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Notizie su Israele 214 - 16 dicembre 2003

1. Menachem Begin, Jimmy Carter e la Linea Verde
2. L'ultima forma di antisemitismo: l'odio contro il sionista
3. Quello che dicono i capi di Hamas su Israele
4. Fatti significativi e inosservati che avvengono in Israele
5. Palestinesi addolorati per la cattura di Saddam
6. Lettera al Presidente della Repubblica Francese
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Salmo 124:1-5. Canto dei pellegrinaggi. Di Davide. Se il Signore non fosse stato in nostro favore, - lo dica pure Israele - se il Signore non fosse stato in nostro favore, quando gli uomini ci assalirono, essi ci avrebbero inghiottiti vivi, talmente erano furiosi contro di noi; allora le acque ci avrebbero sommersi, il torrente sarebbe passato sull’anima nostra; allora sarebbero passate sull’anima nostra le acque tempestose.
1. MENACHEM BEGIN, JIMMY CARTER E LA LINEA VERDE




Menachem Begin e Jimmy Carter
Il giorno in cui
Jimmy Carter
fu messo a tacere



di Yehuda Avner

Il testo che segue è il commovente resoconto, fatto da un testimone oculare, di un incontro avvenuto nel 1977 alla Casa Bianca tra Menachem Begin e Jimmy Carter. L’autore, Yehuda Avner, è stato ambasciatore di Israele nel Regno Unito e consigliere di quattro primi ministri israeliani, tra cui Menachem Begin. L'articolo è apparso la prima volta nel settembre scorso sul "Jerusalem Post", e nella presentazione che abbiamo letto su un altro sito si dice: “Come tutti i ministri israeliani da Ben Gurion a Shamir, e contrariamente a quelli che sono venuti dopo, Menachem Begin aveva fede, visione strategica, spina dorsale di fronte alle pressioni, e una politica ispirata a principi di lungo respiro invece che una tattica guidata da immediate e gratificanti convenienze".

