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Notizie su Israele 211 - 28 novembre 2003


1. L'evoluzione dell'antisemitismo
2. Per l'Islam la minaccia mortale è la democrazia
3. Un appello ai musulmani contro la guerra tra civiltà
4. Lettera aperta di un ebreo italiano a Ariel Sharon
5. Manifestazione «Con Israele contro il terrorismo»
6. Un ebreo francese non ubbidisce al Gran Rabbino di Francia
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Michea 2:12-13. «Io ti radunerò, o Giacobbe, ti radunerò tutto quanto! Certo io raccoglierò il resto d’Israele; io li farò venire assieme come pecore in un ovile; come un gregge in mezzo al pascolo; il luogo sarà pieno di gente. Chi farà la breccia salirà davanti a loro; essi faranno la breccia, passeranno per la porta e per essa usciranno; il loro re marcerà davanti a loro e il SIGNORE sarà alla loro testa».


1. L'EVOLUZIONE DELL'ANTISEMITISMO




Secondo il filosofo ebreo Emile Fackenheim, nella storia dell’odio per gli ebrei si possono riconoscere tre tappe. Ecco quello che gli antisemiti dicono agli ebrei nelle diverse tappe.

Prima tappa:
    «Voi non potete vivere tra noi come ebrei».
    Conseguenza: Conversione forzata.
Seconda tappa:
    «Voi non potete vivere tra noi.
    Conseguenza: Espulsione.
Terza tappa:
    «Voi non potete vivere»
    Conseguenza: Sterminio.
Questa almeno è l’evoluzione dell’antisemitismo occidentale nel passaggio dall’oscuro medioevo religioso all’illuminata modernità secolare. Nella società islamica della cosiddetta “Palestina” del secondo dopoguerra, invece, non c’è stata evoluzione: hanno voluto arrivare subito alla terza tappa. Però non ci sono riusciti. Ed è questo il motivo profondo della loro intima sofferenza, che trova negli illuminati umanisti occidentali grande comprensione, e nei religiosi islamici parziale lenimento soltanto nell'osservanza del precetto islamico del “martirio”. Non riuscendo a sterminarli tutti, si fa quel che si può. M.C.




2. PER L'ISLAM LA MINACCIA MORTALE E' LA DEMOCRAZIA




«Gli islamisti temono la laicità e la democrazia più che la morte»

E’ questo il titolo di un articolo di Ludovic Monnerat, scritto sulla base di un articolo di Amir Taheri, comparso il 4.9.2003 sul New York Post con il titolo «L’agenda di Al Qaeda per l’Iraq». La violenza degli attentati in Iraq e l’accanimento dei terroristi si spiegano con l’importanza che viene attribuita dagli islamisti a questo paese.

Gli sforzi americani per instaurare una democrazia stabile in Iraq suscitano un’immensa inquietudine nei ranghi di Al-Qaida. Un libro recentemente pubblicato dai fondamentalisti islamici mostra chiaramente il loro odio per la laicità.

«Non è la macchina da guerra americana che dovrebbe in primo luogo preoccupare i musulmani. Quello che minaccia il futuro dell’Islam, e in sostanza la sua sopravvivenza, è la democrazia americana.»

Questo è il messaggio di un libro recentemente pubblicato da Al-Qaida e diffuso in molti paesi arabi. L’autore di questo libro, che ha per titolo «Il futuro dell’Iraq e della penisola araba dopo la caduta di Bagdad», è Yussuf Al-Ayyeri, uno degli adepti più vicini a Bin Laden dall’inizio degli anni ‘90. Questo cittadino saudita aveva adottato il nome di battaglia «Abu Mohammed», ed è stato ucciso in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza a Riyadh nel giugno scorso.
    Il libro è stato pubblicato dal Centro di Ricerca e di Studi Islamici, una società messa in piedi nel 1955 da Bin Laden, con delle succursali - ora chiuse - a New York e Londra. Nelle ultime otto settimane questo centro ha pubblicato più di quaranta opere di «pensatori e ricercatori» di Al-Qaeda, ivi compresi militanti come Ayman al-Zawahiri, il braccio destro di Bin Laden.
    

