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Notizie su Israele 266 - 11 novembre 2004

1. Morto Arafat, le reazioni della politica italiana
2. Come i giornali possono fare di un terrorista un grand'uomo
3. Fine di un terrorista«pentito»
4. Invito a scendere in piazza in onore di Arafat
5. Il rifiuto dell'esistenza di Israele spiega l'«enigma Arafat»
6. Odio per Israele, non amore per la Palestina
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Ecclesiaste 3:16-17, Ho anche visto sotto il sole che nel luogo stabilito per giudicare c'è empietà, e che nel luogo stabilito per la giustizia c'è empietà, e ho detto in cuor mio: «Dio giudicherà il giusto e l'empio poiché c'è un tempo per il giudizio di qualsiasi azione e, nel luogo fissato, sarà giudicata ogni opera».
1. MORTO ARAFAT, LE REAZIONI DELLA POLITICA ITALIANA




Yasser Arafat 1990

da Rai News 24

Roma, 11 novembre 2004

"Esprimo al consiglio legislativo palestinese i sentimenti di profondo cordoglio della Camera dei deputati italiana e mio personale per la scomparsa di Yasser Arafat, Presidente dell'Autorità nazionale palestinese e per tanti anni simbolo dell'identita' del vostro popolo". Questo il passaggio più significativo del messaggio inviato dal  presidente della Camera Pier Ferdinando Casini al Presidente del Consiglio legislativo palestinese per la morte di Arafat.    

"Arafat è stato, nel bene e nel male, un protagonista della questione palestinese. Simbolo dell'unità del suo popolo, era diventato prigioniero della sua stessa storia. La sua uscita di scena - scrive invece in un messaggio di cordoglio il presidente del Senato Marcello Pera - apre concrete possibilità di una svolta politica e generazionale che aumenti la credibilita' della leadership palestinese. E' auspicabile che, per raggiungere l'obiettivo della creazione dello Stato a cui quel popolo ha diritto, l'Anp dia prova di realismo, si impegni a debellare il terrorismo, a rinunciare all'incitamento all'odio, a promuovere le riforme interne".
"Yasser Arafat è la storia della Palestina. Per decenni ha rappresentato, con coerenza ed infinite difficoltà, la lotta e le giuste aspirazioni del popolo palestinese all'indipendenza, a uno Stato sovrano, in pace e sicurezza con Israele", dice il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto. E aggiunge: "La sua morte rappresenta un lutto grandissimo e una perdita per l'intero movimento democratico. Un lutto per quanti si battono contro le guerre, per la pace, contro la sopraffazione per l'indipendenza e l'autodeterminazione dei popoli. Oggi nel rendere omaggio al legittimo e riconosciuto leader palestinese, ribadiamo che sempre saremo al fianco del popolo palestinese per la costruzione di uno Stato indipendente, libero, che garantisca sicurezza e pace in tutta l'area".

"Il Presidente Yasser Arafat è morto in circostanze drammatiche e in una lenta agonia durata diciotto mesi tra lo stato di detenzione e quello di degenza", ricorda Bobo Craxi, vicesegretario Nuovo Psi, che aggiunge: "Al sogno palestinese egli ha dedicato tutta la sua vita di combattente, di uomo politico, di patriota. In questo momento, il mio pensiero corre alla stretta amicizia che lo lego' al popolo italiano, al partito socialista e a mio padre Bettino, che gli volle bene come fosse un fratello fino agli ultimi giorni della sua vita. Con Arafat non deve scomparire il suo sogno e non devono infrangersi le ragioni della pace e della speranza per il popolo palestinese e per quello israeliano".

Forza Italia esprime il proprio cordoglio per la morte di Yasser Arafat attraverso il responsabile dell'area internazionale, Dario Rivolta: "Arafat è stato un leader discusso ma sicuramente elencabile tra gli uomini che nel bene o nel male hanno fatto la storia recente del Medio Oriente purtroppo, soprattutto negli ultimi tempi, anziche' essere d'ausilio nella costruzione della pace è sembrato a volte costituirne uno dei maggiori ostacoli. Ci auguriamo - prosegue Rivolta - che il suo successore voglia raccogliere gli aspetti positivi della sua eredita' e rilanciare un dialogo che deve portare in tempi brevissimi sia alla costituzione di un vero Stato palestinese sia al totale riconoscimento dell'esistenza di Israele in condizione di sicurezza".

"Singolare destino quello del Presidente Arafat. Ha interpretato una causa giusta di un popolo che lotta per aver riconosciuta la sua terra, il suo Stato, la sua indipendenza. E che per interpretarla ha dovuto subire tante cacciate da tanti Paesi", ricorda con partecipazione il segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti. E spiega:  "Cosi' quando e' sembrato morto e' risorto: uomo dalle sette vite, è stato detto. Anche questi giorni tormentati sono sembrati sempre segnati dall'incertezza. Fintanto anche nelle ore estreme ha fatto parlare della causa del suo popolo. Ora Arafat è morto, riposa in pace il combattente di una causa giusta. Arafat e la Palestina sono diventati nel mondo la stessa cosa".