Jimmy Carter, il coltivatore di noccioline, dirigeva in modo austero la Casa Bianca. Coerente con le sue radicate convinzioni calviniste, si era immedesimato nel ruolo di cittadino-presidente. Aveva abolito il Saluto al Presidente, ridotto nettamente il budget per i ricevimenti, venduto lo yacht presidenziale, sfoltito la flotta di limousine, e, in generale, teneva lontano dal suo palazzo ogni tipo di frivolezze e pretenziosità. Si portava sempre da solo la borsa.
    Così, quando nel luglio 1977 accolse alla Casa Bianca il Primo Ministro Menachem Begin con una vistosa, regale cerimonia, con 19 colpi a salve di saluto, una sfilata di tutte le forze armate e una coreografica parata di pifferi della “Army Old Guard Fife” e di tamburi dei “Drum Corps” nella livrea bianca dell’Esercito Rivoluzionario, i media si chiesero a ragione se questa gentilezza era oro puro o semplice adulazione. L’ambasciatore americano Samuel Lewis pensava che ci fosse un po’ di entrambe le cose: “Il presidente è convinto che da Begin si otterrà qualcosa di più con il miele che con l’aceto”, disse.
    I colloqui infatti ebbero un discreto avvio. I due leader e i loro consiglieri si scambiarono i punti di vista su questioni cruciali come la pace israelo-araba, l’illegittima azione sovietica nel Corno d’Africa, la minaccia dell’OLP nel sud del Libano.
    Poi ci fu la pausa. Il presidente e il premier sorserggiavano il caffè in silenzio, studiandosi a vicenda come per tacito consenso, in preparazione di quello che sarebbe avvenuto dopo.
    E quello che avvenne dopo fu una presentazione estremamente dettagliata del credo del Likud sui diritti inalienabili del popolo ebraico su Eretz Israel.
    Essendo quello il primo summit tra un premier del Likud e un presidente americano, Menachem Begin era deciso a far sì che Jimmy Carter ascoltasse con le sue orecchie la voce di quello che lui rappresentava. Il Segretario di Stato, Cyrus Vance, una persona di solito molto tranquilla, cominciò un ad agitarsi un po’ quando sentì dire che Israele non avrebbe rinunciato né alla Giudea, né alla Samaria, né alla striscia di Gaza. Obiettò che questo avrebbe vanificato tutti i piani di pace per la conferenza di Ginevra. E anche il presidente pensava la stessa cosa.
    Carter indossò la maschera dell’educazione e rimase immobile ad osservare i suoi appunti scritti in ordinata calligrafia, vincolato alla sua responsabilità di inquilino della Casa Bianca. Ma dalle sue mascelle serrate si poteva capire che tratteneva l’irritazione. Nel suo acuto accento georgiano dopo poco disse: “Signor Primo Ministro, la mia impressione è che la sua insistenza sui vostri diritti in Cisgiordania e a Gaza potrebbe essere interpretata come un indizio di mala fede. Potrebbe essere un’evidente manifestazione della vostra volontà di rendere permanente l’occupazione militare di quelle aree. Questo farebbe cadere ogni speranza di trattative. Sarebbe incompatibile con le mie responsabilità di Presidente degli Stati Uniti se non glielo dicessi nel modo più chiaro e schietto possibile. Signor Begin,” gridò con un’esasperazione che accendeva i suoi azzurri occhi di ghiaccio, “non ci può essere nessuna occupazione militare permanente di quei territori conquistati con la forza.”
    Noi funzionari israeliani, seduti attorno alla tavola delle conferenze nella Sala del Consiglio dove si teneva la riunione, ci scambiavamo sguardi con la coda dell’occhio. Ma Begin si era ben preparato a quell’incontro con il Presidente del post-Watergate e del rinnovamento morale: Carter, il predicatore con tendenza all’autogiustizia.
    Si appoggiò allo schienale, e con occhi ingannevolmente miti alzò lo sguardo sopra il capo del Presidente, fissando l’antico lampadario di bronzo che pendeva sulla grande tavola di quercia. Non stava per perdere le staffe. Sapeva che lui e il Presidente si muovevano su traiettorie differenti, e che il confronto sull’insediamento nella biblica Terra Promessa era senza sbocchi. Carter era un osso duro, come lui. Non si sarebbe piegato.
    Tuttavia, doveva fare qualcosa per persuadere quell’uomo pronto a giudicare, che pensava di avere il compito di raddrizzare le cose, quell’energico decisionista con la mente empirica di un ingegnere. Doveva cercare di convincerlo che lui voleva veramente e onestamente la pace, e che i territori non erano soltanto una questione di diritti storici, ma anche di sicurezza vitale.
    Così, quando tornò a posare lo sguardo su Carter il suo atteggiamento era grave e deciso.
    “Signor Presidente,” disse, “voglio dirle qualcosa di personale, non su di me, ma sulla mia generazione. Quello che lei ha udito poco fa riguardo ai diritti del popolo ebraico sulla Terra di Israele, a lei può sembrare accademico, teorico, perfino discutibile. Ma non alla mia generazione. Per la mia generazione di Ebrei, questi legami eterni sono verità irrefutabili e incontrovertibili, antiche come il tempo che è trascorso. Essi toccano il cuore stesso della nostra identità nazionale, perché noi siamo un’antica nazione che torna a casa. La nostra è come una generazione biblica di sofferenze e coraggio. Siamo la generazione della Distruzione e della Redenzione. Siamo la generazione che si è risollevata dall’abisso senza fondo dell’inferno.”
    La sua voce era magnetica, il suo tono profondo e pensoso, come se attingesse a generazioni di ricordi. L’ardore di quel linguaggio provocò l’intensa attenzione di tutta la tavola.
