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Notizie su Israele 238 - 5 maggio 2004

1. Colloquio con un consigliere politico di Sharon
2. Intervista della BBC a uno dei capi di Hamas
3. Orgogliosi di essere «Jecke»
4. Intervista a Natan Sharansky sulla conferenza dell'OSCE
5. Palestinesi che protestano
6. Un'ebrea canadese «torna a casa»
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 13:9-11. Ecco il giorno del Signore giunge: giorno crudele, d’indignazione e d’ira furente, che farà della terra un deserto e ne distruggerà i peccatori. Poiché le stelle e le costellazioni del cielo non faranno più brillare la loro luce; il sole si oscurerà mentre sorge, la luna non farà più risplendere il suo chiarore. Io punirò il mondo per la sua malvagità e gli empi per la loro iniquità; farò cessare l’alterigia dei superbi e abbatterò l’arroganza dei tiranni.
1. COLLOQUIO CON UN CONSIGLIERE POLITICO DI SHARON




Salmon Shoval
Lunedì scorso, 3 maggio, poche ore dopo la comunicazione dell'esito della votazione del Likud in Israele, la Deutschlandfunkradio tedesca ha trasmesso un'intervista telefonica a Salmon Shoval, consigliere di politica estera di Ariel Sharon. Il colloquio è stato condotto dalla giornalista Silvia Engels.


Engels: Il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha dovuto incassare questa notte una grave sconfitta politica. Aveva invitato gli iscritti del suo partito, il Likud, a benedire il suo piano di sgombero dalla striscia di Gaza. Ma i membri del Likud, in buona parte coloni ebrei, non lo hanno seguito, nonostante che il piano preveda di mantenere permanentemente grandi zone di insediamento in Cisgiordania. Circa il 60 per cento ha detto no. Al telefono abbiamo Salman Shoval, uno dei consiglieri di politica estera di Ariel Sharon. Signor Shoval, che cosa significa questa sconfitta per il Primo Ministro israeliano?

Shoval: Beh, naturalmente è deluso, e credo che la maggior parte degli israeliani sia delusa, perché nonostante la votazione del Likud di ieri, in cui ha votato circa il 47 per cento, la grande maggioranza degli israeliani, la quale ha anche votato il Likud alle ultime elezioni, è per il piano di Sharon. La democrazia è una meravigliosa invenzione, ma qualche volta corre nella direzione sbagliata. Adesso certamente c'è un problema. Da una parte il Primo Ministro, come anche gli americani - il Presidente Bush l'ha detto stamattina - vuole mandare avanti il piano, perché questo - almeno per noi - è forse l'unica possibilità di rimettere in moto il processo di pace, dall'altra adesso il Primo Ministro Sharon ha senza dubbio dei problemi all'interno del partito, e si vedrà come questi problemi saranno risolti.

Engels: Gli consiglierà un cambiamento di rotta del piano di ritiro?

Shoval: No. Come ho già detto, credo che questo sia veramente l'unico piano, perché da anni, vorrei quasi dire da decenni, ma certamente almeno dalla disfatta Clinton-Barak, agli israeliani è del tutto chiaro che dalla parte palestinese non hanno alcun vero partner di pace. Già dalla cosiddetta Road Map è stato chiaro che i palestinesi o non hanno voglia o forse non sono capaci di rispettare la prima condizione di questa Road Map, cioè arrestare il terrorismo, sciogliere le organizzazioni terroristiche, consegnare le armi illegali, ecc. In questo non c'è stato alcun progresso, ed è stata una decisione pragmatica - non ideologica - quella di Sharon, di prendere atto che lo status quo non è utile né a Israele né ai palestinesi, e che bisogna fare qualcosa in modo unilaterale. Questo ieri è stato, per così dire, respinto dal 47 per cento dei membri del Likud che hanno votato. Ma questo non significa necessariamente la fine del processo.

Engels: Sharon può continuare a governare in questa debolezza?

Shoval: Penso di sì. Ma sa, io forse sono esperto di politica estera, ma certamente non di politica interna. Faccio però notare una cosa: i diversi politici, in parte ministri, che erano contro il suo progetto, non sono tutti dello stesso parere e d'accordo fra di loro. Quindi non si può dire Sharon o X, o Y ecc.

Engels: Secondo il progetto in discussione, che prevede lo sgombero di Gaza ma la conservazione permanente di insediamenti israeliani in Cisgiordania, Sharon è stato fortemente criticato a livello internazionale, da parte palestinese, e anche dalla sinistra nel suo paese. Il piano invece è considerato dal partito del Likud perfino troppo accondiscendente. Mostra questo fatto la completa lacerazione della società israeliana?

Shoval: Vede, anzitutto quando si parla di sinistra in Israele, bisogna precisare. Di solito s'intende l'estrema sinistra, non il partito laburista, il più importante partito di centro-sinistra. Ci sono poche persone in Israele che pensano a un ritorno alla linea verde di una volta. Di questo non si può proprio parlare. Ma ha ragione, credo che la votazione di ieri nel Likud sia stata dettata soprattutto dai sentimenti, non dalla testa ma più dalle viscere o dal cuore, se così si vuol dire. Il terribile attacco omicida di ieri, in cui una madre e quattro figlie sono state assassinate dai terroristi palestinesi, Hamas, ma forse anche i gruppi di Arafat, ha avuto un influsso sulle persone, che dicono: perché dobbiamo pagare un qualsiasi prezzo a queste persone, perché dobbiamo sgomberare la striscia di Gaza, se questa è la reazione dei palestinesi. Per questo posso pensare che fra pochi giorni, quando le persone considereranno in modo intelligente i diversi pro e contra di questo risultato, molti si chiederanno se forse non è stato un errore.

Engels: Molti critici sostengono che con questo progetto Sharon ha già abbandonato gli standard internazionali, perché solo i palestinesi possono collaborare alla decisione su uno stato definitivo degli insediamenti. Non si dovrà forse riprendere questa direzione?

Shoval: Vede, questo dipende completamente dai palestinesi. Non saremmo andati in questa direzione, cioè la direzione di un ritiro unilaterale e di decisioni unilaterali, se avessimo avuto un partner. Diversi governi israeliani, come a suo tempo Shamir a Madrid, ma certamente anche in seguito Rabin, Peres, Netanyahu nella Wye Plantation, e più tardi in modo particolare Barak con l'aiuto del Presidente Clinton, ci hanno provato. Ma la cosa non è riuscita, perché i palestinesi ufficiali sotto la direzione di Arafat - non voglio dire che tutte le persone della popolazione palestinese non vogliono la pace, c'è forse una maggioranza che è per la pace - e le organizzazioni estremistiche vogliono in realtà la distruzione di Israele e nessun compromesso.

