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Notizie su Israele 207 - 10 novembre 2003

1. Intervista a un pilota da combattimento israeliano
2. I lati nascosti di Arafat
3. I lati evidenti di Arafat
4. Il sondaggio UE mette a nudo l'Europa
5. Testimonianza di un sopravvissuto a un attentato terroristico
6. Un esempio di uso politico della menzogna contro Israele
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Zaccaria 13:1-2. «In quel giorno vi sarà una fonte aperta per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme, per il peccato e per l'impurità. In quel giorno avverrà», dice il SIGNORE degli eserciti, «che io sterminerò dal paese i nomi degli idoli e non se ne farà più menzione; anche i profeti e gli spiriti immondi farò sparire dal paese.»


1. INTERVISTA A UN PILOTA DA COMBATTIMENTO ISRAELIANO




Il pilota da combattimento Maggiore N.
davanti al suo elicottero.
Il pilota da combattimento israeliano, Maggiore N., ha 39 anni ed è padre di tre piccole figlie. Alcuni anni fa ha perso suo fratello, che era anche lui pilota da combattimento. Oltre al suo lavoro come direttore generale di una ditta hightech, presta servizio 100 giorni all’anno nell’aviazione israeliana come riservista. Due volte alla settimana, lui e i suoi compagni di volo fanno addestramento in caserma. Come pilota di elicotteri Kobra da combattimento, negli ultimi anni ha preso parte a parecchie missioni nei territori dell’Autonomia Palestinese. Nel colloquio con il direttore di israel heute, Aviel Schneider, il Maggiore N. ha parlato delle sue esperienze di molti anni e del dilemma morale che pone la sporca guerra contro i terroristi islamici in Medio Oriente.


In un articolo comparso su molti giornali israeliani nel settembre scorso, 27 piloti da combattimento israeliani hanno definito le uccisioni mirate nei territori palestinesi come illegali e immorali. “Ci rifiutiamo di continuare a colpire civili innocenti”, si diceva nella loro presa di posizione. Queste dichiarazioni si riferivano al fatto che tra le vittime spesso si trovavano persone incolpevoli. Due dei 27 piloti nel frattempo hanno tolto la loro firma dal documento di rifiuto, mentre gli altri per punizione sono stati licenziati dall’aviazione. La protesta dei piloti da combattimento ha fatto molto scalpore in Israele, perché l’aviazione è considerata l’arma scelta dei militari. In un colloquio con Aviel Schneider, direttore di israel heute, il Maggiore N. ha parlato delle sue esperienze di molti anni e del dilemma morale che pone la sporca guerra contro i terroristi islamici in Medio Oriente.

israel heute: Qual è la differenza tra lei e i 27 piloti che hanno sottoscritto il documento di rifiuto?
    Maggiore N. Le dirò qual è la differenza. Nessuno di quei 27 piloti ha mai preso parte a una missione che aveva come obiettivo delle uccisioni mirate nei territori palestinesi, tranne uno, che è soltanto un navigatore.

israel heute: Va bene, e poi?
    Maggiore N.: Quelli che partecipano a queste missioni spesso rischiano la vita per risparmiare palestinesi innocenti. Molte volte sorvoliamo molto bassi l’obiettivo per vedere se nel territorio da colpire ci sono civili, ed è chiaro che in questo modo noi stessi possiamo facilmente essere colpiti. E poi tutt’a un tratto arrivano 27 piloti che dicono che il nostro servizio nell’aviazione israeliana è immorale. Sono piloti che non si sono mai trovati, neppure una volta, nella nostra situazione, e quindi non hanno nessuna idea di quello che dicono. E tutto questo soltanto per la loro avversione al governo israeliano.
    
israel heute: Sente di essere un criminale di guerra?
    Maggiore N.: No, ma tuttavia ci troviamo di fronte a un dilemma. Dobbiamo scegliere tra missioni con uccisioni mirate in cui eventualmente potrebbero perdere la vita persone incolpevoli, e la decisione di non agire, che sicuramente provocherebbe la morte di un numero molto maggiore di persone incolpevoli. Se non uccidiamo i terroristi, loro uccidono noi.
    
israel heute: Una guerra dell’aviazione israeliana contro Hamas?
    Maggiore N.: Noi e tutto l’occidente ci troviamo davanti a un fronte mondiale che è il terrorismo islamico, che segue regole diverse dalle nostre.
    
israel heute: E in questa guerra, i 27 piloti israeliani hanno fatto il gioco dei nemici di Israele?
    Maggiore N.: Questi piloti hanno fatto il gioco dei nostri nemici per il fatto che hanno presentato l’aviazione israeliana come un’organizzazione di criminali di guerra. Già il giorno dopo, il pubblico rifiuto di ubbidienza veniva elogiato su tutti i canali della televisione araba, che di solito glorificano soltanto i terroristi palestinesi.
    
israel heute: Come avete reagito quando 27 dei vostri colleghi vi hanno indicato come criminali di guerra?
    Maggiore N.: Eravamo scioccati. Questi 27 piloti sono soltanto una minoranza, e la loro opinione non è quella degli altri piloti. Delle centinaia di piloti di elicotteri da combattimento che svolgono regolarmente il loro servizio soprattutto nei territori palestinesi, sono riusciti a conquistarne soltanto uno per la loro causa. In questo momento svolgo il mio servizio militare con altri 20 piloti che hanno tutti un’opinione politica diversa, ma sulla questione della disubbidienza agli ordini siamo tutti d’accordo: No!
    
israel heute: Maggiore N., lei ha preso parte a molte missioni. Come si sente quando il giorno dopo legge sui giornali che nella missione sono state uccise persone innocenti?
    Maggiore N.: Mi sento veramente miserabile! Mi dispiace tremendamente quando vengono uccisi palestinesi innocenti, come è successo per esempio l’anno scorso nell’attacco al leader di Hamas, Salah Schehadeh, in cui sono stati uccisi 14 civili, tra cui 9 bambini. So che cosa si prova quando si perde un familiare. Io ho perso mio fratello.
    
israel heute: Ci sono alternative?
    Maggiore N.: Io paragono il nostro combattimento contro il terrorismo con il lavoro di un medico che opera un malato di cancro. Durante l’operazione può accadere che per errore vengano danneggiate parti del corpo sane, ma se il paziente con il cancro non viene operato, allora la morte è sicura. Questo è il mio dilemma giornaliero, e spesso non è facile per me.
    
