Notizie su Israele 195 - 8 settembre 2003                                                                                                                    pagina iniziale


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Essi ricostruiranno sulle antiche rovine, rialzeranno i luoghi desolati nel passato, rinnoveranno le città devastate, i luoghi desolati delle trascorse generazioni. Là gli stranieri pascoleranno le vostre greggi, i figli dello straniero saranno i vostri agricoltori e i vostri viticultori. Ma voi sarete chiamati sacerdoti del SIGNORE, la gente vi chiamerà ministri del nostro Dio; voi mangerete le ricchezze delle nazioni, a voi toccherà la loro gloria. Invece della vostra vergogna, avrete una parte doppia; invece di infamia, esulterete della vostra sorte. Sì, nel loro paese possederanno il doppio e avranno felicità eterna. Poiché io, il SIGNORE, amo la giustizia, odio la rapina, frutto d'iniquità; io darò loro fedelmente la ricompensa e stabilirò con loro un patto eterno. La loro razza sarà conosciuta fra le nazioni, la loro discendenza, fra i popoli; tutti quelli che li vedranno riconosceranno che sono una razza benedetta dal SIGNORE.

(Isaia 61:4-9)



ABU MAZEN «DIMISSIONATO»


Alcuni commenti dalla stampa israeliana

    
Mahmoud Abbas

Scrive Yediot Aharonot: L'errore fatale che il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha commesso, come leader e come patriota, e che ha posto termine ai suoi cento giorni di governo, e' stato quello di avere il coraggio di dire la verita' alla popolazione palestinese. Quello che Abu Mazen ha detto alla sua gente e' che bisogna ripudiare la guerra contro il Sionismo e accettare la coesistenza a fianco di Israele anziche' adoperarsi per la sua distruzione. Per questo Abu Mazen e' stato destituito, anche se la destituzione e' passata sotto il nome di dimissioni, prima che potesse mettere alla prova i suoi argomenti. Un esito da imputare al presidente dell'Autorita' Palestinese Yasser Arafat, che non e' mai stato veramente interessato a uno stato palestinese indipendente a fianco di Israele. Arafat, continua l'editoriale, ha condotto il suo popolo da un disastro all'altro, dal dolore alla sofferenza, perche' solo nella distruzione e nella sofferenza egli puo' essere certo che i palestinesi continueranno a considerarlo come un salvatore, il solo detentore delle chiavi della salvezza.

Scrive Khaled Abu Toameh, sul Jerusalem Post: Yasser Arafat e' riuscito a raggirare e umiliare diversi successivi leader israeliani, europei e americani per almeno vent'anni. Sabato scorso ha aggiunto a questa impressionante lista il presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Mahmoud Abbas (Abu Mazen), l'uomo che meno di due mesi fa era stato celebrato alla Casa Bianca come il leader palestinese gradito a tutto il mondo, e' stato ridotto a zero semplicemente perche' non era gradito ad Arafat. Sono bastati ad Arafat cento giorni per gettare nella pattumiera il sogno del presidente americano d'aver trovato il leader giusto per i palestinesi. Un esito chiaro fin dall'inizio. Era chiaro che Arafat, che non ha mai accettato di dividere il suo potere con qualunque altro palestinese, avrebbe fatto di tutto per indebolire Abu Mazen e provocarne la caduta. Ora Arafat sta cercando un nuovo primo ministro che gli obbedisca, e cerchera' di nominare un suo fedelissimo o comunque un personaggio che non osi nemmeno sfidare il suo regime autocratico. Se c'e' una cosa che appare evidente dal dramma andato in scena sabato a Ramallah e' che per Arafat l'unico leader palestinese accettabile e' se stesso. Per dirla con le parole di Sari Nusseibeh, il preside dell'universita' palestinese al-Quds, "questa e' una situazione perdente, dove la popolazione puo' solo perdere". Arafat ha vinto un'altra battaglia, ma il popolo palestinese ne esce sicuramente sconfitto.

(israele.net, 07.09.2003)



LA CRISI DELL'AUTORITA' PALESTINESE: E' COLPA DI SHARON?


In quale misura Israele è responsabile delle dimissioni di Mahmoud Abbas?

di Marc Tobiass

Nel suo discorso di sabato 6 settembre davanti al Consiglio legislativo palestinese, il Primo Ministro dimissionario ha denunciato quattro colpevoli del suo impeachment a governare: Arafat, i media arabi, gli Stati Uniti e Israele. Ha accusato quest’ultimo di aver proseguito le sue operazioni di uccisioni mirate durante la tregua accettata dalle organizzazioni terroristiche palestinesi, di non aver liberato un sufficiente numero di detenuti palestinesi, e di essersi ritirato troppo parzialmente dai territori dell’Autonomia rioccupati dopo lo scoppio dell’intifada nel settembre del duemila. L’analisi di Mahmoud Abbas è giustificata? Il presente articolo costituisce un esame rigoroso ed esauriente della responsabilità israeliana.


1. LE ELIMINAZIONI MIRATE

Prima osservazione. Come parte in causa, il governo Sharon non era in alcun modo un negoziatore della tregua firmata e proclamata il 29 giugno tra la sola Autorità Palestinese e i diversi gruppi radicali d’opposizione come Hamas e Jihad islamica. Questi movimenti si erano impegnati a rispettare un cessate-il-fuoco unilaterale per tre mesi.
    Da parte sua, Israele si era impegnato, in seguito ad accordi conclusi con Washington, a non prendere iniziative intempestive che potessero compromettere la tregua, e a non intervenire unilateralmente nei territori che sarebbero stati evacuati da Tsahal e di cui l’Autorità Palestinese avrebbe preso di nuovo la responsabilità della sicurezza. Israele si riservava il diritto di intervenire negli altri posti al fine di impedire eventuali attentati e neutralizzare i terroristi.
    Il complesso di questo dispositivo era ben conosciuto e accettato da tutte e due le parti, palestinese e israeliana.
    
