentate. In compenso, degli appelli sempre più numerosi sono stati lanciati al Congresso e al Senato americano in favore di Israele. Settantacinque senatori e duecentocinquanta membri della Camera dei Rappresentanti hanno firmato una petizione in cui pregano l'amministrazione americana di non imporre alcuna misura a Israele. E hanno l'intenzione d'inviare il documento al presidente Bush. Il senatore Richard Lüger ha inoltre proposto un emendamento alla legge sul budget del Segretario di Stato americano.
    Egli ha raccomandato che gli Stati Uniti non riconoscano la legittimità di uno Stato palestinese, se non quando l'Autorità Palestinese dimostrerà, per un certo periodo, la sua determinazione a porre un termine al terrorismo, a smantellare le infrastrutture che permettono le attività ostili a Israele e a sbarazzarsi di tutto l'arsenale illegale che possiede.
    Questo emendamento non è stato ancora approvato.

(Arouts 7, 18.04.2003)



LA ROAD MAP: UN PREMIO AL TERRORISMO


La Carta del Disastro Nazionale

di Uzi Landau

Se la Road Map [Carta stradale] del Quartetto verrà accettata, Yasser Arafat avrà la più grande vittoria della sua vita. Nonostante la lampante violazione di tutti gli impegni del trattato di Oslo, e nonostante che abbia ucciso più di 1.000 israeliani – quasi 800 negli ultimi due anni di terrorismo – non è stato ancora punito. Al contrario, sta rivendicando le concessioni fattegli ad Oslo, e inoltre pretende quello che Yossi  Beilin e Shimon Peres gli avevano rifiutato: la fondazione di uno stato, "indipendente, vitale, sovrano con la massima contiguità territoriale", come principio e senza negoziati. Lo stato è l'obiettivo principale della Carta, frutto della puerile convinzione del Quartetto che la semplice creazione di uno

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stato possa garantire la pace.
    Allo stesso tempo, la Carta non menziona neanche una delle condizioni definite dal governo come essenziali per la nostra sicurezza esistenziale: per esempio, la demilitarizzazione, il controllo completo del nostro spazio aereo, la proibizione all'Autorità di firmare trattati internazionali.
    Per quanto ci riguarda, ci sono due condizioni inalterate: il pubblico riconoscimento del diritto ad esistere di Israele, compresa la fine dell'incitamento a distruggerci nelle scuole palestinesi e l'inculcazione della pace come valore sin dalla prima infanzia, e la rinuncia dei palestinesi ad insistere che i profughi ritornino in Israele.
    Queste richieste, senza le quali non ci sarebbe la possibilità di ottenere la pace, non appaiono come condizioni. Inoltre, l'iniziativa arabo-saudita, che la Carta definisce di "importanza relativa", parla di risolvere il problema dei profughi attraverso la Risoluzione ONU n. 194, che come nucleo centrale comprende il "diritto al ritorno".

Confini
    Quelli che credevano che Israele potesse mantenere il controllo sulle aree di importanza strategica rilevante per la nostra difesa, hanno scoperto che la Carta parla di "mettere fine all'occupazione iniziata nel 1967"; in altre parole, un ritorno a ciò che Abba Eban definì "i confini di Auschwitz".

Internazionalizzazione del conflitto
    Nel primo anno del precedente governo di unità nazionale, Israele fece attenzione a non usare tutto quello che era necessario per sgominare le organizzazioni terroriste in Giudea, Samaria e nella Striscia di Gaza, a non fare cadere l'Autorità Palestinese e a non espellere Arafat. Il prezzo: centinaia uccisi, migliaia di feriti, e un rapido peggioramento verso una profonda e senza precedenti depressione economica, alla quale stiamo ora cercando disperatamente di porre fine. Abbiamo agito in questo modo per prevenire l'internazionalizzazione del conflitto e impedire l'entrata di osservatori stranieri e conferenzieri internazionali che, in effetti, ci avrebbero tolto di mano la sovranità sul controllo del conflitto e avrebbero influenzato la nostra capacità di difenderci efficacemente.
    Questo è precisamente quello che adesso fa la Carta.
    L'internazionalizzazione sotto la direzione del Quartetto: Organizza due conferenze internazionali con lo scopo di fondare lo stato palestinese e portare a un concordato permanente, segue il processo, stabilisce un meccanismo di supervisione della messa in atto, giudica le dispute fra l'Autorità Palestinese e Israele, organizza un "programma realistico" degli sviluppi ed è coinvolto nei negoziati "quando necessario".