La conversione dell’umanità

All’inizio, negli anni ‘90, Al-Ayyeri si è fatto un nome come comandante del campo Faruk, nell’est dell’Afganistan, dove Al-Qaeda e i Talebani hanno addestrato migliaia di «candidati martiri». Secondo lui, la storia dell’umanità è la storia di una «guerra eterna tra credenti e miscredenti». Nel corso dei millenni, i due gruppi sono apparsi in forme diverse.
    Per quello che concerne la fede, la sua ultima forma è rappresentata dall’Islam, che «annulla tutte le altre religioni e credenze». Da quel momento, i musulmani non possono avere che un solo scopo: convertire tutta l’umanità all’Islam e «cancellare le ultime tracce delle altre religioni, credenze e ideologie».
    L’incredulità (kufr) ha avuto diversi modi di apparire, ma un solo obiettivo: distruggere la fede in Dio. In Occidente, l’incredulità è riuscita a far dimenticare Dio alla maggioranza delle persone e a far sì che adorassero il mondo. L’Islam tuttavia resiste a questa tendenza perché Allah ha l’intenzione di donargli la vittoria finale.
    Al-Ayyeri mostra in seguito come diverse forme d’incredulità hanno attaccato il mondo islamico nel secolo scorso, e sono poi state vinte in un modo o nell’altro.
    La prima forma d’incredulità è stata il modernismo (hidatha), che ha portato alla distruzione del califfato e alla nascita in terra islamica di Stati basati sulle identità etniche e le dimensioni territoriali piuttosto che sulla fede religiosa.
    La seconda è stata il nazionalismo importato dall’Europa, che ha diviso i musulmani in Arabi, Persiani, Turchi e altri. Al-Ayyeri afferma che il nazionalismo adesso è stato frantumato in quasi tutte le terre islamiche. E dichiara solennemente che un vero musulmano non dovrebbe essere leale verso nessuno Stato-nazione.
    La terza forma d’incredulità è stata il socialismo, che include il comunismo. Anche questa forma è stata battuta ed eliminata dal mondo musulmano, dichiara Al-Ayyeri.
    Presenta poi il bahatismo, l’ideologia settaria che Saddam Hussein ha imposto sull’Iraq, come la quarta forma d’incredulità che affligge i musulmani, e in particolre gli Arabi. Il bahatismo, che è anche l’ideologia ufficiale del regime siriano, offre agli arabi un miscuglio di panarabismo e socialismo come alternativa all’Islam. Al-Ayyeri scrive che i musulmani «dovrebbero rallegrarsi della distruzione del bahatismo in Iraq. La fine del regno del Bahat in Iraq è buona per l’Islam e per i musulmani. Là dove è caduta la bandiera del Bahat s’innalzerà la bandiera dell’Islam».
    
    
Il pericolo della democrazia

L’autore indica anche come «un paradosso» il fatto che tutte le forme d’incredulità che hanno minacciato l’Islam sono state vinte con l’aiuto delle potenze occidentali, e più specificatamente degli Stati Uniti.
    Il movimento di modernizzazione del mondo musulmano è stato definitivamente discreditato quando le potenze imperiali europee hanno esteso il loro dominio in terra islamica, trasformando così le élite occidentalizzate in loro «valletti». I nazionalisti sono stati battuti e discreditati nelle guerre condotte contro di loro da differenti potenze occidentali o, come nel caso del nasserismo in Egitto, da Israele.
  