Engels: Proprio venti minuti fa era al telefono il leader politico di Hamas che vive in underground, Khaled Meshaal. E' in testa alla lista delle persone da eliminare dell'esercito israeliano perché anche lui è considerato responsabile di attentati suicidi contro israeliani. Lui ha negato di essere informato di questi piani di attentati. E' credibile?

Shoval: E' ovvio che nega. Questo mi ricorda un po' le varie reazioni all'uccisione dello sceicco Yassin. Si è parlato di una guida spirituale del partito Hamas. Il gruppo Hamas è un gruppo di terroristi, non meno estremista di Al-Qaida o altri, che naturalmente ha come obiettivo soprattutto ebrei e israeliani. Non c'è nessuna vera differenza tra, diciamo, guide spirituali e terroristi pratici. Meshaal vive a Damasco, in uno stato terroristico come la Siria, cosa che a lui naturalmente risulta molto comoda. Lui dà gli ordini. Gli ordini poi vengono eseguiti da persone che si trovano sul posto. Ma come Israele deve agire in questi casi è un fatto operativo, militare, cosa di cui non sono competente.

Engels: Meshaal ha sottolineato che Hamas non si scaglia contro civili israeliani, ma parla di un diritto palestinese all'autodifesa. Che cosa controbatte?

Shoval: Io chiedo, una madre di 36 anni, quattro figlie piccole, sono militari? Erano civili. Se si usano gli attacchi omicidi come sistema, non come fatto accidentale che può accadere, ma intenzionalmente si spara su civili, bambini, donne e li si uccide, è questo il sistema del signor Meshaal.

Engels: Lui ha negato di voler cacciare gli israeliani e ha detto che si può immaginare che ebrei, cristiani e musulmani possano vivere pacificamente insieme in uno stato che naturalmente, nel suo pensiero, è arabo-islamico. La sua risposta?

Shoval: Ma sì, credo che non ci sia nemmeno bisogno di rispondere. Naturalmente è un altro modo per distruggere lo stato ebraico. Di arabi cristiani ce ne sono ormai molto pochi, perché in maggior parte sono stati cacciati con il tempo dagli islamici. Betlemme una volta era una città cristiana. Oggi c'è forse un 10 per cento di cristiani. Ma se si dice, arabi ed ebrei, cioè israeliani, questo vorrebbe dire che dovremmo essere governati da una maggioranza araba, e questo significherebbe la fine dello stato ebraico. No, credo che la maggior parte delle persone nel mondo, con tutte le differenze di opinioni che si possono avere sui dettagli, sono convinte che la pace si può fondare soltanto, come anche la Road Map prevede, su due stati separati, uno stato ebraico Israele e uno stato arabo Palestina. Naturalmente da noi, in Israele, dove le minoranze hanno gli stessi diritti, circa il 16 per cento sono arabi e il 3 o 4 per cento sono drusi, ecc. Quindi nel nostro stato circa il 20 per cento della popolazione non è composta da ebrei. Nel nostro parlamento ci sono più arabi, membri non ebrei del parlamento liberamente eletti, che in qualsiasi altro stato arabo, dove non c'è nessuna democrazia.

Engels: Grazie molte per il colloquio.

(DeutschlandfunkRadio, 3 maggio 2004)





2. INTERVISTA DELLA BBC A UNO DEI CAPI DI HAMAS




Israele ha diritto di esistere?
Domande a muso duro a Khaled Meshaal



di Tim Sebastian

Khaled Meshaal, se non è il capo di Hamas, è certamente uno dei più importanti leader rimasti del gruppo, l’uomo più ricercato dai servizi segreti di Gerusalemme, l’obiettivo del governo Sharon, che nel giro di poche settimane ha eliminato il leader spirituale di Hamas, Ahmed Yassin, e il suo successore, Abdel Aziz Al Rantisi. Meshaal è già sopravvissuto una volta, nel 1997, a un tentativo di assassinio da parte del Mossad. L’importanza del suo ruolo in Hamas non è dunque nuova. Nato nel 1956 in un villaggio vicino a Ramallah, Meshaal si è poi trasferito insieme con la famiglia in Kuwait. All’università è stato capo del movimento degli studenti palestinesi e dopo la laurea ha insegnato fisica. E’ sposato dall’81 e ha quattro figli e tre figlie. La svolta arriva nel ’90, con l’invasione irachena del Kuwait, che ha costretto Meshaal a trasferirsi in Giordania. Qui ha abbandonato la carriera di professore per dedicarsi alla militanza in Hamas, diventando l’incaricato della raccolta di fondi, intrattenendo contatti con Iran e Siria. E’ proprio nel suo ufficio di Amman che sono andati a cercarlo gli uomini dei servizi israeliani, travestiti da turisti canadesi, inniettandogli del veleno in un orecchio. E’ 1997 e l’operazione è stata autorizzata dal governo Netanyahu. A salvare Meshaal, che riesce ad arrivare in ospedale, è re Hussein di Giordania (reduce da un trattato di pace con Israele, tre anni prima) che, grazie all’intervento del presidente americano Bill Clinton, ha convinto Israele a fornire l’antidoto al veleno iniettato a Meshaal, e non solo. Avviene anche la liberazione di alcuni progionieri e la scarcerazione di Yassin. Nel ’99 Meshaal, dopo una breve carcerazione, costretto a lasciare la Giordania alla volta prima del Qatar, poi della Siria, a causa un mandato di arresto emesso da Amman, probabilmente sotto pressione americana. successore di re Hussein, Abdallah II, chiude le sedi di Hamas nel paese. A Damasco, Mashaal diventa il capo dell’ufficio politico di Hamas, il più alto organo decisionale dell’organizzazione. Nel 2003 è stato il rappresentante di Hamas ai colloqui tra i gruppi palestinesi organizzati dall’Egitto per ottenere una tregua. Come Rantisi, Meshaal si dice contrario a ogni forma di accordo con lo Stato d’Israele.


Mi trovo a Beirut, capitale del Libano, dopo una straordinaria giornata di colloqui a muso duro. Sono stato invitato qui per incontrare il leader del gruppo palestinese Hamas, considerato dall’Europa e dall’America una delle organizzazioni terroristiche più pericolose al mondo. Il suo leader è giunto qui dalla Siria, protetto da un imponente apparato di sicurezza. Ho dovuto cambiare più volte l’auto su cui viaggiavo, e alla fine mi sono trovato su un vano con i finestrini scuri, che mi ha portato in un luogo ignoto. Così, mi sono trovato davanti al leader di Hamas, solo pochi giorni dopo l’assassinio del suo leader spirituale, lo Sheikh Yassin.

