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Notizie su Israele 221 - 3 febbraio 2004

1. La legge sulla laicità in Francia
2. Commento del Ministro degli Esteri tedesco sulla Shoah
3. Un comitato della Knesset per i contatti con i cristiani
4. Culto della morte nel terrorismo islamico
5. Editorialista svizzero prende posizione contro il terrorismo
6. Le molte facce dell'antisemitismo
7. Primate cattolico contro la giudaizzazione di Gerusalemme
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Michea 7:18-20. “Quale Dio è come te, che perdoni l’iniquità e passi sopra alla colpa del resto della tua eredità? Egli non serba la sua ira per sempre, perché si compiace di usare misericordia. Egli tornerà ad avere pietà di noi, metterà sotto i suoi piedi le nostre colpe e getterà in fondo al mare tutti i nostri peccati. Tu mostrerai la tua fedeltà a Giacobbe, la tua misericordia ad Abraamo, come giurasti ai nostri padri, fin dai giorni antichi.”
1. LA LEGGE SULLA LAICITA' IN FRANCIA




Non esitiamo più!


Un gruppo di intellettuali francesi ha pubblicato sul giornale "L'Express" un appello che invita ad affrettare l'approvazione di una legge che garantisca il mantenimento della laicità e vieti l'uso del velo islamico nelle scuole. Ne riportiamo alcuni estratti.


«Nel momento in cui il dibattito sulla laicità scolastica entra in una fase decisiva, vogliamo portare il nostro motivato appoggio al principio di una legge di chiarificazione e rappacificazione. Il dibattito pubblico che da diversi mesi sta avvenendo è di grande utilità. Ha mostrato qual è la vera posta in gioco della laicità. Ha anche rivelato le vere intenzioni di coloro che rivendicano per le religioni l'illimitata li- bertà di occupare lo spazio scolastico e i servizi pubblici.
L'offensiva dei comportamenti dettati da spirito di appartenenza e neganti lo spazio repubblicano ha invaso la stessa scuola, e in questo modo ha manifestato una volontà di destabilizzare i principi laici e repubblicani. Coloro che credevano che si potesse accettare il velo islamico isolandolo da altre rivendicazioni integraliste si sono sbagliati.
    Diventa dunque chiaro, allo stato attuale dell'evoluzione degli spiriti, che l'abbandono di un progetto di legge sarebbe avvertito come un'incredibile ritirata sul principio di laicità e come un totale consenso agli sconfinamenti integralisti.
    Coloro che raccomandano di astenersi dal legiferare e avanzano l'idea secondo cui il trattamento dei problemi di laicità scolastica sarebbe soltanto di ordine sociale e di competenza di una politica di integrazione, si sbagliano di grosso. Che ci siano delle cause sociali alla base della crescita integralista, è indubitabile. Ma questa è ormai in grado di danneggiare a tal punto i valori comuni di laicità che occorre un trattamento specifico di questo problema, che implichi una riaffermazione netta della laicità stessa. Mettiamo in guardia coloro che adesso raccomandano l'abbandono del progetto di legge sulle gravi conseguenze che avrebbe questa ritirata, perché non sarebbe un semplice ritorno allo statu quo. Sarebbe un chiaro messaggio agli integralisti, ai quali si dice che fanno bene ad attaccare la laicità scolastica. Sarebbe anche, per la grave mancanza di coerenza dei vertici dello Stato, un brutto colpo portato alla democrazia repubblicana.
    [...]
    Poiché una legge è necessaria, ci auguriamo che sia senza ambiguità e in rottura con le attuali carenze della giurisprudenza. Ecco perché i parlamentari che insistono sulla nozione di «segno visibile» vanno nella direzione giusta. E' importante precisare che questo ritiro dei segni visibili deve riguardare ciò che appare sui vestiti, e deve imporre agli studenti l'obbligo di avere la testa scoperta a scuola.
    Inoltre, nella misura in cui si deve contrastare il mescolamento politico-religioso caratteristico degli integralismi, non vediamo per quale motivo la legge non corrisponderebbe a una tradizione di discrezione, sia politica che religiosa. Questa posizione non implica affatto un divieto nella scuola di scambi, di dialoghi sui problemi politici e religiosi.
    Infine, capiamo poco la paura manifestata dai responsabili religiosi su una qualsiasi minaccia per le libertà pubbliche. Il problema posto riguarda la scuola, la quale, per essere pubblica, non è lo spazio pubblico della strada o dei media. A questo proposito, sembra illogico accordare ai musulmani, nella scuola pubblica, quello che i cristiani hanno cessato di rivendicare. Questa esigenza di discrezione riguarda anche gli agenti di servizi pubblici nell'esecizio delle loro funzioni, cosa che il progetto di legge dimentica. Nessuno sogna, in Francia, di rimettere in questione la libera espressione delle convinzioni nello spazio pubblico della strada o dei media. La legge del 1905 non è minacciata.
    [...]
    Se si abbandona ogni angelismo, si deve riconoscere che lo stabilimento di giuste relazione tra le religioni e lo Stato laico provocherà inevitabilmente dei momenti di conflitto. Ma la laicità francese offre sufficienti possibilità per trattare nel miglior modo questi conflitti.
    Invitiamo quindi i parlamentari, nostri eletti, a una posizione chiara, massiccia, che corrisponda al desiderio, largamente maggioritario nella popolazione, di avere una legge che espliciti i principi di laicità nella scuola e nei servizi pubblici. Dei principi che fino a ieri erano accettati per tradizione, ma il cui richiamo oggi è indispensabile.
    