Un giocattolo venduto nei Territori Palestinesi. Nelle mani di Bin Laden c'è il Pentagono americano.
L’Occidente ha anche contribuito a distruggere il socialismo e il comunismo nel mondo mu- sulmano. L’esempio che più colpisce è quello dell’America che ha aiutato i muijadin afgani a distruggere il regime comunista e pro-sovietico di Kabul. E adesso gli Stati Uniti e i loro alleati britannici hanno distrutto il bahatismo in Iraq, e forse l’hanno anche fatalmente intaccato in Siria.
Quello che adesso vede Al-Ayyeri è «un campo di battaglia pulito», sul quale l’Islam affronta una nuova forma d’incredulità. Il nome è quello di «democrazia laica». Questa minaccia è «ben più pericolosa per l’Islam» che tutte le precedenti messe insieme. E in un intero capitolo spiega che le ragioni devono essere individuate nelle «capacità seduttrici» della democrazia.
    Questa forma d’incredulità induce le persone a credere che sono responsabili del loro proprio destino e che, utilizzando la loro intelligenza collettiva, possono scegliere la loro politica e votare le leggi che ritengono buone. Questo le porta ad ignorare le «leggi inalterabili» promulgate da Dio per l’umanità tutta intera e codificate nella legge islamica fino alla fine dei tempi.
    L’obiettivo della democrazia, secondo Al-Ayyeri, è di far sì che «i musulmani amino questo mondo, dimentichino il mondo futuro e abbandonino la jihad». Se la democrazia riesce a stabilirsi in un paese musulmano per un certo periodo, potrebbe condurre alla prosperità economica, e questo a sua volta renderebbe i musulmani «poco disposti a morire come martiri» per difendere la loro fede.
    Afferma quindi che è d’importanza vitale impedire ogni normalizzazione e ogni stabilizzazione in Iraq. I militanti islamici devono assolutamente fare in modo che gli Stati Uniti non riescano ad organizzare delle elezioni in Iraq e a creare un governo democratico. «Se la democrazia s’installa in Iraq, il prossimo bersaglio [della democratizzazione] sarà l’intero mondo musulmano», scrive Al-Ayyeri.
    L’ideologia di Al-Qaida afferma che il solo paese musulmano già contagiato dall’«inizio della democratizzazione», e quindi in «pericolo mortale», è la Turchia. «Vogliamo che quello che è successo in Turchia si estenda a tutti i paesi musulmani?», chiede Al-Ayyeri. «Vogliamo che i musulmani rifiutino di prendere parte alla jihad e si sottomettano alla laicità, questa mescolanza proveniente dai sionisti e dai crociati?»
    Al-Ayyeri scrive che l’Iraq diventerà la tomba della democrazia laica, esattamente come l’Afganistan è diventata la tomba del comunismo. La sua idea è che gli Americani, messi davanti a perdite sempre crescenti in Iraq, finiranno per «svignarsela», come hanno fatto i Sovietici dall’Afganistan. Questo perché gli Americani amano questo mondo e si preoccupano soltanto delle loro comodità, mentre i musulmani sognano i piaceri che il martirio offre loro in paradiso.

«Oggi in Iraq non ci sono che due campi», dichiara decisamente Al-Ayyeri. «Siamo di fronte a un conflitto tra due visioni del mondo e del futuro dell’umanità. Il campo disposto ad accettare più sacrifici sarà quello che vincerà».

Le analisi di Al-Ayyeri possono sembrare ingenue, e si sbaglia anche nella maggior parte dei fatti che menziona, ma ha ragione quando ricorda al mondo che quello che sta avvenendo in Iraq potrebbe contagiare altri paesi arabi e, alla fine, tutto il mondo musulmano.

(UPJF, 25.11.2003)




3. UN APPELLO AI MUSULMANI CONTRO LA GUERRA TRA CIVILTA'




"Ora basta: il cancro del terrorismo colpisce prima di tutto le nostre societa' d'origine"

Il testo integrale dell'appello ad arabi e musulmani lanciato da Farid Adly, giornalista collaboratore di Radio Popolare, militante per i diritti umani, direttore di "Anbamed, notizie dal Mediterraneo".

Ora basta. Ogni nostro ulteriore silenzio e' complice. Noi intellettuali arabi e musulmani, presenti in Italia ed in Europa, non possiamo piu' esimerci dal prendere una posizione chiara ed esplicita di rifiuto del terrorismo. Non ci sentiamo affatto messi sul banco degli accusati, ma non possiamo lo stesso sottrarci al nostro ruolo. Dopo gli attentati che hanno falcidiato vite umane, di persone innocenti, non possiamo continuare a tergiversare sulle colpe del colonialismo occidentale e sulla potenza dell'impero americano. Leggiamo su molta stampa araba analisi su un diabolico complotto ordito contro l'islam e dibattiti sull'appassionato e nello stesso tempo futile tema: a chi giova? Questo e' un lusso che si possono permettere soltanto coloro che hanno tempo da perdere. Il cancro del terrorismo colpisce prima di tutto le nostre societa' d'origine, avviluppandole in un futuro oscurantista. Urge invece una chiarezza nel nostro campo. Ora. Non e' una resa a forze esterne, ma una difesa del bene piu' prezioso che possediamo: la vita ed il futuro di uomini e donne. Di ogni luogo, credo, religione e nazione. Agli appelli ed alle azioni di chi chiama alla guerra tra civilta', dobbiamo contrapporre la fede nel dialogo e nella costruzione di ponti. Continuare a lamentarsi soltanto delle colpe, passate e presenti, dell'occidente alimenta il senso di frustrazione che gli arabi vivono ancora, a quasi mezzo secolo dall'indipendenza politica. Se abbiamo da recriminare, lo dobbiamo fare nei confronti delle nostre classi dirigenti che hanno fallito il loro compito e hanno fatto prevalere interessi personali e di casta rispetto a quelli generali e pubblici. Soltanto un riscatto basato sulla razionalita' e sull'affermazione della tolleranza, potra' condurre i popoli arabi e musulmani fuori dal pantano del terrorismo e dall'arretratezza. Non possiamo ripetere l'errore compiuto nei confronti del popolo algerino, lasciato solo tra l'incudine del terrorismo ed il martello del potere dei militari corrotti. Ciascuno, nel suo ambito, deve agire coerentemente con i valori che esprime. Ridurci a osservatori silenti del collasso, a vista d'occhio, di ogni valore della nostra civilta', e' una resa a chi vuole strumentalizzare l'Islam e la tradizione araba, rinnegando il richiamo alla pace ed alla fraternita' lanciati quattordici secoli fa dal profeta Mohammed. Non lasciamo in mano a dei pazzi sanguinari l'eredita' di quattordici secoli di civilta' arabo-islamica. Diamo un esempio di opposizione chiara e coraggiosa, per non lasciare una moltitudine di giovani in preda al sopprimente pensiero della pura e stupida violenza.