Tim Sebastian: Signor Khaled Meshaal, un caloroso benvenuto alla nostra trasmissione. Dopo l’assassinio di Sheikh Yassin, Hamas sta progettando un nuovo ciclo di violenza in nome di un’inutile e cieca vendetta?
Khaled Meshaal: In Palestina il massacro continua a causa di tutti i precedenti crimini commessi da Israele, e non è cominciato dopo l’assassinio di Yassin. I crimini dei sionisti esigono una risposta da parte dei palestinesi. E’ una cosa del tutto normale. Questo tipo di reciprocità è riconosciuta da tutte le leggi umane e divine.

TS
: Ma dove vi porta? Dove vi porta questa forma di ritorsione? (…) Non avete proprio nient’altro da offrire?
KM: Il nostro obiettivo è quello di porre fine all’occupazione e non quello di uccidere la gente. Se il mondo fosse giusto nei nostri confronti e ci restituisse le nostre terre e i nostri diritti, non ci sarebbe bisogno di nessuna lotta e nessuna resistenza.

TS
: Vi fa forse sentire meglio vendicarvi e vedere per la strada i cadaveri degli israeliani?
KM: Saremo contenti solo quando sarà terminata l’occupazione. Speriamo che non si debba spargere altro sangue in Palestina, ma il responsabile è chi ha iniziato l’aggressione. Lo Sheikh Ahmed Yassin era un religioso, costretto su una sedia a rotelle, ma ciononostante è stato colpito dai sionisti con due missili, ossia da armi americane. Il popolo palestinese ha il diritto di rispondere a quest’aggressione.

TS
: Yassin era un uomo che ordinava l’assassinio di civili israeliani. Non si può davvero mettersi a protestare se è stato ucciso a sua volta.
KM: Yassin non dava nessun ordine di uccidere. La resistenza palestinese ha una specifica ala militare che combatte sul campo. E’ un diritto assolutamente naturale.

TS
: Forse non ordinava gli assassinii personalmente, però li approvava.
KM: Le operazioni condotte dalla resistenza non hanno bisogno della decisione di nessuno. Ogni palestinese conosce il proprio dovere. Ogni palestinese che vede i crimini degli israeliani sa come deve agire. L’ala militare di Hamas sa bene qual è il suo dovere. Fa il proprio dovere difendendo il popolo palestinese, rispondendo all’aggressione israeliana e resistendo all’occupazione.

TS
: Voi non state difendendo proprio nessuno. Le vostre tattiche non difendono affatto il vostro popolo. Non c’è un solo palestinese che voi possiate proteggere da un attacco degli F-16 o dei carrarmati israeliani.
KM: Noi difendiamo il nostro popolo anche se c’è una grande disparità di potenza, anche se le armi israeliani sono molto più sofisticate. L’esercito di occupazione israeliano deve capire che per ogni suo crimine ci sarà una risposta palestinese.

TS
: Voi colpite donne e bambini. E’ il terrorismo più brutale che esista.
KM: Il nostro obiettivo non sono né le donne né tantomeno i bambini. Fin dal principio, la resistenza palestinese si è concentrata su obiettivi militari e sui coloni.

TS
: Allora, gli attentatori suicidi non salgono sugli autobus per colpire i civili? (…)
KM: Non avevo ancora terminato di rispondere. Ho detto che la resistenza palestinese si è concentrata all’inizio su obiettivi militari e sui coloni. Ma gli israeliani hanno compiuto dei crimini contro i civili nella moschea di al Aqsa a Gerusalemme nel 1990 e nella moschea di Ibrahim a Hebron nel 1994, uccidendo degli innocenti che stavano semplicemente pregando.

TS
: Quali sono le condizioni per un nuovo cessate il fuoco?
KM: Per prima cosa Israele si deve ritirare; poi potremo cominciare a negoziare. Questa è la nostra terra, e ne abbiamo diritto.

TS
: Un ritiro entro i confini del 1967?
KM: Lo consideriamo un passo positivo, ma abbiamo diritto su tutta la Palestina.

TS
: Il 9 gennaio lo Sheikh Yassin aveva detto a un’agenzia di stampa tedesca che Hamas sarebbe stata d’accordo a stipulare una pace provvisoria con Israele in cambio della creazione di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967. Sta forse dicendo che questo non vale più? (…)
KM: Noi rispettiamo ciò che ha detto Yassin. Ma la questionè è: Israele accetterà veramente il ritiro? Bisogna chiederlo prima alla forza occupante. Bisogna che innanzitutto si ritirino. E’ necessario che dichiarino di essere pronti a ritirarsi entro i confini del 1967; poi potranno anche chiedere a Hamas di decretare un cessate il fuoco.

TS
: Le sto chiedendo appunto quali sono le vostre condizioni.
KM: Ho detto che per prima cosa Israele deve ritirarsi. E’ stato Israele a cominciare l’aggressione. Che ponga termine all’occupazione; poi si potrà negoziare qualsiasi cosa.

TS
: Gli israeliani devono ritirarsi; voi invece non dovete fare nemmeno una promessa.
KM: Ho ripetuto ciò che aveva detto lo Sheikh Yassin. Siete stato voi a citarlo. Ho ripetuto ciò che aveva detto a proposito del ritiro entro i confini del ’67. Se Israele si fosse ritirato, ora potrebbe esserci una tregua. Hamas è convinta di questo.

TS
: Potrebbe; ma voi non avete dichiarato in modo definitivo che, se Israele si ritirasse entro i confini del ’67, la tregua ci sarebbe senz’altro.
KM: In ogni caso, Israele deve innanzitutto ritirarsi; ma si rifiuta di farlo. Non ha rispettato gli accordi di Oslo.

TS
: Insomma, è Israele che deve fare la prima mossa.
KM: Naturalmente.

TS
: Dunque, Israele deve muoversi per primo. Vi sembra un buon modo di impostare il negoziato? (…) No, sapete perfettamente non porterà a nessun risultato. Voi non offrite niente in cambio. Volete che Israele si ritiri, ma in cambio non offrite niente.
KM: Abbiamo offerto delle positive iniziative. Abbiamo proposto un’iniziativa per evitare le vittime civili. Abbiamo proposto che Israele si ritiri entro i confini del 1967; a quel punto si aprirebbe la possibilità di una tregua tra noi e Israele. Abbiamo fatto diverse proposte, ma Israele, che è militarmente più forte ed è appoggiato dall’America, e dei cui crimini il mondo si rifiuta di parlare, non accetta di ritirarsi. Si rifiuta di riconoscere i diritti dei palestinesi.

