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Notizie su Israele 200 - 7 ottobre 2003

1. Padri e figlie nell'Autonomia Palestinese e in Israele
2. Intervista a Avraham Burg
3. Una società che rigetta il terrorismo
4. Dalla stampa araba: «Arafat se ne deve andare»
5. L'esodo degli ebrei dal Marocco
6. I falsi cristiani dicono che...
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 45:15-17. In verità tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d'Israele, o Salvatore! Saranno svergognati, sì, tutti quanti delusi; se ne andranno tutti assieme coperti di vergogna i fabbricanti d'idoli; ma Israele sarà salvato dal Signore mediante una salvezza eterna; voi non sarete svergognati né delusi, mai più in eterno.

1. PADRI E FIGLIE NELL'AUTONOMIA PALESTINESE E IN ISRAELE



Hanadi Jaradat
Il padre dell'attentatrice:
"Sono fiero di mia figlia"



HAIFA, 6 ottobre - Il padre dell'atten- tatrice suicida palestinese di sabato scorso ha considerato l'attacco come un "dono di Allah". Hanadi Jaradat si è fatta saltare in aria nel pomeriggio in un locale di Haifa. 19 persone sono rimaste uccise e 60 ferite.
"Sono fiero di mia figlia e considero l'attacco come un dono di Allah per la patria e il popolo palestinese", ha detto domenica il padre. Come riferisce il quoditiano "Yediot Aharonot", la famiglia Jaradat si è rifiutata di accettare le condoglianze per la morte della ventinovenne giurista. "Accetto soltanto gli auguri per quello che ha fatto", ha sottolineato suo padre. "E' stato un dono che mi ha fatto, e questo è il minimo che lei può fare per me e per tutti quelli che amiamo. Quindi io non piango per lei, anche se mi è stata presa la cosa più preziosa."
    Subito dopo l'attentato, la famiglia si era premurata di lasciare la casa nella città di Jenin in Samaria. Soldati israeliani hanno distrutto l'edificio nelle prime ore di domenica mattina. Non ha paura di Israele, ha detto il padre di Hanadi. "Non abbiamo più nulla da temere e nulla che possiamo perdere. Questa è una guerra tra noi e loro, una guerra che continuerà fino al giorno del giudizio."
    Secondo dati forniti dalla famiglia, la ventinovenne si era aggregata al gruppo terroristico Jihad dopo che in luglio due suoi parenti erano stati uccisi in una azione militare israeliana.
    Sono stati anche pubblicati i nomi delle vittime dell'attentato al ristorante "Maxim":

Bruria Zer-Aviv, 49 anni, Kibbutz Yagur
Bezalel Zer-Aviv, 30 anni, Kibbutz Yagur
Keren Zer-Aviv 29 anni, Kibbutz Yagur
Liran Zer-Aviv 4 anni, Kibbutz Yagur
Noia Zer-Aviv, 14 mesi, Kibbutz Yagur
Irena Sofrin,38 anni, Kiriat Bialik
Nir Regev, 25 anni, Netanja
Mark Biano, 30 anni, Haifa
Naomi Biano, 30 anni, Haifa
Osama Nadschar, 28 anni, Haifa
Matan Askarkabi, 29 anni, Haifa
Sherbel Matar, 23 anni, Fassuta
Hana Francis, 39 anni, Fassuta
Ze´ev Almog, 71 anni, Haifa
Ruth Almog, 70 anni, Haifa
Mosche Almog, 43 anni, Haifa
Tomer Almog, 9 anni, Haifa
Assaf Staier, 11 anni, Haifa
Zvi Bahat, 35 anni, Haifa


La famiglia distrutta nell'attentato. Da sinistra a destra: Bruria, suo figlio Bezalel con la moglie Keren e i due figli Noia e Liran



Altro padre, altra figlia.

Proprio pochi giorni prima il tragico attentato, una giovane araba israeliana aveva intrapreso un'azione per chiedere ad Arafat di far cessare gli atti di terrorismo.