2. COME I GIORNALI POSSONO FARE DI UN TERRORISTA UN GRAND'UOMO




In morte di Giulio Cesare

di Federico Steinhaus
    
    Come nella tragedia di Shakespeare, la sepoltura simbolica di Yasser Arafat è per molti l'occasione per tesserne le lodi.
    Per troppi, e troppo.
    Non era pensabile, e probabilmente non sarebbe stato giusto, che i media si astenessero dal dare grande evidenza alle reazioni emotive di un popolo che improvvisamente viene privato dal destino del suo capo carismatico e simbolico, di colui che ha creato dal nulla una consapevolezza ed una identità nazionali opponendosi a quanti - in primissimo luogo i fratelli e cugini arabi - non avrebbero mai voluto che ciò accadesse.
    Ma esistono purtuttavia dei limiti imposti dalla decenza e dall' esigenza deontologica di non travisare la storia, a meno di non essere coscientemente deviati da essa in funzione di scelte politico-ideologiche.Questi limiti, se esaminiamo la quasi totalità dei media cosiddetti indipendenti, sono stati ampiamente superati, anzi ignorati.
    Analizziamo in questo contesto la Repubblica di sabato 6 novembre, con Arafat in coma non si sa di quale intensità , Suha in silenzio al suo capezzale in attesa di staccare le macchine che lo tengono in vita, i suoi dignitari più o meno fedeli che fanno la spola o si riuniscono per gestire il "dopo".
    Quattro pagine con articoli e servizi di Giampiero Martinotti, Leonardo Coen, Alberto Stabile, con fotografie, riquadri che illustrano e spiegano, una vignetta di Ellekappa.
    In queste quattro pagine così dense non abbiamo trovato una sola volta la parola "terrorista" per definire Arafat, né un cenno anche solo pudicamente velato alle violenze che egli per quarant' anni ha fomentato nel Vicino Oriente ed in Europa, alle sue collusioni con Brigate Rosse e Rote Armee Fraktion, alle sue simpatie sovietiche che lo hanno sempre ispirato e protetto, alle migliaia di civili innocenti che egli ha ordinato di assassinare (ebrei e basta, israeliani, ed anche suoi compatrioti).
    In queste quattro pagine abbiamo visto fotografie di dolore e di lutto, e ci è mancata la fotografia - anche una sola! - di uno degli innumerevoli attentati da lui organizzati, dei corpi straziati che i suoi uomini hanno seminato in giro per Israele ma anche in Europa ed in Africa.
    Si intervistano mediatori americani come Dennis Ross e palestinesi anonimi, ma non una sola delle sue vittime, non uno solo dei genitori di un bambino morto per suo ordine. Si descrive la sua agonia, si pensa al suo funerale, ma si dimenticano il dolore, i lutti, il vuoto di affetti che portano il suo nome come un marchio eterno.
    Un anonimo cronista (Martinotti?) descrive la tragica realtà di Gaza e ricorda che "la morte dei principali leader, dallo sceicco Yassin al pediatra Rantissi, entrambi uccisi durante la politica degli omicidi mirati da parte dell' esercito israeliano, ha lasciato un vuoto difficile da colmare. Ed è per questo che, davanti a quello che tutte le 13 fazioni definiscono un momento storico, si cerca di riannodare quel legame spezzato da un lungo isolamento e da scelte disperate".Yassin ed il "pediatra" Rantissi leader? Di cosa? Di una organizzazione definita da tutti come terroristica, una banda di assassini che si propone unicamente di cancellare Israele dalla faccia della terra! E le "fazioni", non sono in buona parte altre bande di terroristi?Non stiamo certamente parlando delle correnti di partito nel senso europeo del concetto, ma di chi meglio e più di altri uccide civili! Le "scelte disperate" di Gaza, poi, vengono illustrate da statistiche sulla miseria dei suoi abitanti, ma il nostro anonimo cronista (Martinotti?) non si cura certamente di raffrontare l' odierna miseria con il reddito pro capite del periodo che precedette l' esplosione di violenza 4 anni fa, e di cercarne le radici nei campi profughi che sono tali, e sono letamai, perché così hanno voluto Arafat ed il mondo arabo allo scopo di tenere alta l' indignazione contro Israele, che in quanto potenza occupante tra il 1967 ed il 1978 aveva invece cercato di renderli luoghi dignitosi ed igienici.
    E che dire di Leonardo Coen, che di Gerusalemme (di Gerusalemme, si noti, non di una parte della città) scrive che si tratta "di una capitale occupata dal 1967"? Che Leonardo Coen abbia fatto sua la causa di Hamas e di quanti non ammettono l' esistenza di Israele?
    Le 13 "fazioni" vengono definite in un titolo "gruppi combattenti", ma poi leggendo in un apposito riquadro la loro fisionomia scopriamo che Hamas è una "organizzazione integralista islamica", la Jihad Islamica un "gruppo islamico" , che Al Fatah è una "organizzazione palestinese" della quale si tace l' esistenza del cordone ombelicale e di sottomissione politica con le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, e che il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che fu di Habash ha "perso importanza". Certo, di questo e di altri si fa un breve cenno ad attentati kamikaze, ma la loro definizione di organizzazioni terroristiche non compare in nessun luogo.
    Arafat come Giulio Cesare, dunque.Ma se quel monologo fu epico ed è rimasto impresso nella nostra memoria per il vigore e la nobiltà che lo animavano, questi sconclusionati elogi funebri si qualificano per la squallida piatta servile uniformità e non meritano che il nostro oblio.

