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Notizie su Israele 209 - 20 novembre 2003

1. Per il Papa il problema è il muro
2. L'Autorità Palestinese celebra le gesta di un assassino di bambini
3. Commenti della stampa israeliana dopo l'attentato a Istanbul
4. Al-Qaeda annuncia un imminente attacco terroristico negli USA
5. Cambiamenti nella vita dei nuovi immigrati in Israele
6. Un modo pratico per manifestare amore a Israele
7. Libri
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Sofonia 3:19-20. In quel tempo, io agirò contro tutti quelli che ti opprimono; salverò la pecora che zoppica, raccoglierò quella che è stata cacciata via, e li renderò gloriosi e famosi, in tutti i paesi dove sono stati nella vergogna. In quel tempo, io vi ricondurrò; in quel tempo, vi raccoglierò; perché vi renderò famosi e gloriosi fra tutti i popoli della terra, quando farò tornare, sotto i vostri occhi, quelli che sono in esilio», dice il SIGNORE.


1. PER IL PAPA IL PROBLEMA E' IL MURO




Wiesel: condanni i terroristi, non faccia politica

di Alessandra Farkas

NEW YORK - La presa di posizione del Papa sulla controversa barriera che divide israeliani e palestinesi coglie di sorpresa il premio Nobel per la pace Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz e massimo
 
portavoce degli ebrei della diaspora. «Dal leader spirituale di una delle più grandi e importanti religioni al mondo m'aspettavo qualcosa di ben diverso - spiega al Corriere Wiesel - ovvero una dichiarazione che condannasse il terrore e l'assassinio di innocenti, senza mischiarli a considerazioni politiche e soprattutto senza paragonarli a un'opera di pura autodifesa. Politicizzare così il terrorismo è sbagliato: gli autori della strage ad Istanbul non hanno ammazzato a causa del muro, ma perché odiano gli ebrei. Questo il Papa avrebbe dovuto capire e condannare».

Lei dunque approva la costruzione della barriera?
    «Sì. Al contrario del terrorismo, la separazione non ha causato la morte di nessuno e semmai ha salvato tante vite. Il suo obiettivo è proprio questo. A Gaza sta funzionando e da quando è stato eretto non si è verificato un solo attacco suicida proveniente da quell'area. Non è un caso che ad appoggiare la sua estensione ai Territori, oggi, siano leader israeliani sia di destra sia di sinistra».

Il processo di pace e i «ponti» di cui parla il Papa sono dunque morti?
    «No. Tutti sanno che la barriera è temporanea. Se ci fosse pace tra israeliani e palestinesi sarebbe abbattuto nel giro di 24 ore. Ma non dimentichiamoci che è stato l'odio dei terroristi a tirarlo su. Lo stesso odio che adesso prende di mira non solo gli israeliani, ma tutti gli ebrei, ovunque".

Che ripercussioni può avere la presa di posizione della Santa Sede?
    «Negli ultimi anni il Papa si è battuto instancabilmente per combattere e denunciare l'antisemitismo in tutte le sue forme. Ma proprio per questo un uomo nella sua posizione, sempre così attento alle parole, avrebbe dovuto essere più attento e specifico nel condannare il terrorismo invece che fare di ogni erba un fascio. Purtroppo, anche se quella non era affatto la sua intenzione, gli antisemiti potrebbero strumentalizzare quest'approccio per portare acqua al loro mulino e spargere ulteriore odio contro Israele e gli ebrei».

Secondo le Nazioni Unite quel muro avrà conseguenze umanitarie molto gravi per i palestinesi.
    «Sono certo che i disagi per i palestinesi possono essere evitati e che un accordo, in questo senso, verrà raggiunto tra le due parti. Invece di criticare il muro, invito tutti a lavorare ad una moratoria, che fermi il terrorismo per tre mesi. Dateci 90 giorni senza un singolo assassinio e sono pronto a mettere la mano sul fuoco che la speranza tornerebbe a fiorire».

Secondo alcuni il muro perpetua un circolo vizioso.
     «Il circolo vizioso o meglio la globalizzazione del terrore è opera dei terroristi. All'inizio la gente pensava che il problema fosse solo israeliano. Ma il modello degli attacchi suicidi è stato già esportato in Iraq, Asia, Arabia Saudita, Turchia e domani potrebbe arrivare a Roma e Milano, se non lo fermiamo subito. Alla conferenza internazionale che ho organizzato di recente a New York e cui sono intervenuti 20 capi di Stato ho proposto di dichiarare il terrorismo un crimine contro l'umanità. Ciò non fermerà forse i kamikaze ma di certo i loro sponsor».

Secondo George Soros il governo Sharon e l'amministrazione Bush hanno contribuito all'attuale revival d'antisemitismo.
    «Deploro questo tipo di argomentazione. Credo di essere uno studente della storia assai migliore di Soros e posso testimoniare che gli antisemiti, oggi come ieri, non hanno bisogno di motivi per disprezzare gli ebrei. Mi creda: odiavano Elie Wiesel prima che fosse nato».

Perché questo revival in Europa?
    «Per due motivi: l'estrema destra e l'estrema sinistra, che stanno unendo le forze. E poi c'è il fattore Israele: io non ho mai creduto che tutti quelli che criticano Israele siano antisemiti, però è anche vero che tutti gli antisemiti sono anti-israeliani. Aveva ragione la studiosa tedesca Hannah Arendt, quando ha scritto che l'antisemitismo è l'unica malattia del 20° secolo ad essere sopravvissuta. Fascismo, comunismo, nazismo sono morti ma esso è più sano e vegeto che mai».