Gerusalemme
    La Carta conferisce ai palestinesi uno status politico uguale al nostro e chiarisce che le decisioni nei negoziati sullo stato della città saranno prese in conformità "agli interessi politici e religiosi di entrambi". In altre parole: Gerusalemme sarà divisa. Per eliminare ogni dubbio sulle intenzioni del Quartetto, la Road Map enfatizza: "Il governo di Israele riaprirà gli istituti palestinesi che erano stati chiusi nella parte orientale di Gerusalemme". E fra questi, naturalmente, la nota Orient House.

Un premio dato al terrorismo
    Senza alcuna condizione, per mettere subito fine al terrorismo, Israele ha l'ordine di smantellare immediatamente tutti gli avamposti e congelare ogni attività di insediamento, compresa la crescita naturale: un altro bonus che i palestinesi non avevano ottenuto neanche ad Oslo.
    La Road Map è un premio enorme dato al terrorismo. Con essa i palestinesi non solo raggiungeranno i loro obiettivi strategici, ma giungeranno ad una chiara conclusione: il terrorismo paga. Sguazzeranno nelle concessioni che riverseremo su di loro, si organizzeranno con i soldi che otterranno da noi e dal mondo, ricostruiranno le loro unità terroristiche quando lo riterranno più opportuno. Dopo il trattato di Oslo l'esperienza ci insegna che per noi questa Carta prospetta un futuro in cui il terrorismo sarà molto, molto peggiore.
    Si può capire come mai i membri europei del Quartetto hanno dato inizio alla Road Map. Sono gli unici che attaccano cinicamente il presidente Bush, che sta combattendo la guerra del mondo libero contro Saddam Hussein; e nel corso degli anni, con lo stesso cinismo, hanno chiuso gli occhi di fronte al terribile terrorismo palestinese e dato a noi la colpa. Hanno sostenuto i palestinesi e Arafat, alleati di Saddam, e pretendono che cediamo sempre al terrorismo.
    Gli americani accetteranno le posizioni europee? È possibile che gli Stati Uniti – che considerano il terrorismo come il pericolo maggiore per la civiltà occidentale, e che sono guidati da Bush, il quale ha dichiarato guerra al terrorismo senza concessioni di negoziati finché non sarà totalmente sradicato, come in Afghanistan e in Iraq – adotteranno una Carta piena di concessioni che non fanno che incoraggiare il terrorismo?
    La Road Map non esprime la "visione di Bush", come espressa lo scorso giugno. Questa non è la giusta ricetta per la pace, ma per un disastro nazionale. Accettando questa Carta, arriveremo al terrorismo e alla guerra in condizioni molto più difficili di quanto abbiamo mai conosciuto. Se Israele vuole vivere, deve far sapere nel modo più chiaro possibile e il più presto possibile che senza precondizioni, la Carta è totalmente inaccettabile.