I firmatari:
Leïla Babès, professore di sociologia all'università cattolica di Lille.
Elisabeth Badinter, filosofo.
Soheib Bencheikh, mufti di Marsiglia, membro del Consiglio francese del culto musulmano.
Ali Bouamama, direttore del dipartimento di studi arabi e islamici all'università Marc-Bloch a Strasburgo.
Guy Coq, filosofo.
Betoule Fekkar-Lambiotte, membro dimissionario del Consiglio francese del culto musulmano.
Alain Finkielkraut, professore alla Scuola politecnica.
Elisabeth de Fontenay, filosofo.
Catherine Kintzler, filosofo.
Paul Thibaud, scrittore.

(da "L'Express", 2 febbraio 2004)




2. COMMENTO DEL MINISTRO DEGLI ESTERI TEDESCO SULLA SHOAH




Testo dell´intervento del ministro Joshka Fischer alla conferenza internazionale della Fondazione Heinrich Böll del 28-30 gennaio 2004.


Vedere l'Olocausto in atto


di Joshka Fischer

  Mentre scorrevo il giornale come ogni mattina, prima di recarmi al Bundestag, sono stato colpito dalla foto scattata da un aereo di ricognizione britannico: il lager di Auschwitz-Birkenau. L´ho ritagliata, senza sapere bene perché. Lo faccio a volte, quando trovo qualche saggio o documento storico interessante. In un secondo tempo ho ripreso in mano quella foto per guardarla con più attenzione. La didascalia faceva notare le dense volute di fumo che uscivano dai forni crematori . Solo in quel momento sono stato folgorato da un pensiero: quella che avevo davanti non era una semplice ripresa aerea. Era l´immagine dell´Olocausto in atto. A tanti anni di distanza, davanti a questa foto diventiamo spettatori di quel crimine spaventoso, che non ha paragoni nella storia. Un crimine che si può comprendere in tutta la sua portata solo dopo aver guardato le cose da vicino. E che non potremo mai scrollarci di dosso: non in Germania, ma neppure in Europa.
    Come è potuto accadere tutto questo? Perché è accaduto? Come mai in Europa, nella terra dell´Illuminismo, si è potuto scatenare quest´odio verso una minoranza, un odio inimmaginabile, tanto feroce da sfociare nell´inaudita brutalità di una vera e propria operazione industriale di sterminio?
    Durante la mia prima visita ad Auschwitz ero rimasto colpito dal fatto che il crematorio "n° 1" è vicinissimo alla villa riservata alla famiglia del comandante del campo, che tornava qui la sera per trasformarsi in padre tenero e premuroso e ascoltare musica classica. Com´è potuto accadere? E come spiegare il fatto che dopo pochi decenni, in un mondo in cui tutte queste cose si sanno, l´antisemitismo possa tornare a manifestarsi in maniera palese, tanto da costituire una sfida preoccupante? Non dobbiamo mai smettere di chiedercelo, non dobbiamo mai cercare di eludere queste domande, perché ci riguardano direttamente. Non dimentichiamolo: si tratta di noi. Il modo cui il nostro Paese tratta le sue minoranze, e innanzitutto la minoranza di religione ebraica, rivela molte cose sul nostro conto.
    Non vorrei soffermarmi sull´antisemitismo cristiano, né risalire a epoche storiche lontane. E´ comunque evidente che nel periodo della formazione delle nazioni europee o, in altri termini, nell´epoca dei nazionalismi, è emersa una forma nuova e aggressiva, una forma criminale di antisemitismo. E´ il caso di riflettere sul fatto che oggi, in questa fase dell´unificazione europea, l´Europa debba nuovamente far fronte a manifestazioni crescenti di antisemitismo, manifestato spesso in forma di critiche allo Stato di Israele.
    Io non concordo con chi sostiene che le due cose debbano essere sempre distinte. Di fatto, nei confronti di Israele l´Europa - e più in particolare la Repubblica Federale Tedesca - ha le sue responsabilità. Mi è capitato recentemente di trovare su una bancarella l´autobiografia di Nahum Goldman: qui appare chiaro che senza il moderno antisemitismo, la storia del sionismo non sarebbe neppure pensabile. Ricordiamo la generazione di Heinrich Heine, l´epoca della Primavera dei popoli, e poi la grande rivoluzione del 1848 - la rivoluzione europea, la speranza dell´integrazione, della parità dei diritti, le mura dei ghetti abbattute -. Ma sono bastati pochi decenni per far dire a Theodor Herzl: «Tanto non ci accetteranno. Dobbiamo rifondare il nostro stato nazionale, la patria ebraica, Israele».
    Esiste uno stretto rapporto tra queste realtà. E al di là della seduzione delle immagini, non si può non essere colpiti dal fatto che dei tanti spaventosi conflitti in atto nel mondo, spesso con un gran numero di vittime innocenti, è soprattutto il conflitto israelo-palestinese a suscitare un particolare interesse in Europa. Ed ha fatto bene Ralf Fücks a ricordare qui i risultati agghiaccianti dell´inchiesta condotta dalla Commissione europea: sono dati rivelatori di una situazione molto grave, che non possiamo affrontare con le consuete disquisizioni sociologiche. Certo, questo problema coinvolge profondamente la Germania, in ragione delle particolari responsabilità storiche e morali legate alla Shoa, ma costituisce evidentemente una sfida per tutto il continente europeo. Una sfida che stavolta l´Europa dovrà saper affrontare con una risposta in positivo.
    Israele rappresenta un caso unico: quello di uno Stato al quale si contesta il diritto di esistere. La politica israeliana si può comprendere chiaramente solo alla luce di questa realtà. Tutti i timori, le preoccupazioni, le angosce dei miei amici israeliani, compresi quelli più impegnati per la pace, si riassumono nella paura di vedersi negare il diritto di esistere. Una paura che non cesserà finché questo diritto non sarà garantito. E finché durerà questa paura, l´unica reazione possibile sarà quella di dire: «Mai più ci lasceremo condurre docilmente al massacro come agnellini inermi». Da qui nasce l´esigenza di una superiorità militare.
    Non vorrei essere frainteso: tutto ciò non giustifica una politica sbagliata. Ma non bisogna mai perdere di vista il fatto che Israele è oggi l´unico Stato del quale viene contestata la stessa esistenza. Ed è questo il punto di contatto tra la realtà attuale del popolo ebraico e l´esperienza della Shoa, la realtà della Shoa, del genocidio degli ebrei tedeschi ed europei. Chi non lo comprende, e non tiene presente al tempo stesso il fatto che fin dal primo momento l´esistenza stessa del neonato Stato d´Israele veniva contestata da parte araba, con mezzi militari e sempre nuove minacce, non può comprendere qual è veramente la posta in gioco nel conflitto mediorientale.
    Se guardiamo alla situazione attuale, non possiamo ignorare le sofferenze dei palestinesi, i morti, le molte vittime innocenti, dall´una e dall´altra parte. Ma questo conflitto potrà arrivare a una soluzione soltanto quando il diritto all´esistenza dello Stato di Israele e dei suoi cittadini sarà garantito al di là di ogni possibile dubbio. Il punto cruciale della politica mediorientale, la sfida reale è oggi l´esigenza di creare le basi della fiducia: un´impresa che presenta difficoltà infinite. Il danno più grave tra tutti quelli provocati dal fallimento del processo di Oslo è il crollo della fiducia tra le due parti. Ricordo che nonostante la reciproca diffidenza, dopo i successi dei negoziati di Oslo, la fiducia stava incominciando a crescere. Oggi non è rimasto praticamente più nulla, dall´una e dall´altra parte.
    In questo momento Israele è confrontato con una delle situazioni più difficili della sua storia. La sua potenza strategica e militare è ormai tale da poter fronteggiare ogni possibile coalizione. Ma la questione del suo diritto ad esistere non è legata solo alla sicurezza strategica. Si tratta anche di vedere quali sono le prospettive di Israele in quanto stato ebraico, nel senso di uno stato a maggioranza israelita, patria degli ebrei. E quale futuro potrà avere in quanto democrazia. Qui entra in gioco l´elemento demografico. Tra circa sette anni - se le cose non cambieranno - i rapporti di maggioranza saranno rovesciati. Oggi in Israele si è aperto su questo tema un ampio dibattito. E su questo sfondo la tesi dei due Stati appare in tutta la sua importanza.
    Io sono fermamente convinto che al di là degli aspetti militari e strategici, la soluzione dei due Stati sia l´unica possibile per garantire durevolmente l´esistenza dello Stato di Israele. Ma per arrivare a questa soluzione, indicata anche dal presidente Bush nel suo importante discorso - la convivenza pacifica, su uno stesso territorio, di uno Stato israeliano e di uno Stato palestinese, una volta risolti tutti i problemi - sarà necessario accettare compromessi difficilissimi, sui quali peraltro si è già trattato in maniera molto approfondita ed esauriente.
    L´essenza dell´iniziativa di Ginevra consisteva appunto nel ribadire che di fatto tutti gli elementi sono già sul tappeto. Su singole questioni si potranno sollevare critiche o esprimere pareri diversi, ma a mio parere ogni dettaglio è già stato discusso a fondo; si tratta solo di vedere come comporre e far combaciare i vari elementi. Il punto decisivo è però la fiducia. Nessun accordo è possibile se da un lato di tratta, e dall´altro continuano gli attacchi terroristici. Un compromesso del genere può funzionare soltanto se le intenzioni sono serie da entrambe le parti.
    Detto questo, io continuo a ripetere ai miei amici israeliani - e soprattutto a quelli che non condividono la mia posizione: non si arriverà mai a un compromesso sostenibile da parte palestinese al di là dei confini del 1967. Non si riuscirà a trovare un interlocutore pronto a firmare un accordo diverso, né una maggioranza palestinese disposta ad accettarlo.
    In questo senso, è essenziale che con l´aiuto della comunità internazionale si possa avviare un processo - e so bene quanto sia difficile - per ricostruire la fiducia, e per arrivare, attraverso le tappe previste dalla "road map", a un negoziato conclusivo finalizzato alla soluzione dei due Stati. Le difficoltà sono infinite. Ma in definitiva, il segreto della fondazione dello Stato ebraico di Israele sta appunto in un compromesso storico di questo tipo, di natura tale da garantire la sua durata nel tempo. In questo senso è fondamentale il ruolo della comunità internazionale, e soprattutto dell´Europa. L´America, per quanto importantissima, soprattutto sul piano delle garanzie di sicurezza, è molto lontana. Lo Stato d´Israele si trova nell´area mediterranea, è un vicino immediato dell´Unione europea.
   