(Informazione Corretta, 8 novembre 2004)





3. FINE DI UN TERRORISTA «PENTITO»




Dichiarazioni di Yasser Arafat prima del suo «pentimento».

"Il nostro obiettivo è la distruzione di Israele. Non ci può essere né compromesso né moderazione. No, noi non vogliamo la pace. Vogliamo la guerra e la vittoria. La pace per noi significa la distruzione di Israele e niente altro."
(Yasser Arafat su "Esquire", Buenos Aires, 21.3.1971)

"Nulla ci fermerà fino a quando Israele non sarà distrutto. Scopo della nostra lotta è la fine di Israele. Non vi sono compromessi né mediazioni possibili. Non vogliamo la pace: vogliamo la vittoria. Per noi la pace è la distruzione di Israele e niente altro.
(Yasser Arafat su "New Republic", 16.11.1974)


Dichiarazioni di Yasser Arafat dopo il suo «pentimento».

"E' nostro diritto avere uno Stato, e non soltanto sulla carta, perché questo Stato sarà uno Stato palestinese indipendente, che servirà come trampolino di lancio dal quale libereremo Giaffa, Akko e tutta la Palestina." (1992)

"La fondazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e in Gaza sarà l'inizio della sconfitta dell'entità sionista. Nella fiducia in questa sconfitta, noi saremo in grado di portare a compimento il nostro obiettivo finale." (1992)

"La marcia vittoriosa andrà avanti fino a che la bandiera palestinese sventolerà a Gerusalemme e in tutta la Palestina, dal Giordano al mare, da Rosh Hanikra fino a Eilat." (1992)

"Ci sono due fasi del nostro ritorno: la prima fase fino alle frontiere del 1967, la seconda fino alle frontiere del 1948." (1992)

"La riacquisizione dei nostri territori occupati è solo la prima tappa sul cammino della completa liberazione della Palestina" (1992).

"Il nostro primo obiettivo è il ritorno a Nablus [Cisgiordania], poi proseguiremo per Tel Aviv" (1994).

"Noi aspiriamo alla fondazione di uno Stato che useremo per la liberazione dell'altra parte dello Stato palestinese." (1994).

"La battaglia contro il nemico sionista non è una battaglia che riguarda i confini di Israele, ma l'esistenza di Israele." (1994).

"Non abbiamo posato il fucile. Fatah continua ad avere gruppi armati che continueranno ad esistere. Tutto quello che sentirete [di contrario], serve solo ed esclusivamente per scopi strategici." (1992)

"[Il processo di pace] è soltanto una tregua d'armi fino al prossimo stadio della lotta armata. Fatah non ha mai preso la decisione di cessare la lotta armata contro l'occupazione." (1994)

(Citazioni tratte dal libro di Ramon Bennet, "Philistine - The Great Deception", Jerusalem, 1995, di prossima pubblicazione in traduzione italiana)

Ved. anche:
Notizie su Israele 27
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4. INVITO A SCENDERE IN PIAZZA IN ONORE DI ARAFAT




Nel forum della "Lega Antimperialista" compare il seguente manifesto in sui si "assolve" come politico Yasser Arafat, si ricorda con affetto "Abu Ammar", e si invita a rendere onore a tutti e due scendendo in piazza per la "Palestina" il prossimo 13 novembre.


La storia ha già assolto Yasser Arafat. Le molte vite di Abu Ammar.