HAIFA, 29 settembre - Una studentessa di ginnasio del villaggio di beduini Bir el-Machsor, a est di Haifa, vuol chiedere al capo dell'OLP Yasser Arafat, con una petizione, di porre fine al terrorismo. Fino ad ora Samach Hudjrat ha raccolto circa 82 firme.
    Come riferisce il servizio d'informazioni "Walla", la diciassettenne chiede al leader dell'Autonomia Palestinese di compiere un passo coraggioso contro il terrorismo. Dovrebbe "prendere esempio dai piloti (dell'esercito israeliano) che si sono rifiutati di uccidere persone innocenti", si dice nell'appello.
    La studentessa incoraggia la giovane generazione dei palestinesi ad agire come lei e a intraprendere passi che possano portare alla cessazione della violenza.
    Nei prossimi giorni Hudjrat marcerà, con altri che la pensano come lei, verso Ramallah per portare la petizione ad Arafat.
    Suo padre, presidente dell'associazione dei beduini nel nord di Israele, appoggia l'iniziativa di sua figlia.
   
(Israelnetz Nachrichten)



2. INTERVISTA A AVRAHAM BURG

Dopo il suo clamoroso articolo su "Yediot Aharonot", tradotto prontamente in diverse lingue, Avraham Burg ha continuato a scrivere e a parlare. Riportiamo, con autorizzazione, un'intervista concessa al giornale francese «Le Figaro» qualche giorno fa.


Le Figaro. Il suo editoriale ha provocato uno choc in Israele.
Avraham Burg. Il mio ruolo è dire le cose come le vedo. Con lo scoppio della seconda intifada, che è totalmente differente dalla prima, le due componenti della scena politica israeliana hanno perduto una gran parte della loro filosofia. La sinistra ha perso il sogno, la visione di un nuovo Medio Oriente. Oggi non c'è più un nuovo Medio Oriente. C'è un Medio Oriente molto difficile, problematico, violento, volatile. Nell'attesa, quello che abbiamo perduto è la visione che il nuovo accordo non sarà un accordo senza speranza, ma un arrangiamento senza disperazione. La destra israeliana invece ha perso la convinzione che ci sia una soluzione militare. Anche Ariel Sharon ha pronunciato la parola «occupazione».

Le F. Le sue critiche sono profonde. Dice perfino che la generazione presente potrebbe essere l'ultima generazione sionista. Le sue convinzioni religiose hanno giocato un ruolo nella sua riflessione?
A.B. Senza alcun dubbio. Per me, essere ebreo è essere quello che duemila anni di morale ebraica vogliono che io sia. So che molti rappresentanti della prima generazione oppongono l'idea nazionale alla mentalità dell'esilio. Secondo loro, noi siamo stati poveri, deboli e perseguitati durante tutto il nostro periodo di esilio, e ora dobbiamo essere esattamente l'opposto. Dico a loro: prendere l'esatto opposto della mentalità dell'esilio è anche una forma di esilio. Se volete mostrare i muscoli semplicemente perché non l'avete fatto durante i duemila ultimi anni, questo è soltanto l'altra faccia della medaglia. Quello che vorrei fare, è qualcosa che non è mai stato fatto nella storia della mia civiltà: realizzare la sintesi tra l'ebraismo e la democrazia, tra i miei valori nazionali e il sistema di valori dell'Occidente. E farlo oggi non come individuo, ma come Stato, come un paese che appartiene alla comunità delle nazioni. Questo è l'ebraismo per me.

Le F. Lei dice che tutte le colonie devono essere abbandonate. Che cosa significa per lei abbandonare dei luoghi biblici come Hebron o Bet El?
A.B. In un secondo editoriale che è stato pubblicato in arabo nel giornale Al-Qods, ho detto ai palestinesi: sarà molto doloroso. Per me, un compromesso territoriale significa che transigo con il mio sogno del Grande Israele, e che Sari Nusseibeh transige con il suo sogno della Grande Palestina. Abbandonerò dei sogni, delle speranze, dei diritti, abbandonerò la storia, una patria, delle attese, ma salverò l'avvenire. Non ci sarà mai accordo tra estremisti in Medio Oriente.