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

(La Repubblica, 03.02.2004 - ripreso da Informazione Corretta)




6. UN COMITATO DELLA KNESSET PER I CONTATTI CON I CRISTIANI




GERUSALEMME - Lunedì 5 gennaio diversi membri della Knesset hanno formato un comitato per le relazioni con i cristiani pro-Israele. "Israele ha bisogno dell'aiuto dei cristiani per contrastare l'atteggiamento internazionale sempre più fortemente anti-israeliano", ha detto Juri Stern, del partito di destra Unione Nazionale, che ha la presidenza del comitato insieme a Ja´ir Peretz, del partito ultraortodosso Shass.
    "I nostri comuni valori e la fede che si basa sul comune patrimonio giudeo-cristiano sono la fonte dei forti legami esistenti fra di noi. [...] Israele non ha migliore amico degli USA, e di questo dobbiamo ringraziare in massima parte i nostri amici cristiani in America", ha aggiunto Stern.
    Il comitato dovrà curare le relazioni con i cristiani in Israele e all'estero, e favorire i viaggi e la vita in Israele ai cristiani.
    "Ci sono politici, come il Ministro del Turismo Benny Elon, che hanno contatti con gruppi e politici cristiani e cercano degli incontri con loro. Ma una formale rappresentanza di questi interessi non c'era ancora mai stata. Un tale comitato avrebbe dovuto essere stato formato già da molto tempo", ha detto Stern.
    