TS
: Signor Meshaal, la storia ci racconta una versione diversa. Assolutamente diversa. Voi vi siete opposti a ogni tentativo di pace. Vi siete opposti al negoziato di Oslo e a quello di Madrid; avete condannato l’accordo di Ginevra, il rapporto Mitchell e quello di Tenet. La vostra organizzazione ha combattuto contro ogni tentativo di pace.
KM: Perché tutti questi tentativi non favorivano la causa della pace, e l’attuale situazione ne è la prova lampante. A che cosa è servito Oslo? Ha forse raggiunto la pace? Tutti gli accordi che avete menzionato non hanno certo portato la pace. Al contrario, servono soltanto a legittimare l’occupazione, e offrono a Israele una nuova possibilità di espansione. Grazie a Oslo, gli insediamenti si sono ulteriormente ingranditi.

TS
: Pretendete un impegno della comunità internazionale; però voi non siete disposti a impegnarvi. Avete ancora uno statuto che prevede la distruzione di Israele. Nel vostro statuto è scritto che la Palestina nella sua interezza è un possedimento musulmano. Dov’è la terra per Israele?
KM: Voglio farvi una domanda. Arafat ha ripetutamente offerto il proprio impegno; ma voi che ne avete fatto? Avete forse mostrato il minimo rispetto per il suo impegno?

TS
: Perché tirate in ballo Arafat? A voi di Arafat non importa nulla. Nel 2002 avete dichiarato: “Se vogliamo una vera riforma, dobbiamo cominciare dalla dirigenza. Quasi tutti i leader dell’Autorità palestinese (Anp,ndr) devono essere cambiati. A che cosa serve avere un’Anp, se non è capace di difendere il suo popolo?”. Voi volete l’Anp tanto quanto volete l’esistenza d’Israele.
KM: Al contrario; tra noi e l’Anp non ci sono problemi. Abbiamo visioni politiche diverse, ma negoziamo e discutiamo.

TS
: Io penso che invece ci siano enormi problemi tra voi e l’Anp.
KM: Il vero problema è tra noi e Israele.

TS
: Allora perché nel 2002 avete fatto quella dichiarazione? Perché volevate toglierla di mezzo?
KM: Non è affatto così. Eravamo semplicemente in disaccordo.

TS
: Ma avete detto proprio così. E’ scritto sul Daily Star di Beirut. “A che cosa serve avere un’Autorità palestinese, se non è capace di difendere il suo popolo?”
KM: Sì, abbiamo criticato la corruzione dell’Anp e la sua rinuncia ai diritti dei palestinesi; ma non abbiamo invocato una battaglia contro l’Anp. Abbiamo chiesto riforme, onestà a tutti i livelli e impegno per i diritti del popolo palestinese.

TS
: Bisogna ammetterlo: è semplicemente una lotta di potere tra voi e l’Anp. Voi volete metterli fuori gioco, vero? (…) Voi non volete l’Anp più di quanto la voglia Israele.
KM: No, non dovete metterci dalla stessa parte di Israele. L’Anp ha sbagliato quando ha trattato sui diritti dei palestinesi, ed è stata colpita da una grande corruzione. Ci siamo opposti a tutto questo perché andava contro l’interesse del popolo palestinese.

TS
: Allora, voi condannate l’Anp? Li condannate, e poi siete disposti a collaborare con loro? Le due cose non possono andare di pari passo.
KM: Dire che si stanno sbagliando non significa che vogliamo combatterli, spero che lo comprendiate. Possiamo non essere d’accordo dal punto di vista politico o sulle iniziative da prendere, ma questo non significa che sia in corso una battaglia tra noi e loro.

TS
: Dalal Salama, membro del Consiglio legislativo palestinese e del Comitato della Banca Fatah di Cisgiordania, ha detto il 7 gennaio: “Oggi le differenze tra l’Anp e Hamas sono più profonde di quanto sembri. E non solo sulle questioni israeliane, ma anche sul carattere stesso del governo palestinese”.
KM: Sì, ci sono profonde differenze politiche; ma siamo anche d’accordo su diverse cose. Siamo d’accordo sull’Intifada. Siamo d’accordo sulla resistenza. Siamo d’accordo sui diritti dei palestinesi, ma abbiamo visioni e programmi politici diversi. E’ un fatto del tutto naturale.

TS
: La prova della vostra “disponibilità” a unirvi con l’Anp sta nel vostro rifiuto di entrare nel gabinetto di Arafat. Ecco quali sono le vostre vere intenzioni.
KM: La via da percorrere non è quella di entrare in un gabinetto presieduto da Arafat. Abbiamo proposto ai nostri fratelli nell’Anp e nel movimento Fatah di partecipare direttamente nei meccanismi decisionali. Siamo un solo popolo, con diverse fazioni unite dall’Intifada e dalla resistenza all’occupazione; ed è nostro diritto avere voce in capitolo. E’ questa la democrazia che proprio voi, in Europa e America, desiderate.

TS
: Se credete davvero nella democrazia, perché accettate denaro da paesi che non sono affatto democratici, come l’Arabia Saudita, l’Iran, la Siria? Che cosa vi importa della democrazia, se siete disposti ad avere a che fare con paesi come questi?
KM: Primo, Hamas è governato da un sistema democratico. Secondo, non prendiamo denaro da nessun paese. Lo riceviamo dal nostro popolo. Il popolo ci dà legittimità.

TS
: Cinque milioni di dollari dall’Arabia Saudita.
KM: Fate vedere le prove. Ce le avete?

TS
: Siete veramente pronto a negarlo?
KM: Non ho bisogno di negare una cosa inesistente.

TS
: Due anni fa, siete stato ospite del re Fahd a Riad. Suo ospite personale.
KM: Visitiamo i paesi arabi e ci incontriamo con i loro leader, perché credono in Hamas e nel movimento di resistenza e appoggiano i diritti dei palestinesi. Ma questo non significa che prendiamo denaro da loro.

TS
: L’Ue ha bisogno che voi condanniate le violenze, altrimenti non potrà aiutarvi.
KM: La resistenza palestinese non è né terrorismo né violenza; non possiamo rinunciare ai nostri diritti.

