Notizie su Israele 170 - 24 aprile 2003


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Ecco, il malvagio è in doglie per produrre iniquità. Egli ha concepito malizia e partorisce menzogna. Ha scavato una fossa e l'ha fatta profonda, ma è caduto nella fossa che ha preparata. La sua malizia gli ripiomberà sul capo, la sua violenza gli ricadrà sulla testa. Io loderò il SIGNORE per la sua giustizia, salmeggerò al nome del SIGNORE, l'Altissimo.

(Salmo 7:14-17)



LE RETICENZE E LE BUGIE DELLA CNN


Il redattore capo esecutivo della CNN, Eason Jordan, in data 11 aprile 2003 ha scritto una lettera al "New York Times", riportata con il titolo «Le notizie che teniamo per noi», in cui confessa candidamente che la CNN ha tenuto nascoste gravi notize sull'Iraq di cui era a conoscenza per timore delle rappresaglie del regime di Saddam Hussein. Per posta elettronica ci è arrivata una replica a questa lettera da parte di Marc J. Rauch, uno scrittore e conferenziere statunitense i cui commenti politici sono regolarmente pubblicati in varie pubblicazioni e riviste. Riportiamo ampi stralci dei due interventi.


Le notizie che teniamo per noi

di Eason Jordan

ATLANTA, 11 aprile 2003 – Nel corso degli ultimi dodici anni, ho fatto 13 viaggi a Bagdad per sollecitare il governo a tenere aperto l'ufficio della CNN a Bagdad e procacciare interviste con i leader iracheni. Ogni volta che vi sono andato, mi preoccupavo sempre di più per quello che vedevo e sentivo – cose orribili che non si potevano neanche raccontare, perché così facendo avremmo messo a rischio le vite degli iracheni, particolarmente quelle del nostro staff di Bagdad.
    Per esempio, nella metà degli anni '90 fu rapito uno dei nostri cameraman iracheni. Per settimane fu picchiato e torturato con scosse elettriche nei magazzini sotterranei di un quartier generale della polizia segreta, perché aveva rifiutato di confermare il ridicolo sospetto che io ero il capo dell'ufficio della CIA in Iraq. La CNN è stata a Bagdad abbastanza a lungo da rendersi conto che, raccontando al mondo che uno dei suoi impiegati era stato torturato, avrebbe soltanto ottenuto la sua morte e avrebbe messo in serio pericolo la sua famiglia e il resto dei suoi collaboratori.
    Lavorare per un'organizzazione di informazione straniera, non dava ai cittadini iracheni alcuna protezione. La polizia segreta terrorizzava gli iracheni che lavoravano nei servizi di stampa internazionale, e che erano abbastanza coraggiosi da cercare di fornire notizie accurate. Alcuni sparivano, e di loro non si sapeva più niente. Altri scomparivano per poi tornare sussurrando storie di retate e torture inimmaginabili. Ovviamente, le altre organizzazioni di informazione si sono trovate nella stessa nostra condizione, quando hanno dovuto raccontare dei propri collaboratori.
    Dovevamo anche preoccuparci che i nostri racconti non mettessero in pericolo gli altri iracheni. Sapevo che la CNN non avrebbe potuto raccontare che il figlio maggiore di Saddam Hussein, Uday, mi aveva detto nel 1995 che intendeva assassinare due dei suoi cognati che avevano commesso degli errori, e anche l'uomo che aveva dato loro asilo, cioè il re Hussein di Giordania. Se avessimo seguito la faccenda, lui avrebbe sicuramente risposto uccidendo il traduttore iracheno che era l'unico altro partecipante all'incontro. Dopotutto, i sicari della polizia segreta aggredivano anche gli ufficiali maggiori del Ministero dell'Informazione, solo per tenerli a bada (uno di questi ufficiali aveva perso tutte le unghia delle mani).
    Eppure, sentivo di avere l'obbligo morale di avvertire il monarca di Giordania, e così feci il giorno seguente. Re Hussein però considerò questa minaccia come i discorsi ampollosi e vacui di un pazzo. Alcuni mesi dopo Uday adescò i suoi cognati di nuovo a Bagdad; poco dopo vennero uccisi.
    Ho conosciuto diversi ufficiali iracheni così bene, che mi confidarono che Saddam Hussein era un maniaco da eliminare. Un ufficiale del Ministero degli Esteri mi raccontò di un collega che, scoprendo che suo fratello era stato eliminato dal regime, fu costretto – come prova di fedeltà – a scrivere una lettera di congratulazioni a Saddam Hussein per quello che aveva fatto. Un aiutante di Uday mi raccontò una volta come mai non aveva neanche un dente davanti: alcuni sgherri glieli avevano strappati con le pinze e gli avevano detto di non azzardarsi ad indossare mai dentiere, perché avrebbe dovuto ricordare sempre quale prezzo si pagava facendo arrabbiare il capo. Ancora una volta, non potemmo mandare in onda niente di quanto ci avevano detto questi uomini.
  [...]
    Ci sono stati poi eventi mai mandati in onda, ma che ancora mi tormentano. Una donna kuwaitiana di 31 anni, Asrar Qabandi, venne catturata dalla polizia segreta che occupava il suo paese nel 1990 per "crimini", uno dei quali era aver parlato al telefono con la CNN. La picchiarono ogni giorno per due mesi di seguito, costringendo il padre a guardare. Nel gennaio del 1991, alla vigilia dell'offensiva americana, le schiacciarono il cranio e strapparono il suo corpo membro a membro. Davanti alla porta della sua famiglia fu lasciata una busta di plastica contenente i pezzi del suo corpo.
    Mi sentivo male per aver tenuto nascoste in me queste storie. Ora che il regime di Saddam Hussein è finito, sospetto che sentiremo dagli iracheni molte e molte storie torci-budella, sui decenni di tormento. Per lo meno, queste storie potranno essere raccontate liberamente.