(israele.net, 25.11.2003)




4. LETTERA APERTA DI UN EBREO ITALIANO A ARIEL SHARON




Signor Primo Ministro,

sono costretto a scriverLe questa lettera aperta a seguito del suo discorso: «Ebrei, tornate a vivere in Israele perché è l'unico posto al mondo dove gli ebrei possono vivere da ebrei».

Non sono affatto d'accordo con Lei e con le sue parole che considero anzi una interferenza indebita e lesiva. La mia famiglia vive a Venezia da oltre 5 secoli e non permetto a nessuno, né ad un primo ministro né a qualsiasi altro di decidere per me dove devo andare a vivere. Non solo non sono uno straniero ma non permetto a nessuno sia esso un antisemita o un politico israeliano di decidere dove io debba andare ad abitare.

Forse Lei non mi conosce ma posso assicurarle che da oltre trent'anni dedico ogni mio sforzo all'elogio dell'ebraismo e alla difesa della condizione esistenziale ebraica e combatto gli antisemiti, più o meno camuffati.

Sono a favore dello Stato di Israele e a fianco del popolo ebraico per la sua sopravvivenza ma questo non mi impedisce affatto di vedere che altri popoli soffrono e hanno bisogno di veder riconosciuti i loro diritti: quelli dei palestinesi in particolare sono urgenti e indifferibili.

Sono ebreo, sono veneziano, sono italiano, europeo e cittadino del mondo e combatto razzismo e violenza di ogni tipo e non mi piace affatto quando qualcuno cerca di parlare a mio nome. Lei invece con le sue parole che sono chiuse in se stesse e non ammettono replica mi impone una sua visione pericolosa, mi coinvolge mio malgrado e crede di poter parlare non solo a mio nome ma anche a nome degli ebrei della Diaspora: così facendo trascura deliberatamente la complessità e la ricchezza delle multiformi espressioni del mondo ebraico a favore di una maldestra operazione di pura propaganda contingente e politica.

Signor Primo Ministro, mi dispiace deluderla, ma lei cinicamente mostra di sfruttare la situazione attuale per tentare di portare in Israele un altro milione di ebrei; per farne cosa? Carne da cannone? A cinquant'anni di distanza lo stato di Israele è una straordinaria e magnifica realtà, ma oggi occorre più che mai che anche i palestinesi abbiano dignità e patria nell'interesse proprio degli uni e degli altri: ognuno deve essere scudo e garanzia dell'altro. Puntando a ottenere forzose immigrazioni secondo me lei punta a una conflittualità permanente e pericolosa, forse più vicina alla sua mentalità di generale e combattente che non a quella di un primo ministro saggio e guida del suo popolo.

Mio cugino, figlio di un ebreo assassinato ad Auschwitz vive da molti decenni in Israele: ha fatto tutte le guerre di difesa e mi ha detto: «Vincere il nemico è necessario per sopravvivere, umiliarlo è gravissimo». Questa frase è di una saggezza elementare, ci pensi anche Lei un po'.