(Corriere della Sera, 17 novembre 2003)




NOTA DI COMMENTO - In un'analoga intervista concessa al Corriere della Sera nell'ottobre del 2000, dopo lo scoppio della cosiddetta "seconda intifada", il premio nobel Elie Wiesel aveva dichiarato: «Sono scioccato e deluso. Avevo fiducia in Yasser Arafat». Arafat parlava di pace, diceva di agire per la pace, era un personaggio di prestigio mondiale in fatto di pace (premio nobel). Proprio come il Papa, che parla di pace, inteviene per la pace, è l'icona vivente della
 
pace. Il Papa e Arafat. Si potrebbe assegnare uno di quei temi che si davano una volta a scuola: "Tracciate un parallelo tra il Papa e Arafat". Si potrebbe svolgerlo per contrasto o per analogia, ma sarebbe comunque interessante. Del resto, i due hanno evidentemente molte cose da dirsi perché si sono visti spesso negli ultimi vent'anni, almeno una decina di volte. Hanno anche modi simili nel trattare il tema del conflitto arabo-israeliano. Frasi generiche contro il terrorismo: "No alla violenza da qualunque parte venga, no agli attentati e no alla rappresaglia"; frasi precise invece contro Israele: "Il muro dev'essere abbattuto". Perché Wiesel è rimasto deluso di Arafat? Verosimilmente perché ha scoperto, dolorosamente e troppo tardi, che il rais ha la lingua biforcuta, che dice una cosa ad alcuni e il suo contrario ad altri, che calibra le parole secondo gli uditori, il momento e gli interessi (suoi). Quando verrà il momento in cui Wiesel resterà deluso del Papa? Non si può dire. Per il momento Wiesel dice ancora che «negli ultimi anni il Papa si è battuto instancabilmente per combattere e denunciare l'antisemitismo in tutte le sue forme», ma forse si sta avvicinando il giorno in cui dirà: «Sono scioccato e deluso. Avevo fiducia nel Papa». Speriamo per lui e per Israele che non sia troppo tardi. M.C.




2. L'AUTORITA' PALESTINESE CELEBRA LE GESTA DI UN ASSASSINO DI BAMBINI




Sotto gli auspici dell'Autorita' Palestinese si e' tenuto venerdi' scorso [14 novembre] a Tulkarem (Cisgiordania) un raduno in onore di Sirhan Sirhan, il terrorista di Fatah che l'anno scorso aveva attaccato il kibbutz Metzer uccidendo a sangue freddo cinque persone, tra cui una madre e i suoi figli di 2 e 5 anni sorpresi nella camera da letto della loro abitazione.
    Ai primi di ottobre Sirhan e' stato scoperto e ucciso da una unita' speciale delle Forze di Difesa israeliane.
    Il raduno, organizzato dal movimento Fatah (che fa capo a Yasser Arafat) per celebrare i 40 giorni dalla morte del terrorista, ha visto la partecipazione di centinaia di abitanti, attivisti politici, uomini armati di vari gruppi palestinesi e importanti esponenti dell'Autorita' Palestinese.
    Il governatore di Tulkarem, Izz al-Din al-Sharif, ha parlato alla folla in rappresentanza del presidente dell'Autorita' Palestinese Yasser Arafat celebrando la figura di Sirhan, descritto come un "combattente e un martire". "Il popolo palestinese - ha detto il governatore - continuera' la resistenza e la lotta finche' non raggiungeremo la liberta' e l'indipendenza".
    Un portavoce delle Brigate Al Aqsa, gruppo di fuoco di Fatah, ha descritto Sirhan come "un eroe che riusci' a penetrare nell'insediamento sionista di Metzer" (all'interno di Israele), e ha invitato i giovani palestinesi a lanciare altri attacchi contro Israele.
    Anche Bassam Mirai, un importante esponente di Fatah a Tulkarem, ha elogiato "il contributo e il sacrificio di Sirhan alla causa palestinese", aggiungendo che tutti i palestinesi dovrebbero seguirne l'esempio.
    Il mese scorso, terroristi delle Brigate Al Aqsa hanno sequestrato e assassinato Muhammad Karankah e Samer Ofi, due giovani palestinesi di Tulkarem accusati d'aver aiutato le Forze di Difesa israeliane nella caccia a Sirhan..