* * *


Bugie, e bugie, e ancora bugie della CNN

di Marc J. Rauch

17 aprile 2003 -  La prima lezione che speriamo di aver imparato dalla guerra irachena è che gli atti ingannevoli e codardi perpetrati da Saddam Hussein e dai suoi seguaci sono le stesse tattiche nefande con le quali Israele ha dovuto combattere negli ultimi cento anni per difendersi e per costruire il suo territorio.
    La seconda lezione che dovremmo aver imparato dalla guerra è la vastità delle bugie raccontate per proteggere i governi ed i regimi arabi.
    Nel corso degli anni, il mondo ha ascoltato un'incredibile cricca di leader e portavoce arabi fraudolenti, che hanno cercato di distorcere vistosamente ogni fatto ed evento collegato alla storia della loro gente; non per difendere se stessi e il proprio territorio da un aggressore che non esiste, ma per difendere le proprie aggressioni ingiustificate contro lo stato israeliano, come anche tutte le atrocità che hanno commesso e commettono ogni giorno contro i loro fratelli e sorelle musulmani.
    I leader indiscussi di questi mentitori incalliti sono stati Haj Amin al-Hussein, Gamel Abdel Nasser, Hafez al-Assad, e ci sono ancora Yasser Arafat e Saddam Hussein (anche se  è ancora in dubbio se Hussein esiste o no). Al-Husseini, comunque, è stato il noto Gran Mufti di Gerusalemme e discepolo di Josef Goebbels.
    Quanto a portavoce ciarlatani, abbiamo dovuto sopportare Saeb Erakat, Hasan Abded Rahman, Hanan Ashwari e Diana Buttu (tutti rappresentanti della posizione arabo palestinese). Dodici anni fa, a causa dell'assurdo atteggiamento dell'Iraq che ci ha portati alla Guerra del Golfo, il mondo libero è venuto a conoscere e detestare Tareq Aziz, Vice Primo Ministro iracheno (anche di lui non si sa se è o se era).
    Un tempo questi personaggi sapevano nascondersi dietro il velo del tempo e della lontananza, per far sì che i loro stravolgimenti sembrassero plausibili. La tecnologia comunicativa non era tale da rendere possibile un confronto fra la realtà e il commento politico. In molti casi passavano giorni o settimane prima che la notizia di un evento giungesse al pubblico. E quelle notizie spesso erano soggette alle limitazioni di tempo e di spazio del particolare mezzo che diffondeva l'informazione. I propagandisti arabi contavano sulle testimonianze riassunte e condensate nel tempo, o sulle informazioni di eventi successivi non raccontati, per colorare, diffondere e offuscare i fatti e la verità. Di fronte a un'evidenza sostanzialmente contraria, lui o lei difendevano dalla critica le loro prevaricazioni controbattendo che non esistono fatti oggettivi, ma solo punti di vista soggettivi.
    Comunque, come sa ogni persona sana, in realtà esistono fatti e verità oggettive. E nelle ultime settimane, grazie ai maldestri sforzi di un uomo, il modello storico della propaganda islamica – sul genere danza ritmata col battere cadenzato dei piedi – è stato smascherato. Quest'uomo si chiama Mohammed Saeed al-Sahhaf, ministro iracheno per l'informazione.
    Al-Sahhaf (o come i media lo chiamano, Bagdad Bob) è un abile bugiardo, quanto lo sono i signori prima menzionati.
    [...]
    Giorno dopo giorno, Bagdad Bob insisteva e cercava di convincere il mondo che Saddam Hussein e il suo regime sono persone pacifiche, gente che teme Dio. Infieriva contro le atrocità che secondo lui l'America, l'Inghilterra e i loro istigatori sionisti stavano commettendo contro il popolo islamico. Bob assicurava con fervore il suo uditorio mondiale che l'Iraq sarebbe uscito vittorioso, avrebbe tagliato la testa agli invasori americani, e che avrebbe tirato un calcio nel di dietro ai soldati, rispedendoli al mittente.
    Chi potrà dimenticare, nelle prime ore dopo lo scoppio della guerra, l'immagine di Bagdad Bob e dei suoi cronisti che cercavano di condurre una conferenza stampa seria, ignorando vistosamente il sibilo delle bombe americane e lo scuotimento degli studi che seguiva le esplosioni? Una scenetta degna del Johnny Carson Tonight Show.
    C'è stato poi il pezzo in cui Bagdad Bob negava di ammettere che l'Aeroporto Internazionale Saddam era stato preso, mentre dietro di lui si vedevano truppe americane che camminavano nei corridoi dell'aeroporto. La "piece de resistance" (scusate il mio francese – no, scusatemi anzi se uso qualcosa di francese) è stato la sua assoluta negazione che i carri armati americani erano parcheggiati lungo il fiume Tigri, al centro di Bagdad. Da spettatore, ho avuto l'impressione che se in quel momento un soldato americano lo avesse toccato sulla spalla, Bob si sarebbe girato e, guardando lontano e poi rigirandosi verso la videocamera, avrebbe detto: "Dove? Non vedo nessun carro armato americano".
    [...]
    Umorismo a parte, ciò che dimostrano questi episodi di Bagdad Bob è che persino di fronte a un'evidenza innegabile ed incontrovertibile, questa gente continua a mentire a tutti i costi, piuttosto che ammettere una verità sfavorevole alla loro posizione.