(israelnetz nachrichten, 06.01.2003)




3. CULTO DELLA MORTE NEL TERRORISMO ISLAMICO




Per volontà, non per disperazione

da un articolo di Itamar Marcus e Barbara Crook(1)

    "Ho sempre desiderato essere la prima donna a sacrificarsi nel nome di Allah. La mia gioia sara' completa quando le parti del mio corpo voleranno in tutte le direzioni". Sono parole della terrorista suicida palestinese Reem Reyashi videoregistrate poco prima che uccidesse quattro israeliani e se stessa, un paio di settimane fa al passaggio di Erez fra Israele e striscia di Gaza.
    Cio' che sorprende, in questa terrificante dichiarazione, e' la sottolineatura in termini positivi della propria morte e dello smembramento di se stessa indipendentemente dall'obiettivo di uccidere altre persone. Reem Reyashi era stata indotta ad agognare cio' che i palestinesi chiamano "shahada", la morte per Allah (Dio). Reem Reyashi aveva due obiettivi distinti: uccidere ed essere uccisa. Questi due obiettivi separati, entrambi positivi nella sua mente, erano piu' importanti dei doveri e dei legami emotivi con i suoi due bambini.
    Tale aspirazione alla morte, che contraddice il fondamentale istinto umano alla sopravvivenza, sta al centro del fervore del terrorismo suicida. Solo quando questo culto della morte verra' riconosciuto come uno dei principi cardine che compongono il credo palestinese, sara' possibile comprendere la sfida posta a Israele e a tutto il mondo dal terrorismo suicida.
    La societa' palestinese promuove attivamente la convinzione religiosa che la divinita' voglia la morte del credente. Si considerino le parole di una canzone popolare in un video rivolto ai bambini, trasmesso centinaia di volte dalla televisione dell'Autorita' Palestinese, che parla della sete della terra per il sangue dei bambini. Dice: "Come e' dolce il profumo degli shahid [martiri], come e' dolce la fragranza della terra, la sua sete si placa con il fiotto di sangue che sgorga dai giovani corpi".
    La convinzione che la divinita' sia assetata e brami il sangue umano come un tributo e un sacrificio affonda le sue radici in credenze ancestrali. La Bibbia cita remote culture presenti in Terra d'Israele: "Sacrificavano agli dei i loro figli e e le loro figlie" (Dt. 12). Anche i figli d'Israele ne furono contagiati: "E costruirono altari per offrire i loro figli e le loro figlie a Moloc, cosa che il Signore non aveva comandato e neppure aveva considerato un abominio simile" (Ger. 32).
    Il denominatore comune dei culti primitivi che prescrivevano sacrifici umani era la convinzione che la divinita' voglia la morte di innocenti. E' esattamente questa l'idea che i capi della societa' palestinesi stanno inculcando nella loro gente. Di piu', ai palestinesi viene insegnato dai leader religiosi che compaiono alla TV dell'Autorita' Palestinese che lo scopo stesso della loro nascita e' quello di morire per Allah: "Il credente e' stato creato per conoscere il suo Signore, per difendere l'islam, per essere uno shahid [martire] e per cercare di essere uno shahid. Se il musulmano non aspira alla shahada [morte per Allah], egli morira' nella jahiliya [fede pre-islamica]. Se invece invochiamo sinceramente il martirio da Allah, egli ci garantira' la sua ricompensa anche se moriremo nel nostro letto".
    Per incoraggiare ulteriormente il processo di auto-annullamento, ai palestinesi viene insegnato che la morte per la divinita' e' lautamente ricompensata: "Tutti i suoi peccati sono perdonati dal primo fiotto di sangue, egli sara' esentato dai tormenti del Giudizio… si unira' a settantadue giovinette dagli occhi scuri… sul suo capo sara' posta la corona dell'onore, della quale una sola pietra vale piu' di tutto cio' che c'e' in questo mondo".
    I bambini non sono risparmiati dall'indottrinamento. Un esempio evidente e' quello del quattordicenne Faras Ouda, un ragazzo innalzato agli altari dell'eroismo dalla dirigenza palestinese. Yasser Arafat addita continuamente il modello Faras Ouda ai bambini palestinesi: una volta rivolgendosi a loro in televisione come ai "compagni, amici, fratelli e sorelle di Faras Ouda"; un'altra dicendo loro: "la vostra generazione e' rappresentata dal vostro compagno, l'eroe martire Faras Ouda"; un'altra volta ancora esclamando: "Salutiamo lo spirito del nostro eroe martire Faras Ouda, Faras Ouda, Faras Ouda". Per quale impresa Faras Ouda diventa il modello assoluto proposto da Arafat ai bambini palestinesi? Il suo scopo nella vita era morire per la divinita'. Come scrisse il quotidiano dell'Autorita' Palestinese Al-Hayat Al Jadida: "Il giorno della sua morte, Faras Ouda lascio' la sua casa con una fionda, dopo aver preparato con le sue mani una corona funebre decorata con le foto di se stesso e con la scritta: il coraggioso shahid Faras Ouda". Dunque Faras Ouda voleva morire per la divinita', ci riusci' e cosi' divenne l'eroe di Arafat.
    Alle madri palestinesi e' stato insegnato a desiderare la morte per Allah dei loro figli. Una madre ha recentemente spiegato alla tv dell'Autorita' Palestinese perche' aveva esultato alla notizia della morte del figlio: "Una madre grida di gioia perche' ella vuole che egli compia il martirio. Egli diventa un martire per Allah l'Onnipotente. Io volevo il meglio per mio figlio, e questo e' il meglio per il mio figlio martire".
    L'ideologia corrente dell'Autorita' Palestinese ribalta la scala di valori tipica di altre societa'. Ecco come si e' espresso Issam Sissalem alla tv dell'Autorita' Palestinese: "Noi non abbiamo paura di morire, noi non amiamo la vita".
    I bambini palestinesi hanno imparato a considerare la morte per la divinita' come il supremo obiettivo della loro vita. In un'agghiacciante intervista alla televisione dell'Autorita' Palestinese, due ragazzine di undici anni hanno spiegato serenamente e in modo eloquente cosa desiderano loro e le loro amiche: "Walla: Il martirio e' molto, molto bello. Tutti aspirano al martirio. Cosa puo' esserci di piu' bello che andare in paradiso?. Conduttore: Cosa e' meglio, la pace con pieni diritti per il popolo palestinese o il martirio?. Walla: Il martirio. Yussra: Naturalmente il martirio e' dolce. Noi non vogliamo questo mondo, noi vogliamo l'Aldila'. Tutti i bambini palestinesi, per esempio