(Jerusalem Post, 15.11.03 - israele.net)




3. COMMENTI DELLA STAMPA ISRAELIANA DOPO L'ATTENTATO A ISTANBUL




Scrive il Jerusalem Post: Nei prossimi giorni si discutera' a lungo se i micidiali attentati contro le due sinagoghe di Istanbul rappresentino la continuazione della crescente campagna di odio verbale contro gli ebrei e Israele, oppure la continuazione del terrorismo che ha colpito Stati Uniti, Israele, Indonesia, Marocco, Giordania, Arabia Saudita e Iraq. Ma in fondo si tratta di un dibattito sterile. Se da una parte, infatti, questi attentati scaturiscono ovviamente dall'antisemitismo, tuttavia non si fermano a questo. Questi attentati illustrano piuttosto l'indivisibilita' del terrorismo. La questione non e' se sono rivolti contro gli ebrei, contro la Turchia o contro l'Occidente, perche' sono chiaramente rivolti contro tutte queste cose. Il tentativo di scomporre questi attentati spesso rappresenta il tentativo, piu' o meno consapevole, di chiamarsi fuori da parte di coloro che sperano di potersi tenere fuori dal raggio d'azione del terrorismo. Se le principali democrazie del mondo si unissero, invece, per isolare e imporre pesanti sanzioni contro quel pugno di stati che albergano il terrorismo, come fecero contro il Sudafrica dell'apartheid, allora quegli stati sarebbero costretti ad abbandonare il terrorismo come strumento di politica nazionale. La rete terrorista vede che questo non sta accadendo e ne deduce, non del tutto a torto, di poter allargare e intensificare le divisioni tra europei e americani ricorrendo ad altri atti terroristici. Quanto piu' i paesi d'Europa aspetteranno a unirsi sul serio alla lotta, tanto piu' metteranno a repentaglio non solo la loro stessa sicurezza, ma anche cio' che sembra esser loro piu' caro: la reputazione di autoproclamati arbitri di moralita'.

Scrive Ha'aretz: Il duplice attentato terroristico alle sinagoghe Neve Shalom e Beth Israel di Istanbul rappresenta un ulteriore anello nella catena degli atti terroristici rivolti contro gli ebrei in qualunque parte del mondo, e un'ulteriore testimonianza del comune destino che unisce gli ebrei in Israele e gli ebrei all'estero. Questo comune destino e' cio' che sta portando migliaia di ebrei in questi giorni a Gerusalemme per partecipare all'assemblea generale delle comunita' ebraiche unite del Nord America, intitolata: "Plasmare il nostro futuro comune". Questo titolo non e' solo uno slogan. Il nostro futuro e' davvero comune e dobbiamo plasmarlo tutti insieme.

Scrive Yediot Aharonot: Un tempo il terrorismo era al servizio di una causa e veniva utilizzato come metodo di lotta per conseguire specifici obiettivi. Oggi coloro che commettono attentati terroristici non sentono nemmeno il bisogno di rivendicarli. Non hanno degli scopi da imporre all'attenzione dell'opinione pubblica, non hanno degli obiettivi che, una volta raggiunti, faranno dire loro: "adesso basta". Cio' che perseguono e' la distruzione totale, cio' che vogliono e' rendere impossibile la vita creativa e pacifica in un mondo che a loro e' completamente estraneo.

(israele.net 17.11.03 - dalla stampa israeliana)





4. AL-QAEDA ANNUNCIA UN IMMINENTE ATTACCO TERRORISTI NEGLI USA




"Al-Qal’a" (La fortezza) un forum internet islamico, ha pubblicato la prima parte di un’intervista in due parti con un uomo che si è presentato come Abu Salma Al-Hijazi, uno dei comandanti di Al-Qaeda più vicini a Osama bin Laden. L’intervista si svolgeva in Iraq, a sud di Faluja. L’articolo spiega che Al-Hijazi era circondato da cinque uomini mascherati armati di missili e di armi personali. L’articolo è stato presentato da Abu Saqr Al-Najdi, nessun altro particolare. Ecco alcuni brani dell’intervista:


Annunciata la morte di 100.000 americani in un imminente attacco contro gli Stati Uniti

Riferendosi alle voci di un attentato su larga scala contro gli Stati Uniti durante il mese del Ramadan, Al-Hijazi annuncia che verrà sferrato “un immane e arditissimo attacco” e che il numero degli infedeli che si prevede vengano uccisi supererebbe i 100.000 secondo una prima stima. Egli ha aggiunto che “prevede, ma non può giurare, che l’attacco si verificherà durante il Ramadan”. Ha affermato inoltre che l’attacco sarà condotto in modo tale da stupire il mondo e trasformerà Al-Qaeda in [un’organizzazione che] farà inorridire il mondo fin quando la legge di Allah non sarà realizzata, realizzata di fatto, e non solo a parole, nella Sua terra … Aspettate e vedrete che l’equilibrio dei poteri fra Al-Qaeda e i suoi nemici cambierà, all’improvviso, se Allah lo vuole”.

Riguardo poi ai prigionieri di Al-Qaeda, Al-Hijazi ha detto: ”Seguiamo la loro situazione da vicino … i governi collaborazionisti pagheranno caro per aver catturato questi eroi che vogliono far rinascere la gloria del loro paese e scuotere via la polvere dell’umiliazione e del disonore”.

Al-Hijazi ha detto inoltre che i governi “collaborazionisti e traditori” dovrebbero sapere che il braccio di Al Qaeda è lungo e che i suoi appartenenti godono di una popolarità che non finisce solo perché governi apostati ne tengono prigionieri centinaia. “Non appena uno stato fa prigioniero uno del nostro popolo, a decine come lui accorrono nelle nostre fila … questo non è un segreto”.


Primo bersaglio di Al Qaeda sono gli americani, non i governi locali

Al-Hijazi ha detto che Al Qaeda ha dato istruzione ai suoi membri di non colpire il governo di paesi islamici e ha chiarito che gli americani restano il bersaglio principale dell’organizzazione, dovunque si trovino, per portare l’America alla disintegrazione e al collasso, anche se ciò richiederà lungo tempo. “Noi siamo pazienti” ha detto. ” La nostra pazienza finirà solo col collasso dell’America e dei suoi agenti.”