    E' stata una fortuna per Yasser Arafat, l'anno scorso mentre urlava in diretta TV per il massacro di Jenin, che la CNN non abbia fatto uno show in diretta per mostrare quello che avveniva realmente. Ma c'è un motivo per cui la CNN non fece un reportage in diretta che avrebbe smascherato le bugie di Arafat, e il motivo è molto più profondo di quello apparente. Questo mi porta ad enunciare l'ultimo punto delle lezioni che dobbiamo imparare dalla guerra in Iraq, che è anche la rivelazione più inquietante di tutte.
    Mentre forse non abbiamo ancora scoperto la cosiddetta pistola fumante dell'arsenale delle Armi di Distruzione di Massa di Saddam Hussein, abbiamo ora portato alla luce la pistola fumante dell'arsenale arabo delle Armi di Disinformazione di Massa. E quel cannone fumante è il quartier generale della CNN, il network televisivo satellitare, che ha sede ad Atlanta, Georgia. Venerdì 11 aprile, in una lettera al New York Times, il capo redattore della CNN Eason Jordan ha confessato che negli ultimi dodici anni hanno occultato la verità su quello che avveniva in Medio Oriente, e che sono stati costretti a raccontare storie favorevoli al regime iracheno. Jordan ha citato diverse situazioni in cui il governo ha minacciato, torturato ed ucciso membri della stampa. E Jordan ha ammesso che per salvaguardare il proprio ufficio stampa in Iraq, lui e la CNN hanno dovuto occultare le informazioni relative a queste ed altre situazioni.
    Per anni io, come molti altri, ho guardato con orrore la CNN che trasmetteva storie che difendevano gli atti infami commessi dai governi arabi, dai loro leader e da molti altri contro ebrei, cristiani e persino altri musulmani. Storia dopo storia, dipingevano i carnefici come delle vittime. Più e più volte, la morte di donne e bambini ebrei veniva coperta e oscurata da storie strappalacrime delle famiglie degli autori degli orrori – non delle famiglie delle vittime, si badi bene– ma di quelle degli autori.
    A chi rimproverava i loro pregiudizi, i reporter e gli esecutivi della CNN negavano di averne. E con tutto il vigore di un Bagdad Bob, insistevano che stavano semplicemente presentando entrambi i lati della storia. A chi obiettava che non c'era proporzione fra il racconto della bomba fatta esplodere in una famiglia ebraica riunita per una cena religiosa e la successiva celebrazione della famiglia dell'attentatore, la CNN rispondeva con la stessa razionalità moralmente pervertita usata dai peggiori dittatori islamici per difendere le proprie atrocità: non ci sono fatti oggettivi, solo punti di vista soggettivi. In altre parole, la CNN affermava che anche la famiglia dell'attentatore stava soffrendo.
    Non c'è equivalenza morale fra i due casi. E' una posizione insana, irrazionale.
    [...]
    Eason Jordan afferma di aver occultato la verità per proteggere delle vite, ma a quali vite si riferisce? Solo a quelle delle persone che lavoravano con lui. In qualsiasi momento, Jordan e la CNN sarebbero potuti andar via dal Medio Oriente, per poi raccontare la verità.
    [...]
    C'è una significativa relazione fra la confessione della CNN e gli eventi in Israele. Saddam Hussein ha pagato miliardi di dollari alle famiglie dei kamikaze arabo-palestinesi che hanno ucciso o ferito degli ebrei innocenti. Hussein ha anche dato sostegno ad Arafat e ad altri gruppi terroristici arabo-palestinesi. Se avessero dipinto questi legami semplicemente come disonesti, e i kamikaze semplicemente come persone malvagie, quelli della CNN avrebbero danneggiato la reputazione di Saddam Hussein. Ma Hussein ed i suoi scagnozzi avevano accesso alla CNN; avevano la possibilità di ascoltare e vedere tutto ciò che si diceva di loro.
    Inoltre, come tutte le altre somiglianze esistenti fra i regimi dispotici arabi, Yasser Arafat e l'OLP usano le stesse tattiche terrorizzanti. Uccidono e torturano tutti quelli che possono e che esprimono la loro opinione dissenziente. E' impossibile pensare che la CNN non abbia ricevuto minacce anche da Arafat, e che la CNN non stia adottando questa tattica per proteggere il suo prezioso network, occultando ulteriormente la verità.
    Credo che le azioni della CNN abbiano danneggiato la democrazia e il mondo libero al pari di ogni vile propaganda diffusa da Joseph Goebbels, Joseph Stalin, il Gran Mufti, Yasser Arafat o Saddam Hussein. Per dodici anni la CNN ha occultato la verità, ha coperto i fatti ed ha fabbricato scenari morali ridicoli. Milioni di persone in tutto il mondo sono state influenzate da queste bugie e da questi inganni. Quasi un'intera generazione di persone ha sentito dire che è giusto far saltare in aria dei bus scolastici; che si guadagna prestigio a fare una cosa del genere. C'è da stupirsi se migliaia di studenti creano disordini civili per protestare contro la guerra? Loro non sanno che Saddam Hussein è stato un maniaco, e lui stesso si è definito tale; Eason Jordan si è rifiutato di dire una cosa del genere al mondo. Non sanno che Yasser Arafat è un omicida; grazie alla CNN, pensano che si tratti del George Washington degli arabi palestinesi. Guardano la CNN; vedono la propaganda della CNN in TV e a scuola. Se c'è qualcosa di positivo nella ammissione di Jordan è che dovremmo essere grati alla CNN per non essere riuscita a fare il lavaggio del cervello ai nostri figli.
    [...]