israel heute: Le è mai stato dato un ordine che le ha provocato problemi morali?
    Maggiore N.: No. Gli ordini che riceviamo ci danno la libertà di decidere noi stessi. Non ho mai ricevuto un ordine di colpire un bersaglio a qualunque costo, anche se centinaia di palestinesi dovessero essere uccisi. Come comandante di un pilota da combattimento devo sempre fare attenzione a ridurre al minimo il “danno” verso persone incolpevoli. Ma dicendo questo ho davanti agli occhi sia i palestinesi innocenti, sia i ragazzi israeliani di un autobus, che sono esposti indifesi all’attacco di un attentatore suicida che io ho mancato di colpire con il mio razzo.
    
israel heute: Si può rimediare al danno che hanno arrecato i 27 piloti con la loro disubbidienza agli ordini?
    Maggiore N.: Per quanto riguarda il danno arrecato all’opinione pubblica all’estero, sarà molto difficile porre un rimedio, perché è stata deformata l’immagine dell’aviazione israeliana. Mi creda, siamo l’esercito e l’aviazione che opera nel modo più morale al mondo, ma in questo momento siamo davanti a un difficile dilemma.
    
israel heute: I nostri nemici però ci vedono in modo diverso.
    Maggiore N.: Sì, perché sono nemici che non hanno nessuno scrupolo morale e intenzionalmente si trincerano dietro i bambini palestinesi.
    
israel heute: In che cosa si differenzia l’aviazione israeliana da quelle di altri paesi?
    Maggiore N.: In Iraq i piloti americani hanno bombardato tutta la casa in cui si nascondevano i figli di Saddam Hussein, nonostante che lì si trovassero anche persone innocenti. Noi invece cerchiamo di colpire i terroristi in modo preciso, dalla finestra, senza distruggere tutto l’edificio. Spesso spariamo colpi leggeri per risparmiare i vicini dei terroristi, il che molte volte causa solo leggere ferite ai terroristi. Cerchiamo di andare con armi convenzionali contro i terroristi, i quali con le loro inconvenzionali tattiche ci mettono di fronte a un dilemma morale. Mi creda: non è facile!

(nai-israel heute, ottobre 2003)