Ora, i kamikaze sono certo frutto di una ideologia fanatica e condannabile ma anche di una tragica umiliazione e sarebbe bene che si cominciasse a ragionare in termini di strategia di lungo periodo e non di tattica fine a se stessa di breve periodo. Lei quando si fece eleggere grazie al suo grande nemico Arafat, complice come Lei della idea del tanto peggio e del tanto meglio, Lei promise sicurezza. Oggi il risultato della sua azione politica è disastroso: l'economia dell'intera regione di Israele e dei palestinesi è a rotoli, la sicurezza di Israele è in pericolo e il suo buon nome all'estero è offuscato anche tra coloro che gli sono alleati. Da Lei, signor Ministro, non posso aspettarmi troppo. Mi piacerebbe però che Lei non perdesse mai l'occasione di parlare di pace, mi piacerebbe vederLa pronto a mettere in atto qualche atto simbolico ma anche concreto di

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benevolenza verso il popolo palestinese. Sia ben chiaro, non polemizzo sul famoso muro, Lei sa benissimo proprio da generale che una Linea Maginot non può essere che simbolica, Lei sa benissimo che quel muro in realtà è soltanto un modo per esorcizzare l'angoscia che attanaglia i cittadini di Israele, Lei sa benissimo che quel muro forse non verrà mai completato ed è soltanto un fatto psicologico. Quello che Le chiedo, però, signor Ministro, è di ravvedersi dai suoi errori politici come fece il suo predecessore Rabin e Le chiedo di guidare il popolo d'Israele verso un destino migliore.

Quanto agli ebrei della Diaspora ognuno decide con la sua testa e non ha bisogno né dei suoi incitamenti né delle sue parole d'ordine che sono solo propaganda. Lei, signor Ministro, ci mostra un volto ostile e prepotente, ma spero che Lei e Arafat presto apparteniate al passato.

Sappia comunque che non La considero solo responsabile della crescente insicurezza in cui vivono i cittadini israeliani, ma anche della crescente insicurezza che colpisce tutti gli ebrei della Diaspora.

Riccardo Calimani

(Morasha.it, 27.11.2003)

*


Risponde un altro ebreo italiano.

Caro Riccardo,

ricevo tramite Morasha la tua lettera aperta al Primo ministro di Israele Ariel Sharon. Permettimi dunque di risponderti nella speranza di rappresentare almeno tanti altri ebrei italiani quanti ne rappresenti tu.

Anche la mia famiglia vive in Italia da circa 500 anni anche se non sempre a Milano, dove solo da un secolo gli ebrei risiedono permanentemente, ciononostante quando Sharon ha parlato, e io ero presente a Roma al suo discorso, ho sentito un brivido nella schiena.

Un brivido di orgoglio, anche se vivendo in Israele le mie scelte politiche sarebbero diverse rispetto al partito di Sharon.

Mai nella storia recente fu concesso a noi ebrei di poter contare su un nostro Stato nazionale, proprio noi italiani dovremmo ricordare che solo 65 anni fa i nostri padri e nonni si ritrovarono all’improvviso senza patria anche se avevano servito lealmente questo Paese in pace e in guerra.

E allora caro Riccardo lasciami dire grazie a Sharon. Grazie per ricordarci che mentre tutt’intorno a noi si risentono le stesse parole e gli stessi sentimenti di 65 anni fa c’è un angolo nel mondo anche per noi. Io non temo di venire associato a Israele e al suo governo, io ne sono orgoglioso. Io non temo di rispondere all’appello di Sharon all’alià e se i miei figli lo vorranno seguire mi faranno felice. Non carne da cannone ma braccia e menti per portare a termine il meraviglioso sogno sionista e le sue miracolose realizzazioni. Non oppressori ma finalmente in pace nel Paese che può essere il faro per l’intero Medio Oriente.

Sono con te nella speranza che i palestinesi possano migliorare le loro condizioni di vita, peraltro è l’unico modo di arrivare alla pace, ma non è certo a Sharon che dobbiamo rivolgerci ma alla sanguinaria e corrotta oligarchia che governa quel popolo nel terrore e nella violenza. Libertà per il popolo palestinese, ma da Arafat e dalla sua cricca.

Quanto alla barriera difensiva ti sbagli di grosso quando la paragoni alla linea Maginot. Dovresti pensare a Gaza e al fatto che da lì (dove la barriera esiste da anni senza scandalo alcuno) i terroristi non passano. Scusami la provocazione ma ti invito a ripetere la tua teoria così nobile e strategicamente corretta a Natania o Naharia o a Haifa o in Galilea.