Le F. Chi, dall'altra parte, è capace di concludere questo affare?
A.B. Risponderò in modo indiretto. Sarà mio partner quello che i palestinesi sceglieranno. I palestinesi sono nello stesso tempo miei vicini e miei nemici. Detestano Israele, non lo sopportano. Ma vorrebbero avere una democrazia come la democrazia israeliana. L'«effetto domino» per instaurare la democrazia nel mondo arabo avrà certo più chanche se si comincia con i palestinesi, invece che con l'Iraq. Perché la democrazia è già costruita secondo il loro modo di vivere. Non esiste altro sistema arabo in cui il primo ministro ha potuto sentirsi minacciato da un voto di sfiducia del Parlamento. Il palestinese con cui potremo negoziare è quello che avrà compreso questi principi.

Le F. Molti elettori di sinistra hanno votato Sharon a causa degli attentati suicidi. Nel suo editoriale dice che i kamikaze si fanno saltare davanti ai ristoranti israeliani perché loro e i loro figli hanno fame...
A.B. Il Capo di Stato maggiore israeliano ha detto: «Abbiamo vinto l'intifada.» Se abbiamo distrutto tutte le infrastrutture, ucciso tutti gli «ingegneri» e tutti i capi terroristi, com'è che le cose continuano? La mia risposta: le infrastrutture del terrore palestinese non sono fisiche. L'infrastruttura è nelle teste, nei cuori, è fondata sull'odio. E il solo modo di superare questo periodo di disperazione delle due società, è produrre nuove speranze. La disperazione fa nascere il terrorismo che conosciamo. Non lo legittimo, lo guardo e cerco di capirlo.

Le F. Lei ha detto che c'era un prezzo da pagare per quello che ha scritto. Qual è questo prezzo?
A.B. Perfino le persone che mi hanno sempre sostenuto mi rendono la vita molto difficile. Anche dei membri della mia famiglia, in Francia, hanno sofferto, soprattutto da parte degli ebrei della diaspora. Lì le persone non hanno la maturità politica che c'è in Israele. Ma io so che la mia posizione minoritaria di oggi, sarà la politica maggioritaria di domani.

(Le Figaro, 29 settembre 2003)

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NOTA DI COMMENTO. Avraham Burg dice di aver rinunciato a un sogno, ma in realtà l'ha semplicemente sostituito con un altro, certamente più adatto ai tempi, ma non per questo meno sogno. E anche lui tarda a svegliarsi. M.C.