Seconda osservazione. Durante la settimana che ha preceduto la tregua, l’esercito israeliano aveva sollevato il piede. L’ultima operazione mirata risaliva al 21 giugno con l’uccisione di Abdallâh Kawasma, il capo del braccio armato di Hamas a Hebron.


A - Dal 29 giugno al 7 agosto, nessuna eliminazione, nonostante che la tregua non fosse rispettata.

    
Sul terreno si osserva che durante tutto il mese di luglio Tsahal evita di fare operazioni di eliminazione. In quel mese l’esercito israeliano si accontenta di arrestare diversi attivisti ricercati, o di catturare quelli che si accingono a commettere attentati. Questa politica di contenimento di fatto si prolunga fino al 7 agosto, data in cui i soldati israeliani compiono un’incursione a Gerico, dove arrestano 18 palestinesi - tra cui diversi membri del servizio di sicurezza - che progettano degli attentati e fabbricano razzi Kassam. Il giorno prima la stampa israeliana aveva reso pubblico un rapporto secondo il quale i palestinesi stavano cercando di aumentare la portata dei loro razzi artigianali, precisando che questi avrebbero potuto raggiungere la fattoria di Sharon nel Negev.
    In questo stesso periodo - dal 29 giugno al 7 agosto -, la tregua non è mai stata totalmente rispettata dai palestinesi.
    
    * Fin dal giorno seguente la proclamazione del cessate-il-fuoco, cioè il 30 giugno, un operaio bulgaro, Kristo Radkov, viene ucciso nella regione di Jenin: questa prima violazione della tregua viene definita «sabotaggio» da Mahmoud Abbas, il Primo Ministro palestinese. Le Brigate al-Aqsa, legata al Fatah di Arafat, rivendicano l’attentato. Questo non impedirà ad Ariel Sharon di incontrare Mahmoud Abbas il 1° luglio, e a Tsahal di ritirarsi il 2 luglio da Betlemme, come anche dalla striscia di Gaza (sulle posizioni esistenti prima dello scoppio della seconda intifada nel settembre 2000). Lo stesso giorno di questo ritiro, sei israeliani restano feriti nelle imboscate a Kfar Darom e nei pressi di Tulkarem.
    
    * Gli attentati palestinesi non si fermano qui: Mazal Ofri, 63 anni, è ucciso in casa sua da un terrorista kamikaze il 7 luglio nel moshav Yabetz. Per la prima volta dopo la tregua, i terroristi non colpiscono più nei Territori, ma all’interno della linea verde. L’attentato suicida è rivendicato da Jihad islamica, che esige la liberazione dei suoi detenuti. Da notare: il giorno dopo, 8 luglio, Mahmoud Abbas si dimette dal Comitato centrale di Fatah, che gli rimprovera il suo modo di condurre le trattative con Israele; una risposta anche ad Arafat che boicotta i poteri di Mohammed Dahlan alla Sicurezza interna.
    
    * Il 15 luglio Amir Simshon, 24 anni, è pugnalato a morte sulla passeggiata al mare di Tel Aviv. Anche questo attentato è rivendicato dalle Brigate al-Aqsa. Il 21 luglio un soldato di 20 anni residente a Nazareth viene rapito in Israele; il suo corpo è ritrovato una settimana dopo nella zona di Kfar Saba. Anche un altro attentato provoca l’emozione generale dell’opinione pubblica israeliana: Tzila Hayun, 39 anni, viene presa di mira e colpita mentre circola su una strada nelle vicinanze di Har Gilo. Viene ferita gravemente, e anche i suoi tre bambini sono feriti.
    Durante tutto questo periodo, il governo Sharon invita Abbas e Dahlan a prendere delle misure contro le infrastrutture del terrorismo, come previsto dalla Road Map. I due dirigenti palestinesi tergiversano. Per prevenire la violenza cercano il dialogo con le fazioni palestinesi, adducendo a pretesto la loro mancanza di mezzi per disarmare e smantellare i gruppi terroristici, e sbandierando lo spettro di una guerra fratricida se optassero per il ricorso alla forza.
    
    * D’altra parte, il 23 luglio Mahmoud Abbas dichiara al Cairo che azioni contro Hamas e Jihad islamica non sono all’ordine del giorno. Israele allora fa notare con insistenza che le organizzazioni estremiste approfittano della tregua per riarmarsi e riorganizzarsi, e migliorare la portata dei razzi Kassam.
    
    Dunque, fino all’8 agosto i rimproveri di Mahmoud Abbas a Israele per quel che riguarda le operazioni di eliminazioni non sono assolutamente accettabili.
    
    
B - L’8 agosto due attivisti di Hamas sono uccisi a Nablus: provocazione o errore israeliano?