    “Eravamo un popolo senza speranza, signor Presidente. Siamo stati dissanguati, non una o due volte, ma per secoli e secoli, sempre di nuovo. Abbiamo perso un terzo del nostro popolo in una generazione: la mia. Un milione e mezzo di loro erano bambini: i nostri. Nessuno è venuto in nostro soccorso. Abbiamo sofferto e siamo morti da soli. Non abbiamo potuto fare niente. Ma adesso possiamo. Adesso possiamo difendere noi stessi.”
    Improvvisamente si alzò in piedi, con la faccia dura come l’acciaio.
    “Ho una carta,” disse con decisione. Un assistente aprì bruscamente una carta di un metro per due tra i due uomini. “Non c’è niente di speciale da dire su questa carta,” continuò Begin. “E’ una normale carta del nostro paese, che mostra la vecchia linea di armistizio che esisteva fino alla Guerra dei Sei Giorni, la cosiddetta Linea Verde.” Fece correre il dito lungo la vecchia frontiera che arrivava serpeggiando fino al centro del paese. “Come vede, i nostri cartografi militari hanno semplicemente indicato l’infinitesima misura di profondità difensiva che abbiamo avuto in questa guerra.”
    Si appoggiò sulla tavola e indicò la zona montagnosa colorata in marrone scuro che copriva il settore nord della carta. “I Siriani occupavano la cima di questi monti, signor Presidente. E noi eravamo in basso.” Il suo dito indicò le alture del Golan e si fermò poi sulla stretta striscia verde di sotto. “Questa è la valle di Hula. E’ larga appena 10 miglia. Dalla cima di queste montagne loro cannoneggiavano le nostre città e i nostri villaggi, giorno e notte.”
    Carter osservava, con la mano sotto il mento. L’indice del Primo Ministro si mosse verso sud, in direzione di Haifa. “La linea dell’armistizio è distante appena 20 miglia dalla nostra più grande città portuale”, disse. Poi arrivò a Netanya: “Qui il nostro paese si riduce ad un'esigua cintura larga meno di 10 miglia.”
    Il Presidente annuì. “Capisco,” disse.
    Begin però non era sicuro che lui capisse. Il suo dito tremava e la sua voce rimbombava: “Nove miglia, signor Presidente. Inconcepibile! Indifendibile!”
    Carter non fece alcun commento.
    Il dito di Begin si posò poi su Tel Aviv e cominciò a martellare la carta: “Qui vivono milioni di Ebrei, 12 miglia da un’indifendibile linea di armistizio. E qui, tra Haifa al nord e Ashkelon al sud” - il suo indice andava su e giù lungo la pianura costiera - “vivono i due terzi di tutta la nostra popolazione. E questa pianura costiera è così stretta che un’incursione di una colonna di carri armati potrebbe dividere in due il paese in pochi minuti. Perché chi tiene queste montagne” - e il suo dito picchiava sulle colline di Giudea e Samaria - “tiene in pugno la vena giugulare di Israele.”
    I suoi occhi scuri e attenti percorsero le facce impietrite dei potenti uomini che sedevano davanti a lui, e con la convinzione di uno che aveva dovuto lottare per ogni cosa che aveva ottenuto, dichiarò seccamente: “Signori, da queste linee non si torna indietro. Con un vicinato così crudele e spietato come il nostro, nessuna nazione può rendersi così vulnerabile e sopravvivere.”
    Carter si piegò in avanti per ispezionare meglio la carta, ma continuò a non dire niente. I suoi occhi erano indecifrabili come l’acqua.
    “Signor Presidente,” continuò Begin in un tono che non ammetteva repliche, “questa è la carta della nostra sicurezza nazionale, e uso questo termine senza enfasi e nel senso più letterale. E’ la carta della nostra sopravvivenza. La differenza tra il passato e il presente sta proprio qui: sopravvivenza. Oggi gli uomini del nostro popolo possono difendere le loro donne e i loro bambini. Nel passato non hanno potuto. Infatti, hanno dovuto consegnarli ai loro carnefici nazisti. Siamo stati terziati, signor Presidente.”
    Jimmy Carter alzò la testa: “Che significa questa parola, signor Primo Ministro?”
    “Terziati, non decimati. L’origine della parola ‘decimazione’ è uno su dieci. Quando una legione romana si rendeva colpevole di insubordinazione, uno su dieci veniva passato a fil di spada. Nel nostro caso è stato uno su tre: terziati!”
    Poi, con occhi umidi e voce risoluta, ostinata, pesando ogni parola, dichiarò: “Signori, io faccio un giuramento davanti a voi nel nome del Popolo Ebraico: QUESTO NON SUCCEDERÀ MAI PIÙ!” E si lasciò cadere sulla sedia.
    Strinse le labbra che cominciavano a tremare. Fissò la carta, lottando per trattenere le lacrime. Serrò i pungni e li premette così forte contro la tavola che le sue nocche diventarono bianche. Rimase lì, a capo chino, col cuore rotto, dignitoso.
    Un silenzio di tomba si fece nella sala. Afferrato dalla sua personale memoria dell’infernale Shoà, Begin guardava oltre Jimmy Carter, con uno strano riserbo negli occhi. Era come se il suo sguardo penetrasse quel ‘nato di nuovo’, quel Presidente battista del sud, partendo dall’interno di sé stesso, da quel profondo, intimo luogo ebraico di infinito lamento e eterna fede: un luogo di lunga, lunga memoria. Lì si era rifugiato, in compagnia di Mosè e dei Maccabei.
    Il Presidente Carter abbassò la testa e rimase in un atteggiamento di rispettoso, gelido silenzio. Gli altri guardavano altrove. Improvvisamente si fece udire il ticchettio dell’antico orologio sulla mensola di marmo del cammino. Un’eternità sembrava che passasse tra un tic e l’altro. Il silenzio pesava. Come un colpo di fulmine era arrivata la notizia della determinazione nazionale a non tornare mai più indietro da quelle linee.
    Gradualmente, con movimenti lenti il Primo Ministro si drizzò in tutta la sua altezza e la stanza riprese vita. Delicatamente Carter suggerì di fare una pausa, ma Begin disse che non era necessario. Aveva fatto il suo dovere.