    A Parigi, dopo due anni e mezzo di detenzione in un edificio di Ramallah, sta morendo Yasser Arafat, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e leader riconosciuto di tutti i palestinesi.
    Il 13 novembre prossimo, migliaia di persone scenderanno di nuovo in piazza in Italia e nel mondo per la Palestina.
    Il nesso tra i due avvenimenti sta nella data. Il 13 novembre di trenta anni fa, a New York, proprio Yasser Arafat portò la voce della Palestina dentro l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
    Di fronte agli ambasciatori e ai capi di stato di tutto il mondo, Yasser Arafat tenne il famoso discorso delle due alternative: “In un mano ho un ramoscello di ulivo per fare la pace, nell’altra ho un mitra per fare la guerra, spetta agli israeliani decidere quale strada vogliono seguire”.
    Se gli Stati Uniti ed Israele avessero scelto da allora di sostenere la via della pace, questi trenta anni ci avrebbero risparmiato tutti gli orrori e le ingiustizie di cui siamo stati testimoni o responsabili in Medio Oriente.
    In questi trenta anni Yasser Arafat – Abu Ammar per il suo popolo – è stato il protagonista di numerosi avvenimenti. Dalla fuoriuscita dei feddayn dal Libano (garantita dalle potenze occidentali ma che spianò la strada ai massacri dei civili palestinesi nei campi di Sabra e Chatila) all’esilio di Tunisi; dal drammatico tentativo di rientro in Libano con la sanguinosa scissione della resistenza palestinese alla prima Intifada; dalla dichiarazione di Algeri che riconosceva il diritto all’esistenza dello Stato di Israele agli accordi di Oslo; dal rientro in Palestina alla seconda Intifada ed alla sua detenzione negli ultimi due anni e mezzo dentro il palazzo della Muktada, ridotto in macerie e circondato dai soldati israeliani a Ramallah. La cosiddetta comunità internazionale è rimasta scandalosamente inerte di fronte ad una situazione oltraggiosa che ha visto un capo di stato recluso per due anni e mezzo.
    La propaganda israeliana ha cercato di addossare ad Arafat il fallimento degli ultimi accordi sul futuro dello Stato palestinese, in realtà quel rifiuto di Arafat fu un atto di difesa della dignità del popolo palestinese e della tesi secondo cui non può esserci pace senza giustizia.
    Yasser Arafat è stato dato per sconfitto innumerevoli volte, è stato criticato dagli stessi palestinesi e odiato oltre ogni limite dagli israeliani, ma Abu Ammar è sempre riuscito a trasformare in vittorie le sconfitte ed a mantenere il rispetto di tutti i palestinesi, anche di quelli più critici nei suoi confronti.
    Perché è stato Abu Ammar l’uomo che mise fine all’opportunismo dei paesi arabi sulla Palestina ed a guidare i feddayn palestinesi nella vittoria di Al Karameh nel 1965 contro l’esercito israeliano. Che impedì la cancellazione della questione palestinese dopo i massacri del Settembre Nero in Giordania, di Tal Al Zataar prima e di Sabra e Chatila poi in Libano.
    Se i palestinesi hanno spesso criticato Yasser Arafat, hanno sempre riconosciuto l’autorevolezza di Abu Ammar. Yasser Arafat era l’uomo delle trattative e delle concessioni dolorose, Abu Ammar era il leader che non ha mai sottovalutato il fatto che la libertà è lotta e che nessuna pace è possibile in Medio Oriente senza giustizia per il popolo palestinese.
    In questi anni abbiamo spesso criticato Yasser Arafat, ma riconosciuto l’autorevolezza di Abu Ammar.
    Oggi rendiamo onore ad entrambi manifestandolo nel modo più adeguato. Sabato 13 novembre saremo in piazza in solidarietà con la lotta del popolo palestinese nell’anniversario di quel discorso del 13 novembre di trenta anni fa alle Nazioni Unite e di cui l’alternativa tra pace e guerra resta ancora valida. Spetta a Bush e Sharon dare la risposta alla questione palestinese che tutto il mondo attende da trenta anni.

(Lega Antimperialista, 06.11.2004)





5. IL RIFIUTO DELL'ESISTENZA DI ISRAELE SPIEGA L'«ENIGMA» ARAFAT»




Si è servito di un finto nazionalismo laico per sedurre l'Occidente

di Carlo Panella

Lucida analisi della carriera politica di un uomo che ha fatto dell'odio per gli ebrei e della distruzione dello Stato d'Israele lo scopo della sua vita, e che fino all'ultimo ha potuto rimanere come protagonista sulla scena politica mondiale solo perché confortato dalla solidarietà di un'opinione pubblica internazionale con sentimenti simili ai suoi.

    Yasser Arafat un laico? No.
    Yasser Arafat ha lottato per uno Stato palestinese a fianco dello Stato d’Israele? No.
    Yasser Arafat uno statista? No. Yasser Arafat aveva una strategia? No.
    In queste risposte irrituali è racchiusa la somma di errori di