Detto questo vorrei tornare a Sharon e al suo invito che tanto ti ha scandalizzato: si tratta di un invito da parte del governo di Israele, cosa c’è di male? In Francia questo invito i nostri correligionari lo stanno prendendo sul serio e tra loro probabilmente c’è qualcuno che fino a qualche mese fa la pensava come te e faceva dei distinguo tra la sua essenza di cittadino francese di fede ebraica e lo stato di Israele. Purtroppo la storia tende a ripetersi e sono gli altri a ricordarti improvvisamente e senza apparente motivo che non sei più gradito nei luoghi dove la tua famiglia risiede da 500 anni.

Che non ci tocchi mai di dover sperimentare ancora l’antisemitismo militante e che se mai dovesse succedere anche qui ci sia ancora un governo di Israele che ci invita all’alià.

Andrea Jarach

(Federazione Associazioni Italia Israele, 27.11.2003)




5. MANIFESTAZIONE «CON ISRAELE, CONTRO IL TERRORISMO»




Resoconto dell'associazione "Amici d'Israele" sulla manifestazione svoltasi a Milano domenica 23 novembre.

MILANO - Nonostante la pioggia, la delicata situazione internazionale e la metropolitana bloccata, in molti sono venuti in piazza per testimoniare il proprio amore per Israele e il proprio rifiuto di piegarsi al ricatto del terrorismo islamico. E' stata una magnifica vittoria della democrazia e della solidarietà.
    Abbiamo costruito un grande pannello, che rappresenta un "muro": il muro del terrorismo, il vero muro fra israeliani e palestinesi, quello che deve essere abbattuto perché si possa arrivare alla pace. Su questo "muro" erano affisse le foto delle vittime degli attentati (quasi 900 in tre anni di terrorismo palestinese), storie di bambini israeliani vittime del terrorismo, immagini di attentati e dati statistici. Molti milanesi si sono fermati a leggere e a guardare il nostro "muro", e siamo felici di essere riusciti ad informare la gente su quanto avviene in Israele.
    Naturalmente, come sempre accade quando si parla di Israele pubblicamente, non sono mancate alcune provocazioni da parte di donne in nero e lettori del "manifesto", che hanno parlato di "muro dell'apartheid", e di "occupazione", e rifiutandosi di capire che il terrorismo palestinese è iniziato prima della cosiddetta "occupazione" e che lo scopo della barriera difensiva è quello di salvare vite umane, e non quello di complicare la vita ai palestinesi.
    A parte questi aspetti, comunque del tutto marginali, è stata una giornata molto bella e molto intensa. La cittadinanza milanese si avvicinava, faceva domande, ascoltava le risposte, ed è apparsa molto interessata alla nostra iniziativa. Abbiamo sventolato bandiere israeliane e italiane, c'erano anche alcune bandiere americane e turche portate da nostri amici.
    Nonostante gli ombrelli quasi sempre aperti, la gente è rimasta in piazza per diverse ore a discutere e ascoltare gli interventi di diverse personalità politiche. Fra i più significativi, quelli del Presidente della Comunità Ebraica di Milano, Roberto Jarach, del Consigliere Regionale della Lombardia dei Radicali Italiani, Alessandro Litta Modignani, del vice Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia, Pier Gianni Prosperini, dell'Appuntato Davide Pinto, che ha ricordato il Maresciallo Cavallaro, vittima dell'attentato di Nassiriya, del portavoce della Comunità Ebraica di Milano, Yasha Reibman, oltre naturalmente all'intervento del nostro Presidente Eyal Mizrahi.
    Dopo gli interventi, abbiamo cantato tutti insieme l'inno italiano e quello israeliano, con alcuni membri del Coro Kol Hakolot. E' stato un momento molto commovente, ed eravamo tutti molto emozionati.
    Domenica 23 novembre, il nostro coraggio e il nostro amore per Israele hanno sconfitto la paura del terrorismo. Si tratta di una piccola ma significativa vittoria. [ved. articolo e foto sul sito internet dell' associazione ]

("Amici d'Israele", 25.11.2003)




6. UN EBREO FRANCESE NON UBBIDISCE AL GRAN RABBINO DI FRANCIA




Qualche giorno fa il Gran Rabbino di Francia, Rav Sitruk Chlita, in conseguenza di ripetuti attacchi contro degli ebrei ha pubblicamente consigliato gli ebrei di non portare la kippà in pubblico. Nell’articolo che segue l’autore, un ebreo francese, prende posizione contro le sue dichiarazioni.