(Jerusalem Post, 12.09.2003, con autorizzazione)





2. L'ULTIMA FORMA DI ANTISEMITISMO: L'ODIO CONTRO IL SIONISTA




Scappate ebrei, scappate!

di Deborah Fait
     
Correva l'anno 1391 quando per le comunità ebraiche di Castiglia e di Aragona incomiciarono le persecuzioni più crudeli  e devastanti mai organizzate prima di allora dalla cristianità: migliaia di ebrei  bruciati sui roghi, migliaia di ebrei furono sottoposti a conversioni forzate, migliaia di ebrei tentarono di fuggire sparpagliandosi un po' dovunque.
    Nel 1478, grazie a Ferdinando di Castiglia e Isabella d'Aragona, con uno sponsor d'eccezione,  Papa Sisto IV, nacque ufficialmente l'Inquisizione ed ebbe inizio uno dei periodi più crudeli, lunghi  e penosi del martirio imposto agli ebrei   e uno dei fenomeni più strani e tristi della storia ebraica europea: il marranesimo.
    La storia degli ebrei d'Europa è trascorsa  tra un'espulsione e l'altra, tra una persecuzione e l'altra ma in Spagna essi avevano radici profonde, avevano raggiunto posizioni prestigiose e lasciato tracce di cultura, civiltà e di economia talmente importanti da influenzare la storia e la vita del continente fino ai nostri giorni.
    Nel 1492 gli ebrei di Spagna furono espulsi e il 2 agosto, 9 di Av, ancora oggi giorno di lutto, salutarono i loro morti e in alcuni casi anche i loro vivi, i conversos, e lasciarono la terra amata con un dolore tale da non essere mai più cancellato. Fuggirono, costretti ad abbandonare i loro beni e le loro case, i ricordi e le radici e arrivarono in Nord Africa, in Turchia, nelle Americhe. Vagarono attraverso l'Europa. l'ebreo errante. Un popolo costretto a diventare nomade.
    Scappate ebrei, scappate . Scappate.
    La vita dei marrani fu, se possibile, ancora più stressante e pericolosa. L'ebreo sapeva di essere preso prima o poi, era quasi rassegnato, il converso sperava di no, credeva di essere bravo a fingere e a recitare la parte del cristiano. Questa tenue speranza rendeva  la paura più insopportabile.
    Quattrocento anni di  terrore,  inestinguibile terrore di essere scoperti, in Spagna e altrove, riconosciuti come ebrei e messi in un piccolo forno di metallo sotto il quale il boia accendeva un bel fuoco. Era questa la punizione per i marrani che involontariamente si tradivano, venivano denunciati e portati davanti a quegli inquisitori col cappuccio in testa. Non il rogo, punizione considerata  troppo umana per chi offendeva Cristo. Per i marrani c'era il forno dove venivano infilati a forza,  vivi, urlanti  e legati.   
    Le comunità ebraiche d'Europa furono distrutte e i sopravissuti  dovettero scegliere tra un esilio dopo ogni esilio e il marranesimo.
    Scappate ebrei. Scappate, scappate.
    Nel 1834 fu abolita l'Inquisizione ma il fenomeno del marranesimo non finì mai e, con orrore, ci siamo resi conto che dura tuttora.
    La caccia agli ebrei sembra essere lo sport preferito in Europa e questo popolo martirizzato ha sempre dovuto inventarsi tutti i trucchi possibili per non farsi riconoscere e salvare i propri figli dai forconi, dai pogrom, dalle decapitazioni, dagli stupri fino ad arrivare alla battuta di caccia finale, la più grande, quella che avrebbe dato più soddisfazione ai predatori, quella che ebbe inizio negli anni 30/40 del secolo appena trascorso.
    Quanti ebrei si convertirono al cristianesimo nel tentativo di salvarsi, quanti ebrei si finsero di pura razza ariana e battezzarono i loro figli per salvarli ma ancora una volta niente servì se non la fuga.
    Scappate ebrei, scappate. Scappate.
    Quelli che non riuscirono a fuggire  finsero inutilmente di non essere ebrei. Erano tedeschi, italiani , francesi, polacchi, danesi, cosa avevano di diverso dagli altri?
    Ma anche questa volta li attendeva un forno, più grande , più moderno naturalmente, e furono di nuovo condannati a bruciare e a diventare cenere. 
    Siamo nel terzo millennio. Il terzo millennio. Abbiamo avuto Michelangelo, l'Inquisizione,  Mozart e la Shoà. Pensavamo, speravamo che l'Europa non odiasse più, che tutto il male fosse finito, niente più persecuzioni, niente più marrani, basta fughe, basta basta basta! Invece l'odio è sempre vivo e palpitante. Questa volta non c'entra Cristo, non c'entra nemmeno la razza. Questa volta c'è un Paese che non viene accettato, cui non si da il permesso di difendersi, una Nazione che si vuole distruggere. L'odio questa volta non è solo contro il giudeo, né soltanto contro l'ebreo, l'odio è contro il sionista. 
    L'antisemitismo è sempre  pieno di risorse.
    Ebrei dove siete? vogliamo uccidervi, dobbiamo uccidervi, vi odiamo. Dove siete ebrei ? Ecco, là c'è uno colla Kippà in testa, forza , dagli al sionista, bastonatelo, ammazzatelo.
    Il Rabbino di Francia consiglia agli ebrei di farsi marrani ancora una volta. Nascondetevi ebrei, mettetevi un berretto in testa, non fategli capire che siete "quel" popolo.
    Scappate. Scappate. Scappate.......lasciate questa Europa che pure amate appassionatamente, scappate ebrei. "Vietato l'ingresso a spie, omosessuali ed ebrei" . Le scritte ritornano, tornano le fughe, la paura, il terrore. Non vi salverà nascondere la Kippà né farvi marrani perché i servi della kafiah, i buonisti, i pacifisti  vedono il vostro sguardo, lo conoscono bene, lo hanno studiato per 20 secoli.
    Quello sguardo  vi tradisce. Vi ha sempre tradito. Lo hanno detto, lo dicono ancora, vi riconosceranno sempre.Avete lo sguardo da ebreo, ebrei, scappate. 
    