3. UNA SOCIETA' CHE RIGETTA IL TERRORISMO

da un articolo di Evelyn Gordon

E' accaduto qualcosa di assolutamente normale, lo scorso 17 settembre in Israele, qualcosa che non ha quasi suscitato commenti nei mass-media del paese. Tre abitanti ebrei dell'insediamento di Bat Ayin sono stati condannati a quindici anni di carcere per aver tentato di piazzare un ordigno nel cortile di una scuola femminile araba di Gerusalemme est.
    Normale? E' normale che tre ebrei israeliani siano coinvolti nella piu' vile forma di terrorismo? No. Quello del terrorismo ebraico e' e resta un fenomeno del tutto anomalo ed eccezionale. Cio' che e' normale, invece, cio' che e' considerato cosi' ovvio che ben pochi israeliani hanno ritenuto di soffermarsi a considerarlo, e' il fatto che casi aberranti ed eccezionali come questo dei terroristi ebrei di Bat Ayin vengano indagati e perseguiti dalla polizia, incriminati davanti a un tribunale e condannati dalla corte con una sentenza esemplare.
    In fondo e' proprio questo che ci si aspetta da una societa' normale, una societa' nella quale la stragrande maggioranza della popolazione considera il terrorismo qualcosa di aberrante che oltre ogni limite del lecito. E questo vale per ogni segmento della societa' israeliana, compreso quello tanto vituperato dei coloni nei territori; motivo per cui i leader del consiglio che li rappresenta hanno voluto incontrare personalmente alti ufficiali dei servizi di sicurezza per ringraziarli d'aver scoperto e debellato la cellula terroristica di Bat Ayin.
    In effetti, che i terroristi debbano essere perseguiti, processati e condannati sembra una cosa cosi' normale che non meriterebbe nemmeno un commento, a parte ricordare che Israele e' un paese che subisce da tre anni la feroce aggressione di un nemico per il quale questo rigetto del terrorismo, invece, non e' affatto normale. Negli ultimi tre anni i palestinesi hanno compiuto migliaia di attacchi terroristici puntando deliberatamente a uccidere donne, bambini e anziani. Centinaia di questi attentati sono riusciti, causando la morte, finora, di 608 civili israeliani e 4.186 tra civili feriti e mutilati (a queste cifre bisognerebbe poi aggiungere i membri delle forze di sicurezza uccisi, feriti o mutilati, che sono rispettivamente 257 e 1.698). Per tutto questo tempo l'Autorita' Palestinese non ha fatto alcun tentativo di arrestare o perseguire uno solo delle migliaia di assassini. Al contrario, li ha esaltati e glorificati: i piu' alti funzionari palestinesi rendono omaggio ai funerali degli attentatori suicidi e li celebrano come martiri della causa; i mass-media controllati dalle autorita' palestinesi tessono le lodi dei terroristi, i governanti palestinesi vanno persino in pellegrinaggio dai capi delle organizzazioni terroristiche per corteggiarli e convincerli a entrare a far parte del governo.
    Il palestinese della strada non e' da meno. In ogni sondaggio d'opinione da quando e' iniziata la cosiddetta seconda intifada, una significativa maggioranza di palestinesi esprime approvazione per gli autobus fatti esplodere con dentro i passeggeri civili. Un recente sondaggio di questo tipo, condotto lo scorso agosto, dava il 60% dei palestinesi a favore degli attentati terroristici e l'89% decisamente schierato contro qualunque sforzo dell'Autorita' Palestinese di fermare gli attentati arrestando i terroristi.
    In verita', come ha spiegato Eyad Sarra, medico psichiatra a Gaza, in un'intervista dell'anno scorso al Los Angeles Times, gli attentatori suicidi "godono di uno status senza eguali nella societa' palestinese". Le loro foto sono orgogliosamente esibite sui muri nei luoghi pubblici, la gente si affolla ai loro funerali, funzionari palestinesi prestano visita alle loro famiglie, gli imam li celebrano nelle moschee, i capi politici li elogiano nelle manifestazioni. Esiste persino un gioco per bambini intitolato allo shahid (martire). Non e' un caso se poi vi sono cosi' tanti attentatori suicidi. Uno studio del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano sulle motivazioni dei terroristi suicidi, condotto intervistando quelli di loro che sono stati catturati prima che riuscissero a farsi esplodere, ha rivelato che la motivazione piu' frequentemente citata era proprio l'alto livello di apprezzamento per gli attentati terroristici nell'ambiente palestinese.
    Di fronte a un nemico di questa statura morale, umanamente sarebbe comprensibile la tentazione di rispondere "per le rime" affermando che gente che appoggia con tanta convinzione i peggiori atti di terrorismo non si merita niente di meglio. Ma non e' questo che fa la societa' israeliana. Furono due agenti di polizia ebrei di pattuglia in un quartiere arabo che sventarono l'attentato scoprendo i terroristi mentre stavano piazzando l'ordigno, e arrestandoli prima

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che lo facessero esplodere. Fu la procura di stato israeliana che incrimino' i terroristi. Fu una corte formata da tre giudici ebrei che li condanno'. E quando la vicenda venne alla luce, tutti i mass-media israeliani e l'intero spettro politico israeliano ha condannato quegli atti in modo unanime e senza mezzi termini. E la cosa non e' finita li'. Polizia e servizi hanno continuato a indagare con determinazione alla ricerca di altri responsabili e finora hanno incriminato altri cinque sospetti.
    Secondo la tradizione ebraica, individui e comunita' vengono giudicati il giorno di Rosh Hashana (Capodanno ebraico). A Israele non mancano certo cose da farsi perdonare. Ma a suo credito va senza dubbio questo fatto non secondario: che, nonostante subisca da tre anni lo spietato terrorismo che proviene da una societa' che inneggia apertamente al deliberato assassinio a casaccio di donne e bambini, la societa' israeliana ha salvaguardato i suoi fondamentali standard etici, rifiutandosi di condonare, nemmeno tacitamente, la deliberata uccisione di civili palestinesi.