Ha ancora detto: “Non c’è dubbio che il crollo e la fine dell’America porterà al crollo di quei fragili regimi che dipendono da essa … Noi non ci fermeremo fino a che non fonderemo il Califfato Islamico e fino a che la legge di Allah non sarà realizzata nella sua terra”.


Le vittime dell’esplosione di Ryad sono americani e cristiani libanesi

Quando gli è stato chiesto del recente attentato di Ryad, Al-Hijazi ha tacciato i rapporti dei media sauditi - che sostenevano che nell’attacco erano rimaste vittime donne e bambini musulmani – “come pure falsità giornalistiche”, e ha aggiunto: “Il luogo era sotto controllo da molti mesi. Stando ad accurate indagini, ci è stato perfettamente chiaro che le persone che vivevano lì erano almeno 300 americani e un folto gruppo di cristiani libanesi che avevano torturato dei musulmani lì, in Libano, durante la guerra civile. Dopo esserci consultati, decidemmo che era giusto scatenare l’attacco in questa zona e distruggerla, comprendendo anche le persone che vivevano lì, perché ospitava americani e un gran numero di cristiani con cittadinanza libanese”.

“Data l’importanza strategica di questa zona e dato che è un bersaglio dichiarato di Al Qaeda, il governo saudita l’ha circondata di pesanti misure di sicurezza. Nonostante ciò abbiamo dato il via libera alla nostra gente di Ryad di distruggerlo con quelli che vi si trovavano all’interno. Allah ha favorito l’irruzione e la distruzione della parte in cui viveva la maggior parte degli americani. Come risultato, sia lode ad Allah, vennero ammazzati 40 americani nonché 27 cristiani libanesi e un gruppo di cittadini musulmani; almeno 70 americani furono feriti insieme ad almeno 30 cittadini di altri stati, per lo più cristiani libanesi .”

Secondo Al-Hijazi, un dotto ecclesiastico saudita, ricercato dalle autorità saudite, rivendicherà la responsabilità della distruzione “e di altre operazioni future” in un comunicato televisivo. Ha inoltre aggiunto che i testamenti degli attentatori verranno probabilmente pubblicati nel mese di Shawwal , che è il mese successivo al Ramadan secondo il calendario musulmano, quando si prevede che Al-Nida, il più importante sito web di Al Qaeda, sarà riattivato.

(The Middle East Media Research Institute, 17.11.2003)




5. CAMBIAMENTI NELLA VITA DEI NUOVI IMMIGRATI IN ISRAELE




Uscire dalla propria cerchia

di Dror Mermor
     
L’immigrazione dall’ex-Unione Sovietica degli anni ’90 ha creato il fenomeno di intere provincie in cui l’80% della popolazione era composta da nuovi immigrati. Dopo poco più di un decennio, le tendenze si sono invertite: gli immigrati, che hanno raggiunto una certa stabilità economica, si sono integrati nel paese ed hanno adottato le norme di consumo del resto degli israeliani. Le grandi città – Tel Aviv e Gerusalemme – sono diventate attraenti per questi ormai non più nuovi cittadini.
    La grande ondata di immigrazione dall’ex-Unione Sovietica nel corso degli anni ’90, che ha portato fino ad oggi nel paese circa 1 milione e centomila persone (un incremento della popolazione del 18% in 10 anni), ha ovviamente attratto l’attenzione di molti uomini d’affari israeliani, che hanno tentato di appropriarsi di una fetta di questo nuovo mercato di consumo. Inoltre, il fatto che molti dei nuovi immigrati preferissero mantenere, in sintonia con lo stile di vita israeliano, l’identità che si erano portati dall’ex-Unione Sovietica (in termini di lingua, cultura, etc.), è stato usato per rendere più netti i vantaggi del separatismo e per concentrarsi in modo specifico su questo nuovo settore, con il risultato che molte ditte e molti pubblicitari gli hanno dedicato un’attenzione quasi individuale.
    Persino il settore immobiliare ha imparato in fretta. Quale che ne sia stata la causa – i vantaggi portati ad Israele, costretto ad assorbire centinaia di migliaia di immigrati all’anno, o i vantaggi portati agli imprenditori – gli agenti immobiliari hanno imparato ad identificare ed a caratterizzare i nuovi quartieri, contribuendo quella omogeneità che ha permesso l’inserimento dei nuovi immigrati (il 60% dei quali, oggi, vive in appartamenti di proprietà).
    Molte regioni del paese sono diventate delle calamite per gli