prosegue ->
di dodici anni, dicono: O Signore, vorrei diventare un martire".
    I sondaggi confermano che Yussra e Walla rispecchiano la stragrande maggioranza dei bambini palestinesi. Secondo tre diversi sondaggi d'opinione, tra il 70 e l'80 percento dei bambini palestinesi aspirano al martirio. Nel mondo arcaico era diffusa la convinzione che la divinita' volesse la morte di esseri umani come estrema forma di venerazione. La gente offriva i propri figli a Moloc e a Baal. Queste antiche credenze tornano oggi ad infestare il mondo.
    Il mondo ha dato per scontato che il terrorista suicida palestinese sia una persona che ha dovuto scegliere tra due "valori" opposti: uccidere ebrei o preservare la propria vita. Purtroppo non e' cosi'. Per il terrorista suicida, uccidere ebrei e' senz'altro un "valore", ma la morte per la divinita' e' a sua volta un valore in se stessa, un valore piu' importante della vita. Si va incontro alla shahada, al martirio, non per disperazione, ma per aspirazione. Come ha spiegato la madre che gioi' per la morte del figlio: "Io volevo il meglio per lui".
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(1) Notizie su Israele 219.

(Jerusalem Post, 29.01.04 - israele.net)




4. EDITORIALISTA SVIZZERO PRENDE POSIZIONE CONTRO IL TERRORISMO




Il terrorismo si avvicina.

di Frank A. Meyer

    Per i nostri nonni, la Turchia era «da qualche parte laggiù». Ma «laggiù in Turchia», dove fu commesso il genocidio degli armeni, è un'espressione che non va più bene. Istanbul è qui vicino, lontana solo due ore e mezzo di volo. Anche i terroristi impiegherebbero tanto per arrivare in Svizzera. Impiegherebbero? Speriamo di non dover presto usare questo verbo al passato!
    Forse la vicinanza dell'orrore ha un effetto salutare, per esempio per quanto riguarda il nostro atteggiamento nei confronti di Israele: il terrorismo, che colpisce giornalmente la piccola e unica democrazia in territorio arabo, per noi in tanti ambienti viene visto come una comprensibile reazione agli interventi militari dell'armata israeliana nei territori palestinesi: se Israele la smettesse, anche il terrorismo avrebbe presto fine, secondo l'opinione comune.
    Questa argomentazione che spesso viene menzionata durante un pranzo o una cena al ristorante è il capovolgimento dei fatti reali: da decenni i palestinesi vengono tenuti consapevolmente nella miseria e nella povertà dai loro fratelli arabi. Lo scopo è quello di suscitare odio contro Israele da parte di sempre nuovi giovani che non vedono alcun futuro per la loro vita. Già i bambini del popolo palestinese vengono addestrati come cani da combattimento.
    Nel contempo, i potentati arabi del petrolio nuotano nella ricchezza e nel lusso. Il miglioramento della sorte sociale dei palestinesi sarebbe per loro uno scherzo, ma preferiscono finanziare piuttosto le organizzazioni terroristiche, con milioni di dollari, perché queste hanno scritto sulla loro bandiera il proposito di annientare Israele. E per questo può avere conseguenze mortali sedere in un ristorante di Haifa o salire su un autobus di Tel Aviv. Per i bambini già il bus della scuola rappresenta un rischio.
    Che succederebbe in Svizzera, se una linea di autobus, o una visita al ristorante o un qualsiasi evento della nostra vita privata quotidiana fosse minacciato da attentatori suicidi? Cercheremmo delle buone ragioni per scusare il fatto? Staremmo a riflettere per un minuto se non sia stata forse la nostra irritante ricchezza di svizzeri ad essere la reale causa scatenante e la colpa dell'esistenza del terrorismo?
    Non faremmo niente del genere, e avremmo ragione ad agire così. Cercheremmo di proteggerci a ogni costo e avremmo ragione. Alla fine, se non riuscissimo a dare uno stop al terrorismo, costruiremmo un muro. E avremmo ragione a farlo.
    Così saremmo. Così siamo. Ma viviamo ancora con la sensazione che il terrorismo islamico sia lontanissimo, non sia affatto destinato a noi, visto che ci comportiamo in modo tanto neutrale nei confronti del conflitto del mondo arabo contro Israele; noi, che con le nostre banche siamo tanto efficienti nel collaborare a moltiplicare la ricchezza perversa dei potentati arabi.
    Ma questo è il grande inganno: il terrorismo islamico, per quanto assurdo ci possa suonare, mira all'islamizzazione del mondo, tramite la destabilizzazione del mondo democratico. Il terreno culturale e religioso su cui cresce questa follia è la dottrina dell'Islam. L'estremismo islamico, con il suo terrorismo, è il frutto marcio di questo enorme albero.
    Per l'Islam arabo Israele è insopportabile: uno Stato democratico, uno Stato di diritto, uno Stato con una società aperta nel mezzo di un Medioevo religioso! Questo Stato deve scomparire!
    Esso tuttavia non si lascia distruggere dalle bombe né dagli attacchi militari. Israele è armato, è deciso a tutto. Perciò il terrorismo, dappertutto nel mondo, è sempre in collegamento con lo scopo di annientare Israele, deve distruggere le nostre democrazie: il triste destino dei palestinesi serve a trascinarci nell'odio contro Israele. Le immagini dei bambini palestinesi che lanciano pietre contro i carri armati israeliani, devono convincerci che Israele sia il brutale Golia e i palestinesi invece il tormentato Davide. Il mondo libero, un giorno, al più presto possibile, deve relativizzare il diritto di Israele all'esistenza e infine mettere in questione il senso di questo Stato. Per potere avere finalmente pace dal terrorismo islamico. Questa è la strategia che vuole conquistare le nostre menti.
    Pubblicisti e politici, cittadine e cittadini che farebbero volentieri un processo morale a Israele, dovrebbero andare più spesso in un ristorante a Haifa o salire più spesso su un bus a Tel Aviv. Potrebbero anche prenotare un viaggio più lungo a Istanbul, per passeggiare a volontà in quella meravigliosa città. La sensazione di timore potrebbe forse risvegliare in loro il senso della realtà.
    Israele è forse un tabù? La politica israeliana non è tabù neanche in Israele. Ci sono schieramenti contro e a favore di Sharon. La democrazia funziona. Con una situazione difficilissima, con la minaccia quotidiana del terrorismo, degli attentati suicidi a cui segue solo la disperazione, ma senza nessuna protezione efficace. Questa protezione è impossibile se non, forse, con la costruzione di un muro. Esso sarebbe il monumento della disperazione. Come deve difendersi la Turchia? Come si dovrà difendere fra un po' la Germania, o la Francia, o l'Italia? 0 noi?