(Jerusalem Post, 29.09.03 - israele.net)



4. DALLA STAMPA ARABA: «ARAFAT SE NE DEVE ANDARE»

Nel suo articolo del 19 settembre 2003, pubblicato sul giornale londinese in lingua araba Al-Sharq Al-Awsat e intitolato 'Arafat se ne deve andare?', la giornalista Huda Al-Husseini esorta i paesi arabi e il popolo palestinese a rendersi conto che – col suo voler restare aggrappato al potere – il Presidente dell'Autorità Palestinese, Yasser Arafat, impedisce la soluzione del problema palestinese. Questi sono alcuni passi dell'articolo (1):


Arafat è diventato un simbolo logoro che ha perso il suo lustro

"Sì, [Arafat deve andarsene], ma non con l'espulsione, con l'assassinio o altri interventi violenti da parte di Israele."

"Perché Arafat deve abbandonare il posto che occupa sulla scena politica palestinese? Perché la causa palestinese non avanzerà mai di un solo passo fin tanto che lui controllerà questa scena politica."

"La soluzione del problema dipende da fattori internazionali, fra i più importanti gli U.S.A. e Israele. Arafat non è gradito né agli Stati Uniti, né, sicuramente, a Israele. Ha perso inoltre la sua legittimazione anche agli occhi dell'Europa e non manca di essere criticato persino nel mondo arabo. E' vero che Arafat è un simbolo, ma è un simbolo logoro, che ha perduto il suo lustro."

"Nella storia moderna vi sono stati due prestigiosi leader che sono divenuti un simbolo per il loro popolo. Il primo è Nelson Mandela, gettato in carcere dal precedente regime razzista sudafricano, ma nessun politico osò allora azzardare minacce di morte o di espulsione. L'altro, Xanana Gusmao, che capeggiò la rivolta di Timor Est e fu incarcerato dagli indonesiani. Neppure in quel caso le autorità indonesiane osarono minacciarlo di espulsione o di morte. Ma nel caso di Arafat la situazione è diversa, perché la leadership israeliana, che lo minaccia di espulsione o di morte, l'ha di nuovo posto sotto la luce dei riflettori. Questa politica non esprime una linea strategica; è un errore grossolano e Arafat non ha capito che poteva sfruttarlo in favore della causa palestinese o per il bene del popolo, anche se poi sarebbe solo a proprio vantaggio. Questo perché egli ritiene di essere la causa palestinese e che la causa palestinese sia lui."


Arafat ha voltato le spalle alla creazione di uno stato palestinese con Gerusalemme Est capitale

"L'espulsione di Arafat sarebbe un errore e la sua uccisione un crimine. [Ma] il suo mandar baci e l'ostentare le dita a V in segno di vittoria non sono certo meglio. Questi gesti inutili spengono la luce che si intravvedeva in fondo al tunnel. E Arafat ha perso molte occasioni, fra le quali … la più recente e ovvia è costituita dal piano presentato dall'ex presidente Clinton nel 2000: invece di accettare un'opportunità che avrebbe portato alla fine dell'occupazione israeliana, egli ha voltato le spalle a uno stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale …"


Un grande leader sa quando e come uscire di scena

"Il problema di Arafat è che vuole dimostrare che non si può realizzare nulla senza di lui, mentre è chiaro che nulla si potrà realizzare con lui. Vuole mantenere i principi nazionali, mentre nella realtà tale concetto è da tempo scomparso. I principi nazionali sono rappresentati dalle forze internazionali e dal capitale. Oggi nessun potere internazionale sostiene Arafat e, d'altro canto, lui ha perso tutto il suo capitale, se non forse i suoi conti bancari segreti."

"C'è un altro problema, di cui sono responsabili i paesi arabi. Essi non dicono apertamente la verità ad Arafat, ossia che il suo voler restare sulla scena non porterà mai a realizzare le aspirazioni dei palestinesi."