2. I LATI NASCOSTI DI ARAFAT




Arafat, nobel e dinamite
    
Intervista di Aldo Torchiaro a Barry Rubin

    Incontriamo Barry Rubin, presidente del Global Research in International Affairs Center, consulente del ministero della Difesa israeliano, esperto di geostrategia e di questioni palestinesi in particolare, durante un suo breve soggiorno romano, ospite della Luiss. Invitato di alto livello, conteso da pubblicazioni, enti di ricerca, università di tutto il mondo, Rubin ha accettato una conversazione con L’opinione per anticipare alcuni punti della sua attesa biografia di Arafat. Della quale non si sa ancora quando e con chi uscirà in Italia. Ma sulla quale possiamo già scommettere: date le premesse, avrà l’effetto dilaniante e doloroso che sempre la verità assume, quando a lungo taciuta. “Alla base di tutte le incomprensioni non ci sono altri problemi se non quelli di natura economica”, esordisce il nostro interlocutore. Che va dritto al punto: i soldi. “Arafat ne vuole tanti, per sé ed il suo clan. L’Anp ha negoziato con Israele su tutto. Sulla questione dei cosiddetti rifugiati, sui nuovi insediamenti, sulla spartizione di Gerusalemme. Come tutti sanno.
    Quello che invece non si conosce è che un punto inamovibile delle trattative verteva sulla possibilità di aprire in tutti i Territori autonomi palestinesi delle sale da gioco, dei casinò, senza nessuna interferenza da parte israeliana”. A Gerusalemme alla fine erano d’accordo tutti, a quanto pare. Ehud Barak fu quello che si pronunciò senza timidezza sulla questione: “Israele non ostacolerà alcuna iniziativa economica palestinese e meno che mai la liberalizzazione del gioco d’azzardo”, aveva detto. “Incassata questa prima vittoria”, ci dice Rubin, “ad Arafat non sembrava vero di poter parlare del punto che davvero gli stava a cuore: l’incasso dell’Iva”. Si tratta, come tutti ben sappiamo, della tassa che ciascun consumatore paga ogni volta che acquista un qualsiasi prodotto. L’Iva, in Medio Oriente come da noi, è una garanzia di introito continuo per le casse dello Stato. Un tesoro vero e proprio, intorno al quale non a caso Israele e Palestina non si sono messi d’accordo.
    Perché nelle trattative per la Road Map il punto vero di frattura a quanto pare era questo: a chi, nei prossimi due anni, fino cioè al primo gennaio 2005, versare l’Iva dei prodotti acquistati in Israele e nei Territori? E ben oltre questo, la richiesta più esosa: a chi andrebbe il versamento del 50% dell’Iva di quello che è oggi l’intero consumo in Israele? Arafat ha calcolato l’impatto miliardario che si sarebbe riversato nei suoi forzieri. E ha deciso di non mollare la presa. Non a caso il raìs è noto per la sua insaziabile fame di denaro. Malgrado non sia proprio un abilissimo investitore, ha saputo rastrellare negli anni milioni di dollari da fonti anche molto diverse tra loro. Dal Partito Comunista Cinese al Congresso Americano, dalla Lega Araba alla Chiesa Cattolica e all’Unione Europea, passando per tutti gli organismi dell’Onu, le ong, i sindacati, le associazioni culturali, i partiti politici, fino a giungere agli scouts. Praticamente il pianeta ha inondato di denaro i forzieri di quella Holding dello Shaìd-businness che è l’Anp. Società che, se fosse quotata a Wall Street, meriterebbe un rating altissimo. Propone un prodotto assolutamente inesistente, come l’identità storica palestinese, e lo riesce a vendere senza problemi in quasi tutto il mondo al prezzo che decide il suo amministratore unico, Yasser Arafat.
    Che è infatti uno degli uomini più ricchi del Medio Oriente, ma si piazza solo centoventunesimo nella classifica mondiale basata, ahinoi, sulle sole stime dei servizi di intelligence. Essendo egli anche uno dei più clamorosi evasori fiscali del pianeta. Di Arafat ci viene fornito un dipinto ben diverso da quello che l’iconografia tradizionale diffonde. Barry Rubin ci parla dei due enormi conti correnti del raìs, capaci da soli di alimentare due istituti di credito non da poco: uno è a Londra, l’altro in Svizzera. Perché sa che se il primo potrebbe un giorno cadere sotto i colpi di una inchiesta internazionale sul terrorismo, il secondo sarebbe invece sempre e comunque al sicuro. E gioca, come in ogni frangente della sua vita, una partita doppia. In via formale chiede soldi “per le sofferenze del popolo palestinese”, come in questi giorni ha indicato in una questua inoltrata al Papa, in via informale canalizza i finanziamenti sui conti correnti cifrati cui solo il rais stesso e pochi intimi hanno accesso.
    Uno di questi, suo consulente finanziario, nel corso del 2001 ha “scelto la libertà” e, ottenuto un lasciapassare israeliano, ha preso una piccola parte del bottino per prendere il volo – più voli – fino a trovarsi una qualche isoletta paradisiaca dove vivere indisturbato la sua vita, lontano dalla corte di Arafat. Ma nella fuga ha lasciato capire all’intelligence di Gerusalemme qualche dettaglio che ancora mancava all’appello. E che ha anche consentito agli investigatori di ripercorrere all’inverso i canali di finanziamento partiti da alcune capitali arabe che hanno irrorato, oltre alle casse dell’Anp, quelle di altre multinazionali del terrore.
    “L’Occidente si è innamorato un’altra volta della persona sbagliata”, dice Rubin. “Arafat non ha alcuna preparazione per fare lo statista: perché non ha alcuna idea di come si costruisce e si amministra uno stato”. Il suo successo internazionale? “Un misto di romanticismo, terzomondismo e nazionalismo. Arafat sa come pescare in mari diversi, come catturare le diverse sensibilità europee”.
    E allora cosa si può fare per fermarlo? “Bisogna fermarlo, questo è sicuro. Chi, come, quando non saprei dirlo”, chiosa il nostro intervistato. “Ma le responsabilità individuali di quel signore sono evidenti, e un tribunale internazionale dovrebbe arrestarlo e giudicarlo. Ci sono documenti che provano come egli abbia finanziato le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, che hanno provocato decine di morti in Israele. E’ un mandante ed un complice dei terroristi, se esiste una giustizia al mondo lo devono giudicare per i suoi crimini, prima o poi". Barry Rubin ha pubblicato uno studio analitico sulla storia di Jenin che vorrebbe rendere noto in Italia, dove la propaganda palestinese ha insabbiato la verità dei fatti. Il professor Rubin parla pacatamente e con tutte le citazioni del caso. Sa di trovarsi a Roma, dove in tanti, in buona o cattiva fede, finiscono per avvalorare le solenni menzogne dell’entourage di Arafat. Ma non si perde d’animo e riassume i passaggi di quella vicenda.
    “Arafat arma le Brigate dei Martiri, e vuole fare a Jenin la loro base d’azione, il loro quartier generale. Ma il sindaco di Jenin, che è un amico di Abu Mazen, si oppone. E’ uno di quelli che non condividono la teoria della duplicità negoziale arafattiana, ramoscello d’ulivo in una mano, kalashnikov nell’altra. Nasce una crisi istituzionale, che naturalmente Israele segue con preoccupazione. Nella stessa Jenin i sostenitori delle Brigate di Al Aqsa si fronteggiano in duri scontri di piazza con i sostenitori del sindaco e di una linea di disarmo. In capo a qualche giorno di anarchia, il sindaco si dimette. Arafat nomina un suo fedelissimo a nuovo podestà locale, e dà il via libera all’installazione delle strutture delle Brigate di Al Aqsa, con i depositi per i missili Qassam ed i campi di addestramento per i kamikaze. Solo a quel punto, una volta consapevoli dello spadroneggiamento dei caporioni del terrorismo sulla cittadina palestinese, Israele ha deciso di agire, entrando nella città e affrontando de visu i terroristi".
    L’universo mediatico italiano ha filtrato la sola parola d’ordine del “massacro di Jenin”, dopo che i carri armati e gli elicotteri israeliani avevano condotto una massiccia operazione di pulizia dell’area. Solo ora, con la puntuale ricostruzione di Barry Rubin, capiamo in pieno cosa è successo. “Israele non poteva agire diversamente. In pochi chilometri di città, occupata da terroristi ben armati, si concentravano quintali di tritolo che sarebbero serviti ad organizzare gli attentati kamikaze. Ecco che i soldati li hanno fatti saltare in aria, quei depositi. E tra i palestinesi sono morti in molti. Ma cos’altro potevano fare?”.
    Chiedo all’analista strategico il senso della minaccia del governo Sharon di espellere Arafat. Mi dice che “si tratta di un messaggio in codice. Di un avvertimento, se preferite. Nulla da prendere alla lettera. Anche perché non sarebbe possibile, senza un gravissimo spargimento di sangue, mandare a prendere Arafat nei meandri del suo bunker per invitarlo a salire su un aereo. Non voglio neanche immaginare quello che potrebbe succedere.” L’idea del messaggio in codice va approfondita.
    “Arafat ha capito che Israele vorrebbe che se ne andasse. Sa che non lo andremo a prendere con la forza. Ma sa anche che sappiamo molte cose su di lui, e che se lo scontro arriva al calor bianco, dal punto di vista anche personale, i servizi di intelligence israeliani potrebbero tirare fuori qualche asso dalla manica”. Assi tali da mettere paura ad Arafat e indurlo a compiere le scelte che Israele si aspetta, quindi. Sulla natura di queste “leve” l’informatissimo Barry Rubin chiede il rispetto per i segreti di stato più scottanti, ma qualcosa la lascia trapelare. “Al di là dell’apparenza, in molti sanno che Arafat è perdutamente gay. In sé non ci sarebbe nulla di male. Ma diciamo che nella cultura islamica, oggi che i loro imam predicano una più rigida osservanza del Corano, l’evidenza sarebbe inaccettabile. La pratica omosessuale, per loro, è un tabù incrollabile. Avere le prove della consumata esperienza sessuale del loro raìs con altri uomini, sarebbe per i palestinesi uno choc senza precedenti”.
    La rivelazione è di quelle clamorose. Ci sarebbe modo di fornire la prova di questi ripetuti rapporti omosessuali? “Si, ci sono delle videocassette girate senza che il raìs se ne accorgesse. Che lo riprendono in una situazione davvero scabrosa, con uno e con più uomini contemporaneamente”. Immagino sia materiale che l’intelligence israeliana è riuscita a realizzare. Rubin mi smentisce. Gli israeliani posseggono i nastri adesso, perché li hanno comprati a caro prezzo. “E’ andata così”, mi dice il nostro interlocutore, che davvero di Arafat conosce ogni segreto. “Il raìs ha una passione per i giovani slavati, alti e biondi, così diversi dagli arabi da costituire ai suoi occhi un esotismo dall’attrattiva insopprimibile. Tra coloro che ben lo sapevano, il presidente rumeno Ciauseschu, che fingendo una complicità tra le righe una volta mandò al raìs una squadra olimpionica rumena fatta di bellissimi atleti biondi. Tutti pagati da quel regime per stare al gioco, e una volta nell’intimità della Muqata filmare ogni dettaglio, senza essere visti. Così hanno fatto.
    E in breve il filmato hard è passato di mano in mano, ed è stato venduto in primis al Kgb, che lo ha analizzato, discusso, duplicato e infine proposto in acquisto ai colleghi del Mossad, ad un costo esorbitante. Gli israeliani naturalmente lo hanno comprato, ma non ne hanno mai fatto cenno apertamente. E’una delle carte che giocheranno se il raìs non vorrà farsi da parte nelle prossime settimane.” Conclude Rubin. “Ma quello che passa nella mente di quell’uomo, ahimé, lo sa solo il diavolo”. Del quale, per saperne di più, ci rimanda all’uscita della biografia.