    L’8 agosto Israele ha perso la pazienza.
    Quattro palestinesi vengono uccisi all’alba durante un’incursione di Tsahal a Nablus, di cui due sono attivisti di Hamas nel campo di Askar. Anche un commando di marine israeliano viene ucciso nel corso dell’operazione. Il portavoce del governo israeliano parla di un’operazione di legittima difesa contro dei terroristi che preparavano degli attentati. In effetti, è la sola operazione realmente conflittuale dell’esercito israeliano. Si tratta forse di una deliberata provocazione nei riguardi di Hamas che si è astenuta da ogni attentato fino a quel momento, o di un’operazione di legittima difesa?
    La risposta dipende in parte dalla definizione che si dà al concetto di «bomba a scoppio ritardato». Secondo i suoi accordi con Washington, Israele aveva mantenuto il diritto di agire nel quadro di questo concetto. Ma quest’ultimo riguarda soltanto il terrorista equipaggiato con la sua cintura esplosiva già in viaggio per farsi esplodere? O include anche i preparativi logistici dell’attentato? Quello che è in gioco è il diritto all’intervento preventivo nella lotta contro il terrorismo. Bisogna anche notare che l’incursione a Nablus si è svolta in una zona in cui Israele non aveva ancora trasferito la responsabilità della sicurezza all’Autorità Palestinese.
    Da questa operazione israeliana dell’8 agosto, Hamas, che fino a quel momento si era mostrato disciplinato e apparentemente non aveva partecipato agli ultimi attentati, promette di vendicarsi, precisando abilmente che in fondo non rimette in questione il cessate-il-fuoco. La vendetta non tarda: due attentati suicidi si verificano il 12 agosto, il primo nell’insediamento di Ariel, rivendicato da Hamas, l’altro a Rosh Ha-Ain, rivendicato dalle Brigate al-Aqsa.
    Con questo doppio attentato, le due organizzazioni estremiste, dopo aver fatto attenzione a non denunciare la tregua, minacciano di rinchiudere Israele nella stessa trappola che gli tende Hezbollah: cioè neutralizzare la capacità d’intervento di Tsahal contro i terroristi che progettano o sono in procinto di commettere attentati. In effetti, se Israele non contrattaccava, si sarebbe trovato in una situazione inaccettabile: toccava a lui rispettare il cessate-il-fuoco mentre le fazioni palestinesi potevano continuare ad agire a loro piacere.
    Il 14 agosto Tsahal procede alla prima eliminazione mirata dopo il 30 giugno. L’esercito elimina Muhammad Sidr, il capo del braccio armato di Jihad islamica a Hebron.
    Il 19 agosto un attentato suicida contro l’autobus della linea 2 a Gerusalemme fa più di venti morti e un centinaio di feriti, di cui la metà bambini.
    Segue, il 20 agosto, la liquidazione a Gaza di Abu Shanab, uno dei principali dirigenti di Hamas nella striscia di Gaza.
    Il 22 agosto Hamas e Jihad islamica annunciano ufficialmente la fine della tregua e invocano vendetta.
    
    A partire dall’8 agosto l’accusa di Mahmoud Abbas non è dunque totalmente infondata. Ma sembra sproporzionata in confronto alla responsabilità dei gruppi «incontrollati» per quel che riguarda il non rispetto della tregua e, soprattutto, in confronto alla responsabilità di Arafat che rifiuta di mettere le briglie alle Brigate al-Aqsa, e in confronto alla reticenza di Abbas a impegnarsi, come capo del governo, nel combattimento contro il terrorismo.
    
    
2. IL RITIRO DELL’ESERCITO ISRAELIANO DALLE CITTA’ PALESTINESI

    Non c’è dubbio che Ariel Sharon ha trascinato i piedi prima di decidere di ritirare le sue truppe sulle posizioni precedenti il 28 settembre 2000.
    Resta il fatto che il 2 luglio, cioè quattro giorni dopo la proclamazione della tregua, Tsahal si ritira da Betlemme e dalla striscia di Gaza. Si tratta di un primo test, afferma il governo Sharon. Vengono intavolate trattative affinché Arafat accetti di trasferirsi a Gaza, ma non approdano a nulla.
    Quanto al ritiro da Gerico e da Qalqilya, è sospeso a causa dell’attentato suicida del 19 agosto. Davanti all’opinione pubblica israeliana, ogni nuova concessione è resa impossibile da quell’attentato.
    
    Su questo punto, le accuse di Mahmoud Abbas sono infondate. Niente può dimostrare che il Primo Ministro israeliano sarebbe andato fino alla fine della Road Map con la creazione di uno Stato palestinese sulla base delle linee del giugno 1967. Ma Ariel Sharon aveva preso davanti al mondo intero e davanti al suo popolo la decisione strategica di accettare la messa in atto di uno Stato palestinese dentro frontiere provvisorie. Ora, era evidente per Sharon, come per qualsiasi altro, che tutte le città palestinesi sarebbero state incluse nello Stato provvisorio in questione. Solo delle considerazioni di sicurezza gli hanno impedito di procedere, come previsto, alla ricollocazione dell’esercito.
    Inoltre, in questa faccenda sono Abbas e Dahlan che non hanno affatto aiutato il governo israeliano, che rispetto a loro ha il vantaggio di essere democraticamente eletto, di beneficiare dei pieni poteri che gli conferisce la sua funzione e, di conseguenza, essere vincolato alla sua parola. Pur sapendo che il ritiro dell’esercito era legato alla cessazione della violenza, Abbas e Dahlan non solo non hanno potuto né voluto realmente disarmare i gruppi terroristici, ma non sono nemmeno mai riusciti a mettere le mani sui responsabili degli attentati avvenuti durante il periodo della tregua, e a sottoporli alla giustizia. Questo significa chiaramente che erano delle persone senza mezzi, e allora tutta la Road Map non era altro che un artificio, o loro non ne avevano la volontà politica, il che è la stessa cosa per la riuscita del processo.
    