"Quello di cui avrebbe bisogno Arafat è che i paesi arabi e i palestinesi gli parlassero francamente. Fin tanto che egli resta l'unico fattore dell'Autorità Palestinese, Israele continuerà ad approfittare di questo punto debole, che sia Sharon o chiunque altro a governare."

"Coloro che si entusiasmano per il segno di vittoria di Arafat non si accorgeranno mai che i riflettori non illuminano più la causa palestinese, le porte si stanno chiudendo in faccia, gli insediamenti si allargano ed espandono, si continua a procedere nella costruzione del muro che inghiottirà sempre altra terra."

"Un grande leader sa quando e come deve abbandonare la scena, talvolta è il popolo a mandarlo via, come successe a Winston Churchill, e talvolta è la sua saggezza stessa che glielo fa capire, come accadde a Nelson Mandela."

Nota
(1) Al-Sharq Al Awsat (Londra), 19 settembre 2003

(The Middle East Media Research Institute, 03.10.2003)



5. L'ESODO DEGLI EBREI DAL MAROCCO

Un importante articolo pubblicato il 28/9/2003 su al Hayat, il più importante giornale arabo.


Ebrei marocchini e mancanza di responsabilità

di Zouhair Louassini

I governanti marocchini amano parlare di come siano larghi i confini della tolleranza religiosa nell'intero territorio del Regno.
    Parlare di tolleranza religiosa significa in questo caso accettare serenamente la presenza di una minoranza ebraica che invece non cessa di diminuire dal momento della creazione dello stato di Israele.
    Negli ultimi quattro decenni la presenza ebraica è passata, infatti, dal 4% della popolazione marocchina a circa lo 0,2%.
    Dalle 450.000 anime di quarant'anni fa, dunque, si sarebbe giunti, secondo le stime ufficiali, a 20.000 persone, ma è più probabile che siano solo 5.000, per lo più residenti nella regione di Casablanca.
    Malgrado l'evidente e consistente esodo, nessuno si domanda quali cause abbiano spinto la maggior parte degli ebrei a emigrare; anzi ci si comporta come se questa dolorosa e sotto molti punti di vista vergognosa realtà dipendesse da uno di quei tabù di cui la nostra società è ricolma.
    È giunto il tempo che questa sacra regola cessi di esistere, giacché il Marocco è diventato terreno fertile per gruppi criminali che si nascondono sotto il manto della religione.
    Ciò che è accaduto nel maggio scorso, l'uccisone di due cittadini marocchini ebrei che hanno pagato per "il crimine di essere ebrei", e di cui hanno parlato questa settimana i mass media, non può generare soltanto mancanza di coraggio nell'affrontare il problema di un reale pericolo.
    Ci vuole infatti coraggio per chiamare le cose col loro nome, non per enunciare parole altisonanti che parlano di tolleranza e che si risolvono nel negare quotidianamente l'evidenza.
    Non è questo il luogo per occuparsi del grado di inimicizia che la società marocchina dimostra verso qualsiasi credo diverso da quello della maggioranza.
    Una società che si crede interamente musulmana e di rito malachita, bisogna riconoscerlo, guarda anche con una certa preoccupazione qualsiasi "profanazione" della propria purezza religiosa.
    Anche la sola presenza degli ebrei fa tenere il fiato sospeso ai marocchini (o alla maggioranza di essi), e sarà così finché non saranno completamente spariti o emigrati, proprio come è avvenuto per le generazioni precedenti.
    Questa è la realtà.
    E chi dice il contrario non vuole vedere il baratro verso cui da tempo il Marocco si sta dirigendo.
    Vi è naturalmente una lettura ufficiale di questa situazione, che cerca di calmare le acque, spesso per motivi esterni, radicata, com'è, nella convinzione che sia necessario evitare situazioni critiche in vista di un nuovo corso, in cui il diritto del cittadino prevalga sulla sua appartenenza, religiosa o etnica che sia.