(The Israel Report, 8 aprile 2003)



L'INCITAMENTO RELIGIOSO AL TERRORISMO: UN CRIMINE CONTRO L'UMANITÀ


«Gli Usa organizzano un summit all'Onu per fare mettere l'incitamento al terrorismo per motivi religiosi tra i crimini contro l'umanità»

di Dimitri Buffa

Gli Stati Uniti adesso vogliono introdurre nella legislazione penale internazionale alla voce "crimini contro l'umanità" il reato di istigazione al terrorismo (suicida e non) per motivi religiosi.
    Per perseguire penalmente tutti quegli imam fanatici che istigano all'odio anti statunitense, antisemita e antioccidentale.
    E che poi sono alla base dell'odio che impedisce da una parte di risolvere pacificamente la contesa tra israeliani e palestinesi ma anche, dall'altra, dei movimenti terroristici come Al Qaeda che progettano ed eseguono attentati eclatanti come quello delle Twin Towers.
    L'America quindi vuole aprire il fronte diplomatico, prendendo di petto proprio l'Onu che negli ultimi anni era diventato la cassa di risonanza di tutti gli stati canaglia e finanziatori del terrorismo. Che per banali computi di maggioranze, sono riusciti a infilare la Libia alla presidenza della Commissione dei Diritti Umani, l'Iraq alla Commissione sul disarmo e la Siria come membro non permanente del consiglio di sicurezza.
    L'iniziativa è del World Council of Religious Leader, una Ong che riunisce eminenti rappresentanti delle differenti confessioni religiose ed agisce in collaborazione col Global Ethics Resource Center della Scuola di Diritto del Touro College di New York e con la Facoltà di Giurisprudenza della Fordham University.
    Questa proposta verrà illustrata in un seminario ad hoc che si terrà il prossimo 21 maggio. Per quella data infatti è previsto il primo intervento davanti all'Assemblea Generale contro "chi abusa della religione per incitare al terrorismo". A conclusione dei lavori, il summit presenterà una bozza di risoluzione da sottoporre al voto dell'Assemblea Generale dell'ONU, nella quale per la prima volta il comportamento di chi diffonde il terrorismo sulla base di una lettura estremista e devastante dei principi religiosi dovrebbe essere esplicitamente sanzionato come "crimine contro l'umanità".
    Il gruppo dei partecipanti incaricati di prendere la parola di fronte all'Assemblea dell'Onu e di stendere il documento finale e la bozza di risoluzione comprende il Premio Nobel Elie Wiesel, Sua grazia Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa d'Inghilterra, il Rabbino Capo d'Israele Meir Lau, l'Imam Warith Deen Mohammed dell'American Muslim Society, l'Acharya induista Swami Veda Bharati, Satish Kumar dello Schumacher College, il responsabile dell'UNITAR dell'ONU di New York Ahmed Kamal, il vice segretario del Dipartimento Affari Politici dell'ONU Danilo Turk, l'orientalista canadese Irwin Cotler, l'islamologo Bernard Lewis, il professor Roy Mottahedeh della Harvard University, il professor Harold Koh della Yale University, il prof. Jeremy Waldron della Columbia University e il Commissario ONU per i Diritti Umani Mary Robinson.
    Per l'Italia parteciperà Shaykh Abdul Hadi Palazzi, il segretario dell'Associazione Musulmani Italiani. Palazzi il prossimo anno accademico ricoprirà l'incarico di visiting professor proprio presso la Law School del Touro College di New York: il seminario per l'anno accademico 2003-2004 sarà proprio dedicato a "La condanna del terrorismo e del suicidio secondo i dettami del diritto islamico".
    Il dottor Bawa Jain, segretario generale del World Council of Religious Leader, ha spiegato così l'iniziativa: "Nel momento in cui il mondo contemporaneo è violentemente chiamato a confrontarsi con gli autori di crimini orrendi e con predicatori pseudo-religiosi che violano i diritti umani e la legge internazionale incitando alla violenza in nome di una visione distorta della religione, è necessario rendersi conto dell'importanza cruciale dell'adeguamento della legislazione internazionale in materia. Una legislazione internazionale contro l'antisemitismo e contro l'odio etnico già esiste ed è efficace, ma nulla di simile è stato ancora concepito contro l'istigazione al terrorismo suicida".