    
3. LA LIBERAZIONE DEI PRIGIONIERI PALESTINESI

In Israele questo dossier è stato oggetto di parecchi dibattiti nel Consiglio dei ministri, sono state istituite commissioni interministeriali per studiarlo, il capo dello Shin Beth è stato incaricato di definire i parametri per formare la lista dei detenuti che avrebbero potuto essere liberati. Al termine di tutte queste investigazioni e consultazioni Israele ha rilasciato soltanto 339 detenuti il 6 agosto, mentre Abbas ne reclamava 6000.
    Questa prima ondata di liberazione di detenuti è stata giudicata irrisoria dall’Autorità Palestinese, e Arafat, conoscendo la sensibilità del dossier, ci si è messo dentro d’impegno e ha qualificato immediatamente come «imbroglio» quello che Israele considerava un atto di buona volontà.
    Perché la liberazione di detenuti palestinesi, contrariamente a quello che si pensa comunemente, non fa minimamente parte della Road Map. Il governo Sharon ha deciso unilateralmente di fare un gesto simbolico per contribuire a ristabilire la fiducia, sapendo bene l’argomento è cruciale per l’Autorità Palestinese e per Abbas davanti alla sua opinione pubblica. Praticamente tutti i clan, tutte le famiglie palestinesi sono implicate nel provvedimento. Proprio per questo Arafat intendeva utilizzare questo dossier per drammatizzare la situazione e mobilitare la piazza palestinese contro Abbas e gli israeliani.
    Da parte sua Sharon, oltre alle sue riluttanze personali, deve anche affrontare un’opinione pubblica mobilitata dalle associazioni delle famiglie delle vittime del terrorismo. Un gesto è senza dubbio possibile, ma Sharon non può assumersi la responsabilità di liberare tutti i terroristi che «hanno sangue sulle mani».
    Tuttavia moltiplica i suoi sforzi, mette tutto il suo peso sulla bilancia, e arriva a convincere il suo governo ad includere dei terroristi islamici nella lista dei detenuti che devono essere liberati.
    Dal suo punto di vista, questa dovrebbe essere un’altra, più grande concessione per aiutare Mahmoud Abbas. Perché ricorda che le organizzazioni islamiche rifiutano la Road Map e in tutte le loro dichiarazioni promettono di far sparire Israele dalla carta geografica.
    L’ampiezza delle pretese palestinesi e i limiti della risposta israeliana fanno sì che la questione sia portata davanti all’Amministrazione americana. Mahmoud Abbas perorerà la sua causa a Washington il 25 luglio, durante un incontro con il presidente Bush, Sharon perorerà la sua il 29 luglio.
    La Casa Bianca decide: Sharon non può fare di più per il momento. Washington, che conduce la lotta internazionale contro il terrorismo, non se la sente di esigere la liberazione di quelli che fa mettere sulla lista delle organizzazioni da combattere.
    
    Nessun dubbio che Mahmoud Abbas si attendesse molto da Israele. Nessun dubbio anche che non potesse ignorare l’impossibilità di Sharon di fare di più. A dire il vero, questo argomento rappresenta forse il punto più serio della discordia. Il Primo Ministro palestinese, quali che siano le ragioni, si è mostrato troppo intransigente. Se la liberazione di tutti i prigionieri politici è inevitabile in un regolamento politico globale e definitivo, non può assolutamente esserlo in una tregua di trenta giorni. Nessuno Stato accetterebbe di essere abbindolato da un simile imbroglio.
    
    
4. LA COSTRUZIONE NEGLI INSEDIAMENTI E IL MURO DI SEPARAZIONE

    A questi tre punti sollevati da Mahmoud Abbas dopo aver rassegnato le sue dimissioni, si potrebbero aggiungere due altri dossier spinosi: quello del blocco degli insediamenti e quello della costruzione del muro di separazione.
    
A - La prosecuzione della costruzione negli insediamenti

    Quando degli avamposti «illegali» sono stati smantellati, in molti casi è stato reinstallato poco dopo un altro avamposto poco distante, e l’esercito non ha sempre fatto tutto il necessario per impedirlo.
    E’ anche incontestabile che Ariel Sharon non ha imposto il blocco della costruzione negli insediamenti esistenti. Ora, questo gesto è uno di quelli che possono far arrivare ai palestinesi un messaggio rassicurante sulla sua volontà di pervenire alla pace e alla coesistenza. Tuttavia, bisogna ricorda che nella Road Map firmata dall’Unione Europea, la Russia, l’ONU e gli Stati Uniti, Israele s’impegna al blocco delle colonie soltanto dopo la cessazione totale della violenza. Una pregiudiziale che troppi osservatori dimenticano.
    
B - Il muro di separazione

    Questa «barriera», qualificata come muro di Berlino o muro dell’apartheid dall’Autorità Palestinese, è un’iniziativa dei laburisti israeliani in vista di una separazione politica e di sicurezza tra i due popoli. Ariel Sharon non l’aveva sottoscritta. I suoi motivi erano evidenti: non abbandonare gli insediamenti israeliani che si ritroverebbero dalla parte sbagliata della barriera, cioè da quella palestinese.
    In seguito, “real politik oblige”, Sharon è ritornato sulla sua opinione. Agli abitanti ebrei delle colonie e alla comunità internazionale ha presentato questa barriera come una chiusura di sicurezza, e non come un muro che disegna un’eventuale frontiera.
    Questo dossier gli ha valso una polemica con Washington, ma in realtà gli americani non sono categoricamente contrari all’esistenza di una tale barriera. Chiedono tuttavia che il suo tracciato non sconfini vistosamente sui Territori palestinesi, cioè sulla zona al di là della linea verde. Sharon, che aveva l’intenzione di includere grosse concentrazioni di insediamenti dalla parte israeliana della barriera, ha dovuto riconsiderare il suo obiettivo. E in seguito ha sospeso la costruzione dei tronconi problematici.
    In pratica questa barriera, se la si guarda dal lato fisico, è una recinzione di decine di chilometri e un muro di altre decine di chilometri. Bisogna dire che la sua costruzione risponde contemporaneamente a bisogni di sicurezza e a prospettive politiche.
    Dal punto di vista della sicurezza, ogni Stato ha il diritto di prendere le misure che gli sembrano necessarie, purché non sconfini in casa del vicino. Ed evidentemente questo è un elemento a giusto titolo di contenzione tra israeliani e palestinesi.
    Dal punto di vista politico, i palestinesi reclamano la loro autodeterminazione in uno Stato indipendente. Ora, fino a prova contraria, gli Stati hanno delle frontiere, anche se nelle regioni più pacifiche del mondo, come l’Europa, sono del tutto aperte.
    