    Su questo problema è spesso entrata in contraddizione la stessa Istituzione Reale che continua a ignorare il tema perché è consapevole che la creazione di una vera democrazia comporta, fra l'altro, alcune specifiche rinunce: rinunce che la Corona non è ancora pronta a fare.
    Vi è poi l'indirizzo duplice e ipocrita, se così si può dire, dei partiti, specialmente per ciò che riguarda la minoranza ebraica.
    Tutti parlano di convivenza, e alla capacità di tolleranza dei marocchini nei confronti degli appartenenti ad altre religioni, senza però rinunciare a coltivare riprovevoli sentimenti verso quei cittadini che hanno commesso l' "errore" di essere ebrei.
    Non erano forse partiti di governo e d'opposizione quelli che hanno partecipato alle manifestazioni guidate da striscioni con su scritto, per citarne uno tra tanti: "Stai attento, attento ebreo, l'esercito di Muhammad ritornerà"?
    I fautori di tali insulsi isterismi non si aspettavano una risposta come quella di cui oggi siamo testimoni?
    Non sentono la responsabilità, almeno in piccola misura e in modo simbolico, dello spreco di sangue di Albert Rabibo, ucciso a colpi di pistola a Casablanca, e del rabbino sgozzato a Meknes?
    Non ha parte di responsabilità al-Basri, oppositore di lunga data, che in un incontro su "al-Jazira" non ha trovato contro il membro del consiglio André Azulay altre ragioni che la sua fede religiosa ebraica, ciò che di per sé significherebbe, secondo al-Basri, porre un punto interrogativo sul suo operato nelle questioni nazionali marocchine?
    È lo stesso linguaggio, a volte eccessivo a volte "equilibrato", usato da tempo, in nome dei "partiti democratici" e da molti giornali.
    Tutti si fermano all'appartenenza religiosa del Consigliere del Re, il signor Azulay, considerandolo l'incarnazione del complotto "sionista-imperialista-comunista-occidentale-massonico" e di tutte le altre definizioni inventate dalla mente araba malata, invece di muovere critiche al suo operato politico, con i suoi pregi e i suoi difetti, come fanno con qualsiasi altro responsabile dell'esecutivo.
    Gli stessi atteggiamenti sono stati tenuti e continuano a essere tenuti nei confronti dell'oppositore marocchino Abraham Serfati che 'Abd al-Ilàh Benkiran, leader del partito religioso "Giustizia e progresso", ha accusato di appartenere al sionismo mondiale.
    Ogni posizione di Sarfati a favore della questione palestinese, la sua difesa dei diritti umani in Marocco (che gli è costata 17 anni di prigione!), non lo hanno aiutato presso coloro che si pongono alla guida dell'islam e dei musulmani.
    Questo discorso demagogico, che in un certo modo è il risultato dell'impotenza marocchina e araba nel dare una mano ai "fratelli palestinesi" nella loro lotta per la libertà, espone i nostri concittadini ebrei al pericolo che minaccia la piccola minoranza che, nonostante tutto, è rimasta ancora tra di noi.
    Ciò che succede in Medio Oriente facilita il compito dei mercanti di politica che non disdegnano l'uso dei peggiori metodi per raggranellare un pugno di voti in elezioni false celebrate in una falsa democrazia, millantando una falsa tolleranza.
    L'abc della democrazia si sta deteriorando ogni giorno di più: il linguaggio politico è così pieno di rancore da costringere i 5.000 ebrei rimasti in Marocco a vivere nascondendo la propria appartenenza, in totale solitudine, intimoriti dalla "tolleranza" dei loro concittadini musulmani.

(traduzione Chiara Impagliazzo)

(al Hayat, 28/9/2003 - Federazione Associazioni Italia Israele)



6. I FALSI CRISTIANI DICONO CHE...


I falsi cristiani dicono che

  odiano gli ebrei perché hanno ucciso Dio.

In realtà i falsi cristiani

  odiano Dio e per questo uccidono gli ebrei.



MUSICA E IMMAGINI

Moshiahk (melodia popolare ortodossa moderna)


INDIRIZZI INTERNET


One Family Fund

Stand for Israel



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