«Mai senza la mia kippà...»

di Claude Bensoussan


Soltanto pochi mesi fa, durante una manifestazione pseudopacifista, un giovane ebreo dell’Hachomer Hatsair era stato preso a botte. Con l’aiuto di un megafono, un membro di un gruppuscolo musulmano aveva tenuto un discorso revanscistico e pieno di odio in cui prometteva agli ebrei il peggiore avvenire in Francia.
    “Guardateli - aveva detto rivolgendosi alla folla antisemita - gli ebrei camminano rasente i muri! Fra poco saranno costretti a nascondersi!” Ecco quello che succedeva non molto tempo fa sui pavè parigini.
    Oggi, signor Gran Rabbino di Francia, Rav Sitruk Chlita, io le chiedo, a nome di quelli che non hanno accolto il suo consiglio, e con tutto il rispetto che le devo, conoscendo inoltre per quali prove lei è recentemente passato, io le chiedo di spiegarci il tenore dei suoi consigli, trasmessici via radio domenica 16 dicembre, all’indomani dell’incendio della scuola ebraica di Gagny.
    Questi consigli, provenienti dalla più alta autorità religiosa ebraica di Francia che è lei, nostro Maestro per tutti, hanno dato luogo a tutti i tipi d’interpretazione, dalla semplice indifferenza alla presa in giro, cosa che non possiamo tollerare, dall’indignazione alla ribellione che nasce dall’incomprensione. E’ senza spirito polemico che mi rivolgo a lei, ‘has véchalom, ma con la convinzione che i suoi propositi sono carichi di conseguenze, e se nelle righe che seguono lei dovesse scorgere un attentato al suo onore, la prego di scusarmene e di non portarmi rancore. La passione che ci metto è pari al mio stupore. Senza dubbio lei ha delle informazioni gravi di cui noi non disponiamo. In ogni caso, le domande restano e la nostra incredulità anche...
    Dopo le sue prese di posizione sul velo, contestabili e contestate, ecco che arriva il momento dei consigli per garantire la “sicurezza” della comunità ebraica di Francia. Non dubito neppure un istante della sua preccupazione di preservare i suoi fratelli ebrei da ogni aggressione, in questi tempi di turbamento per l’ebraismo francese e dopo i molteplici attentati antisemiti sul suolo della patria dei Diritti dell’Uomo. Questo nasce da un buon sentimento e può essere certo che è così che l’abbiamo inteso. Da parte mia, ho capito. Ho capito fin troppo bene...
    Così, sostituendo la mia kippà con un berretto, sarei meno bersaglio dei cacciatori di teste ebraiche? Ma perché non ci ho pensato prima! Si rischia di creare un precedente molto inquietante...
    Se non mettiamo più la nostra kippà, dovremmo anche raderci la barba, per quelli che la portano, e nascondere i nostri peyot o treccioline, e non uscire più con i nostri tallit o, peggio ancora, recarci discretamente in sinagoga nascondendo i nostri attrezzi di preghiera in una borsa anonima? Mi dirà che la maggior parte di noi già lo fa, lo so. Come so che la maggior parte non porta la kippà, né alcun altro segno distintivo. Non è questo che mi preoccupa: ogni ebreo è libero di esprimere il suo ebraismo come crede meglio, e io rispetto gli uni e gli altri.
    Ma quello che lei chiede di fare, a noi che portiamo la kippà, non è niente di meno che camminare rasente i muri...
    Crede forse che “velando” questo segno “ostentato” passeremo inosservati? Crede davvero che l’ebreo normale non sia individuabile, che sia praticante o no? E’ sicuro che soltanto quelli col capo coperto saranno aggrediti? Una triste sorte ci aspetta...
    Devo ricordarle che gli ucraini furono arruolati dai nazisti per aiutarli a riconoscere gli ebrei durante la guerra? E che quelli che non portavano la kippà o segni distintivi erano traditi dal loro sguardo, lo “sguardo ebraico”, come dicevano i fanatici di Eichmann?...
    Devo farle tornare alla memoria gli ebrei del ghetto di Varsavia o di Lvov che continuavano a tenere la kippà nonostante i loro carnefici, e che l’hanno tenuta, come gli hassidim di Guer, fino alle porte dell’inferno?...