(L'Opinione, 5 novembre 2003 - ripreso da Informazione Corretta)




3. I LATI EVIDENTI DI ARAFAT




La moglie di Arafat spende a Parigi i soldi destinati ai palestinesi

Secondo un servizio del programma "60 minutes" della CBS che andra' in onda domenica, il presidente dell'Autorita' Palestinese Yasser Arafat ha sottratto piu' di 800 milioni di dollari dai conti dell'Autorita' Palestinese depositandoli su suoi conti privati. Secondo il servizio, Arafat continua inoltre a far arrivare a sua moglie Suha , che vive a Parigi con la figlia, altri 100mila dollari ogni mese sottratti ai fondi per l'assistenza dei palestinesi, donati all'Autorita' Palestinese.
    Il ministro delle finanze palestinese Salam Fayad, che sta cercando di trovare i soldi scomparsi, avrebbe collaborato alla preparazione del servizio.

(Ha'aretz, 7.11.03 - israele.net)


* * *

Ora anche i palestinesi chiedono conto ad Arafat dei loro soldi scomparsi

"Dove sono tutti quei milioni?" e' il titolo di una popolare canzone araba con cui la cantante libanese Julia Botrus denuncia il fallimento del mondo arabo nella guerra contro Israele, una canzone che viene ripetutamente mandata in onda su radio e tv dell'Autorita' Palestinese come un grido di disperazione volto a mobilitare le masse arabe dalla parte dei palestinesi nella loro battaglia contro Israele. Nelle scorse settimane, mentre si susseguivano notizie sul cattivo stato di salute di Yasser Arafat, molti palestinesi hanno iniziato a porsi la stessa domanda in un contesto un po' diverso: vorrebbero sapere cosa ne e' stato di centinaia di milioni di dollari appartenenti al popolo palestinese.
    Alcuni palestinesi sono convinti di sapere gia' la risposta: quei soldi sono finiti su conti bancari segreti in Svizzera o altrove. Un gruppo di parlamentari palestinesi, appartenenti al Blocco Democratico del Consiglio Legislativo, chiede un'inchiesta sulla sorte di quelle enormi somme. Hassan Khraisheh, uno dei nove membri del Blocco Democratico, ha dichiarato che lui e i suoi colleghi sono convinti che Muhammad Rashid (noto anche come Khaled Salam), consigliere economico di Arafat, abbia depositato almeno 200 milioni di dollari su un conto bancario segreto. Oggi Rashid vive al Cairo, dopo che ha rotto con Arafat. Secondo Khraisheh, solo Rashid, che ricopre la carica di presidente del Palestine Investment Fund, e Arafat sanno dove il denaro e' stato depositato. Una delegazione del Fondo è stata recentemente in Egitto per cercare di scoprire cosa ne e' stato del denaro. "Rashid - dice Khraisheh - si e' rifiutato di cooperare e di rivelare dove sono i soldi; si e' persino rifiutato di incontrare l'ambasciatore dell'Olp in Egitto per parlare della cosa. Sono soldi che appartengono al popolo palestinese - continua il parlamentare palestinese - Potevano essere investiti per creare un sistema assistenziale anziche' in affari loschi. Americani ed europei proteggono Rashid, e Arafat lo copre. Stiamo parlando di decine di milioni di dollari. Come e' possibile che una sola persona controlli somme cosi' grandi? Quando lo abbiamo chiesto ad Arafat, ci ha risposto: Muhammad Rashid e' un mio uomo, e' il mio consigliere finanziario. Questo e' il modo di lavorare di Arafat. La fonte del suo potere sono i soldi".
    Secondo un rapporto diffuso lo scorso settembre dal Fondo Monetario Internazionale, 591 milioni di dollari in entrate fiscali e altri 300 milioni da profitti di investimenti commerciali sono stati "distratti dal budget". In altre parole, funzionari dell'Autorita' Palestinese se li sono intascati. Il rapporto dice che imposte petrolifere pagate dai consumatori palestinesi, attraverso Israele, non sono mai arrivate al ministero delle finanze dell'Autorita' Palestinese e sono state invece depositate su un conto privato controllato da Arafat e Rashid in una banca israeliana di Tel Aviv. Oltre a numerosi investimenti commerciali, il FMI ha scoperto che altri milioni di dollari in tasse e profitti derivati da lucrosi monopoli come quelli su cemento e benzina, controllati da funzionari dell'Autorita' Palestinese, sono stati incanalati su attivita' "extra-bilancio".
     "Stiamo cercando di scoprire dove sono finiti tutti quei soldi, soprattutto il denaro tratto dai monopoli - spiega Khraisheh - Alti funzionari controllano molti monopoli e depositano il denaro su conti bancari segreti all'estero. Abbiamo anche scoperto che la stessa Autorita' Palestinese ha un conto bancario segreto in Svizzera. E' li' che finiscono le entrare fiscali dei lavoratori palestinesi versate da Israele". Secondo Khraisheh, Arafat e Rashid detengono un controllo assoluto sui conti bancari in Svizzera.
    La scorsa settimana rappresentanti dei donatori internazionali hanno incontrato a Ramallah funzionari palestinesi per discutere le necessita' finanziarie dell'Autorita' Palestinese. L'incontro precede la conferenza dei donatori internazionali che si terra' in Italia il mese prossimo, dove l'Autorita' Palestinese chiedera' centinaia di milioni di dollari per coprire il suo deficit. "L'Autorita' Palestinese - annuncia Imad Sha'ath, direttore generale del ministero palestinese per la cooperazione internazionale - chiedera' aiuti urgenti per le sue casse vuote. Inoltre l'Autorita' Palestinese chiedera' ai donatori di presentare progetti vitali per creare lavoro per migliaia di disoccupati". Il ministro delle finanze palestinese Salaam Fayad dira' ai donatori di essere riuscito ad attuare importanti riforme nella gestione dell'Autorita' Palestinese. Ma Kharaisheh e i suoi colleghi sostengono che, finche' mancano all'appello centinaia di milioni di dollari, non si