prosegue ->
valutazione che si accompagnano alla vicenda palestinese e alla leadership di Arafat, che si basa su altri e ben diversi punti di forza. E’ stato il primo, l’unico leader che ha saputo sottrarre ai vertici arabi (in particolare a Gamal Abdel Nasser) la gestione della lotta dei palestinesi; è stato l’unico rais arabo che ha saputo comunicare con l’occidente (quel suo refrain “Holy Land, Holy Land, Holy Land”, sussurrato, con voce rotta da una finta emozione ha suscitato più di una standing ovation); è stato l’unico leader che ha saputo tenere unite le due anime del movimento palestinese: quella fondamentalista e religiosamente antiebraica, maggioritaria, e quella nazionalista, laica e minoritaria. Arafat è stato, infine, il leader che ha fatto dimenticare all’Europa che i palestinesi si sono sempre schierati con i totalitarismicontro le democrazie, soprattutto che sono stati, tutti, filonazisti: nella prima guerra mondiale a fianco del blocco degli Imperi centrali contro le democrazie franco-inglesi; nella Seconda guerra mondiale, massicciamente, senza defezioni, a fianco di Adolf Hitler, incitando da Berlino gli arabi al jihad contro gli ebrei e le democrazie; nella Guerra fredda a fianco del totalitarismo sovietico contro l’occidente; nel conflitto tra Onu e Saddam Hussein, sull’annessione del Kuwait, a fianco del rais iracheno. Arafat è stato il leader che ha saputo costruire una piattaforma politica e d’immagine che ha fatto sì che i palestinesi, unico popolo al mondo, siano esentati dalla legge universale su cui si basa il diritto internazionale, per cui, chi perde le guerre, perde anche i propri diritti (loro le hanno combattute tutte dalla parte sbagliata e le hanno perse tutte; addirittura ne hanno combattute – e perse – due “contro” la legalità sancita dall’Onu). Il progetto di Arafat è stato disegnato con straordinaria chiarezza in quelli che anche i suoi più accaniti estimatori considerano “errori inspiegabili” e che vengono però poi giustificati citando, a sproposito, l’icastica frase di Abba Eban: “Arafat non perde mai l’occasione di perdere un’occasione”. Ma non è così, Arafat non ha mai scelto di “perdere un’occasione”, ha sempre tentato di coglierle tutte. Solo che queste occasioni non erano inserite nel progetto di “due popoli, due Stati”. Tutto qui. Ma nel progetto di un unico Stato in Palestina, quello arabo. L’eredità del Gran Muftì.
    L’accettazione d’Israele, il suo riconoscimento formale è stato tardivo (siglato nel 1993 è formalizzato soltanto nel 1998 e subito smentito con il lancio dell’Intifada delle stragi del 2000). Arafat non è stato il leader che cercava, armi alla mano – anche con il terrorismo – la strada della convivenza tra palestinesi e israeliani. Ha cercato, fino alla fine, di realizzare l’impegno della prima leadership palestinese, quella religiosa del Gran Muftì: cancellare Israele, fare della Palestina un unico Stato, Stato arabo, in cui naturalmente anche gli ebrei possano vivere, secondo quanto prescrive la sharia. Nel farlo ha dovuto tenere conto delle sue forze, mediare, e si è dimostrato geniale. Arafat sapeva di capeggiare un movimento in cui la maggioranza, con un’aspirazione islamico-totalitaria, è determinata a “eliminare l’entità sionista”, come era scritto nello Statuto dell’Olp sino al 1998 e in cui soltanto una forte minoranza è disponibile alla trattativa alla “pace contro terra”, sulla base di un normale progetto nazionalista. Arafat è stato il pendolo tra queste due tendenze, senza mai dominarle. Arafat, in questo, non è stato mai leader, non si è imposto, non ha mai rotto con la propria tradizione politica (come invece fecero Anwar Sadat e Menachem Begin e come fa oggi Ariel Sharon).
    E’ in questa ambiguità, in questa caratura essenzialmente fondamentalista del “rifiuto d’Israele”, in questa posizione subordinata del “nazionalismo” puro (di Abu Mazen, Abu Ala, Adnan Ashrawi, Hanna Seniora…) che ha origine lo svelamento del carattere non laico di Arafat e del suo Fatah, tanto che, proprio nel momento in cui otteneva da Ehud Barak e Bill Clinton, nel 2000, la terra, tutta la terra (il 94-97 per cento dei Territori, come lo stesso Arafat ha poi ammesso), la rifiuta. Ha rifiutato la terra, il passaggio dall’Autorità nazionale palestinese allo Stato palestinese e quindi subito, immediatamente, ha cambiato nome e pratica di lotta. Al Fatah di fatto è scomparso, spargendo stragi – tramite Tanzim e Forza 17, i suoi bracci armati – come “Brigate dei martiri di al Aqsa” e in questo cambiamento di nome c’è tutta la trama debole, inesistente, del laicismo dell’organizzazione e del suo leader.
    La seconda Intifada è infatti quella delle stragi dei suicidi-omicidi, portati a segno non contro i militari, ma contro i civili, non nei Territori, ma in Israele. Lucidamente, Arafat ha rinunciato dunque alla “terra” che pure infine Israele gli ha riconosciuto e ha dato il suo pieno, totale avallo alla pratica del “martirio islamico”; ha riconosciuto in pieno la leadership sostanziale di Hamas che islamicamente scrive nel suo Statuto: “Nessuno può negoziare della terra di Palestina perché essa è un waqf, un lascito eterno di Allah al popolo dell’islam”.