TS
: Voi siete l’unico che la pensa così, Signor Meshaal. L’unico.
KM: Pensate che sia il solo. Come considerate tutte quelle persone che si oppongono all’occupazione e condannano Israele e l’America? Lo sapete che il 43 per cento del popolo americano ritiene che gli Stati Uniti siano la principale minaccia alla pace mondiale? Esiste un terrorismo internazionale guidato dagli Stati Uniti e da Israele.

TS
: Molta gente critica Israele, ma non per questo vi appoggia. (…)
KM: Per me è sufficiente che il popolo arabo e musulmano ci sostenga, e che al nostro fianco stiano i popoli liberi del mondo. Vi posso assicurare che Israele sarà un peso per voi in Europa e anche per gli americani.

TS
: Voi accusate l’Occidente di contraddizioni; ma dovreste prima guardare le vostre. Dite che volete la democrazia in tutto il Medio Oriente, quindi dovrebbe essere nel vostro interesse che l’America abbia successo in Iraq. Allora perché il vostro rappresentante a Gaza, Abdel Aziz Rantisi (ucciso dall’esercito israeliano alcuni giorni dopo questa intervista, ndr), invoca la creazione di cellule di martiri in Iraq?
KM: Lasciamo perdere Rantisi, e osserviamo invece il popolo iracheno? Il popolo iracheno ha forse accettato la democrazia a stelle e strisce?

TS
: Sto chiedendo perché Hamas non appoggia il processo di democratizzazione in Iraq. E’ questa la mia domanda. Signor Meshaal, voi sapete perfettamente che questa è la prima possibilità di democrazia per il popolo iracheno da decenni a questa parte. (…)
KM: Quello che gli Stati Uniti stanno creando in Iraq non è una democrazia. E’ un’occupazione. E in questo stesso momento stanno uccidendo degli iracheni.

TS
: Parlate in nome del popolo iracheno?
KM: Ciò che avviene in Iraq non è affar nostro. Non abbiamo niente a che fare né con un suo eventuale successo né con un suo fallimento. Ma in Iraq non si sta creando la democrazia, e per averne la prova basterebbe fare un sondaggio tra la popolazione irachena. Accettano

prosegue ->
l’occupazione americana? No. Hanno fiducia nella pretesa democrazia americana? No. Il popolo iracheno non si fida delle promesse statunitensi e non crede alla democrazia americana. Noi, come arabi e musulmani, abbiamo un’antica tradizione di democrazia.

TS
: Parlate in nome del popolo iracheno?
KM: No, non sto parlando in suo nome. Vi dico semplicemente di andare da loro e chiedere che cosa pensano. Avrete la risposta più vera.

TS
: Se in Iraq la democrazia avrà successo, che cosa farete? Chiederete scusa?
KM: Io spero che la democrazia abbia successo. Ma vi posso assicurare che con i carrarmati americani la democrazia non ha alcuna possibilità di successo. La democrazia ha successo soltanto quando…

TS
: Ecco, la profezia di Hamas. Non avete altro da offrire? Siete soltanto capaci a dire “non riuscirà”? Ma voi volete che fallisca, vero? Voi volete che fallisca perché ci sono in ballo gli americani. Ecco il motivo.
KM: Volete forse che vi dica che la causa di tutti i problemi in Iraq sia Hamas? I problemi in Iraq sono ben più complessi.

TS
: Gli israeliani stanno per ritirarsi da Gaza. Lascerete che ciò avvenga pacificamente? Collaborerete con l’Anp, oppure cercherete di creare disordini a Gaza?
KM: Quando Sharon ha dichiarato che si sarebbe ritirato da Gaza, chi è che ha dato avvio all’escalation della violenza? Noi o loro? Chi è che ha ucciso Yassin? In quale preciso momento gli elicotteri Apache hanno assassinato Yassin? Non è stato forse subito dopo l’annuncio del ritiro da Gaza?

TS
: Collaborerete con l’Anp?
KM: Sì, collaboreremo con l’Anp, con Fatah e con tutte le altre organizzazioni. Sui punti essenziali c’è un accordo generale. Collaboreremo tutti insieme al governo di Gaza dopo il ritiro israeliano.

TS
: E quando l’Anp condannerà gli attentati suicidi, che cosa farete? Voi non gli darete ascolto, vero?
KM: Non dovete interferire nelle nostre questioni interne. Il problema non è tra noi palestinesi. Non è tra Hamas e Fatah o tra Hamas e Arafat. Il problema è tra noi e Israele. Bisogna fermare l’aggressione israeliana e costringere Israele a ritirarsi dalla nostra terra.

TS
: Il vostro vero problema, signor Meshaal, è che l’Anp vi chiede di interrompere gli attentati suicidi e voi vi rifiutate di farlo. E questa non è una vostra questione interna, ma riguarda tutto il mondo.
KM: Vi dico che quando l’Anp chiede a Hamas o a qualsiasi altra fazione di interrompere gli attacchi, sa benissimo che il problema non sta in noi, ma in Sharon. Noi ci siamo fermati parecchie volte. Abbiamo offerto più di una tregua.

TS
: State evitando la mia domanda.
KM: Non la evito affatto. Anzi. Sto dicendo che il problema non siamo noi. Abbiamo offerto più volte una tregua. L’anno scorso, al Cairo, abbiamo stipulato una tregua di 50 giorni. Chi l’ha violata per primo? Sharon.

TS
: Come fanno gli israeliani a fidarsi di un’organizzazione che nel suo statuto prescrive la distruzione di Israele? Se rinuncerete a questo statuto, forse riuscirete a ottenere un po’ di fiducia. (…)
KM: Se loro non si fidano di noi perché noi dovremmo fidarci di loro? Occupano la nostra terra, uccidono i nostri bambini e distruggono le nostre case. Compiono assassini mirati ogni giorno. Arafat ha accettato le loro richieste e ha fatto dichiarazioni esplicite contro gli attentati. Ma questo non li ha fermati, né ha fatto guadagnare maggiore credibilità ad Arafat.

TS
: Rispondete almeno a questa domanda. Israele ha il diritto di vivere in pace? Riconoscete il diritto di Israele a un’esistenza pacifica?
KM: Consideriamo la Palestina la nostra terra, alla quale abbiamo diritto. L’occupazione deve cessare.

TS
: Rispondete alla domanda con un sì o un no. Israele ha diritto all’esistenza? E’ una domanda molto semplice.
KM: Sto dicendo che abbiamo diritto alla nostra terra e che l’occupazione deve finire. Nessuna occupazione può essere mai legittimata, nemmeno dal tempo.