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puo' parlare di vere riforme. "Parlano di riforme - dice Kharaisheh - ma non e' cambiato niente. Rashid e Arafat non si parlano, e Rashid si rifiuta di restituire il denaro".

(Khaled Abu Toameh su Jerusalem Post, 27.10.03 - israele.net)





4. IL SONDAGGIO UE METTE A NUDO L'EUROPA




Eurobarometro ha sbagliato ma ha colto nel segno: l’antisemitismo c’è


di Emanuele Ottolenghi

Tre le reazioni all’Eurobarometro: la prima sostiene che il sondaggio, mal strutturato, forzasse una risposta ostile a Israele che in realtà non riflette i sentimenti dell’opinione pubblica europea. Il problema insomma sta nei quesiti, indubbiamente maldestri, non nella risposta. La seconda postula che il pubblico avrebbe inteso Israele nel senso di governo, quindi non ce l’ha né con lo Stato ebraico né con gli ebrei, ma con Ariel Sharon, come scriveva Massimo D’Alema ieri su Repubblica. Travisare quest’opinione come antisemitismo negherebbe il diritto legittimo di criticare Israele quando sbaglia. Chi paventa un antisemitismo inesistente deve quindi esserselo inventato nel tentativo di delegittimare le critiche a Israele. Chiaro il corollario: Israele merita le critiche mossegli e chi protesta farebbe bene a farsi un esame di coscienza. La terza è invece che il sondaggio, pur inesatto, rivela scomode verità. L’Europa si riscopre antisemita, scagliarsi contro una statistica è soltanto ipocrisia. La terza posizione è quella giusta, e lo conferma un recente sondaggio dell’Anti-Defamation League sull’opinione in dieci paesi europei nei confronti di ebrei e Israele.
     Questi i risultati. Il pregiudizio antisemita, nelle sue forme tradizionali, risulta ben radicato in Europa. Su di esso si accumula un malcelato sentimento di ostilità verso gli ebrei che deriva dalla rappresentazione mediatica del conflitto mediorientale. Lungi dall’essere distinti, i due fenomeni si rafforzano a vicenda. Il 45 per cento degli intervistati ritiene “probabilmente vero” che gli ebrei siano più leali a Israele che al loro paese di appartenenza (54 in Italia). Un terzo degli interpellati ritiene che gli ebrei abbiano troppo potere economico (42 in Italia). Il 24 per cento crede che gli ebrei si preoccupino solo dei loro correligionari (30 in Italia). Più del 20 per cento sostiene che gli ebrei siano più inclini di altri a ricorrere a metodi loschi per ottenere ciò che vogliono (27 in Italia). Infine, il 49 per cento crede che gli ebrei parlino troppo dell’Olocausto (43 in Italia). Più di un quarto degli intervistati non si scompone di fronte alla violenza contro ebrei: il 36 per cento crede sia in aumento, il 38 per cento sostiene il contrario. In Francia, teatro dei peggiori casi di antisemitismo recente, il 44 per cento non ravvisa nessuna recrudescenza. Infine, il 63 per cento crede che la maggior parte dei loro concittadini abbiano pregiudizi nei confronti di altri gruppi etnici, ma ritiene che tale sentimento non sia espresso in pubblico, chiarendo come la mancata espressione pubblica di antisemitismo non derivi dalla sua assenza ma, semmai, dalla consapevolezza dell’inopportunità di farlo a causa di vigenti norme sociali. Esiste una diretta correlazione tra livello di pregiudizio antiebraico ed età e/o livello di istruzione – più intenso tra coloro al di sopra dei 65 anni e coloro che hanno terminato gli studi a 17 anni o prima – e tra atteggiamenti europei nei confronti del conflitto arabo-israeliano e degli ebrei. Se quindi l’antisemitismo classico è circoscritto principalmente ai meno istruiti e ai più anziani, la classe media e le nuove generazioni nutrono un pregiudizio nuovo contro gli ebrei a causa della loro associazione a Israele. Il 45 per cento dubita della lealtà degli ebrei ai paesi di residenza. Il 28 per cento giudica Israele favorevolmente e soltanto il 14 per cento lo sostiene nel conflitto israelo-palestinese. Per il 41 per cento Israele non vuole la pace con i palestinesi. Per il 49 per cento Yasser Arafat vuole sinceramente far pace con Israele e meno di un terzo ritiene che il leader palestinese voglia distruggere Israele. Per il 38 per cento il trattamento che Israele riserva ai palestinesi è simile all’apartheid. Nonostante la condanna al terrorismo sia quasi unanime (86 per cento), per il 60 per cento Israele ricorre all’uso della forza militare in maniera eccessiva: simpatico se vittima, Israele è odioso se reagisce. Su chi sia responsabile per il conflitto, il 27 per cento dà la colpa a Israele più che ai palestinesi, per il 20 per cento è vero il contrario (in America il rapporto è 42 a 17 a favore d’Israele). Per il 42 per cento Israele non è una società aperta e democratica e il 62 per cento giudica la recente ondata di violenza contro obiettivi ebraici non come antisemitismo ma come prodotto di ostilità a Israele. Vista la simpatia che la causa palestinese riscuote e che pochi considerano i palestinesi responsabili per il conflitto in corso, la possibilità che molti arrivino se non a giustificare la violenza antiebraica almeno a “comprenderla” non va né esclusa né sottovalutata. Esiste infine una correlazione diretta tra conoscenza del conflitto e ostilità a Israele. Più il pubblico è informato, più ostile è a Israele: gli europei si schierano, 2 a 1, a favore dei palestinesi. Insomma, chi non sa odia gli ebrei alla vecchia maniera, chi legge e s’informa alla nuova. Inutile dunque cavillare su insufficienze metodologiche o barricarsi dietro facili critiche a Sharon. Esiste in Europa un antisemitismo di tipo tradizionale che si innesta su una forte ostilità verso Israele. Mentre chi nutre pregiudizi antiebraici di tipo classico appartiene o alla generazione nata e socializzata all’ombra del nazi-fascismo o alla fascia meno istruita, l’istruzione sostituisce al vecchio pregiudizio un nuovo tipo di odio, che spinge alcuni ad accettare la recente violenza antiebraica come comprensibile ostilità a Israele. In tutto questo ha un ruolo chiave l’informazione propinata al pubblico da media e libri divulgativi, che rafforzano l’opinione negativa di Israele tra chi legge. L’Eurobarometro poteva essere utile per destare le coscienze. Ha invece mostrato come l’Europa sia di nuovo a un passo dal sonno della ragione. L’antisemitismo c’è. Chi lo nega per comodo politico o per imbarazzo non fa che contribuire all’intorpidimento morale europeo.