UN ALTRO FILM SU JENIN


Il film di Pierr Rehov, «La strada di Jenin», coglie i palestinesi in flagrante delitto di menzogna.

di Jean-Marie Allafort

In occasione del primo anniversario dell'operazione di Tsahal (l'esercito israeliano) nella città di Jenin, il 14 aprile la prima catena della televisione israeliana ha diffuso il film documentario del cineasta franco-israeliano Pierre Rehov: "La strada di Jenin". In anteprima il film era stato presentato lo stesso giorno al Park Hotel di Netanya, dove un anno fa era stato perpetrato un attentato suicida la sera del Séder di Pasqua. Questo attentato, che aveva fatto 29 morti, aveva convinto il governo israeliano a far partire l'operazione Scudo Difensivo.

    E' nella sala del ristorante del Park Hotel di Netanya, dove esattamente un anno fa un attentato ha ucciso nove persone la notte di Pessach, che «La strada di Jenin», un film di Pierre Rehov, è stato proiettato nello stesso momento in cui era programmato su una catena di televisioni israeliane. L'annuncio della sua diffusione ha rimesso all'ordine del giorno la polemica su «Jenin, Jenin», il film di Mohamed Bakri, di cui è stata vietata la diffusione sulla televisione israeliana, essendo stato censurato dal Consiglio della Critica cinematografica perché sosteneva tesi menzognere e incitava all'odio. Lo scorso 27 febbraio cinque riservisti si erano costituiti parte civile contro Bakri chiedendo due milioni e mezzo di shekel di danni e interessi per i guasti provocati dalle menzogne propagate nel film. L'avvocato di Bakri, Avigdor Feldman, da parte sua aveva presentato a nome del suo cliente una richiesta presso la Corte Suprema per impedire la diffusione del film di Rehov. Secondo lui, «La strada di Jenin» è un film di propaganda univoca e non tiene conto di quello che hanno vissuto gli abitanti del campo. Gli avvenimenti che si sono svolti nell'aprile del 2002 sono descritti in termini pastorali. La Corte Suprema ha respinto la richiesta di