CONCLUSIONE

Quali che siano i rimproveri che si possono indirizzare a Sharon, e i dubbi che si possono avere sulla sua totale buona fede, è necessario riconoscere che il capo del governo israeliano si è trovato quasi sempre in attesa davanti al suo omologo palestinese. Considerati i suoi impegni presso Washington, sarebbe stato costretto a rispondere positivamente - e dunque ad avanzare dietro i passi di Mahmoud Abbas - se questi avesse avuto la determinazione o il potere di procedere sul cammino tracciato dalla Road Map. Sharon ha fatto soltanto il minimo richiesto su questa via, non è certamente mai andato al di là di quello che si esigeva da lui per facilitare il cammino davanti a Mahmoud Abbas. Ma non gli ha teso nessuna trappola, e non ha silurato deliberatamente nessuno sforzo di pace.
    Nei fatti, Mahmoud Abbas sa perfettamente che sono stati Arafat e i suoi, aiutati dalle organizzazioni terroristiche, che l’hanno fatto cadere. Ma su questo punto ha fatto finta di non capire. Ricordiamo che sabato scorso è entrato nel Consiglio legislativo palestinese da una porticina laterale, e non dall’entrata principale, quando aveva già presentato le sue dimissioni. Ha perfettamente capito il

prosegue ->
messaggio delle manifestazioni di giovedì, organizzate da Fatah e Arafat: la sua stessa vita, si dice a Ramallah, era in pericolo. Mahmoud Abbas è talmente cosciente del ruolo preponderante di Arafat che ha avuto il coraggio - raro in una dittatura araba - di denunciare pubblicamente il rais come uno dei fautori di morte, per lui e per il suo popolo.

(Proche-Orient.info, 7 settembre 2003)

    

I PALESTINESI NON SANNO PERDERE


L'errore palestinese è trattare sempre da vincitori senza vincere mai
    
di Emanuele Ottolenghi

    Ancora una volta, i palestinesi dimostrano di non saper perdere. Sempre, a partire dalla Grande rivolta araba del 1936-’39, di fronte alla sconfitta si presentano al tavolo delle trattative con pretese da vincitori. La magnanimità dei loro avversari fu sempre frustrata dalle assurde pretese di chi le guerre le aveva perse senza accorgersene. Questo atteggiamento si manifesta nella ricorrente arroganza di dettare condizioni ed esigere concessioni come atti dovuti, senza essere disponibili a offrire nulla in cambio. Se tale comportamento premia di rado i vincitori, di sicuro non giova ai vinti. Ma il “Vae victis” di Brenno è una lezione mai imparata nel mondo arabo con la conseguenza che le occasioni sfumano. Accadde nel 1937, nel ’48, nel ’67 e nel 2000. Sta per accadere di nuovo con la road map. E gli arabi hanno sempre perso, nonostante si illudano che il tempo giochi a loro favore. Nel 1939 li salvò l’ingenua illusione inglese che soddisfacendo gli arabi si potesse prevenire una politica filonazista. Gli arabi ottennero parte di quel che volevano e si allinearono comunque a Berlino. Nel ’48 gli arabi si opposero alla legittimità internazionale dell’Onu credendo che la forza avrebbe ottenuto quanto il diritto loro negava, con il risultato che invece di rinunciare a metà della Palestina ne persero tre quarti. Non paghi della lezione – e spronati dall’arrendevolezza occidentale a imporre a Israele assurde concessioni territoriali – gli arabi rifiutarono la pace nel ’49 e prepararono la rivincita. Le concessioni non avvennero e il barometro diplomatico cambiò a loro discapito con la campagna di Suez. L’ossessiva preferenza per ciò che è desiderabile a ciò che è realisticamente possibile portò gli arabi a una nuova folle avventura regolarmente naufragata nel ’67 con ulteriori perdite territoriali. Ogni volta, di fronte all’ineluttabile giudizio della storia, i leader arabi prima e palestinesi poi hanno cercato di salvare la faccia persa in battaglia nei corridoi della diplomazia. Sbagliando sempre perché senza eccezioni essi hanno preteso che trattati e accordi ribaltassero le conseguenze delle guerre e dessero loro, gli sconfitti, l’onore e le spoglie della vittoria. L’Intifada non fa eccezione. Dopo tre anni di futili massacri i palestinesi, rimasti ancora una volta con un pugno di mosche, avrebbero dovuto riconoscere la sconfitta e accogliere la road map come l’ennesima offerta generosa dell’Occidente. I palestinesi avrebbero dovuto quindi fare la loro parte nella road map rimuovendo la causa prima del corrente conflitto, cioè il terrorismo. Invece, illusi dall’atmosfera favorevole dell’opinione pubblica occidentale che sembra disposta a scendere a patti col terrorismo, hanno perso un’altra chance. E’ bastata un’estate di tregua perché i palestinesi si dimenticassero di aver perso e si mettessero a dettar condizioni a Israele, a presentarsi come vittime e a disattendere i loro obblighi. Bravi nel produrre pretesti per non combattere il terrorismo, e forti del sostegno di un’opinione pubblica internazionale intimidita dal terrorismo e dalla paura che prima o poi cominci anche a casa propria, i palestinesi hanno preteso senza offrire nulla in cambio. La tregua siglata tra fazioni palestinesi (e non con Israele) non ha tenuto, visto che serviva non a deporre le armi con dignità, come si concede agli sconfitti, ma per prepararsi a un nuovo round di inutili massacri. Il massacro è puntualmente avvenuto, non a causa della violenza israeliana come i giornalisti malati di sindrome di Stoccolma scrivono in Occidente, ma a causa dell’incapacità palestinese di rispettare la tregua da loro stessi proclamata. Così Israele ha ottenuto il permesso americano (notato il silenzio di Washington dell’ultima settimana?) di riavviare la politica delle uccisioni mirate, che aveva con successo colpito al cuore l’infrastruttura terroristica prima del giugno 2003, costringendo Hamas ad accettare almeno temporaneamente la tregua. A dispetto degli strilli dei critici a oltranza, la tecnica delle uccisioni mirate si è subito dimostrata efficace, offrendo importanti lezioni a chi in Occidente vuole combattere il terrorismo. Ma che l’Occidente quelle lezioni sia preparato a capirle rimane in dubbio.
    Partiamo dai risultati. La risposta di Israele, arrivata dopo l’ennesima strage di innocenti perpetrata dal terrorismo palestinese, trova l’approvazione dell’Amministrazione americana e ha persino svegliato gli europei, che sia pur con grave e connivente ritardo si stanno dando da fare a tagliare i fondi all’idra terroristica di Hamas in Europa. I leader di Hamas, la cui vocazione al martirio è inversamente proporzionale alla retorica con cui mandano i loro adepti a massacrare innocenti, si sono subito nascosti per sfuggire alla morte. In più si sono detti disposti a rinegoziare la tregua. Peccato che la lezione non l’abbiano capita: essi si ostinano a dettare condizioni, senza offrire una contropartita. In quanto all’Autorità palestinese, anch’essa farebbe bene a negoziare una resa dignitosa con Israele. Abu Mazen dovrebbe chiedere concessioni a Israele in cambio dell’adempimento della fase preliminare della road map, che esige di distruggere le infrastrutture delle organizzazioni terroristiche. La rapida sparizione dei leader di Hamas, l’efficacia con cui Israele li ha colpiti, il relativo silenzio americano ed europeo e la volontà occidentale di colpire la struttura finanziaria di Hamas sono il risultato dell’uso calibrato della forza da parte di Israele, non di concessioni fatte sotto minaccia della violenza. In più, le uccisioni mirate dell’ultima settimana hanno privato l’organizzazione di importanti figure. Le lezioni da imparare sono quattro. Primo, per colpire così efficacemente, Israele necessita di ottima intelligence. Ciò significa saper penetrare l’infrastruttura del terrore e avere un esercito di informatori sul proprio libro paga facendo ricorso quindi a Humint e non solo a Digint come principalmente fa l’Occidente. L’accesso a Humint spiega la fuga dei leader di Hamas, che ben sanno di non potersi fidare di nessuno, nemmeno dei familiari ormai. Per poter sconfiggere il terrorismo, l’Occidente deve fare altrettanto e imparare a infiltrare le organizzazioni, corrompendone gli operativi, utilizzando strumenti di pressione psicologica e finanziaria su familiari e conoscenti perché rivelino utili informazioni, addestrando persone che possano mimetizzarsi nell’ambiente terroristico e carpirne i segreti e conoscendone lingua e mentalità a sufficienza da captarne i messaggi e divinarne le intenzioni. La seconda lezione è che l’idra del terrorismo dipende dalle capacità operative dei leader. Eliminati gli esperti di esplosivi, gli ideologi, e le guide spirituali, uccisi i tecnici e gli psicologi del terrore, eliminate le strutture logistiche, i terroristi sono soldati disarmati. La terza lezione è che le uccisioni mirate colpiscono la struttura terroristica molto di più che azioni indiscriminate, ma causano molto meno danno alla popolazione innocente e alle infrastrutture civili di quanto non possa fare un’operazione bellica convenzionale. Nell’ambito dello scontro asimmetrico contro il terrorismo quindi le uccisioni mirate rimangono l’azione di guerra meno crudele e più consona al diritto internazionale. L’Occidente dovrebbe adottarle, colpendo globalmente i leader del terrore. La quarta lezione, che lo Stato italiano imparò non senza sbagli nella lotta alle Brigate rosse e alla mafia, è che i terroristi non gettano le armi preferendo il negoziato non violento di fronte alla magnanimità. Soltanto la determinazione dello Stato a non capitolare di fronte alla violenza li fa col tempo desistere. Israele non paga un altissimo prezzo di sangue perché adotta la tecnica sbagliata, ma perché di fronte alla simpatia mostrata loro dall’opinione pubblica occidentale i terroristi credono di poter ottenere con la violenza ciò che nel rispetto della legge e della diplomazia nessuno sarebbe mai disposto a concedergli.
    Chiedere a Israele di smettere senza contropartita significa nutrire la proverbiale illusione araba di poter vincere anche quando si perde. Significa quindi fare il gioco dei terroristi. Che nel linguaggio dei semplici significa diventarne complici.