prosegue ->


immigranti dall’ex-Unione Sovietica. Alla fine del 2001, ad Ashdod risiedevano 63.900 immigrati, costituenti il 34% della popolazione. In quartieri come il Rione Yod Gimmel (XIII) o il Centro-città, gli immigrati formavano all’80% della popolazione. Haifa ha accolto 66.400 immigrati - il 22% della popolazione – concentrati soprattutto nel quartiere (relativamente a buon mercato) di Hadar. Alla fine del 2001, Beer Sheva aveva accolto oltre 54.000 immigrati – il 29% degli abitanti. Ad Ashkelon, il numero degli immigrati ha raggiunto i 35.000 – un terzo della popolazione, mentre a Nazareth Illit sono arrivati 22.800 immigrati – quasi la metà del numero degli abitanti della città. Inoltre, vi sono stati chiari segni di frammentazione all’interno dei vari gruppi etnici e persino fra gli stessi immigrati dall’ex-Unione Sovietica. Ne sono un esempio la grande comunità georgiana di Ashdod, le comunità originarie di Buchara a Lod e a Sderot ed i numerosi immigrati provenienti da S. Pietroburgo e dai Paesi Baltici, concentratisi ad Arad.
    Per contro, nelle due maggiori città israeliane, Gerusalemme e Tel Aviv, i nuovi immigrati costituivano nel 2002 solo l’8% (54.000) ed il 15% (52.000), rispettivamente, della popolazione di tali città.
    
    
Un cambiamento di tendenza
    

    Negli ultimi anni, tuttavia, la Ditta McCan Alternative, che fa parte del gruppo McCan-Ericson Advertising and Communications, ha constatato un cambiamento della tendenza separatista che contraddistingueva i nuovi immigrati, soprattutto per quanto riguarda le preferenze di ubicazione dell’alloggio. Secondo Michael Safran, direttore esecutivo della McCan Alternative, “i russi stanno tentando cambiare quello che è stato il loro modello di vita fino ad ora. Gli immigrati vogliono far vedere che hanno avuto successo in Israele, che non sono più nuovi immigrati – e quindi cercano casa altrove”.
    Dopo che molti immigrati erano affluiti nelle aree periferiche del paese una decina di anni fa, ora, secondo le valutazioni di Safran, si ritiene che tenteranno, uno dopo l’altro, di trasferirsi a Tel Aviv e nella sua area metropolitana, proprio come il resto della popolazione israeliana. A detta di Safran, “la maggioranza degli immigrati  proviene dalle grandi città e questo fatto caratterizza l’ubicazione della casa che essi cercano. Di fronte al dilemma se traslocare in una villetta nei pressi dell’appartamento in cui abita a Karmiel o se invece trasferirsi in un appartamento a Tel Aviv, per un immigrato dalla Russia è più importante trasferirsi nel centro israeliano della cultura, Tel Aviv”. Safran sottolinea che la maggioranza degli immigrati dall’ex-Unione Sovietica si sono inseriti con un relativo successo dal punto di vista economico e questo permette loro di cercarsi nuove mete. Inoltre, aggiunge Safran, dal momento che una delle loro caratteristiche è una solida etica nei pagamenti, sono clienti di mutui ricercati dalle banche (circa l’85% degli acquirenti di alloggi accende un mutuo).
    Dorit Sadan, direttrice della Divisione di Marketing del Shikkun Ovdim [impresa di costruzioni], afferma che, in questo momento, la maggioranza degli immigrati “veterani, che sono arrivati al secondo round nel miglioramento del livello di alloggio”, sono ancora concentrati nelle zone tradizionali del settore russo, quali Holon, Ashdod, Hedera e Natania. Secondo Sadan, “il prezzo, più che l’ubicazione, è a tutt’oggi il fattore determinante nell’acquisto di un appartamento”.
    Ciononostante, Sadan sottolinea che “tutte le ricerche dimostrano che la fusione del settore russo con il resto della popolazione è inevitabile, per quanto ora vi sia una certa dualità: all’esterno, gli immigrati mostrano sicurezza di se stessi; intimamente, tuttavia, vogliono essere israeliani. Un nostro sondaggio indica che la metà di tutti coloro che frequentano l’opera o gli spettacoli in Israele, lo fanno non perché lo desiderino veramente, ma a causa dello stigma legato al non farlo”. Alla McCan, diciamo che “per tutte le altre ondate di immigrazione, il processo di assimiliazione è durato una generazione, mentre in questo caso ce ne vorranno due – ma è certo che succederà. Malgrado la cura scrupolosa, che la generazione dei genitori impiega affinché i figli parlino la loro lingua, si può già notare che la lingua della seconda generazione è molto “povera” e molte parole sono sparite dal loro lessico. I loro figli saranno completamente israeliani e non parleranno più il russo”.
    
    
La fine dei quartieri separati
    

    Dal punto di vista operativo, la McCan Alternative è giunta alla conclusione che è arrivato il momento di staccarsi dal modello dei quartieri separati nelle città israeliane. Secondo Safran, “coloro che a suo tempo hanno comperato un appartemento nel rione Yod Gimmel di Ashdod stanno scoprendo che è veramente difficile rivenderlo, mentre loro stessi vogliono spostarsi verso il centro del paese e vivere in quartieri misti. Gli israeliani non vogliono andare a vivere in un “ghetto” russo e ormai nemmeno i russi stessi sono interessati a viverci. Naturalmente, si prevede che fra vent’anni questi quartieri saranno completamente misti. Fino allora, però, nessuno può sapere quale sarà il loro prezzo di mercato”.
    Per quanto riguarda il tipo di alloggio, oltre la metà degli immigrati vive attualmente in appartamenti di tre locali, soprattutto per ragioni economiche. Malgrado ciò, afferma Safran, fra i russi benestanti, si è avuto un incremento della tendenza ad acquistare immobili nelle zone più prestigiose di Israele, quali Kfar Shemaryahu, Savion, Herzliya Pituah e Cesarea.
    In conclusione, alla McCan sono convinti che il settore russo abbia completamente acquistato le abitudini israeliane di consumo. Per dirla con le parole di Safran: “Consumano hoummus come gli israeliani – nei due sensi del termine. Anche nel settore immobiliare, il reddito e la posizione economica saranno fattori determinanti. Non vederemo nessuna città priva di russi. Questo è vero anche per gli arabi e per gli ultra-ortodossi. Tutti i settori convergono, partendo da un punto di visti di consumo”. 
    