TS
: Allora la risposta è no. Israele non ha il diritto di esistere. Questo state dicendo.
KM: L’occupazione non diventa mai legittima, nemmeno con il passare del tempo. Voi state parlando di una pace giusta e generale. Ma se ai palestinesi che sono stati costretti a lasciare la propria casa a Haifa o a Jaffa non viene concesso il diritto di ritornare nella loro terra, come si può parlare di pace giusta? Perché continuate ad affermare i vostri diritti in Europa e in tutto il mondo, e a noi chiedete di rinunciare ai nostri?

TS
: Insomma, Israele non ha il diritto di esistere. Diciamolo chiaramente una volta per tutte. Voi state affermando che Israele non ha il diritto di esistere. Anche se voi non rispondete direttamente alla mia domanda, perché per voi è una domanda troppo imbarazzante.
KM: Non lo è affatto. E ho già risposto. L’occupazione deve finire. Perciò, abbiamo il diritto di combattere per la nostra terra.

TS
: Come si può negoziare con qualcuno che non è disposto a dare una risposta chiara a un domanda così precisa?
KM: Allora, non ha capito la mia risposta.

TS
: Credo che non la capirà nessuno.
KM: La gente la capirà. E adesso vorrei porle io una domanda. Che cosa c’era in Palestina prima del 1948? C’era un popolo che viveva pacificamente sulla propria terra.

TS
: Voi volete tornare indietro quando il resto del mondo vuole andare avanti.
KM: Sto dicendo la verità. Se volete affrontare concretamente la situazione attuale dovete comprendere le sue radici.

TS
: Signor Meshaal, siete venuti qui a Beirut dalla Siria per fare quest’intervista, e molti si aspettavano che avreste avuto qualcosa di nuovo da offrire. Qualcosa di diverso dalla solita spirale di violenza. Non avete davvero nulla di nuovo da offrire?
KM: Riassumerò con precisione la posizione di Hamas. Bisogna innanzitutto tenere fuori dalla battaglia la popolazione civile. Se si condanna veramente la spirale di violenza nella Palestina occupata, bisogna obbligare Israele ad accettare di risparmiare i civili di entrambe le parti.

TS
: Dunque, il primo passo da compiere è la protezione dei civili.
KM: Sto dicendo che dobbiamo fermare il massacro da entrambe le parti. Teniamo fuori i civili, e limitiamoci a uno scontro tra la resistenza palestinese da una parte e le forze armate e i coloni israeliani dall’altra. Ma voi rifiutate questa soluzione. E rifiutandola, permettete il proseguimento dei massacri. Perché fate pressioni su di noi ma non su Israele?

TS
: E il secondo passo?
KM: A quel punto, se Israele si convincesse della necessità di un ritiro dai territori occupati, si compierebbe un altro passo importante, e penso che la violenza potrebbe cessare almeno per un po’ di tempo. Ma dobbiamo almeno fare il primo passo. Fermiamo il massacro dei civili, e convinciamo Israele a ritirarsi e a dire al popolo palestinese che avrà il proprio Stato.

(Il Foglio, 22.04.2004 - ripreso da Informazione Corretta)





3. ORGOGLIOSI DI ESSERE «JECKE»




Domenica sera [2 maggio] si è tenuta a Gerusalemme una manifestazione di tipo particolare, una conferenza a cui hanno preso parte soltanto «Jecke» (ebrei di origine tedesca). La conferenza è stata organizzata per festeggiare l'anniversario dell'immigrazione in Israele di 80.000 ebrei dalla Germania e dall'Austria 70 anni fa.
    Gli jecke hanno lasciato la loro impronta in molti aspetti della vita, nella cultura, nell'educazione, nella medicina e nell'economia, ma in una sfera hanno lasciato un particolare segno nella società israeliana: come argomento di barzellette. Le lettere della parola «Jecke» sono state interpretate come «ebreo di difficile comprendonio». Nel passato il soprannome «Jecke-Potz» ha portato perfino a denunce per diffamazione. Al contrario, il giudice Haim Cohen, ora scomparso, anche lui un fiero jecke, scrisse una volta in una sentenza: «Questa non è un'offesa. Anch'io sono uno jecke e considero questo un onore...»
    «Uno jecke è una persona la cui parola vale e la cui promessa è sempre una promessa», ha detto l'organizzatore della conferenza, Michael Shila. «E' una persona che arriva puntualmente e aspetta pazientemente in fila. Molti considerano questo ingenuità, ma noi vogliamo trasmettere questo buon comportamento alle generazioni che vengono», ha aggiunto.
    Nella conferenza ci sono state relazioni sulle particolarità dell'ebraismo tedesco, del sionismo tedesco e sul contributo degli «Jecke» alla musica, la cultura, l'arte, l'economia, come anche alla diplomazia, la politica, la comunicazione e perfino in parte al sistema giuridico.
    
(Ma'ariv, 3 maggio 2004)





4. INTERVISTA A NATAN SHARANSKY SULLA CONFERENZA DELL'OSCE



Natan Scharansky


«Il nemico non distingue
tra israeliani ed ebrei»


Intervista del quotidiano tedesco "Die Welt" a Natan Sharansky


Die Welt: Sessant'anni dopo l'Olocausto una conferenza dell'OSCE (Orga- nizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) contro l'antisemitismo. E proprio a Berlino. Non ha sentimenti contrastanti?

Sharansky: E' sconcertante, in effetti. Quando noi dissidenti formammo nel 1976 il gruppo Helsinki per il monitoraggio dei diritti umani in URSS, pensavamo ingenuamente che in Occidente dopo l'Olocausto l'antisemitismo non fosse più un problema. Facili soluzioni non ci sono. Ma è significativo che il dissidente di una volta oggi viene a Berlino alla guida di una delegazione del governo [israeliano].

Die Welt: Una conferenza come questa può avere conseguenze pratiche?

Sharansky: Si tratta di mobilizzare tutte le forze. E' bene quindi che, oltre ai governi, si muovano anche le organizzazioni non governative. E' importante riconoscere che l'antisemitismo non è un problema ebraico. E' piuttosto il problema di ogni Stato e di tutti i tipi di società. E non bisogna dimenticare che questo avviene nel quadro dell'OSCE. Come negli anni settanta, i nobili obiettivi devono essere affrontati concretamente. Come fecero allora i dissidenti in URSS, oggi sono i governi che devono correre dei rischi.

Die Welt: Ma come può avvenire questo, concretamente?