(Il Foglio, 5 settembre 2003)



PROMEMORIA SCHEMATICO DELLE VITTIME DELL'INTIFADA

   
Morti, morti, morti: tre anni che pesano sul futuro della regione

di Federico Steinhaus

    Siamo in un momento cruciale della difficile coesistenza fra lo stato d'Israele ed il futuro stato palestinese, a causa dell'atteggiamento di una parte della dirigenza politica di quest'ultimo che quanto meno tollera il terrorismo.
    Forse, a questo punto, può servire da promemoria uno schematico riassunto delle vite che si sono bruciate su questo fronte tra il 27 settembre 2000, inizio della seconda intifada voluta da Arafat, ed il 31 agosto scorso. Ci auguriamo che esso possa fungere da deterrente per chi vorrebbe perpetuare il terrorismo, e da monito per chi si ostina a distogliere lo sguardo dalla realtà di una nazione (non uno stato: tutto il popolo) che deve lottare per la propria sopravvivenza fisica [le percentuali sono state aggiunte, ndr].

Totale dei morti:
palestinesi: 2.384, di cui 111 donne (4,6%)
israeliani: 820, di cui 257 donne (31%)68/820=

Non combattenti uccisi dalla parte avversa:
palestinesi 874 (37%), di cui 83 donne (3%)
israeliani 635 (77%), di cui 252 donne (31%)

Combattenti uccisi dalla parte avversa:
palestinesi 1.091 (46%)
israeliani 167 (20%)

Persone uccise dalla propria parte:
palestinesi 303 (13%)
israeliani 20 (2%)

Non combattenti sotto i 12 anni:
palestinesi 68 (3%)
israeliani 31 (4%)

Non combattenti maschi di età fra i 12 ed i 29 anni:
palestinesi 476 (20%)
israeliani 157 (19%).