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Bakri e il film di Rehov è stato diffuso come previsto.
    Al Park Hotel di Netanya numerose personalità israeliane, tra cui il capo dello Stato Maggiore, il generale Ayalon, il Grande Rabbino d'Israele Meir Laur, il ministro del Turismo Beni Alon, e diversi deputati hanno assistito alla proiezione. Le famiglie delle vittime dell'attentato non erano presenti a causa di un persistente litigio con i responsabili dell'hotel, che i familiari accusano di non aver garantito la loro sicurezza come avrebbero dovuto. In compenso erano lì presenti alcune famiglie di soldati caduti a Jenin, per portare la loro testimonianza e dire che, grazie al film di Rehov, hanno ritrovato un po' della loro dignità. Yaacov Ezra (38 anni), riservista che ha partecipato all'operazione Scudo Difensivo a Ramallah e il cui fratello minore Gadi (23 anni) è morto a Jenin, testimonia: «Questo film rispecchia la realtà. Abbiamo fatto di tutto per risparmiare la popolazione civile, avremmo potuto bombardare il campo e non l'abbiamo fatto, ci siamo comportati nel modo più umano possibile».
    Il capo di Stato Maggiore Ayalon da parte sua sottolinea: «Non sono stati soltanto i palestinesi a diffondere menzogne. Il giorno precedente il giorno dell'indipendenza, il rappresentante dell'ONU nella regione ha telefonato al ministero degli Affari Esteri accusando Tsahal di impedire alla Croce Rossa di entrare nel campo di Jenin. Sono andato sul posto ed era falso. Ho trovato un contingente di soldati occupati a disattivare delle cariche esplosive. Solo una piccola parte del campo, meno di un quarto, era interdetta perché si temevano trappole e c'erano dei rischi.» Ayalon riconosce che Tsahal non è riuscito sempre a risparmiare i civili: «E' vero che durante i combattimenti sono stati colpiti degli innocenti. Ma io accuso qui tutti quelli che parlano di massacro e li invito a guardare questo film. La menzogna palestinese non riguarda soltanto la storia di Jenin: l'Intifada Al-Aqsa come sollevamento popolare è una menzogna. E' un'offensiva terroristica calcolata, una decisione strategica.» Per Ayalon l'operazione Scudo Difensivo è stata una svolta e, secondo lui, «il campo avversario comincia a capire che il terrorismo non paga».
    In effetti, «La strada di Jenin» risponde in modo preciso alla tesi palestinese del massacro perpetrato da Israele e, secondo Rehov, dovrebbe aiutare a «ridare un volto umano agli israeliani, prima che sia troppo tardi. La menzogna e la diffamazione sono sempre stati il primo stadio per la fondazione dell'antisemitismo. La menzogna di cui è stato oggetto Israele durante tutta la sua storia rinasce dalle ceneri».
    «La strada di Jenin» è costituito da tre parti: il film comincia con delle immagini, difficili da sopportare, dell'attentato di Netanya la notte di Pessach e con la testimonianza di una vittima che ha perso suo marito. L'operazione Scudo Difensivo, lanciata da Israele, è la conseguenza diretta di questo atto terrorista, continuano a sottolineare i vari protagonisti israeliani interrogati, come anche i riservisti e le famiglie che hanno perso qualcuno dei loro cari nella battaglia di Jenin. Seguono immagini di archivio: carri armati di Tsahal che penetrano nel campo, case che sono fatte saltare, combattimenti nelle strade. In questa parte, a dire il vero, Tsahal non è mostrato proprio nella sua luce migliore. A Jenin i combattimenti furono particolarmente violenti. Aerei e elicotteri avrebbero potuto bombardare il campo, ma Tsahal non l'ha fatto per non uccidere dei civili, spiega un riservista. Le strade strette non permettavano ai carri armati di penetrare all'interno del campo e ventitré soldati hanno trovato la morte. E' allora che Tsahal ha cambiato tattica e ha mandato avanti i bulldozer, contro i quali i palestinesi erano impotenti. E i combattenti si sono arresi.
    La terza parte del film è senza dubbio quella più coinvolgente. Rehov, che è andato a Jenin con un'équipe palestinese, riesce a intrappolare qualcuno dei suoi interlocutori. Si vede, per esempio, un giornalista palestinese che mette in scena la storia di un parto di una donna palestinese a un check point di Tsahal:la deve raccontare davanti alla telecamera che i soldati volevano impedirle di partorire normalmente e l'hanno obbligata a partorire nella vettura che la conduceva all'ospedale. Il medico che l'ha fatta normalmente partorire all'ospedale si è prestato senza alcun rimorso alla messa in scena.
    Se i palestinesi intervistati sono stati colti in flagrante delitto di menzogna - ed è questo uno degli elementi di riuscita del film - è perché pensavano di rispondere a una TV francese pro-palestinese. Una volontaria cristiana che ha vissuto nel campo di Jenin racconta con emozione come i bambini palestinesi sono manipolati e educati nell'odio per Israele e per gli ebrei. Mentre delle voci israeliane si levano in favore della pace, tutte le voci palestinesi che si sentono nel documento non parlano che di prosecuzione dell'intifada.
    «Jenin, Jenin», che ha ottenuto numerosi premi all'estero, è l'espressione di quelle voci palestinesi e presenta come veri i propositi di coloro che, secondo Rehov, sono presi in flagrante delitto di menzogna. E' un film che sostiene la tesi del massacro perpetrato da Tsahal nel campo dei rifugiati e mostra la barbarie dell'esercito israeliano da tutti gli angoli. Bakri non ha operato alcun discernimento nelle parole dei testimoni interrogati, i quali non esitano ad avanzare le tesi più fantasiose, come per esempio le esecuzioni arbitrarie, ivi comprese quelle di bambini. Si vedono degli elicotteri di Tsahal bombardare il campo e lo spettatore vede il seppellimento di quattro cadaveri, il che fa supporre che ci sia stata una carneficina. Una bambina, che ha imparato il suo testo a memoria, chiede conto a Sharon e riversa un fiume di parole piene di odio concludendo: «Io non posso vivere con un ebreo, noi non faremo mai la pace con loro.» Il direttore dell'ospedale di Jenin, che si vede anche nel film di Rehov, elenca con tono sicuro tutte le azioni dell'esercito israeliano, ma si guarda bene dallo spiegare perché Tsahal si è ritrovato a Jenin e quali sono le ragioni che hanno condotto Israele a decidere l'operazione Scudo Difensivo. Mentre Rehov dà la parola ai palestinesi, nessun israeliano è invitato da Bakri a esprimere il suo punto di vista, e nel suo film tutto esprime disgusto e odio per Israele e per il suo esercito d'occupazione. «Il film di Bakri - conclude Rehov - è un film dove gli israeliani non parlano: sono soltanto carri armati, sagome fuggitive, minacciose, oscure, mostruose e abiette».