Sharansky: La lotta contro l'antisemitismo non è una scienza esatta. Alla fine, il problema è che l'Occidente deve preservare i suoi propri valori. A questo scopo si devono sviluppare criteri chiari. Io propongo il "Criterio 3D" [ Notizie su Israele 226]. L'antisemitismo si è sempre potuto riconoscere per la Demonizzazione degli ebrei, la Doppia misura con cui si giudicano gli ebrei, e la Delegittimazione degli ebrei. Anche se oggi l'antisemitismo si presenta sotto il mantello della critica israeliana, con questo "Criterio 3D" può essere facilmente distinto da una legittima critica ad Israele. Se Israele viene demonizzato, giudicato con una doppia misura o stereotipatamente delegittimato, non si tratta di critica politica, ma di antisemitismo che si presenta come "political correct".

Die Welt: Nell'Unione Europea si è diffusa l'impressione che l'accusa di antisemitismo, anche se spesso è giustificata, serva al governo israeliano per rigettare la critica europea, che non sempre è ingiustificata. Anche negli USA l'antisemitismo sta crescendo.

Sharansky: Torno proprio adesso dagli USA. Lì il problema è particolarmente grande nelle università. E noi non abbiamo l'intenzione di abbandonare la futura generazione di dirigenti della più importante potenza mondiale alle tendenze antisemitiche. Negli USA queste tendenze si manifestano in gruppi marginali, nell'Unione Europea invece nei media più importanti e nella crescente minoranza islamica. Cosa che nel frattempo è stata riconosciuta anche dai governi, soprattutto in Francia e in Germania.

Die Welt: Lei parla sempre di un antisemitismo che cambia. Ma oggi non si può dire che anche gli ebrei cambiano?

Sharansky: La fondazione di Israele ha cambiato qualcosa. Come ex dissidente lo so molto bene. Ma anche il rapporto tra Israele e la diaspora sta cambiando: in Israele l'antisemitismo è sempre stato visto da lontano, come un pericolo che riguarda la diaspora. Da parte loro gli ebrei nel mondo vedevano le manifestazioni anti-israeliane come un problema che riguarda esclusivamente Israele. Negli ultimi tre anni queste delimitazioni si sono sfumate, perché è il nemico che non distingue più tra Israele e gli ebrei.

Die Welt: In conclusione allora l'antisemitismo è una "malattia inguaribile". Che cosa si può fare ancora?

Sharansky: Se l'antisemitismo possa essere eliminato, è una domanda. Un'altra questione è la difesa dei valori occidentali. Ci sono opposti valori che cozzano fra loro, e la battaglia è inevitabile e non riguarda soltanto gli ebrei. Pregiudizi e stereotipi contro gli ebrei rivengono continuamente fuori, ma non devono diventare pericolosi, né fisicamente né culturalmente. Se l'antisemitismo non si può eliminare, bisogna limitarne i pericoli e i danni. Ancora una cosa: i dissidenti in URSS si sentivano sempre ripetere: il totalitarismo comunista non si può abolire. La battaglia però non era così disperata.

Intervista condotta da Norbert Jessen

(Die Welt, 29 aprile 2004)





5. PALESTINESI CHE PROTESTANO




Sciopero di giornalisti palestinesi

RAMALLAH - Decine di giornalisti palestinesi hanno manifestato lunedì scorso [3 maggio] davanti alla sede dell'Autorità Palestinese a Ramallah. Denunciando le numerose aggressioni ai giornalisti non chiarite, circa trenta rappresentanti dei media hanno boicottato una seduta del gabinetto palestinese.
    I giornalisti si sono lamentati perché fino ad ora nessun aggressore è stato arrestato, nonostante che l'identità di alcuni di questi sia nota alle forze di sicurezza palestinesi e alle vittime. Un portavoce dei dimostranti ha chiesto all'Autorità Palestinese di chiedere conto ai responsabili del loro operato e di rendere noti i loro nomi.
    Alla protesta ha preso parte anche un giornalista di nome Jamal Aruri. Alla fine di aprile questi era stato aggredito da palestinesi armati. Gli uomini lo hanno picchiato e rotto entrambe le braccia.
    Più volte dall'inizio dell'anno dei palestinesi mascherati hanno assalito uffici di giornali o radiostazioni a Ramallah, Gaza e in altre città. Hanno distrutto computer, telecamere e mobili, hanno picchiato i collaboratori e li hanno minacciati con le armi.

*


Poliziotto palestinese si dimette per protesta

GAZA - Un alto funzionario della polizia palestinese nella striscia di Gaza si è dimesso lunedì scorso dal suo ufficio. Come principale motivazione ha indicato la diffusa corruzione all'interno dei servizi di sicurezza dell'Autorità Palestinese.
    Come riferisce il quotidiano "Jerusalem Post", il colonnello Madjed Abu Shaleh, presidente dell'Ufficio Crimini della polizia civile, ha comunicato le sue dimissioni in una lettera indirizzata al Ministro degli Interni palestinese Hakam Balawi.
    Si sente frustrato dal fatto che non è in grado di portare giustizia e ordine, scrive Abu Shaleh nella sua lettera. «Non posso portare in giudizio dei normali cittadini che hanno commesso un crimine, quando influenti persone violano la legge e per questo non sono condannati», ha scritto il colonnello.
    Respinge i resoconti secondo cui è stato costretto alle dimissioni da accesi contrasti con Ghasi Jabali, il capo della polizia civile.
    Diverse istituzioni dell'Autorità Palestinese e altre organizzazioni nella striscia di Gaza conducono da mesi lotte di potere. Giovedì scorso Jabali ha subito un'aggressione. Poco dopo aver lasciato il suo ufficio è esplosa una bomba vicino all'edificio. Non c'è stato però nessun ferito.
    Lo scorso febbraio forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese hanno fatto irruzione nell'ufficio di Jabali, hanno picchiato il capo della polizia, gli hanno ficcato la testa nella tazza del water e hanno cominciato a sparare. Un poliziotto è stato ucciso e altri dieci sono rimasti feriti.