(Ma’ariv, 4.11.03, da Keret Hayesod)




6. UN MODO PRATICO PER MANIFESTARE AMORE A ISRAELE




La mia esperienza di volontariato nell’esercito israeliano

di Diego Anghilante
    
    Dal 9 al 30 agosto dell’estate 2003 ho prestato servizio come volontario nell’esercito israeliano. La mia intenzione era di fare volontariato in un kibbutz, ma mi ero deciso troppo tardi e non avevo molti contatti. È stata Chicca Scarabello Falcone a parlarmi della Sar-El (acronimo di Sherut leIsrael: servizio per Israele), l’organizzazione che raccoglie in tutto il mondo volontari per questa originale forma di aiuto allo stato di Israele. Ho telefonato alla signora Italia, presso la comunità ebraica di Roma, e tutto è stato semplice e veloce. Dopo nemmeno due settimane mi imbarcavo da Malpensa. Il biglietto aereo è a carico dei volontari e costituisce, specie nella stagione estiva, la spesa più ingente che si deve affrontare.
    Ero contento di volare con la El Al, ma al check-in sono incappato nei filtri della sicurezza. I giovani addetti della compagnia aerea israeliana adottano un metodo formidabile: prima di occuparsi dei bagagli, degli oggetti e degli abiti dei viaggiatori, si concentrano sulla loro psicologia, facendoli parlare a lungo e cercando incoerenze e discordanze nelle loro risposte. Penso che nessun terrorista possa superare brillantemente questi colloqui. Il problema è che io ho risposto con eccessiva sincerità, manifestando il mio amore per Israele e il mio impegno nell’Associazione Italia-Israele. Insomma ero troppo amico di Israele, e questo li ha – giustamente – insospettiti. Così dopo quasi due ore di colloqui, attese, telefonate di verifica e perquisizioni, l’aereo ha ritardato di cinque minuti il decollo per imbarcarmi.
    In Israele sono stato destinato alla base militare di Batzrap, alle porte della città araba di Ramla, vicino a Tel Aviv. Eravamo due o tre decine di volontari, in ordine di presenze statunitensi, francesi, sudafricani, canadesi, olandesi, inglesi. Il nostro compito era di riparare le attrezzature militari per le radiocomunicazioni: telai delle radio installate sugli automezzi, elmetti con cuffie riceventi, microfoni ecc. Dopo una settimana ho ottenuto di trasferirmi in un’altra base della quale avevo sentito parlare parecchio, Matzrap, all’interno della grande area militare di Tel Ha Shomer, sempre vicino a Tel Aviv. Un’area così grande - con tre o quattro entrate a distanza di parecchi chilometri e una vasta superficie che ospita diversi reparti militari, ognuno provvisto di strutture autonome – che senza una mappa ci si perdeva facilmente nel reticolo di strade che collega queste diverse casermette. Qui lavoravo a confezionare il pronto soccorso per le unità combattenti: si trattava di svuotare dei grandi e pesanti zaini pieni di medicinali e di tutto l’occorrente per l’emergenza medica, di sostituire i prodotti scaduti o deperibili e di riempire nuovamente gli zaini, facendo molta attenzione alla disposizione dei medicinali nelle tasche numerate. I magazzini nei quali lavoravamo erano gestiti da civili che il mattino entravano in caserma e se ne andavano alla fine della giornata, ma i responsabili militari, probabilmente medici o farmacisti, passavano sovente a controllare la correttezza del nostro lavoro.
    La prima settimana ho lavorato nel magazzino di Mashiah, un simpaticissimo ebreo russo che aveva fatto l’aliah alla fine degli anni ’60. Era tozzo, scuro di pelle e peloso come una scimmia. Nonostante l’aria condizionata aveva l’abitudine di mettersi a torso nudo per svolgere i lavori più pesanti. Una volta si tolse la camicetta davanti ad un’anziana volontaria americana, che vedendosi all’improvviso quel torso irsuto si spaventò parecchio. Mashiah parlava un inglese veramente elementare, a base di “This good”, “This no good”, ma riusciva e gestire egregiamente il suo magazzino e il continuo via vai di volontari. Di alcuni giovani francesi, per la verità non propriamente stakhanovisti, aveva deciso che erano “no good” e li incalzava con ogni sorta di rimproveri. Del nostro gruppo invece, composto da alcune attempate signore americane e dall’uomo di fatica italiano, si considerava soddisfatto, eravamo “good”. Al punto che prima di chiudere il suo magazzino per andare in ferie ci consegnò un simpatico attestato con i complimenti di Mashiah: “I want you know - c’è scritto tra il resto - that your help is appreciated by the Israeli Army, the Israele people and especially from me – Mashiah”.