(Proche-Orient.info, 22.04.2003)


NOTA DI COMMENTO - Dovrebbe ormai essere chiaro quale parte ha la menzogna nella politica filoaraba e filopalestinese. Nessuno è tanto ingenuo da aspettarsi che gli uomini politici e i giornalisti, anche in occidente, dicano sempre la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, ma nel caso della politica filopalestinese l'uso della menzogna, una menzogna meticolosamente preparata, universalmente diffusa, ripetuta e insistita fino alla nausea anche quando l'evidenza è sotto gli occhi di tutti, è veramente qualcosa di eccezionale e, si dovrebbe dire, disgustoso. E tuttavia questo tipo di menzogna funziona. Funziona perché ci sono orecchie bugiarde disposte ad ascoltare quello che piace. E piace a molti sentir parlare male di Israele e degli ebrei. Questa è la realtà. Non c'è bisogno di organizzare pogrom o attaccare manifesti ai muri per essere antisemiti: è sufficiente lasciar circolare con compiacimento le vistose calunnie confezionate da chi ha malvagi interessi. Opporsi alla circolazione di queste menzogne è un compito morale di tutti, perché i più gravi momenti di persecuzione contro gli ebrei sono sempre stati preceduti e accompagnati dalla diffusione sistematica di imposture e falsità. M.C.



POLIZIOTTI DI FRONTIERA ISRAELIANI ARRESTATI PER MALTRATTAMENTI


GERUSALEMME - La polizia d'Israele nei giorni scorsi ha arrestatato complessivamente dodici poliziotti di frontiera israeliani. Vengono accusati di aver maltrattato e derubato dei palestinesi di Hebron.
    Sembra che gli israeliani nei controlli personali abbiano preso oggetti e soldi ai palestinesi, rotto i finestrini e bucato le gomme di automobili palestinesi. Sono inoltre accusati di aver lanciato senza ragione dei petardi contro gruppi di persone.
    Come riferisce "Ha'aretz", i dodici poliziotti appartengono tutti alla stessa unità. Quattro di loro sono stati arrestati venerdì scorso [18 aprile]. Sono sospettati di aver ucciso, lo scorso dicembre, il diciassettenne Amran Hamdiyah di Hebron. Secondo i rapporti, i poliziotti avevano ordinato al palestinese di salire sulla loro macchina. Lì l'avevano picchiato e più tardi gettato fuori dalla macchina. Il giovane è morto poco dopo per le gravi ferite riportate.
    Secondo dati della polizia, probabilmente i poliziotti hanno voluto vendicarsi per la morte di uno dei loro colleghi, che nel novembre scorso era stato ucciso in un attacco di terroristi palestinesi.
    «Se queste accuse si confermassero vere, condanno questi fatti nel modo più deciso», ha detto il Ministro israeliano per la Sicurezza Interna, Tzahi Hanegbi. «Comportamenti simili danneggiano l'immagine della politica e della società israeliane.»
    Anche il Capo della Polizia, Shlomo Aharonishky ha condannato il comportamento dei poliziotti di frontiera: «Non è questa la via che dobbiamo percorrere, anche in momenti duri come questi».