(Israelnetz Nachrichten, 04.05.2004)





6. UN'EBREA CANADESE «TORNA A CASA»




Essere israeliani nell’Anniversario dell’Indipendenza

di Jenny Hazan
     
    Quando arrivai all’aeroporto Ben Gurion, il giorno della mia alià, il 27 aprile 2003, con un volo da Toronto, avevo in tasca non meno di una decina di bigliettini, con i numeri di telefono di altrettanti passeggeri israeliani, che, durante il viaggio, mi avevano già offerto la loro guida, le loro case, le loro famiglie ed i loro amici – tutti e di tutto – per aiutare una nuova immigrante ebrea in Israele, che arrivava da sola.
    Il calore degli israeliani, questo senso di solidarietà fra ebrei in Israele è ciò che, prima di tutto, mi ha attirato con tanta forza nel paese. Questa è la regione per cui ho decisio di trasferirmi a Gerusalemme, dopo la mia prima visita, nell’ambito del Programma Birthright, avvenuta nel febbraio 2001.
    Quando il sole cominciò a declinare dietro le colline, durante il mio primo venerdì sera al Kotel, mi trovai in mezzo ad un gruppo di altri 20 giovani membri della Diaspora nord-americana, che recitavano all’unisono la benedizione sui lumi. Poi, la nostra guida mi prese la mano e cominciò a cantare e a ballare, e molto rapidamente, anche tutti gli altri si unirono ai canti ed alle danze. Eravamo dei completi estranei, che cantavano in ebraico e gioivano insieme nel celebrare il loro Shabbat.
    Ci sentivamo al nostro posto. Al nostro posto! Al nostro posto fra le nazioni del mondo! La storia del mio popolo, le nostre tragedie ed i nostri trionfi, quel miracolo che è Israele, diventarono una sconvolgente e meravigliosa realtà davanti ai miei stessi occhi. Mi sentii colmare da un irresistibile desiderio di crearmi una mia propria strada in questo paese, nato dal sangue dei miei antenati. Sebbene fossi stata troppo distratta per rendermene conto fino a quel momento, quando Israele si guadagnò l’indipendenza, il 14 maggio 1948, anch’io divenni libera.
    In quel momento, il mio primo momento in Israele, compresi chi ero e dove erano le mie radici.
    Di fatto, la vita qui mi ha fatto capire che gli ebrei d’Israele sono tutt’altro che uniti: per ragioni religiose, politiche, etniche, culturali e chi più ne ha più ne metta. I Sabra hanno la tendenza a mostrarsi insensibili alla stupefacente coscienza dell’unità esistente fra gli ebrei, dando il primato alle questioni che ci dividono.
    Questo però non significa che tale unità non esista. Ci siamo trovati uniti a combattere per la nostra patria in passato, e possiamo ritrovarci uniti per combattere nuovamente per la nostra patria.
    Israele mi colma di speranza quasi ogni giorno; non solo per il futuro del nostro popolo e del nostro paese, ma per il futuro del genere umano. La mia fiducia nella nostra capacità di adempiere al nostro destino collettivo e di servire da lume alle nazioni rimane invariata. Sommando tutte le nostre energie, possiamo districarci da un ventre di fuoco per arrivare ad un seno di latte e miele.
    Posso non avere tutte le risposte, ma una cosa è certa: faccio parte di questo destino. La mia prima visita in Israele è stata un risveglio. Ha riportato alla luce quella identità ebraica che avevo così tragicamente sepolto sotto anni di assimilazione nella società canadese. Ciò di cui mi ero così sconsideratamente disfatta e che avevo quasi perduto per sempre, è resuscitato. Mi sono risvegliata da un torpore quasi fatale per scoprire che avevo uno scopo a questo mondo. Occupo un posto nella storia. Non ho il lusso di potermi comportare come un radicale libero, che galleggia intorno alla massa del pianeta. Il peso del futuro del mio popolo poggia sulle mie spalle. Ho qualcosa da dare al futuro del nostro popolo, al futuro del nostro paese ed al futuro del mondo.
    Israele mi ha salvata. Mi ha sopraffatta con un nuovo senso dell’obiettivo. L’essere qui ha ispirato la mia fede nel fatto che tutto sia possibile. Ed è per questa ragione che io ho bisogno d’Israele nella stessa misura in cui i miei fratelli israeliani dicono che Israele ha bisogno di me.
    La prima volta in cui festeggiai il Giorno dell’Indipendenza in Israele, fu al Kibbutz Yotvata, dove studiavo l’ebraico in un ulpan intensivo, prima di fare l’alià. Era il mese di aprile 2002, in un periodo in cui la sollevazione palestinese aveva raggiunto uno dei suoi apici di violenza terroristica. Avevamo appena terminato una cerimonia di accensione dei lumi all’aperto, quando ricevetti una telefonata frenetica da mia madre: “Prenota immediatamente un biglietto e torna a Toronto”, supplicò attraverso la disturbatissima linea del telefono pubblico del Kibbutz. Era seduta di fronte alla CNN e piangeva davanti alle immagini della carneficina in Israele, che lampeggiavano sullo schermo della televisione.
    “No – rifiutai – non posso, in tutta coscienza, lasciare questo paese nelle sue ore più buie; non quando ho amici e persone a cui voglio bene che sono nell’esercito. Che persona sarei, se me ne andassi proprio ora? Che razza di ebrea sarei?”
    “Quando torni a casa?”, continuò ad insistere.
    “Sono a casa, mamma. La questione è: quando tu vieni a casa?”
    La decisione iniziale di fare l’alià è stata la parte più facile del percorso, fino a questo momento. La vita qui è una lotta. Ci sono stati momenti in cui essere israeliano ha significato andare al funerale di amici uccisi in attacchi terroristici; ha significato visite sin troppo frequenti in ospedale, per fare visita ad altri amici mutilati in tali attentati; ha significato parlare per telefono con la mia famiglia a Toronto ogni sera; ha significato avere un crollo nervoso sia al Ministero dell’Immigrazione che all’Ufficio Tasse;  ha significato imparare una nuova lingua (e fare un sacco di errori per via); ha significato vivere in un centro di assorbimento, dove né la doccia, né il frigorifero funzionavano; ha significato crollare addormentata davanti al mio computer al Jerusalem Post ed essere risvegliata dal mio redattore-capo la mattina dopo; ha significato la preoccupazione di mettere insieme l’affitto del mese prossimo; ha significato la frustrazione, non riuscendo a superare le differenze culturali. Venire in Israele è stata la cosa più difficile che ho fatto in vita mia.
    Israele, però, è un posto di colline e vallate; di alti e bassi; di giornate buone e cattive. Alla fine di ogni giorno, però, un fatto rimane intatto: Israele è il posto a cui mi sento di appartenere. Non scambierei questo percorso per tutto l’oro del mondo. La vita in Israele mi ha reso più dura. Mi ha reso più forte. Mi ha fatto quella che sono e quella che voglio diventare: un’ebrea fiera ed un’israeliana ancora più fiera.
     
(Keren Hayesod , 29.04.2004)





7. MUSICA E IMMAGINI




Erevshel




8. INDIRIZZI INTERNET




Yad Vashem

Maccabi Tel Aviv




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