(Il Foglio, 6 novembre 2003 - ripreso da Informazione Corretta)





5. TESTIMONIANZA DI UN SOPRAVVISSUTO A UN ATTENTATO TERRORISTICO




“Quando sogno, non sono invalido”
 
Eyal Neufeld è rimasto gravemente ferito in un attentato a Meron, nell’agosto 2002. Dopo essere rimasto incosciente per due mesi, si è risvegliato cieco e sordo, senza sapere dove fosse o che cosa gli fosse accaduto. Ora vive a Tel Aviv, sta progettando di andare all’università ed ha intenzione di sposarsi. Non nutre sentimenti né di odio, né di vendetta. “Arrabbiato?! – dice – Mi è successo un miracolo. Ero seduto accanto al terrorista e mi sono salvato”.
 

di Chen Kotas-Bar

Quando si chiede ad Eyal Neufeld quali sono i suoi momenti più difficili, ne elenca tre: quando vuole cambiare una lampadina in casa, quando vuole farsi una frittata e quando vuole guidare. Tre cose che vuole fare e non può.
    Neufeld è rimasto ferito in modo gravissimo nell’attentato all’autobus no. 361, all’incrocio di Meron, il 4 agosto 2002. Nove persone sono state uccise e 43 ferite nell’attentato. Neufeld ha perso la vista e l’udito. Una nuovissima tecnica chirurgica sperimentata all’Ospedale Sheba gli ha permesso di recuperare il 30% delle capacità uditive in un orecchio, con l’aiuto di un innesto elettronico. Quando rimuove l’auricolare, piomba nell’oscurità e nel silenzio.
    Inoltre, Neufeld ha subito ustioni in tutto il corpo a causa delle schegge e dell’esplosione. I polmoni sono rimasti danneggiati, la milza gli è stata tolta, la mandibola, le orbite oculari ed il naso fratturati. Ha avuto incrinature nella scatola cranica, due dischi fra le vertebre del collo si sono rotti ed all’inizio si pensava che sarebbe rimasto paralizzato. La mano sinistra ha subito ferite così gravi, che è stata quasi amputata ed anche oggi due dita non gli funzionano. È stato sottoposto ad oltre 40 interventi chirurgici ed altre operazioni lo attendono.
    Neufeld, tuttavia, rifiuta di darsi per vinto. Attualmente sta imparando a lavorare con il computer e conta di iscriversi all’università per studiare economia e gestione aziendale. Si è trasferito a Tel Aviv con la sua fidanzata, Devat, ed hanno intenzione di sposarsi l’anno prossimo. Ci ha messo solo due settimane ad imparare a leggere in Braille e a muoversi con il bastone. Subito dopo che gli è stato messo l’apparecchio acustico, ha ricominciato ad udire , senza bisogno di un periodo di adattamento. I medici dicono che un vero successo, un raro caso di riabilitazione in tali circostanze. Neufeld, tuttavia, è molto modesto e non si sente un eroe.
    Eyal Neufeld non riceve alcuna assistenza psicologica da quando è stato ferito. Sente di non averne bisogno e preferisce affrontare le difficoltà da solo. “Mi è accaduta una cosa terribile – dice – Nessuno al mondo è in grado di immaginarsi che cosa significhi perdere la vista o l’udito – e certamente non entrambi in una volta. In un solo giorno, sono cresciuto e mi sono ritrovato sordo e cieco. Ho dovuto imparare tutto daccapo. La prima settimana dopo il ritorno a casa, non facevo altro che commiserarmi. Pensavo ‘perché questo doveva succedere proprio a me, che cosa avevo fatto per meritarmelo’. Ora so che è davvero successo e non ci si può fare nulla. Mi sono messo il cuore in pace”.
 
“Non hai dei momenti di disperazione?”
    “Ci sono momenti difficili. C’è questo buio che fa impazzire ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana. Un’oscurità totale – un immobile spazio nero, senza fine, senza forma, senza colore. Tento di non pensarci. Quando mi assalgono i brutti pensieri su cosa farò della mia vita, su che cosa sarebbe successo se non fossi rimasto ferito, tento di occuparmi rapidamente di qualcos’altro. Qualcun altro avrebbe potuto buttarsi dalla finestra, ma io?  Posso essere sordo e cieco, ma non sono ritardato. All’inizio, non sarei stato nemmeno capace fisicamente di fare una cosa del genere – ero legato al letto. Oggi, la vita mi preme troppo; Tento di guardare alla metà piena del bicchiere – Sono vivo.
    Quando la gente intorno a me è depressa, tento di risollevare la situazione scherzando. Gli dico: ‘Se mi fate arrabbiare, mi cavo gli occhi’, o ‘Accendete una luce, è buio’. Non voglio che gente abbia pietà di me; tento di comportarmi nel modo più normale possibile. Sono sordo e cieco, e allora?”
 