(Israelnetz Nachrichten, 23.04.2003)



E' FINITO IL REGNO DI ARAFAT?

Un vero e proprio colpo di stato silenzioso". Cosi' un esponente di primo piano dell'Autorita' Palestinese a Ramallah ha definito il compromesso raggiunto fra Yasser Arafat e il primo ministro incaricato palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sulla composizione del nuovo governo.
    Gli sforzi per rimpiazzare Arafat, o almeno per metterlo ai margini, iniziarono poco dopo l'avvio della operazione anti-terrorismo israeliana Scudo Difensivo nella scorsa primavera. Abu Mazen e un gruppo di esponenti dell'Autorita' Palestinese colsero l'occasione offerta dal fatto che Arafat era sotto assedio nei suoi quartieri a Ramallah per tenere una serie di riunioni riservate dove si discusse la nuova situazione creata dall'intervento delle Forze di Difesa israeliane in Cisgiordania. I fedeli di Arafat accusarono il gruppo di voler tentare un colpo di stato. Uno dei presunti cospiratori, l'ex ministro Nabil Amr, fu oggetto di pesanti intimidazioni quando vennero esplose raffiche di mitra contro la sua abitazione. Abu Mazen capi' l'antifona e lascio' per qualche tempo la Cisgiordania. Ora, a un anno di distanza Abu Mazen fa il suo grande rientro e diventa di fatto il nuovo leader del popolo palestinese.
    L'opinione piu' diffusa mercoledi' a Ramallah e' che il grande perdente in quest'ultima crisi sia Arafat, costretto a mollare la presa su una dozzina di "servizi di sicurezza" palestinesi che egli stesso aveva contribuito a creare dall'inizio del processo di Oslo. Gia' l'anno scorso, sotto forti pressioni americane ed europee, Arafat aveva dovuto accettare 'obtorto collo' di cedere il controllo esclusivo sulla cassa dell'Autorita' Palestinese, nominando ministro delle finanze Salaam Fayad. Da allora Fayad, oggi confermato nel governo Abu Mazen, ha fatto molto per cercare di riorganizzare i conti dell'Autorita' Palestinese. Ha persino previsto un modesto budget per le spese dell'ufficio del presidente, togliendo ad Arafat il controllo diretto sui milioni di dollari che arrivano ai palestinesi da Stati Uniti e Unione Europea. Un mese fa altre pressioni internazionali avevano costretto Arafat a porre fine al suo autocratico potere quarantennale accettando l'idea di condividerlo con un primo ministro. In un primo momento, per cercare di preservare il suo regime dittatoriale, Arafat aveva tentato di nominare un suo fedelissimo, ma venne contrastato dal suo stesso movimento Fatah, i cui capi pretesero che il nuovo primo ministro fosse uno di loro. Anche quella volta Arafat dovette cedere e accettare di nominare Abu Mazen.
    La lotta per il potere e' poi proseguita nei giorni scorsi in quella che forse verra' ricordata come l'ultima battaglia di Arafat. Quando il nuovo governo Abu Mazen avra' prestato giuramento e Muhammad Dahlan, il ministro scelto da Abu Mazen - contro il volere di Arafat - per guidare la sicurezza, entrera' effettivamente in carica, Arafat verra' gentilmente relegato in un ruolo onorifico, se non addirittura fuori dalla porta.

(israele.net, 24.04.03 - dalla stampa israeliana)