(Informazione Corretta, 13.12.2003)





3. QUELLO CHE DICONO I CAPI DI HAMAS SU ISRAELE




«La sparizione d’Israele è una realtà storica naturale e ineluttabile»

Il quotidiano Maariv, nella sua edizione di martedì 9 dicembre, cita

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degli estratti di un’intervista accordata dal capo del dipartimento “politico” di Hamas, Khaled Mashal, al giornale arabo Al Hayat. Nell’incontro il capo terrorista ha detto che la sua organizzazione non vuole “buttare a mare gli ebrei”, considerandolo un cliché ormai fuori moda, e ha fatto sapere che Hamas non ha più l'obiettivo di “uccidere ebrei”. Ma dopo questi propositi apparentemente rassicuranti ha precisato che “la sparizione d’Israele non è soltanto il desiderio dei palestinesi, degli arabi o dei musulmani, ma che si tratta di una realtà storica naturale e ineluttabile”.
    Ha poi ricordato i rapporti tra Hamas e Yasser Arafat, assicurando che sono cordiali, e che legami profondi uniscono la sua organizzazione anche alla Jihad islamica.
    Affrontando infine la questione dell’intifada armata, Mashal ha detto che “i palestinesi hanno riportato numerosi successi e hanno dimostrato la loro capacità di indebolire il nemico”. E ha concluso: “Se potessimo mettere fine all’occupazione senza spargimento di sangue, perché no? Ma la logica storica ci dimostra che questo è irrealizzabile».
    
(Arouts 7, 10.12.2003)

*


«La Jihad è l’unica via», dice Abdel Asis Rantisi

GAZA - Il gruppo radical-islamico Hamas proseguirà la sua lotta armata contro Israele. Questo ha ripetuto sabato scorso [13 dicembre] uno dei capi di Hamas, Abdel Asis Rantisi, nel festeggiamento del sedicesimo anniversario dell’organizzazione terroristica.
    «I militanti di Hamas esploderanno in mezzo alla società israeliana», ha detto Rantisi davanti a migliaia di seguaci di Hamas nel campo profughi Jabalia nel nord della striscia di Gaza. Così riferisce il quotidiano “Ma´ariv”.