Solo, all’inferno
    Neufeld è nato e cresciuto a Karmiel. Ha iniziato il servizio militare nella Divisione Nahal, che combina servizio combattente con l’agricoltura, passando poi all’artiglieria. Il giorno dell’attentato stava ritornado da casa alla base, dove avrebbe dovuto presentarsi alle nove di mattina. Secondo il suo orologio, l’esplosione è avvenuta alle 8 e 52 minuti.
    “Ero seduto nel retro dell’autobus, sulla destra, dietro la porta – dice, ricostruendo l’accaduto – il terrorista è salito sull’autobus al villaggio arabo di Sajur. Sorrideva. Non mi è mai piaciuto sedere accanto al finestrino. Il terrorista mi si è avvicinato e mi ha chiesto se poteva sedersi sul sedile interno. Non aveva alcun accento, nulla. Poi mi è passato davanti e si è seduto. Portava un cappello da kibbutz, gli occhiali da sole, una maglietta gialla, pantaloni verdi e sandali a strisce di cuoio. Era sbarbato e lindo. Non ho avuto il minimo sospetto”.
    Più tardi, Neufeld notò che il terrorista era andato avanti per sussurrare qualcosa a due ragazze arabe, poi quest’ultimo tornò indietro e si sedette nuovamente vicino a lui.
“Le ragazze arabe sono scese dall’autobus – dice Neufeld – ed io non ci ho minimamente pensato. All’incrocio di Meron, mi sono alzato per scendere dall’autobus. Il terrorista si è alzato in piedi dopo di me. Un soldato che mi aveva superato, apparentemente per scendere anche lui dall’autobus, stava in piedi fra noi due. Ho udito qualcosa di indistinto, un grido. Mi sono guardato intorno – l’intera faccenda è successa in una frazione di secondo – ed ho visto il terrorista che si stringeva al soldato facendosi esplodere. Il soldato mi è caduto addosso. Ho preso le ustioni in piena faccia. I primi 3-4 minuti ero ancora cosciente. Intorno a me c’erano urla, fracasso, fumo, sangue, vapore. Un osso è volato in aria, colpendomi al fianco. L’ho afferrato e l’ho tirato fuori di forza. Ho capito che c’era stato un attentato”.
    Lo portarono in elicottero all’Ospedale Rambam di Haifa. Nelle prime 24 ore subì 11 interventi: i medici erano convinti che non sarebbe sopravvissuto. Coperto di ustioni, lo collegarono al respiratore.
    “Sua madre non è riuscita ad identificarlo – dice Devat – Io dicevo: ‘Ha gli occhi verdi’ e loro mi dicevano: ‘Gli occhi non ci sono più’. Io dicevo: ‘Ci sono i documenti’ e loro mi dicevano: ‘I documenti sono bruciati’. Aveva solo un punto intatto, una macchia chiara sopra il ginocchio ed è tutto”.
    Dopo alcuni giorni, Neufeld fu dichiarato fuori pericolo e trasferito all’Ospedale Tel Hashomer di Tel Aviv, dove fu fatto un tentativo di salvargli quello che restava della vista da un occhio, ma senza successo. Alla fine, furono costretti a togliergli entrambi gli occhi. Neufeld rimase incosciente per due mesi.
    “Non capivo che non potevo vedere e sentire – dice – che era impossibile comunicare con me. Non facevo che urlare: ‘Accendete la luce; parlatemi’. Mi sembrava di essere in un sogno. Dicevo: ‘Adesso apro gli occhi, forse vedrò’. Aprivo gli occhi, tastavo tutt’intorno, vedevo ancora buio e mi dicevo: ‘È un brutto sogno’ e tornavo a dormire”.
 
E quando hai ripreso conoscenza?” 
    “Era notte. Sono riuscito a prendere il cellulare, l’ho tastato e ho chiamato Devat. Le ho detto: ‘ Non so che cosa mi stia succedendo o dove sono. Vieni ad aiutarmi’. Le ho chiesto di battermi sulla spalla, al suo arrivo, in modo da riconoscerla”.
    Era sdraiato nel letto, tagliato fuori, senza capire che cosa gli stava succedendo. Quando qualcuno tentava di avvicinarsi, lo colpiva. Alla fine, un fisioterapista gli portò  un alfabeto magnetico. Neufeld riconobbe le lettere e così riuscì a leggere e scrivere e a stabilire segni di riconsocimento con il tatto.
    “Fino a quel momento, ero vissuto in una situazione di isolamento incomprensibile ad un uomo medio – afferma – sono passato per l’inferno. Vivi nel tuo mondo, con te stesso, solo tu e nessun altro. Non sei preparato alla gente che ti tocca: non li vedi arrivare. Non sai se ti faranno una puntura o una carezza. Stavo a letto e urlavo: ‘Chi siete?’ Era terribile. Non puoi accorgerti di nulla. Ti senti minacciato ed annoiato. Ho cominciato a cantare, moltissimo: canzoni, preghiere, qualsiasi cosa mi ricordassi. Alla fine, mi sono reso conto che non potevo né vedere né sentire, ma non capivo ancora quanto fosse difficile. Mi sono detto: ‘Un piccolo intervento e riuscirò a vedere’.
 
Quando ti hanno comunicato le tue  vere condizioni?”
    “In dicembre, dopo l’intervento all’orecchio. Appena mi hanno installato l’appercchio all’orecchio ho cominciato a sentire. I dottori erano stupefatti ed io ero a terra. Speravo che il mio udito sarebbe stato buono come prima della ferita. Più tardi, mi hanno detto: “Rimarrai cieco per tutta la vita; non hai più gli occhi’. Ho detto: ‘Va bene’. Ero sotto shock; ho pianto. Non capivo in pieno che cosa stesse accadendo. Ho detto: ‘Che cosa? Sono sopravvissuto ad un attentato?’ Continuavo a dire: ‘ Accidenti, sono stato fortunato! Sono stato fortunato!’”
 
Non è facile stare con me”
    Neufeld è rimasto in ospedale per circa sei mesi, poi, lo scorso febbraio, è stato dimesso e mandato a casa. Con la sua ragazza ha affittato un appartemento a Tel Aviv, vicino alla “Casa del Soldato”. Ha assunto due dei suoi amici in qualità di “accompagnatori”, in modo da essere quanto più possibile indipendente. Ha tagliato i ponti con i genitori, che vivono a Karmiel ancora prima di essere dimesso dall’ospedale. La rottura, dice, non ha niente a che fare con le ferite riportate. I suoi rapporti con i genitori erano già molto complicati anche prima che tutto ciò accadesse.
    Lui e Devat avevano già progettato di sposarsi un po’ prima dell’attentato, dopo essere stati insieme per un anno e mezzo. Neufeld, però, aveva deciso di rinviare il matrimonio di alcuni mesi. Poco tempo fa, si sono separati per alcuni giorni, poi sono tornati a vivere insieme. Contano di sposarsi l’anno prossimo. “Devat mi ha conosciuto quando potevo vedere e sentire – dice Eyal – ed all’improvviso si è ritrovata con un invalido. Per me, è importante che capisca in che cosa si sta mettendo, che non prenda una decisione affrettata. Volevo chiudere il capitolo della riabilitazione e costruire la nostra vita insieme su basi solide. Le ho detto: ‘Non sarà facile vivere con me. Ci vorranno molti sforzi, impegno ed amore. Pensa al fatto che non potrò sentire il nostro bambino che piange. Che non vedrò i nostri figli’. Ho corso il rischio, quando abbiamo preso un periodo di pausa, che lei arrivasse alla conclusione che non sono quello giusto per lei. D’altra parte, so che non voglio essere di peso a nessuno. Basta che sia un peso per me stesso”.
    “Non penso di dovere avere fretta in nulla. Per questo penso di fare un corso preparatorio [all’università], sebbene abbia il diploma di maturità. Non sono interessato a buttarmi a testa in giù. Preferisco prepararmi prima”.