("SonntagsBlick", 23 novembre 2003 - da "Chiamata di Mezzanotte")



5. LE MOLTE FACCE DELL'ANTISEMITISMO




Tre intolleranze per un discorso che dura da secoli

di David Bidussa

L'antisemitismo è molte cose. Un tentativo di spiegazione del mondo a fronte dell'impossibilità di trovare un bandolo che dia ragione delle cose; la pretesa di individuare le origini del male e le cause del suo persistere in un soggetto dato; è la descrizione di un sistema di potere di cui ci si autodefinisce come vittime e di cui si indica negli ebrei il soggetto collettivo che ne incarnerebbe l'essenza.

L'antisemitismo può prosperare anche senza che gli ebrei facciano qualcosa. Talora esiste anche senza ebrei.
Nella Polonia del secondo dopoguerra a lungo è esistito un antisemitismo sostanzialmente senza presenza fisica degli ebrei. In quel contesto contava, e ha contato soprattutto all'indomani del 1968, scaricare su un nemico fisicamente non presente (come meglio dimostrare così la sua capacità di essere "invisibile" e dunque ancor più pericoloso?) le angosce e il timore di accerchiamento di un sistema di potere che si vedeva e si sentiva minacciato da qualsiasi cambiamento.
Il potere comunista era allora antisemita – comunque non solo in Polonia – ma paradossalmente lo era anche una porzione rilevante della società civile anticomunista che vedeva nei comunisti al potere degli ebrei mascherati giunti o "ritornati" alla fine della Seconda guerra mondiale sui carri armati sovietici pronti a rivolere ciò che avevano perduto o che era stato rubato loro negli anni dell'occupazione nazista.

Che l'antisemitismo sia scomparso dall'Europa dopo la Seconda guerra mondiale non è vero. Diciamo che si era eclissato ed era tornato ad assumere le vesti di un antigiudaismo non razzista, in cui tornavano a prosperare alcune delle credenze che hanno popolato l'immaginario collettivo cristiano nel corso del secondo millennio e in cui si sovrappongono – come sostiene e dimostra Manfred Gerstenfeld molti paradigmi culturali e politici. Di destra, ma anche di sinistra.

Questo è stato uno degli effetti della memoria della Shoah: l'assunzione dell'antisemitismo come pratica sistematica dello sterminio, dimenticandosi che l'antisemitismo moderno è stato solo una delle forme storiche dell'intolleranza nei confronti degli ebrei. Questo sentimento nel secondo dopoguerra è stato un fenomeno complicato, spesso non facilmente districabile e classificabile.
Prima lo era meno.

Che tipo di intolleranze hanno subito gli ebrei nel corso della storia? Almeno tre: una teologica; una politica; una socio-culturale.
A lungo l'intolleranza nei confronti degli ebrei ha avuto un carattere teologico, attraverso l'accusa di deicidio, l'accusa di violare le ostie, di produrre pane azzimo per la Pasqua ebraica utilizzando il sangue dei bambini cristiani, una vera leggenda metropolitanaante litteram in nome della quale lungo tutte le strade d'Europa, dall'Inghilterra (Norwich 1144) passando per l'Italia (Trento 1475) e poi fino all'Ucraina all'inizio del Novecento (Odessa 1912-1913), è stato possibile scatenare pogrom e realizzare stragi di ebrei.

In gran parte i pogrom che si verificano in Europa Centrale, in Francia - nel corso della mobilitazione per le crociate, ma anche le credenze che si diffondono in occasione delle grandi epidemie con l'accusa agli ebrei di avvelenare i pozzi e le riserve d'acqua - vedono incrociarsi una credenza antigiudaica che ha la sua origine in convinzioni religiose e motivazioni sociali.