Nel campo profughi Nuseirat dei dimostranti colpiscono con asce l'immagine di Sharon rappresentato come un vampiro.


“La Jihad è l’unico modo per riprendere al nemico sionista i diritti che ci ha rubato”, ha continuato il leader di Hamas. “Fra poco Israle soccomberà e sparirà. L’intifada ha costretto più di 700.000 israeliani a lasciare Israele, perché continua a ricevere pesanti colpi.”
    Rantisi ha anche criticato l’”Iniziativa di Ginevra”. Lui respinge quel contratto, perché è stato siglato da israeliani e palestinesi “non ufficiali”. Il documento rappresenta “una pericolosa rinuncia” ai diritti del popolo palestinese, ha sottolineato il leader di Hamas. “Hamas continuare a perseguire la scelta della Jihad e della resistenza per la liberazione della Palestina dall’occupazione israeliana.
    
(Israelnetz.de, 15.12.2003)





4. FATTI SIGNIFICATIVI E INOSSERVATI CHE AVVENGONO IN ISRAELE




Il mufti di Gerusalemme vieta ai palestinesi di rinunciare al "ritorno"

Due settimane dopo aver emesso una fatwa (editto religioso) che vieta ai musulmani di lavorare alla costruzione della barriera difensiva fra Israele e Cisgiordania, il mufti di Gerusalemme Ikremah Sabri, nominato sette anni fa da Yasser Arafat, ha annunciato il divieto per tutti i palestinesi di rinunciare al cosiddetto "diritto al ritorno" (dei profughi e di tutti i loro discendenti all'interno di Israele anche dopo la nascita dello stato palestinese).
    In un'intervista al sito arabo israeliano arabs48.com, il mufti di Gerusalemme ha anche detto che e' proibito accettare indennizzi economici in cambio della rinuncia al "diritto al ritorno".
    "Il diritto di tornare nelle proprie case passa ai figli e ai nipoti - ha sostenuto Sabri - e nessuna persona o ente e' autorizzato a interferire con questo diritto o ad abbandonarlo. Tutta la terra di Palestina [Israele compreso] non e' in vendita perche' e' waqf, patrimonio religioso islamico. Accettare soldi in cambio della terra significa venderla e questo e' proibito da fatwa precedenti [che vietano la vendita di terra da parte di islamici ad ebrei]. Voglio sottolineare - ha concluso il mufti dell'Autorita' Palestinese - che un diritto resta valido per sempre e non svanisce con il tempo, ne' con le circostanze politiche e internazionali. Se non sono in grado oggi di ottenere questo diritto, questo non significa che io vi abbia rinunciato".
    La scorsa settimana un'analoga fatwa che vieta la rinuncia al "sacro diritto al ritorno" era stata emessa dal Consiglio degli Studiosi Religiosi [islamici] Palestinesi.

(israele.net, 11.12.03 - dalla stampa israeliana)

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Un significativo esempio di democrazia

Un avvenimento ricco di significato, ma del tutto passato inosservato, è avvenuto la settimana scorsa nella Knesset israeliana. Quel giorno presiedeva la seduta un deputato arabo (sì, avete letto bene, un deputato arabo presidente di seduta del Parlamento dello Stato ebraico). E’ regola della Knesset che se un deputato viene richiamato all’ordine per tre volte dal presidente per turbamento allo svolgimento della seduta, deve essere espulso dall’aula, se necessario anche con la forza. Dunque, quel giorno un deputato religioso si era rifiutato di tacere nel corso di un alterco. Il presidente arabo l’ha richiamato all'ordine tre volte e poi l’ha espulso.
    Lo Stato “razzista” d’Israele è uno Stato democratico, ed è anche in cose come queste che la democrazia si esprime. Nessuno ne ha parlato, ma la cosa non sorprende: mostrare Israele sotto una luce favorevole non interessa quasi nessuno.