    Hamas è articolazione dei Fratelli musulmani e il gruppo dirigente di Fatah (forse a esclusione di Arafat, se si deve dar fede alla sua testimonianza) esce da un’esperienza giovanile nei Fratelli musulmani d’Egitto. Arafat, il Fatah, l’Olp non sono dunque laici, ma movimenti politico-militari, interni a una strategia che trova nell’islam fondamentalista, e soltanto nell’islam, il suo punto di forza e anche la sua rigidità, la sua impossibilità a mediare per dare spazio alla politica della trattativa. Arafat era laico soltanto perché indossava la divisa, null’altro. La sua ideologia era dentro l’islam, era l’islam e proprio a causa dell’islam rifiutava lo Stato d’Israele con cui è sceso a patti una sola volta, costretto, e poi ha subito denunciato il patto. E’ qui il vero segreto del grande equivoco che accompagna l’enorme simpatia che in Europa suscita la parabola dell’Olp. Arafat, più ancora di Nasser, ha saputo infatti costruire agli occhi dell’opinione pubblica occidentale la falsa immagine di una prospettiva non religiosa, non islamica del suo movimento; un segno forte di modernità, di emancipazione dalle pastoie religiose che avevano caratterizzato i primi 50 anni di lotta dei palestinesi contro i sionisti sotto la guida del Haji al Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme. Alla “Naqba”, al disastro di una dirigenza religiosa dei palestinesi che aveva portato nel 1948 alla sconfitta di tutti gli eserciti arabi da parte di un esercito israeliano che a stento era forte un decimo, è dunque succeduta una dirigenza laica, secolare, improntata soltanto al nazionalismo palestinese, incarnata appunto da Arafat. Ma in realtà il carattere, la cultura, la finalità di Arafat, al Fatah, l’Olp sono pienamente e totalmente “islamici”, come ha mostrato la seconda Intifada. Questo è il punto essenziale, la sede dell’equivoco, la ragione del fraintendimento: se la lotta dei palestinesi, se il “rifiuto arabo d’Israele” che essi incarnano è un esempio di lotta di liberazione nazionale, di lotta per la terra, o è invece altro: una guerra che trova nella religione islamica il suo vero ambito, i suoi confini, le sue leggi, i suoi riti; una guerra di religione motivata dalla posizione subordinata che il Corano attribuisce all’ebraismo, dal carattere sacro di Gerusalemme, dall’intreccio inscindibile tra “territorio e applicazione della sharia”, in cui gli elementi nazionalisti esistono, ma sono subordinati.
    Se si mette a fuoco questo punto, tutto torna, anche le apparentemente incomprensibili convulsioni di Arafat. Se non lo si mette a fuoco, se si continua a considerare la posizione palestinese alla pari delle tante situazioni irredentiste del secolo scorso, si sbaglia. La grande simpatia che l’opinione pubblica europea aveva nei confronti di Arafat, la sua eccezionale capacità mediatica di sollecitarla, rafforzarla, eccitarla, si basano dunque su un equivoco, voluto, costruito con metodica precisione dallo stesso rais. L’equivoco spiega l’inspiegabile. A differenza di tutte le altre lotte di liberazione nazionale, infatti, quella palestinese, come ha urlato un rabbioso funzionario dell’Anp allo stesso Arafat, si caratterizza per una serie infinita di sconfitte, che hanno alla base una caratteristica che unifica, non a caso, la dirigenza del Gran Muftì e quella di Arafat: il rifiuto dell’accordo, della mediazione, addirittura della trattativa.
    Questo rifiuto s’invera nel rifiuto dello Stato palestinese. E’ una verità scomoda, ma non per questo meno vera: fino al 1993 infatti, prima il Gran Muftì,poi lo stesso Arafat non accettano la ripartizione, i “due Stati” e arrivano sino al punto di non volere lo Stato palestinese se questo significa accettare quello ebraico. L’accordo è rifiutato nel 1936, con il diniego delle conclusioni della commissione Peel che assegnava ai sionisti soltanto 5.000 chilometri quadrati; nel 1939, con il rigetto del Libro Bianco di Londra: neanche un metro ai sionisti, ma ufficializzazione della loro presenza, in cambio del blocco dell’immigrazione di ebrei dall’Europa, alla vigilia di Auschwitz; nel 1947 con il rifiuto da parte della Lega araba e della leadership del Gran Muftì, reduce dalla Berlino hitleriana e subito reinserito al comando del Consiglio palestinese, non soltanto della nascita dello Stato d’Israele, ma anche dello Stato palestinese; nel 1979, con le minacce di morte (naturalmente e non casualmente esaudite) di Arafat a Sadat e con il rifiuto della logica dell’accordo sul Sinai; nel 2000, con il rigetto degli accordi di Camp David proposti da Clinton e Barak.
    Mentre si negava alla logica dell’accordo sulla terra con Israele, Arafat sviluppava però un progetto: chiaro, lucido, lineare, la sua unica strategia definita. Dal ’67 al ’91 la sua Olp tenta infatti in tutti i modi di conquistare il controllo di uno Stato arabo. Questa è stata la vera storia del “settembre nero” del ’70; del Libano tra il ’76 e l’84; della guerra tra Iran e Iraq dell’80; la vera spiegazione all’altrimenti inspiegabile appoggio a Saddam Hussein che nel ’90 annette il Kuwait all’Iraq. Nel ’70 la Legione araba di re Hussein di Giordania ha massacrato 10 mila feddayn di Arafat, nel disinteresse di un mondo arabo che sapeva bene che il monarca aveva ragione e il palestinese torto. Arafat e l’Olp stavano sviluppando una strategia chiara di confronto militare con l’esercito giordano, in cui il dirottamento dei due aerei sulla pista di un aeroporto in disuso nel regno doveva costituire l’innesco di una rivolta dei profughi palestinesi mirata ad abbattere la monarchia hashemita. Stesso