Raccomandiamo ai nostri lettori di valutare con attenzione le proporzioni interne, piuttosto che le cifre in assoluto; in particolare, l'alta presenza di donne e bambini non combattenti fra le vittime israeliane, e la loro esigua presenza fra quelle palestinesi, forniscono un quadro molto chiaro dell'incidenza del terrorismo e della violenza evitabile sui due versanti; inoltre, l'altissimo numero di palestinesi uccisi da altri palestinesi (più del 10% del totale dei morti) segnala l'importanza della giustizia sommaria, dei linciaggi e delle esecuzioni senza processo che colpiscono i palestinesi sospettati di aver collaborato con Israele (sottolineiamo: sospettati) ed hanno lo scopo evidente di terrorizzare la popolazione.

(Informazione Corretta, 02.09.2003)



QUOTIDIANO ARABO LONDINESE: «ARAFAT E ABU MAZEN DEVONO ANDARSENE!»


Un articolo firmato da Abd Al-Rahman Al-Rashed, direttore del quotidiano londinese in lingua araba Al-Sharq Al-Awsat, intitolato "La leadership palestinese se ne deve andare", è stato pubblicato il 28 Agosto 2003. Segue la traduzione integrale dell’articolo.(1)

 

'Noi trasudiamo vergogna'
 
"Mentre la terra palestinese occupata trasuda sangue e dolore, noi trasudiamo vergogna. Non sappiamo più da che parte guardare quando vediamo i continui litigi fra i membri della leadership di Ramallah. [Mi riferisco al] braccio di ferro fra Abu Ammar [Arafat] e Abu Mazen; alla rissa fra Rajoub e Dahlan, e alle scaramucce fra Al-Qaddoumi e Sha'ath, dei quali  il baccano può essere sentito fino al Cairo.”
 
“Non è vergognoso e penoso quando una donna palestinese sacrifica i propri figli per questi leader che si rifiutano di lasciare i propri posti? Non è vergognoso che questi siano i personaggi che trascinano l’intero mondo arabo in una lotta che loro definiscono ‘fondamentale’, e che nella sua forma attuale, sotto gli occhi e a portata di orecchie di tutti, non è altro che una farsa personale? Perché qualcuno dovrebbe sacrificare qualcosa per una questione dettata da interessi personali?”
 

'A questa leadership non interessa nulla eccetto le proprie battaglie personali’
 
"Una delle ragioni per cui alcuni di noi sospettano che la loro non sia una [vera] leadership, è che [questa leadership] non combatterà né farà mai la pace. Mentre le donne palestinesi piangono i loro figli, i loro fratelli e i loro padri, si levano gli urli dei leader [che si azzuffano] per cariche e stipendi. Questa leadership non vuole né una soluzione né una terra; niente le interessa, a parte le proprie battaglie personali”.
 
“Purtroppo, lo scontro fra questi sei rappresenta la solita forma di governo alla quale la leadership palestinese [ci] ha abituati nel corso di molti anni. E’ per questo motivo che molti governi, e non solo quello americano, hanno preteso un cambiamento e il consolidamento di un sistema politico trasparente. Sfortunatamente, il bastone viene messo fra le ruote ogni volta che il carro comincia a muoversi, e la ragione per cui questo accade è sempre la lotta per interessi personali.”
 
“La verità è che non c’è una disputa ideologica sulla gestione o la soluzione del conflitto fra Abu Mazen, Abu Ammar, Nabil Sha'ath, Farouq Qaddoumi, Muhammad Dahlan e Jibril Rajoub, così come fra gli altri che si trovano ai vertici della burocrazia, si tratta solo di una disputa riguardante le poltrone. I governi arabi vedono i litigi dei membri dell’ANP e non sanno più dove guardare. Si trovano di fronte al Presidente di uno stato che afferma di essere stato eletto e un Primo Ministro che egli ha nominato, ma al quale non vuole dare poteri.”
 
“Il secondo scontro riguarda la voce dei palestinesi all’estero: Nabil Sha'ath o Farouq Al-Qaddoumi! Nonostante la mia stima per Al-Qaddoumi, si tratta di un uomo che non ha mai accettato completamente la piattaforma palestinese. Come può continuare a fare il ministro se, di fatto, è contrario al programma politico della dirigenza? Inoltre, Al-Qaddoumi ha rifiutato perfino di riconoscere lo stato palestinese per quello che è, ha messo in dubbio la sua legittimità e non è ritornato nella sua patria Palestina per 40 anni, fino alla scorsa settimana, quando ha saputo che Abu Mazen aveva deciso di mettere al suo posto, come ministro degli Esteri, Nabil Sha'ath. (2) Non è strano?”
 

'E’ tempo che la leadership palestinese capisca che se ne deve andare'
 
"Un altro conflitto in corso è quello fra Muhammad Dahlan e Jibril Rajoub. Il Primo ministro non è stato risparmiato dalla collera di Rajoub dopo aver nominato Dahlan, il rivale [di Rajoub], [come ministro degli Affari di Sicurezza]; [Rajoub] ha sferrato un attacco intriso di ingiurie personali, che non ha esitato a ripetere in televisione. Abu Ammar [Arafat] ha colto le recenti operazioni suicide e l’aggressione israeliana come un’opportunità per vendicarsi di Abu Mazen e placare Rajoub. Così, non solo gli ha dato una posizione paragonabile [a quella di Dahlan], ma gli ha assegnato anche un grado militare più elevato. E’ questo il modo in cui gli affari di governo vengono condotti, i territori liberati ed è trattato il dolore delle vittime.”
 
"E’ tempo che la leadership palestinese capisca che se ne deve andare, che sia quella di Abu Ammar o di Abu Mazen. Gli ultimi round delle lotte intestine hanno confermato i sospetti e provato le accuse precedenti, secondo le quali non esiste una vera leadership in grado di assumersi le sue responsabilità e di sacrificare propri interessi e poltrone per compiere il dovere per cui è stata eletta.”
“Non è terribile abbastanza la sofferenza di un popolo, metà del quale vive in campi profughi, da ormai 40 anni, e l’altra metà sotto occupazione? E’ con questa leadership inetta che i palestinesi libereranno la loro terra? Dovremmo entrare in conflitto con il resto del mondo per gli interessi di questi individui?”