OPINIONISTI ARABI E PALESTINESI DI FRONTE ALLA CADUTA DI SADDAM


Per piu' di dieci anni Saddam Hussein e' stato un eroe indiscusso per la maggioranza dei palestinesi, i quali senza alcuna ironia lo dipingevano come uno dei piu' grandi leader arabi dei nostri tempi. Ma il repentino collasso del suo regime sta spingendo molti a cambiare opinione e ad ammettere in conclusione che il loro campione di un tempo non era altro che un dittatore corrotto e spietato, responsabile della morte di centinaia di migliaia di iracheni e della distruzione del suo stesso paese.
    Da quando Bagdad e' caduta, molti palestinesi si stanno unendo al crescente coro di scrittori, intellettuali e politici arabi che sostengono che altri dittatori arabi dovrebbero trarre insegnamento dalla caduta di Saddam. La guerra in Iraq sta rafforzando le correnti riformatrici arabe e palestinesi, convinte che sia giunta l'ora di un vero cambiamento nel mondo arabo. Il cambiamento, dicono, dovrebbe iniziare con lo sbarazzarsi dei despoti arabi e dei loro regimi corrotti. Per dirla con le parole di un commentatore palestinese, "e' tempo che il mondo arabo volti la pagina della repressione". Nuove voci che si levano mentre in Cisgiordania e nella striscia di Gaza continuano le manifestazioni di sostegno a Saddam, ma dopo la caduta del regime iracheno anche queste manifestazioni sono sempre meno.
    Il cambiamento appare evidente nel modo in cui i mass-media palestinesi si occupano della guerra da quando il regime di Saddam Hussein e' crollato. I giornali hanno iniziato a pubblicare immagini di marines americani nei sontuosi palazzi di Saddam e dei suoi figli, accanto a immagini di ex detenuti iracheni con i gravi segni delle torture sui loro corpi. I giornali sono ora pieni di articoli in cui si dice che presidenti, emiri e monarchi arabi devono cambiare il loro modo di governare se non vogliono fare la stessa fine di Saddam. Molti scrittori parlano della necessita' di piu' democrazia e diritti umani nel loro paese. Cio' nondimeno finora i commentatori sono stati attenti a non includere il presidente dell'Autorita' Palestinese Yasser Arafat nell'elenco dei dittatori arabi corrotti che dovrebbero farsi da parte, anche se alcuni lasciano intendere che anche lui, in effetti, dovrebbe imparare la lezione.
    "I nostri fratelli arabi vogliono sbarazzarsi dei regimi tirannici e di coloro che si appropriano delle loro risorse - dice Fuad Abu Hijleh, un autorevole editorialista palestinese - Gli arabi erano tristi per la caduta di Bagdad. Ma questo sentimento e' svanito alla vista dei cittadini iracheni che davano l'assalto alle stazioni di polizia e alle buie camere di tortura dove molta gente aveva trovato la morte. Credo che i consiglieri per la sicurezza di tutti i regimi arabi abbiano visto quelle sequenze e abbiano capito che i popoli arabi disprezzano l'istituto della tortura. Noi speriamo che i regimi arabi abbiano appreso la lezione e vogliano ora chiudere i loro apparati repressivi".
    Hafez al-Barghouti, direttore del quotidiano Al-Hayat al-Jadeeda, ha lanciato un sarcastico attacco senza precedenti contro Saddam e altri dittatori arabi, dicendo che nessuno versera' una lacrima se finiranno nel mirino degli americani. "Non piangeremo per regimi arabi che non riconoscono alle loro popolazioni nessuna liberta', a parte la liberta' di gridare slogan - scrive - Nessun arabo piangera' per il suo leader perche' Washington non potra' mai rubare piu' di cio' che quel leader ha gia' rubato alla sua gente. Ne' gli Stati Uniti umilieranno gli arabi piu' di quanto essi siano gia' stati umiliati dai loro leader".
    "I regimi arabi - scrive Amin Makboul, importante esponente di Fatah in Cisgiordania - non hanno credibilita'. Per affrontare le sfide dall'esterno, i leader arabi dovrebbero dare ai loro popoli liberta' e democrazia".
    Un altro attivista di primo piano di Fatah, Taisir Nasrallah, si dice convinto che la guerra in Iraq avra' un impatto negativo sul generale ordine arabo e islamico. "L'intero ordine arabo ha urgente bisogno di essere ristrutturato - scrive - Cio' che e' accaduto a Bagdad dimostra che l'ordine arabo sta morendo".
    Il parlamentare palestinese Muawiyah al-Masri dice che il profondo divario fra il regime di Saddam e il popolo iracheno e' una delle principali ragioni che spiegano cio' che e' successo a Bagdad. "Cio' che occorre adesso - dice - e' la democratizzazione del mondo arabo, conformemente ai desideri e alle aspirazioni delle masse arabe e non solo come risultato della pressione americana".
    Un giornalista palestinese di Nablus dice che l'atteggiamento verso Saddam ha iniziato a cambiare quando i palestinesi hanno visto sui canali televisivi arabi tutti quei palazzi che egli aveva costruito per se' e i suoi accoliti, mentre la sua popolazione moriva di fame. E aggiunge che molta gente di Nablus e' convinta che Saddam abbia salvato la propria vita e quella dei suoi due figli al prezzo di tradire il suo popolo. "La gente e' infuriata con Saddam perche' non si erano resi conto che fosse un tale dittatore - conclude il giornalista palestinese - Io stesso avrei voglia di prendere a scarpate sulla testa tutti i capi arabi".

(israele.net, 23.04.2003 - dalla stampa israeliana)



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