(Libero, 16 aprile 2003 - ripreso da Informazione Corretta)



LA POLITICA DELL'IRAN VERSO GLI STATI UNITI DOPO LA CADUTA DI BAGDAD


L'ostilità di Khamenei contro il pragmatismo di Rafsanjani

    In un sermone del venerdì dopo la caduta di Bagdad, il Leader Supremo dell'Iran, 'Ali Khamenei, si è soffermato sui recenti avvenimenti in Iraq. Il suo sermone, tenuto in arabo all'Università di Teheran, è stato evidentemente diretto al popolo iracheno e all'intero mondo arabo.
    Mentre Khamenei continua a fare dichiarazioni ostili sugli Stati Uniti, l'ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che attualmente dirige il potente conservatore Expediency Council, ha assunto una visione realistica delle nuove circostanze ed ha mostrato pragmatismo. In un'intervista al periodico iraniano Rahbord ["Strategia"], pubblicato dal Centro iraniano di ricerche strategiche, ha affermato di non escludere cambiamenti nell'atteggiamento tradizionalmente ostile dell'Iran verso gli Stati Uniti (e l'Egitto) e ha notato che, benché gli Stati Uniti siano percepiti dall'Iran come una minaccia - o forse proprio per questo - un cambiamento nella tattica potrebbe essere una buona strada per migliorare la posizione dell'Iran.
    A quanto pare, questo approccio pragmatico nei confronti degli Usa è un tentativo di saggiare le reazioni di alti funzionari conservatori dell'Iran alla caduta di Bagdad (l'Iraq, va ricordato, era il primo dei tre paesi dell'"asse del male"). La posizione di Rafsanjani, a quanto pare, è emersa anche a seguito delle crescenti apprensioni dell'Iran per l'atteggiamento statunitense sui suoi tentativi di acquisire armi nucleari.
     Anche prima della guerra, la politica iraniana è stata mirata a prepararsi a qualsiasi eventualità (1), ma le dichiarazioni di Rafsanjani sono andate molto più in là di qualsiasi precedente dichiarazione dei leader iraniani riguardanti gli Stati Uniti. Sebbene Rafsanjani sia più noto per le sue posizioni di estremista conservatore, è stato il primo leader iraniano post-rivoluzionario a fare dichiarazioni pragmatiche, a partire dal 1983.


Rafsanjani sul futuro dei rapporti con gli Stati Uniti

"E' vero che, nei primi anni dopo la Rivoluzione islamica in Iran del 1979, gli esperti più sperimentati del Ministero degli Esteri sono fuggiti dal paese o sono stati cacciati... Allora un gruppo di giovani prese il controllo degli affari del ministero. Ma gestire gli affari del ministero richiede conoscenza, competenza e prudenza...Noi non dovremmo essere prevenuti. Abbiamo perso molte opportunità nel passato, abbiamo preso misure inopportune o non abbiamo fatto alcuna mossa, e abbiamo anche rinviato decisioni" (2).

Rafsanjani ha citato osservazioni da parte dell'Ayatollah Ruholla Khomeini per le quali i più importanti doveri religiosi degli iraniani potrebbero essere trascurati ogni volta che il sistema lo richieda, ed ha applicato quel principio alle attuali circostanze: "Ogni volta che viene alla nostra esperienza, possiamo risolvere qualunque problema straniero che ci minaccia dal punto di vista dell'Islam... La nostra ideologia è flessibile. Possiamo scegliere la nostra convenienza sulla base dell'Islam. Tuttavia, mettere il paese in pericolo sui terreni in cui stiamo operando secondo una base islamica non è per nulla islamico" (3). 