(da Guysen Israel News, 14.12.2003)





5. PALESTINESI ADDOLORATI PER LA CATTURA DI SADDAM




Shock e incredulita' fra i palestinesi di Cisgiordania e Gaza alla notizia della cattura di Saddam Hussein. Molti hanno espresso profonda delusione nel vedere un uomo, che ai loro occhi impersonava la sfida contro Stati Uniti e Israele, arrendersi senza opporre la minima resistenza. L'Autorita' Palestinese ha evitato di commentare il fatto, ma un alto funzionario palestinese a Ramallah ha detto che il presidente Yasser Arafat e' "rattristato" per le notizie che giungono dall'Iraq. "Arafat e' rattristato nel vedere un leader arabo in una posizione umiliante", ha detto il funzionario.
    Per quasi vent'anni Saddam Hussein e' stato glorificato dai palestinesi come un eroe delle masse arabe, come il solo capo arabo capace di affrontare Stati Uniti e Israele. Durante la prima guerra del Golfo (1991) la popolazione palestinese danzava di gioia sui tetti delle case mentre i missili Scud lanciati dall'Iraq di Saddam cadevano su Israele. Arafat fu uno dei pochissimi capi arabi a recarsi in visita a Baghdad per esprimere sostegno a Saddam e alla sua invasione del Kuwait, una mossa che successivamente costo' l'espulsione per rappresaglia di centinaia di migliaia di palestinesi dal Kuwait e da altri stati del Golfo. La decisione di Arafat di schierarsi con Saddam provoco' anche una grave crisi finanziaria nell'Olp perche' i ricchi regimi arabi petroliferi decisero di tagliare i loro aiuti economici all'organizzazione palestinese. Negli anni successivi Saddam ricompenso' la fedelta' dell'Olp donando ad Arafat almeno 50 milioni di dollari.
    Negli ultimi tre anni Saddam e' stato il leader arabo che ha versato milioni di dollari in donazioni alle famiglie dei "martiri" palestinesi, comprese le famiglie degli attentatori suicidi che ricevevano dai 10 ai 20.000 dollari. Questi pagamenti non fecero che accrescere la popolarita' del dittatore iracheno fra i palestinesi. Agli inizi di quest'anno, quando gli anglo-americani minacciavano di attaccare l'Iraq per far cadere il regime di Saddam, i palestinesi inscenarono massicce manifestazioni in appoggio al sanguinario dittatore di Baghdad cantando "Beneamato Saddam, bombarda Tel Aviv". Questa volta, tuttavia, la dirigenza dell'Autorita' Palestinese e' stata piu' cauta e non ha preso pubblicamente posizione a fianco del tiranno iracheno. In privato, comunque, alti rappresentati dell'Autorita' Palestinese dichiaravano apertamente il loro appoggio a Saddam Hussein di fronte alla "aggressione americana". La caduta di Baghdad il 9 aprile scorso fu considerata da molti palestinesi come una nuova "nakba" (catastrofe, il termine utilizzato dai palestinesi per indicare la nascita di Israele nel 1948).
    Quando iniziarono a diffondersi le prove e le testimonianze delle atrocita' commesse da Saddam, alcuni palestinesi cambiarono opinione, spiegando che in precedenza non erano al corrente delle dimensioni dei crimini perpetrati dal regime Ba'athista (peraltro da tempo noti in tutto il mondo). Cio' non impedi' ai mass-media palestinesi di continuare ad appoggiare gli attacchi della "resistenza" filo-Saddam contro i soldati anglo-americani e i loro alleati, tracciando un esplicito parallelo con gli attacchi palestinesi contro gli israeliani.
    Domenica per le strade di Ramallah molti palestinesi si dicevano addolorati e sconvolti per la cattura di Saddam. "E' una grande perdita per la nazione araba - dice ad esempio Jihan Ajlouni, uno studente di 24 anni - Saddam era uno dei grandi leader arabi che appoggiavano il popolo palestinese. Oggi siamo tristi e diciamo a tutti i traditori e collaboratori: non festeggiate troppo, perche' ci sono milioni di Saddam nel mondo arabo".
    "E' una giornata nera per tutti i palestinesi e per tutti gli arabi e musulmani - dice Fathi Salman, 50 anni, taxista - Ancora non posso credere che il presidente Saddam sia stato catturato dagli americani. Saddam era il solo leader arabo che si preoccupava per noi e appoggiava la lotta palestinese. E' un peccato che non si sia battuto".
    Khairiyeh Said, 43 anni, insegnante, dice d'aver pianto quando ha visto Saddam agli arresti. "Ero con le mie amiche davanti al televisore e abbiamo iniziato tutte a piangere - dice Said - Noi amiamo Saddam e odiamo Bush e Sharon. Speriamo che la resistenza del popolo iracheno dia ora una lezione ai cani americani".
    Michael Hanna, 28 anni, ingegnere, e' uno dei pochissimi palestinesi che esprime soddisfazione per la cattura di Saddam. "Saddam e' responsabile dell'uccisione di migliaia di persone del suo stesso popolo - dice Hanna - e merita di morire. Non provo alcuna simpatia per lui o per gli altri dittatori arabi. Spero che venga processato e giustiziato. Questo dovrebbe servire da lezione per altri tiranni arabi corrotti. Spero che il popolo iracheno possa ora vivere in pace, perche' ha sofferto troppo a lungo sotto Saddam e la sua famiglia".
    Abdel Kader, uno dei maggiori capi del movimento Fatah, dice che i palestinesi sono delusi che Saddam non abbia cercato di combattere. "Sarebbe stato meglio se fosse rimasto ucciso - dice Kader - Almeno sarebbe morto con onore. Questo dimostra come sono codardi i tiranni".
    Abdel-Aziz Rantisi, portavoce di Hamas a Gaza, ha dichiarato che gli Stati Uniti "pagheranno un prezzo pesante per l'errore" d'aver catturato Saddam. "Cio' che hanno fatto gli Usa - ha detto Rantisi alla Reuters - e' abietto e spregevole, e' un insulto a tutti gli arabi e un insulto ai musulmani".
    