Come si svolge la vita quotidiana per te e Devat?” 
    “In principio le cose erano molto più difficili. Quando ci siamo trasferiti nella nuova casa, la chiamavo in continuazione: ‘Devat, portami in bagno’; ‘Devat, voglio fare la doccia’; ‘Devat, dimmi dove sono’. Mi sentivo bloccato, come un chiodo nel muro. Ora mi arrangio molto meglio. Anche il nostro legame è molto cambiato. Ora sappiamo che, con uno nelle mie condizioni, si deve ascoltare molto più attentamente, essere molto più comprensivi ed avere una divisione dei compiti in casa. Per esempio, dal momento che non posso lavare i pavimenti, piego i vestiti, metto la biancheria nella lavatrice e la tiro fuori. Voglio fare le cose. Sto lottando per arrivare ad essere più indipendente. Cerco sempre qualcosa che mi tenga occupato; imparo in continuazione, anche dai miei errori. Tento di farmi il caffé da solo. Verso il latte sulla tovaglia in continuazione, finché alla fine ci riesco. Spero ancora di recuperare la vista. Solo che non è realistico, per il momento; ciononostante sono pronto a dare molto perché succeda. Non solo economicamente. Darei un braccio o una gambe”.
    Neufeld passa la maggior parte del tempo fuori casa. Tenta di essere occupato. Sta studiando computers; ha un istruttore privato che gli insegna come affrontare la cecità, ha cominciato a dipingere e scolpire con l’argilla. Legge molti libri in Braille.
    “Qualsiasi cosa posso fare, la sfrutto fino in fondo – afferma – Che Dio li aiuti se non mi leggono tutto il giornale ogni mattina. Quando vado a fare compere con Devat, le chiedo in continuazione: ‘Dimmi, che cosa c’è nel negozio?” Ho la testa piena di ricordi, colori, forme e questo mi permette di andare avanti.”
 
Che cosa ti piacerebbe fare di più?”
    “Giocare a basket, vedere la televisone, vedere – non guardare, vedere Devat. Questa è la cosa più importante. Ma sono realista. Capisco che è impossibile. Per ora. La gente mi dice: “Ci dispiace che una volta tu fossi in grado di vedere’. Io non ci penso. Anch’io, una volta, ero un bambino”.
    Dal giorno dell’attentato, prega con i filatteri (tefillin) ogni mattina. Sebbene fosse un ebreo tradizionalista anche prima, non li metteva per pregare. “È molto facile osservare lo Shabbat nelle mie condizioni – dice con un certo cinismo – Che problema c’è a non accendere la luce?”
 
Non sei arrabbiato con Dio?”
    Arrabbiato? Mi è successo un miracolo. Sedevo vicino al terrorista e mi sono salvato”.
 
E le tue idee sono comabiate?”
    “La mia vita è cambiata – non le mie idee. Non ho mai odiato gli arabi e oggi li odio anche di meno. Non sono arrabbiato e non desidero vendetta. Che cosa potrei fare – andare a suicidarmi in un qualche villaggio, uccidere un po’ di gente innocente? L’odio non porta a nulla: crea solo più dolore.”
 
E oggi hai più paura?”
    “In genere no. Ma ho paura di salire su un autobus. Mi blocco. Semplicemente non posso farlo.”
    Nei suoi sogni, Eyal ancora vede e sente. “Sogno in Technicolor – dice. Quando sogno, di notte, non sono invalido”.

(Ma’ariv, 31 ottobre 2003 - ripreso da Keret Hayesod 07.11.2003)





6. UN ESEMPIO DI USO POLITICO DELLA MENZOGNA CONTRO ISRAELE




Alcuni arabi del villaggio di Inbus, che si trova vicino alla località ebraica di Mitzpe Yitzhar in Samaria, appoggiati da militanti di sinistra, la settimana scorsa avevano sporto una denuncia alla polizia dichiarando che degli ulivi di loro proprietà erano stati sradicati. La polizia si è immediatamente mobilitata e ha convocato sul posto un esperto del Jewish National Fund, il quale ha affermato che si tratta dell'opera di un professionista che ha accuratamente evitato di danneggiare gli alberi e si è accontentato di strappare qualche foglia per far credere che si trattava di un atto di vandalismo.
    Secondo lo specialista che ha esaminato accuratamente gli ulivi, è evidente che chi ha strappato le foglie non voleva danneggiare gli alberi. In seguito a questa constatazione, la polizia ha chiesto che i querelatori e i loro amici israeliani siano sottoposti al test della verità [cosa che non hanno accettato].
    Gli abitanti di Yitzhar e delle colline circostanti hanno pubblicato ieri, domenica 9 settembre, una lettera in cui affermano di non essere implicati in questo atto di vandalismo. Hanno denunciato in modo preciso i propositi del deputato laburista Ephraim Sné e le informazioni diffuse dai media, che hanno dichiarato, senza prove, che erano stati loro a tagliare gli alberi.
    Il presidente del comitato d'azione in favore della terra d'Israele, Aviad Vissouli, ha dichiarato: «Esigiamo le scuse dei media che hanno discreditato tutta una popolazione». E ha aggiunto che il fatto che gli arabi e i militanti di sinistra abbiano rifiutato di sottomettersi al test della verità è la prova che essi mentono. E ha proseguito: «Si tratta di un atto odioso che ricorda i Protocolli dei Savi di Sion. Chiediamo al Primo Ministro di ordinare alle forze di sicurezza di svolgere un'approfondita inchiesta per fare luce sull'origine di queste accuse menzognere».

(Arouts 7, 10.11.2003)




7. MUSICA E IMMAGINI




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8. INDIRIZZI INTERNET




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