    Partito Mashiah ci spostarono nel magazzino di Peggy, un’ebrea di mezza età che alcuni anni fa si era trasferita dalle Haway a Gerusalemme. Tanto il primo era espansivo quanto Peggy era taciturna e introversa, quasi tetra. Si muoveva con strana lentezza, come un convalescente dopo un incidente, ma nonostante questo non sopportava che l’aiutassi in qualche mansione più pesante. Portava sempre sulle spalle uno zainetto pieno d’acqua o di qualche liquido, munito di un tubo di gomma per bere aspirando, ma nessuno ebbe mai il privilegio di vederla utilizzare il suo zaino-borraccia. Nonostante vivesse in Israele da alcuni anni parlava ancora un ebraico poco fluente, ma il suo inglese era così strano che dopo aver ascoltato le sue istruzioni io guardavo con aria interrogativa le mie colleghe americane, e queste si guardavano tra loro smarrite: nessuno aveva capito che cosa si doveva fare. Alla fine però scoprimmo che anche Peggy, sotto quella scorza di tartaruga sofferente, era una donna buona e generosa.
    I volontari della Sar-El hanno una loro piccola base, costituita da caseggiati bassi e rudimentali simili a scatole bianche, disposti intorno ad un’area comune attrezzata di tavoli e panche, dove trascorrevamo il tempo libero e le serate conversando, giocando a scacchi o a carte, discutendo della situazione politica in Israele e nel mondo. Le stanze, divise come i bagni tra femminili e maschili, hanno cinque o sei letti e uno spartano armadietto per ogni ospite. L’unico locale comune è una sala provvista di un grande frigorifero, della televisione, di alcuni divani e di un distributore per l’acqua calda e fredda. I pasti si consumano nella mensa della base per la quale i volontari lavorano, insieme ai soldati e alle soldatesse israeliani di leva e ai richiamati. Quelle potevano essere le occasioni, per chi parlava bene l’inglese e magari anche un po’ di ebraico, di fare conoscenza con le reclute di Tzahal.
    Tutta l’organizzazione del nostro soggiorno è affidata alle madrichot, giovani soldatesse incaricate di occuparsi dei volontari. La madricha li accoglie all’aereoporto, li scorta al centro operativo della Sar-El dove fanno la conoscenza di Pamela Lazzarus, responsabile del progetto, li conduce nella base militare alla quale sono destinati, si occupa della loro vestizione, dell’alloggiamento, del lavoro, del tempo libero, degli eventuali problemi che possono sorgere, dei saluti finali con tanto di attestato e gadgets. Dunque è importante avere delle madrichot simpatiche e attive.
    La giornata iniziava alle otto con l’alzabandiera, al quale assistevamo schierati a fianco dei soldati israeliani. Per la verità il nostro schieramento era degno di un’armata Brancaleone, tra uniformi sbrindellate, pose assai poco marziali, mani in tasca e buffi accostamenti, con magari un allampanato adolescente accanto ad una opulenta vedova americana. Altro che i reparti “allineati e coperti” cui ero abituato quando ero ufficiale di complemento degli alpini! Non è però che tra le file israeliane le cose andassero molto meglio. Tzahal è probabilmente uno degli eserciti meno formali del mondo. Ma intanto, o forse grazie anche a questo, ha vinto cinque guerre contro nemici decisi a cancellare Israele dalla faccia della terra. Eppure ho scoperto che i “naioni”, ovvero i soldati di leva demotivati e scansafatiche, non sono una prerogativa dell’esercito italiano. Specialmente nella prima base gli atteggiamenti di certe reclute mi ricordavano la caserma “Cesare Battisti”: la goliardia, l’accidia militare, gli imboscati, quel modo inconfondibile di camminare strascicando i piedi... Anche in questo Israele sta diventando un paese come gli altri, anche qui i giovani hanno voglia di divertirsi ed eviterebbero volentieri questi tre anni di leva obbligatoria. Ma rimane una differenza: Israele è uno dei pochi paesi dove la parola patria ha ancora un significato non retorico.
    Mi emozionava, durante l’alzabandiera, sentire gli ordini militari in ebraico: pensare che una lingua vissuta per duemila anni tra le sinagoghe e i ghetti ha trovato ora le parole per far scattare sull’attenti un reparto militare. Terminata la cerimonia le madrichot - nella seconda base erano tre per circa 40 volontari - ci radunavano per presentarci le notizie politiche e di cronaca, per illustrare il programma della giornata e i vari incarichi. Alle 16 il lavoro terminava, e alla terribile ora delle 17 la mensa truppa apriva per la cena. Subito dopo erano previste quasi tutte le sere attività culturali e ricreative per noi volontari. Tra le numerose conferenze ricordo quella sul fondamentalismo islamico tenuta dal generale in pensione Aharon Davidi, un ottantenne dritto come un fuso che ha avuto nel 1983 la geniale idea di fondare la Sar-El. Un’anziana ebrea americana ci raccontò invece di come nel 1948 divenne, quasi per caso, una fondatrice del Maghen David Rosso (la versione ebraica della Croce Rossa); mentre un reduce della campagna del Libano, costretto su una sedie a rotelle dopo un’esplosione, tenne una lezione sulla situazione politica dopo la guerra in Iraq.