(Jerusalem Post, Ha'aretz, 15.12.2003 - israele.net)





6. LETTERA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FRANCESE




di Michel Grinberg

Anche se Saddam Hussein non è stato ancora giudicato, ormai è politicamente morto. In questa occasione, volevo porgerLe le mie condoglianze per la perdita d’un amico di così lunga data e a Lei così caro (e del resto anche ai contribuenti francesi!).
    Da quando Lei si è assunto delle responsabilità politiche, non ha mai smesso di sostenere il presidente iracheno. Gli ha fornito una centrale nucleare, gli ha offerto crediti estremamente elevati, ha cercato di mantenerlo il più possibile al potere e di contenere l’embargo contro di lui, ha preso la testa della campagna alle Nazioni Unite per salvare il suo regime e perfino, secondo alcuni, gli ha trasmesso documenti segreti durante le ultime trattative che hanno preceduto la liberazione dell’Iraq da parte degli alleati. Ha perfino impegnato il suo ufficio agli Affari Esteri in un’attività a 360 gradi per dare vita a un partito della ... pace (del resto, anche in Israele sanno che cos’è un partito della ... pace). E’ il partito di quelli pronti a scendere a patti con i dittatori, a firmargli assegni in bianco e a coprire le turpitudini e i crimini che hanno commesso contro i loro nemici, ma anche con i loro concittadini.
    Lei merita infine la gratitudine d’una gran parte della classe politica francese dall’estrema sinistra all’estrema destra - che non ha mai mancato di fare il viaggio a Bagdad - e la riconoscenza della maggior parte dei media, che per questo non avevano bisogno di essere ai suoi ordini.
    Ma un comunicato ci fa sapere che “il Presidente della Repubblica si rallegra dell’arresto di Saddam Hussein”. Veramente, lo trova bello? bello?
    
(Guysen Israel News, 15.12.2003)

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NOTA DI COMMENTO - Una lettera dello stesso tenore potrebbe essere scritta anche a Karol Woityla, con cui Chirac era in grande sintonia. Ricordiamo che nel marzo scorso Chirac gli scrisse un’accorata lettera aperta che iniziava così:

    «Santo Padre, mentre in Iraq sono in corso le operazioni militari, desidero rivolgere a Vostra Santità tutti i miei sentimenti di stima e di riconoscenza per gli instancabili sforzi profusi al fine di preservare fino all'ultimo momento le possibilità di pace e di mobilitare in questa direzione tutti gli uomini di buona volontà. Anche la Francia si è sforzata di convincere i suoi partner che si poteva ottenere il necessario disarmo dell'Iraq attraverso mezzi pacifici, nel rispetto del diritto internazionale e delle competenze dell'organizzazione delle Nazioni Unite. ecc.» [ved. Notizie su Israele 163].
Il loquace personaggio che sulla terra si fa chiamare "Santo Padre", in contrasto con le esplicite parole di Gesù che ha detto: "Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli" (Matteo 23:9),  in questi giorni è molto parco di parole riguardo alla cattura di Saddam, proprio come Arafat. Prima della guerra però era molto loquace e attivo. Ricordiamo che ricevette con tutti gli onori Tareq Aziz, l'uomo di fiducia di Saddam,  pensando evidentemente che la salvezza del regime del sanguinario criminale iracheno avrebbe contribuito alla causa della "pace". In Vaticano, infatti, sono tutti membri del "partito della pace".  M.C




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