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Note:
[1] Al-Sharq Al-Awsat (Londra), 28 Agosto 2003.
[2] Al-Qaddoumi non si è recato nel territorio dell’Autorità Palestinese, ma ha dichiarato che stava prendendo in considerazione di farlo.
 
(The Middle East Media Research Institute, 03.09.2003)



STORIE DI ALIA'


Diciassette nuovi immigranti dall’Iraq cominciano una nuova vita

di Yuval Dor
     
Mercoledì scorso, in piena notte, un gruppo di 17 nuovi immigranti è arrivato dall’Iraq in Israele. La famiglia Nissan dice di avere tentato per molti anni di fare l’alià
    I parenti, che vivono nel paese da diversi anni, hanno rifiutato la proposta del Ministero dell’Assorbimento di mandare in nuovi venuti al Centro di Assorbimento di Beer Sheva e quindi ora la famiglia Nissan abita con i parenti a Hedera.
    Nel 2000, Rachel Nissan e suo marito Amir, entrambi di Baghdad, immigrarono segretamente in Israele, pochi giorni appena dopo il loro matrimonio. “Dal momento in cui siamo arrivati qui, abbiamo cominciato a cercare il modo di occuparci della famiglia che avevamo lasciato”, dice il Amir, ventiseienne, che funge da portavoce della famiglia. Amir, in ottemperanza alle severe istruzioni ricevute dai rappresentanti dell’Agenzia Ebraica, che dal momento dello sbarco non hanno mai lasciato un momento i nuovi arrivati, si rifiuta di dare particolari su come lui stesso abbia raggiunto Israele o su come i 17 nuovi immigrati siano stati portati qui.
    Il gruppo comprende i genitori di sua moglie, Avraham e Tikva, quattro delle loro figlie, due figli ed un nipote – tutti al di sotto dei 18 anni. Un’altra sorella di Rachel è immigrata con il marito ed i loro cinque figli. Anche uno zio di Amir è riuscito ad unirsi allo speciale contingente. Nessuno di loro parla l’ebraico e si sono tutti accampati in casa di Amir e Rachel e da uno zio di Amir a Hedera. Il fratello di Amir, Assaf, è riuscito ad ottenere dall’esercito una licenza speciale per l’occasione. Assaf, che dovrebbe essere congedato dall’esercito entro sei mesi, arrivò in Israele all’età di 16 anni. Dice di essere riuscito ad ottenere un passaporto, raccontando alle autorità irachene che andava in vacanza in Giordania. Prima di lasciare l’Iraq, riuscì a mettersi in contatto con la nonna in Israele e le comunicò i suoi ‘programmi per le vacanze’. “Arrivai in Giordania alle 9 di mattina e alle 11.30 ero già in Israele”, dice con un gran sorriso.
    La storia su come la famiglia Nissan sia riuscita ad arrivare in Israele è complicata. Amir racconta che circa 27 anni fa, la famiglia abbandonò quello che una volta era il prospero quartiere di Bataween a Baghdad, per andare ad abitare con una famiglia musulmana, che fece di tutto per nascondere la loro identità ebraica. Il padre, Avraham, possedeva una grossa autorimessa e la famiglia era considerata abbiente. Quando alcuni dei figli più grandi, che non erano riusciti a cambiare il cognome ebraico, tentarono di iscriversi all’università, furono respinti. Avraham racconta che allo scoppio della guerra contro l’Iraq, il quartiere dove la famiglia abitava è stato pesantemente bombardato, poiché si trovava in prossimità degli uffici delle forze di sicurezza di Saddam Hussein. “Molti dei vicini sono rimasti uccisi in questi attacchi aerei”, aggiunge Amir. Ciononostante, la famiglia ha atteso finché è stato certo che il regime era caduto. “Solo una settimana dopo l’abbattimento della famosa statua sono scappati di casa – afferma Amir – Avevano paura”. Egli dice che se ne sono andati senza prendere nulla e così in fretta che Avraham non è riuscito nemmeno a vendere il garage. Soggiornando per un certo periodo in un’altra città, la famiglia è riuscita a contattare l’Agenzia Ebraica ed alla fine sono stati portati in Israele, con una sosta durante il percorso. “ I nostri genitori parlavano di immigrare in Israele fin da quando eravamo bambini – aggiunge Assaf – Il problema era che tutte le volte che risparmiavamo abbastanza soldi e facevamo i piani per partire, scoppiava una guerra e quando in Iraq scoppia una guerra, nessuno se ne può andare. Prima c’è stata la guerra Iran-Iraq, poi la prima guerra del Golfo e quindi la seconda guerra del Golfo”.
    Assaf dice che se non fosse riuscito a fuggire dall’Iraq, avrebbe dovuto arruolarsi nell’esercito di Saddam: “Avrei tentato di uscirne, però. Si paga a qualcuno 500 dollari e si è esonerati”, afferma. Amir dice di non avere chiuso occhio da quando la famiglia è arrivata dall’Iraq. I media non li hanno lasciati in pace neanche un momento ed un reporter ha trascinato la famiglia ad un vicino centro commerciale, per fotografare i nuovi immigrati sullo sfondo di quello che alcuni considerano il simbolo sociale della nuova “israelianità”. Alcuni vicini, che sono stati spettatori della confusione suscitata da questa nuova famiglia di lingua araba, erano sicuri che si trattasse di Drusi del Libano meridionale, portati di nascosto in Israele dall’esercito.
    “È terribilmente emozionante – afferma Amir – Ci siamo preoccupati per loro dal momento in cui sono arrivati in Israele e adesso sono qui”. Dice che nei prossimi giorni affitterà per la famiglia un appartamento accanto al suo. “Non li abbiamo visti per tre anni. È un periodo molto lungo. Ora saremo vicini”.

(Ha-aretz, 22.08.03, da Keren Hayesod)



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