copione in Libano. Tutti ricordano Sabra e Chatila, nessuno ricorda Tell al Zatar, sei anni prima. Identiche stragi di palestinesi a Beirut, per mano di arabi (la prima con la complicità passiva degli israeliani). Ma perché gli sciiti libanesi, i cristiani libanesi, i sunniti libanesi, i drusi libanesi hanno ucciso per anni, in un vortice di alleanze e tradimenti, più palestinesi di quanti mai ne abbia uccisi Tshaal? Perché Arafat ha tentato di controllare lo Stato libanese usando, come ad Amman, la forza congiunta dei suoi feddayn armati e delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi dei campi. Contro l’Iran, invece, ha usato un’altra tattica, ma sempre con la stessa mira: è stato Arafat, infatti, la scintilla che ha fatto scoppiare la guerra Iraq-Iran del 1980. Tutta la strategia di Saddam si basava sull’ipotesi di una rivolta della minoranza araba nel Khouzestan petrolifero, millantata proprio dal leader palestinese. La regione contava decine di migliaia di connazionali ai livelli medio- alti dell’industria estrattiva iraniana, che hanno tentato un insurrezione araba anti -iraniana che subito è fallita.
    Arafat poi ha sprecato tutto l’enorme patrimonio politico della prima Intifada nell’avventura kuwaitiana. Il passaggio è centrale per comprendere l’uomo e la sua politica e per dimostrare che la nostra irrituale immagine dell’uomo è esatta. L’Intifada delle pietre non è stata promossa né dall’Olp né da al Fatah: è stato un fenomeno spontaneo che ha avuto al suo centro le moschee e i militanti integralisti di Hamas e Hezbollah. E’ evidente però che Arafat è stato l’unico a capitalizzarne la forza sul piano politico internazionale. Dopo la rinuncia del re di Giordania, Hussein, alla sovranità sulla West Bank del 1988, Arafat era al sicuro. Soprattutto, Israele, che considerava suo interlocutore soltanto la Giordania e riteneva Arafat un terrorista, non aveva più spazio. Ma perché Arafat ha bruciato tutto nel suo sconsiderato appoggio – è stato assolutamente l’unico leader arabo ad averlo fatto – a Saddam Hussein quando ha invaso il Kuwait? La risposta sta in quel che abbiamo sin qui delineato: perché Saddam gli era indispensabile per continuare a giocare la carta della distruzione d’Israele e perché il Kuwait prendeva, nella sua strategia, la stessa posizione che avevano avuto Giordania e Libano. A Kuwait City, i palestinesi dell’industria petrolifera hanno svolto un ruolo chiave e hanno funzionato, come dieci anni prima in Khouzestan, da quinta colonna all’armata di Saddam, macchiandosi degli eccidi di civili kuwaitiani (subendone poi la vendetta nel 1991).
    Trascinato nella sconfitta da Saddam, dopo aver dilapidato tutto il patrimonio politico dell’Intifada, isolato da tutti i leader arabi, Arafat è stato obbligato all’unica e sola trattativa mai conclusa nella sua vita. Ma non ha avuto altra scelta, era all’angolo: ha bruciato nelle sabbie del Kuwait e nei suoi pozzi dati alle fiamme dai palestinesi tutta la sua credibilità nel mondo arabo. Soprattutto ha rotto con i sauditi, oltre che con gli egiziani e gli iraniani, e questo nessun leader arabo può permetterselo. Ecco allora la stretta di mano con Ytzhak Rabin. Ecco l’accettazione dell’accordo, come testimonia lo stesso Nemer Hammad, con un’esiguissima maggioranza dentro il Consiglio nazionale palestinese, con il suo “ministro degli Esteri”, Farouk Kaddumi, che marca a tutt’oggi la sua opposizione, rifiutando finanche di recarsi nei territori dell’Anp. Ma gli accordi di Oslo non sono stati un trattato di pace, sono stati “un accordo per l’accordo”, hanno mostrato un cammino, non la sua conclusione. Quando infine la conclusione gli è offerta, quando Barak gli ha dato tutto quanto potesse chiedere, inclusa Gerusalemme, Arafat ha rifiutato.
    La sua vicenda, tutto sommato lineare, è perfettamente inserita nella grande tragedia delle ideologie totalitarie e finalistiche del 900, in cui la lotta per la terra era subordinata a quella di un “fine ultimo”, in cui la cultura della morte ha prevalso sulla cultura per la vita (Arafat, in arabo, mai in inglese, ha sempre “benedetto i nostri martiri islamici” che facevano strage di ebrei innocenti). Ma la sua vicenda è drammatica per i palestinesi, che vedono bruciarsi sull’altare del totalitarismo due intere loro leadership, quella musulmano integralista del Gran Muftì filo nazista e del suo lontano nipote Arafat, che ne continua le tracce in veste “laica”, ma interna al totalitarismo
musulmano e altrettanto perdente.
    La vicenda è imbarazzante soprattutto per la “vecchia Europa”. Perché la molla che convince il Consiglio europeo di Venezia nel settembre 1980 a riconoscere in Arafat – che pure minaccia di morte Sadat per gli accordi con Begin – quale unico interlocutore palestinese (imponendo così agli Stati Uniti e a Israele la rinuncia alla trattative con la Giordania), altri non è che il petrolio a 40 dollari al barile (83 al valore di oggi). Perché la grande forza di Arafat in Europa è la “bomba atomica petrolifera” che dalla guerra del Kippur in poi la fondamentalista Arabia Saudita innesca per combattere e isolare con successo, tramite Arafat, Israele.
    Perché l’Europa cede in pieno al ricatto petrolifero e ancora oggi, sfidando l’evidenza, fa finta di parteggiare per una lotta di liberazione nazionale dei palestinesi, mentre invece pensa al suo eterno “non olet”.