    Devo ricordarle uno degli ultimi episodi antisemiti in Francia, la ricusazione di un magistrato da parte di un imputato, con la motivazione che il detto magistrato era ebreo? e che questo non ha niente a che vedere con una kippà? Non è questa un’aggressione? Devo ricordarle le donne ebree aggredite, che non erano tutte “praticanti” e spesso non portavano la kippà?...
    E quelli che portano la kippà, che devono fare? Mettere il berretto anche il sabato o solo gli altri giorni? O forse un berretto basco?
    E perché non una jellaba per meglio confondersi in mezzo agli islamisti che gliele suonano di santa ragione?
    Un ebreo si riconosce soltanto dalla kippà? Meno male che non abbiamo gli occhi a mandorla, altrimenti dovremmo agghindarci con degli occhiali da sole!
    Un ebreo con il berretto o con la kippà, è comunque diverso?
    Dovremmo anche nascondere i nostri lulav a Succot, non entrare più in una drogheria “Kasher” e evitare i quartieri a forte densità di negozi ebraici, per non essere riconosciuti per strada?
    Mi rifiuto di ridiventare l’ebreo dhimmi tunisino, marocchino o algerino! Mi rifiuto di trasformarmi in un ebreo che si vergogna, come quelli che lei ed io abbiamo conosciuto nella nostra giovinezza!
    La sua presa di posizione sul velo non era appunto un retro-pensiero sul mantenimento del diritto di portare la kippà? E perché mai fare una simile dichiarazione proprio quando il Presidente della Repubblica ha preso una posizione forte sull’antisemitismo e ha mobilizzato i prefetti di tutta la Francia, atteggiamento che aspettavamo tutti da tre anni?
    A questo proposito, è ridicolo riunire le vittime, quando sarebbe stato più opportuno convocare i rappresentanti del culto musulmano e tenere con loro un linguaggio di fermezza, sapendo che i presunti colpevoli sono usciti dalla comunità magrebina.
    Che cosa penseranno i nostri Maestri di Bne Brak e di Yerushalaim? Qual è la loro opinione in merito? Devono dissimulare la loro kippà, in un paese in cui non c’è antisemitismo di Stato, almeno in apparenza, e in cui la libertà di culto è uno dei principi fondamentali?
    Nei paesi del comunismo, all’epoca delle peggiori persecuzioni contro gli ebrei, nell’URSS di Stalin, gli hassidim habad chiesero al Rabbi di Lubavich quale doveva essere il loro atteggiamento davanti all’oppressore. Allora si trattava di salvaguardare la vita degli ebrei in un ambiente ostile, e le velleità religiose erano punite con la morte o con l’esilio in Siberia. Il Rabbi consigliò di indossare un berretto. E questo non li lascerà più, anche dopo che uscirono dalla Cortina di Ferro, in ricordo di quel periodo eroico.
    Siamo già a questo punto? Ne dubito.
    Mi sembra che un ebreo non debba curvare la testa davanti a un’orda di sfaccendati, di nazistelli da quattro soldi che sono l’onta della loro comunità e discreditano la loro fede.
    Per questo mi rifiuto di rasentare i muri e mi batterò affinché siano i disinibiti antisemiti a farlo, e non abbiano più diritto di cittadinanza, qui e altrove. So bene che portando un berretto non facciamo alcuna concessione alla pratica dei Comandamenti, ma dissimulando la mia kippà io concedo ai razzisti una “vittoria”, senza con ciò impedire loro di nuocermi.
    E non dimentico le parole del Deuteronomio (XXVIII: 9,10)
    «Il SIGNORE ti costituirà suo popolo santo, come ti ha giurato, se osserverai i comandamenti del SIGNORE tuo Dio, e se camminerai nelle sue vie.E tutti i popoli della terra vedranno che tu porti il nome del SIGNORE, e ti temeranno.»
    Mai senza la mia kippà.
    In attesa di essere fra poco in Israele, unico luogo al mondo in cui non rischio di essere trattato da “sporco ebreo”, e quand’anche fosse, sarà soltanto perché avrò omesso di lavarmi...
    Così, Rav Sitruk Chlita, signor Gran Rabbino di Francia, nonostante tutto il rispetto che ho per lei, che ha instaurato lo Yom Hatorah in questo paese, e sapendo tutto l’humour che la caratterizza, mi permetta di non obbedirle...
    E di pregare che tutti coloro che portano la kippà facciano altrettanto...
    
(Guysen Israël News, 23 novembre 2003)




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