L'ebreo appare allora come un bersaglio facile, un vero e proprio capro espiatorio su cui è possibile scaricare tensioni sociali, frustrazioni, nonché indirizzare la mobilitazione sociale favorendo, al tempo stesso, il ricompattamento del quadro sociale. Il principio è quello della lotta allo straniero, all'estraneo inteso come figura perturbante, destabilizzante, comunque infida. E' un paradigma che ritorna frequentemente e che risulta spendibile all'interno di quadri sociali instabili.
L'antisemitismo non è solo questo. E' stato nel tempo anche altro. Ha avuto, per esempio, un carattere politico, ovvero si è concretizzato nelle figure ossessive e paranoiche con cui si costruisce la figura astratta dell'oppositore, del nemico di classe, del perfido attore che trama nell'ombra, oppure del ricco speculatore che affama o che sfrutta le masse anonime della società industriale, senza peraltro permettere o lasciare il margine allo sviluppo.

Alternativamente l'ebreo è così come la figura vampirica: vero succhiasangue della vitalità della società e del mondo del lavoro, impossessandosi delle sue energie e soggiogatore, schiavizzatore della possibilità di prosperità e felicità di un progresso equilibrato e di uno sviluppo equo, perché volto al puro arricchimento personale e strenuo oppositore a una possibile redistribuzione delle risorse.
Una figura che popola l'immaginario ossessionato dell'occidente industrializzato, ma anche del mondo non industrializzato e che ritorna frequentemente nell'immaginario collettivo (un aspetto che si sposa con l'idea che i Rom rubino i bambini, o che gli arabi violentino le donne bianche, e via di seguito).

Sotto questa veste l'ossessione per un ebreo intravisto come il "ricco" e dunque assunto come la figura e la quintessenza della disumanità, dell'interesse egoistico, si accompagna a una costruzione socio-culturale in cui l'ebreo è la figura che trama nell'ombra che contemporaneamente è il potere e il distruttore dei poteri tradizionali che trasformano una collettività in una vera e solidale comunità.

Nel dispositivo de I Protocolli dei Savi anziani di Sion- testo che crea l'ebreo delle ossessioni mentali dei non ebrei - è riscontrabile sia la dimensione sovversiva di colui che vuol distruggere l'ordine del mondo quanto quella di colui che lo incarna.
Il testo de I Protocolli - al di là della questione della sua falsità - è interessante proprio per il dispositivo che mette a nudo, per l'immagine del potere che le classi dominate hanno del potere che le domina, per l'immaginario di rivolta, ma non di eguaglianza con cui i ceti dominati pensano di invertire l'ordine sociale.
Il testo de I Protocolli per quanto banale, rozzo, assolutamente risibile per l'immaginario economico che prospetta, costituisce uno dei dispositivi più efficaci e potenti che generano l'antisemitismo.

La questione della falsità dimostrata de I Protocollinon ha impedito che milioni di individui abbiano continuato - e ancora oggi continuino - a prestare fede a un testo, peraltro spesso senza neppure averlo letto.
Non sarebbe improprio osservare - d'altra parte - che il problema rappresentato dai documenti falsi non è risolto dimostrando la loro falsità, ma costituisce un'opportunità per indagare i livelli di credenza collettiva? Quanto è importante la datazione esatta della Sacra Sindone? Forse per questo milioni di individui smetteranno di andare a vederla? E questo fatto, cessa di essere rilevante o di ridursi a un mero evento di falsa credenza una volta che si sia dimostrata la falsa datazione della Sindone? Interrogare la storia non riguarda l'individuazione della verità - questione che riduce l'indagine storiografica a un dossier di polizia - ma indagare e rendere edotti sui fenomeni sociali. Un fenomeno sociale esiste anche sulla base di una falsa credenza. Anzi per certi aspetti è oltremodo rilevante e illuminante se connesso a una questione di falsa credenza.
In altre parole, il problema dei falsi non è dimostrare la loro falsità, ma cercare di spiegare perché pur nella loro dimostrata falsità, i falsi documenti continuano a funzionare e a "convincere".

Gran parte del livello socio-culturale con cui si esprime oggi l'antisemitismo nell'ambito delle realtà sociali e politiche del Terzo mondo e in particolare del mondo arabo; l'uso e la diffusione in area islamica e araba de I protocolli (un aspetto e un fenomeno che non risalgono alla seconda Intifada ma che esistono da almeno un ventennio e che Pierre-André Taguieff aveva già descritto più di dieci anni fa), sono connessi a questo ambito di problemi.
Così come nel mondo medievale e nella prima modernità l'intolleranza nei confronti degli ebrei nasceva sulla base di una loro presunta estraneità, assumendoli come nemici o come agenti e rappresentanti del nemico - non differentemente oggi questa convinzione si ripete. Con una sostanziale differenza: ancora fino alla prima modernità la lotta agli ebrei era la lotta a un nemico che poteva essere acquisito e conquistato e dunque convertito – cessando così di esser un nemico – oppure cacciato. L'eredità del lessico razzista del Novecento modifica la figura della lotta al "nemico": quella figura non è più sufficiente scacciarla, occorre, invece, eliminarla.
Nel conflitto di civiltà ritornano aggiornati e "modernizzati" concetti e figure che apparentemente sembrano avere una lontana origine.

Per esempio, l'espulsione degli ebrei quale è avvenuta nei paesi arabi o islamici negli anni '50 e poi ancora nel giugno del 1967 e poi nel corso degli anni ' 70 non risponde solo alla raffigurazione della purificazione di un territorio che deve rimanere incontaminato e dunque "puro" rispetto alla presenza dello straniero. Il linguaggio dell'antisionismo presenta aspetti, aggettivi, figure che hanno una stretta parentela con il linguaggio della non contaminazione dello spazio la cui matrice originaria denuncia origini razziste contemporanee, pur spesso alimentandosi di un linguaggio etnocentrico che usa e sfrutta molti concetti che preesistevano al linguaggio dei razzismi moderni.