Rafsanjani ha aggiunto che il problema dei rapporti con gli Stati Uniti può essere risolto in uno di due modi. Il primo è per referendum, con l'approvazione del Majlis (Parlamento) e del Leader Supremo 'Ali Khamenei, e il secondo è "riportare il problema all'Expediency Council,  noi lo discuteremo e annunceremo che cosa è conveniente [cioè, qual è nell'interesse migliore per il paese]. Naturalmente, anche il leader deve approvarlo... Quando una questione si tramuta in un problema, viene deferita all'Expediency Council per prendere una decisione su di essa... Quando approviamo una questione, noi la inviamo al Leader Supremo, che di solito l'accetta. Se la questione dei rapporti con gli Stati Uniti e con l'Egitto è considerata un problema, il Consiglio può studiarla" (4).

Rafsanjani ha aggiunto che il Leader Supremo Khamenei abitualmente non interferisce direttamente nel processo di decisione che riguarda la Costituzione, o anche le prestazioni delle istituzioni dello stato, tranne in casi molto speciali: "E' chiaro che i problemi con gli Stati Uniti e con l'Egitto esistono, e li abbiamo avuti dall'era del fondatore della Rivoluzione islamica, Imam Khomeini. Tuttavia, il Leader Supremo ha le sue proprie considerazioni a proposito di questi casi". Rafsanjani ha aggiunto che il processo di decisione del Ministero degli Esteri dev'essere accelerato "quando è chiaro ciò che stiamo per fare" (5).

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Note:
(1) V. MEMRI, Inchieste e analisi N. 128,
(2) IRNA, 12 aprile 2003. Rafsanjani ha detto in un'intervista che, in passato, il Ministero degli Esteri iraniano si sarebbe consultato con il Leader Supremo nel prendere decisioni, ma ha aggiunto che questo non era necessario e che il ministero era in grado di gestire i suoi affari autonomamente, senza trasferirli ad altri enti.
(3) IRNA, 12 aprile 2003.
(4) IRNA, 12 aprile 2003.
(5) IRNA, 12 aprile 2003.

(The Middle East Media Research Institute, 18.04.2003)



INTERESSE CRESCENTE DEGLI EBREI FRANCESI PER L'ALIA'



FRANCIA - Oltre duemila ebrei provenienti da tutta la Francia hanno visitato la mega-Fiera dell'Alià, organizzata dall'Agenzia Ebraica, che si è tenuta a Parigi il 6 aprile. La manifestazione si è svolta sotto la protezione di una severa cintura di sicurezza, a causa della recente ondata di aggressioni anti-semitiche rivolta contro le istituzioni ebraiche in Francia.
    L'obiettivo della Fiera è stato di presentare una vasta gamma di possibilità nell'ambito dell'alloggio, dell'educazione e del lavoro in Israele. Vi erano 45 stands, organizzati dalle industrie israeliane, dalle banche che offrono mutui, dai Comuni, dalle istituzioni educative, dall'Agenzia Ebraica e dal Governo israeliano stesso. Il direttore per l'alià dalla Francia dell'Agenzia Ebraica, Olivier Rafowicz, ha detto: "Vi è un grande interesse per l'alià fra gli ebrei francesi. Il numero degli immigrati in Israele lo scorso anno è più che raddoppiato rispetto all'anno precedente". L'insicurezza, che in ogni modo molti ebrei provano in conseguenza dei recenti incidenti a sfondo antisemita ed aumentata ancora di più dalla guerra contro l'Irak, ha provocato un più elevato livello di interessamento.
    La Comunità ebraica francese, che conta oltre 520.000 persone, è la terza comunità al mondo in ordine di grandezza. Nel corso del primo trimestre del 2003, circa 200 ebrei francesi hanno fatto l'alià. Lo scorso anno, hanno fatto l'alià circa 2.500 ebrei. Un'altra fiera dell'Alià avrà luogo a Marsiglia all'inizio di maggio.

(Keret Hayesod, 14.04.2003)



INDIRIZZI INTERNET


Una presentazione semplice e sintetica della storia dello Stato d'Israele:

Pillole di storia