    Ogni settimana la Sar-El propone un tour pomeridiano con il pullman per visitare Gerusalemme o altre località nelle vicinanze. Proprio nel corso di una di queste visite ci trovammo a Gerusalemme, era un martedì, al momento in cui un terrorista si fece esplodere sull’autobus numero 2 uccidendo 18 persone. Eravamo fermi sul nostro pullman e le sirene della polizia e delle autoambulanze ci passavano accanto. Più tardi ci fermammo a cenare in un centro commerciale in periferia. C’era un negozio di elettrodomestici, e una lunga fila di televisori trasmetteva in diretta le immagini dei soccorsi. Eppure nonostante gli attentati ho ritrovato un paese vivo e giovane, una Gerusalemme che non è la cupa città sotto assedio proposta dai telegiornali, ma una moderna città europea, con i locali di tendenza, la gente che passeggia o fa footing, le ragazze col piercing all’ombelico. Nessun odio e nessuna cultura di morte potrà mai spegnere la forza di questo formidabile popolo.
    Anche per i weekends, che iniziano il giovedì dopo il lavoro e terminano il sabato sera, la Sar-El propone sovente gite organizzate e a prezzi modici, dal Golan al Neghev, dalla Galilea a Eilat. Chi non è interessato a questi tours trova una serie di hotel convenzionati a Gerusalemme e a Tel Aviv. C’è addirittura la possibilità di essere ospiti di famiglie israeliane che desiderano conoscere questi amici di Israele giunti da ogni parte del mondo. Esiste infine a Tel Aviv, a pochi passi da Yaffo, il Beit Oded, un ostello della Sar-El dove si può pernottare e mangiare gratuitamente durante i weekends. Non si tratta propriamente di un hotel a cinque stelle, ma è interessante perché vi si possono incontrare volontari che lavorano in altre basi militari.
    In queste tre settimane ho avuto modo di conoscere, nonostante il mio cattivo inglese, molte persone affascinanti, originali e simpatiche. Come Maurice, un ebreo sudafricano di 81 anni che ci raccontava di aver combattuto durante la guerra del 1948 nella neonata aviazione israeliana. Ma quanto russava di notte! O Chaim, da tutti nella base di Batzrap chiamato Sean Connery, perché pur non avendo l’imponenza dell’attore scozzese ne ricordava il fascino, la sicurezza, lo sguardo di ghiaccio. Esibendo i suoi bicipiti tatuati mi raccontava di suo nonno russo, col cappellaccio nero e i pyot. Lui invece, dopo essere nato in Belgio, ha trascorso la vita nei marines americani, facendosi il Vietnam, Panama e la Somalia. Mi ha detto che la battaglia più dura a cui ha preso parte è stata quella di Mogadiscio, nel 1993 (ricordate il film “Black howk down”?). O Matt, un ragazzone inglese cha fa lo stagista al Parlamento Europeo di Bruxelles e al quale mi avvicinava la passione per gli scacchi e ancora di più la pratica del rugby (ma lui con tanti centimetri di altezza e chili di muscoli in più di me). O ancora Shmuel, un aspirante rabbino di Brooklin che dopo avere abbozzato una presenza inoperosa, maldestra e divertita tra i magazzini aveva stabilito un volontariato assai originale: compariva al mattino nella camerata, trascorreva la parte più calda della giornata a pregare avvolto nei suoi paramenti, a dormicchiare o a parlare in ebraico al cellulare, quindi nel tardo pomeriggio scompariva nuovamente, per poi ricomparire il mattino seguente lamentandosi del fatto che aveva vegliato fino a tarda notte. La cosa più buffa era vederlo vestito con la divisa militare. E potrei continuare con una rassegna della varia umanità che si incontra in ogni gruppo umano eterogeneo: gli originali, gli spostati, i depressi, i litigiosi, i tremendi russatori notturni, i pettegoli, i solerti, gli scoiattoli ai quali manca sempre una nocciolina dal conteggio totale...
    La mia impressione è che non sempre il lavoro dei volontari sia indispensabile, forse in certi casi si tratta soltanto di permettere ai soldati di leva di usufruire di licenze più lunghe. A volte addirittura è sembrato che non ci fosse sufficiente lavoro per tutti. Ma rimane il fatto che il volontariato nella Sar-El è un formidabile strumento per esprimere la solidarietà verso Israele, per sentirsi utili alla sua causa, per conoscere dall’interno la realtà del suo esercito, ossia dell’istituzione che da 50 anni gli permette di sopravvivere. Infine la Sar-El può anche costituire, soprattutto per gli ebrei provenienti dall’Europa dell’est, una sorta di prova dell’aliah, un’esperienza temporanea per capire come potrà essere la loro vita futura in Israele. A me infine ha offerto l’occasione per soggiornare in questo paese non più come un semplice turista, ma come un amico che ha portato un suo contributo di lavoro e di passione. Se malauguratamente uno di quegli zaini dovesse venire utile per soccorrere un soldato israeliano, potrò pensare, con fierezza, di avere aiutato a salvarlo.
    
(Federazione Associazioni Italia Israele, 13.11.2003)




7. LIBRI




Barry Chamish, Chi ha ucciso Yitzàk Rabìn, Editrice Nuovi Autori, Milano, settembre 2003, € 18.

Per informazioni rivolgersi a Franco Levi: levi.franco@tiscali.it.




MUSICA E IMMAGINI




Shiboleth BaSahdeh




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