Quello stesso linguaggio, poi, innerva e struttura metafore, raffigurazioni, immagini, retoriche che hanno diffusione non marginale anche fuori dall'area mediorentale e rinnovano in forma propria linguaggi e culture che hanno costruito una figura dell'ebreo come nemico nel corso del secondo millennio. Un "nemico" che, in alcuni contesti, con lentezza è stato accolto, "emancipato" e parificato nei diritti nel corso della lunga rivoluzione democratica che ha preso le mosse dalle sale della Pallacorda a Versailles nel maggio-giugno 1789, in altre realtà (al prezzo di molte conflittualità e lacerazioni, come in Germania e nell'Europa centrale), il "nemico ebraico" ha maturato diritti; in altri luoghi ancora ha scommesso su un'ipotesi di riscatto sociale collettiva (è il caso della Russia sovietica, che tuttavia non sembra aver emancipato e integrato davvero il mondo ebraico nella "grande madre Russia").

Eppure il quadro che oggi noi abbiamo di fronte ci presenta il ritorno di forme di antisemitismo tradizionale al fianco di forme nuove ed emergenti in cui si combinano fattori sociali, culturali, vecchie immagini di ribellione e di diffidenza con nuove immagini e convinzioni di lotta contro il "potente" (presunto più spesso che non reale), antiche immagini in cui l'ebreo è alternativamente, il caprone, il perfido tentatore, l'uomo dalla dura cervice che spesso ha popolato l'iconografia e il lessico della retorica cristiana. E da tutto ciò nasce l'opportunità di confrontarsi con il fatto che alla fine l'antisemitismo è un dispositivo, una macchina che spiega l'oggetto, ed è forse uno dei peggiori contenitori di memoria e delle sue incrostazioni.
Non c'è un antisemitismo meno efficace che è sostituito da uno più efficace. C'è la costruzione di un sistema esplicativo che rende coerente la credenza sull'antisemitismo e che soprattutto veicola, aggiorna e rende utilizzabili tutte le immagini e tutti i diversi significati che l'intolleranza antiebraica ha assunto nel lungo arco della storia del rapporto tra ebrei e non ebrei nelle società articolate dall'antichità a oggi.
L'antisemitismo in questo senso non è un'ideologia compiuta, organica e coerente. E' invece una pratica discorsiva, ideologica e operativa che si costruisce nel tempo e che nel tempo si arricchisce. Una pratica che raccoglie molte cose lungo la strada e mai le perde, dotandosi di un vasto archivio sensibile alle trasformazioni del tempo, ma comunque disponibile ad essere rimobilitato in contesti e, talora, con scopi diversi e distinti.

L'antisemitismo, letto da quest'angolazione, non è nemmeno un'ideologia coerente, ma è un discorso coerente, spalmato lungo l'asse destra-sinistra in forme, pratiche, discorsi, linguaggi diversi. Lo possiamo leggere a partire da diverse variabili culturali sulla scorta per esempio dei dati emersi nell'ultima inchiesta Eurispes, anche nell'ambito delle sue incertezze - come la questione non nuova dell'antisemitismo di sinistra e dei suoi rapporti con la questione israeliana come sottolineato da Shalom Lappin su uno degli ultimi numeri di "Dissent". In ogni caso l'antisemitismo prima ancora che pratica sociale, è oggi soprattutto, una forma del pensare e si colloca lungo tutto l'asse destra-sinistra .

Rappresenta, in sintesi, una parte di un linguaggio collettivo con cui è bene fare serenamente e costantemente i conti. Negarlo o far finta di discuterne come fa "Il manifesto" in questi giorni con gli interventi di Marco Bascetta e di Stefano Chiarini e Maurizio Matteuzzi è solo una parte in commedia, quando addirittura non è tempo perso.

Qualche indicazione bibliografica

Yves Chevalier, L'antisemitismo: l'ebreo come capro espiatorio, Ipl, Milano 1991.
Gabriele Eschenazi - Gabriele Nissim, Ebrei invisibili: i sopravvissuti dell'Europa orientale dal comunismo a oggi, Mondatori, Milano 1995.
Furio Jesi, L'accusa del sangue: mitologie dell'antisemitismo, Morcelliana, Brescia 1993.
Pierre-André Taguieff, Les Protocoles des Sages de Sion, Berg Internationale, Paris 1992.

(Morasha.it, 28.01.2004)




7. PRIMATE CATTOLICO CONTRO LA GIUDAIZZAZIONE DI GERUSALEMME




Il patriaca Lufti Laham, primate dei cattolici romani nei territori palestinesi occupati, ha fatto un appello a mantenere l'identità araba della città occupata di Gerusalemme e a opporsi ai tentativi di giudaizzare la città santa.
    In un'intervista pubblicata sabato scorso [31 gennaio] sul quotidiano degli Emirati, Al-Khalij, il patriarca Laham ha affermato che Gerusalemme è una città araba e la capitale della fede dei musulmani e dei cristiani.
    Il patriarca ha invitato ad approfondire un dialogo costruttivo tra le civiltà e a intensificare l'interazione culturale e commerciale tra i paesi arabi e l'Europa.
    Ha anche messo in guardia contro i cristiani sionisti perché, ha affermato, sono dei sionisti, non dei cristiani.
Ahmad F. Zahra

    
(SANA-Official Syrian News Agency - IMRA, 31.01.2004)




8. MUSICA E IMMAGINI




Frailahk




9. INDIRIZZI INTERNET




Ambasciata di Israele a Roma

Vision for Israel




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