(Il Foglio, 5 novembre 2004 - da Informazione Corretta)





6. ODIO PER ISRAELE, NON AMORE PER LA PALESTINA




Il terrorista miliardario che rubava al suo popolo.

di Angelo Pezzana

    Se pensava di entrare nei libri di storia, Arafat può riposare tranquillo. Dopo quasi quarantanni di scena sul palcoscenico palestinese ci entrerà sicuramente. Anche se non sarà l'Arafat statista ad essere ricordato. La divisa militare che ha sempre indossato, insieme alla kefiah, rappresenta il limite che non ha mai superato nella sua lotta per conquistare al suo popolo uno Stato.
    Uno Stato che è nato nell'immaginario palestinese unicamente in funzione anti Israele, non avendo avuto quel popolo nella sua storia mai alcuna rivendicazione di indipendenza. Arafat è rimasto per tutta la vita un terrorista, non è mai stato capace di entrare nel ruolo successivo, di fatto è rimasto lontano dai reali bisogni della sua gente. Che ha potuto governare e controllare soltanto grazie ad un sistema di corruzione interna e complicità internazionale.
    Tenere nelle proprie mani i cordoni della borsa gli ha consentito di condizionare alleanze e fedeltà, rendendo le istituzioni dell'Autorità palestinese espressioni politiche di pura facciata. Il consenso che è riuscito a raccogliere nel mondo intero avrebbe dell'incredibile se pensiamo quanto poco interessino, anche e soprattutto ai pacifisti, i conflitti locali che non coinvolgano ovviamente America e Israele. La carta di Arafat non è stata la Palestina, ma Israele. Sullo Stato ebraico non gli è stato difficile raccogliere consenso. Dopo la seconda guerra mondiale e dopo la Shoah, sembrava (o almeno ci si illudeva) che sarebbe stato impossibile assistere alla rinascita dell'antisemitismo.
    Ci sbagliavamo. Sono quarant'anni che l'attenzione di gran parte dell'informazione mondiale è puntata sul conflitto israelo-palestinese, indicando in Israele il principale pericolo per la pace mondiale, quasi come se il futuro del pianeta dipendesse dall'esistenza o meno di uno Stato palestinese. Arafat l'aveva capito benissimo, tant'è che quell'appoggio ha saputo conservarlo non tanto lavorando per la costruzione del suo Stato, ma garantendo i suoi mentori con una guerra infinita contro l'esistenza stessa di Israele. Arafat ha sempre saputo, da quel gran bugiardo che era, dire tutto e il suo esatto contrario a seconda se parlava in arabo o se si esprimeva in inglese. Si riempiva la bocca della parola pace se parlava in inglese, mentre in arabo chiamava i suoi alla conquista di Gerusalemme. Dal massacro degli atleti israeliani durante le olimpiadi di Monaco ai dirottamenti aerei, dalle stragi negli aeroporti ai kamikaze usati per uccidere civili in Israele, Arafat è stato il rais che ha regalato all'opinione pubblica occidentale la parola "resistenti" che ambiguamente i media usano al posto di terroristi. Quando, sotto il benevolo sguardo di Clinton, disse no a Barak e (laburista, non il falco Sharon) che gli offriva su un vassoio d'argento lo Stato palestinese formato dal 97% della Cisgiordania, Gaza per intero e Gerusalemme est per capitale, quanti si chiesero cosa gli stesse passando per la testa? Era lo Stato di cui tanto aveva blaterato e ora rispondeva no, grazie, non interessa. Quanti si sono chiesti in quei giorni se non era Israele ad interessargli, come da tante parti si continuava a insistere che quello e non altri era il suo vero progetto. Arafat ha potuto permettersi di tutto e continuare ad essere ugualmente credibile nel mondo democratico occidentale. Sembra che abbia dichiarato di voler essere sepolto sulla spianata delle moschee, ma questo suo ultimo desiderio, come la scomparsa dell'entità sionista", rimarrà tale. Sharon ha risposto di no, nemmeno in altro luogo di Gerusalemme. Per motivi di ordine pubblico, non tanto per il timore che il ricordo del rais defunto possa trasformarsi in un'icona pronta per la venerazione futura. Qualcuno si ricorda ancora in Egitto di Nasser? Nessuno, e tra breve anche il ricordo di Arafat svanirà, sostituito, speriamo, dalla volontà che una nuova leadership avrà per affrontare e risolvere tutti i problemi lasciati irrisolti. Sicuramente lo rimpiangeranno, a destra come a sinistra, quelli ai quali non importa nulla che l'Iran stia per dotarsi della bomba atomica, quelli ai quali la riconferma di Bush alla Casa Bianca non vuole dire guerra al terrorismo ed esportazione della democrazia ma l'"impero americano" che si riconferma tale, quelli ai quali importa solo che i diritti umani siano verifìcati e protetti in America e Israele ma se ne fregano bellamente di quanto avviene altrove.
    A tutte queste anime belle Arafat mancherà. A noi no. La sua dipartita rappresenta una boccata di ossigeno per il futuro, libero e democratico, di una parte del Medio Oriente.

(Libero, 5 novembre 2004)





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