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Notizie su Israele 267 - 18 novembre 2004

1. Attenzione: pericolo Sharon!
2. Intervista a Pierre Rehov
3. Le ambiguità della Chiesa Cattolica
4. Tattiche di combattimento della jihad islamica
5. L'eredità del «sistema Arafat»
6. Alla festa delle capanne c'erano anche gli italiani
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 23:7-8. Perciò, ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui non si dirà più: “Per la vita del SIGNORE che condusse i figli d’Israele fuori dal paese d’Egitto”, ma: “Per la vita del SIGNORE che ha portato fuori e ha ricondotto la discendenza della casa d’Israele dal paese del settentrione, e da tutti i paesi nei quali io li avevo cacciati”; ed essi abiteranno nel loro paese».
1. ATTENZIONE: PERICOLO SHARON!




Segnali anti-Sharon in un comune spagnolo

di Herb Keinon

Insieme alle indicazioni sul clima e sulla temperatura locali, in un pannello municipale della città di Oleiros, al nord della Spagna, sono apparsi dei velenosi slogan contro il Primo Ministro Ariel Sharon e Israele.
    «Arrestate quella bestia, Sharon l'assassino, fermate i neo-nazisti» si poteva leggere, scritto in lettere luminose rosse, sul pannello informativo della cittadina, situata nella regione della Galizia e avente qualche migliaio di abitanti.

Il cartello anti-Sharon di giorno e di notte

    L'ambasciatore d'Israele in Spagna, Victor Harel, ha protestato contro questo messaggio con una lettera inviata lunedì scorso al Ministero degli Esteri spagnolo.
    La mattina stessa l'ambasciatore Harel ha telefonato anche al sindaco di Oleiros, Angel Garcia Seoane, il quale ha dichiarato che lui è d'accordo al cento per cento con quel messaggio.
    Secondo Harel, Seoane dice di non avere niente contro gli ebrei, ma che ha sentimenti del tutto diversi contro il governo israeliano, il suo capo e quelli che lo rappresentano in Spagna.
    Harel ha immediatamente interrotto la conversazione col sindaco.
    Il Ministero degli Esteri a Gerusalemme ha espresso il suo disappunto all'Ambasciata spagnola in Tel Aviv.
    Bustom Mante, l'aggiunto dell'Ambasciata Spagnola, ha detto: «Se è vero che un pubblico ufficiale ha pubblicamente insultato il Primo Ministro, allora è del tutto inaccettabile.»
    Mante ha detto di aver trasmesso l'informazione ricevuta da Gerusalemme al suo ministro a Madrid.
    L'Ambasciata israeliana a Madrid è stata informata dell'esistenza del pannello dagli abitanti della città che hanno inviato all'ambasciata una e-mail con fotografie del pannello.
    Oltre al pannello, il comune di Oleiros vende sul suo sito Web, al prezzo di 6 euro l'una, delle T-shirt con slogan anti-Sharon. [ved. foto sul sito internet]

(Jerusalem Post, 15 novembre 2004)





2. INTERVISTA AL REGISTA PIERRE REHOV




«Figli di un dio ferito, vi metterò in un film»

di Ulderico Munzi

PARIGI — Pierre Rehov è un regista che condivide gli stessi giorni di un'umanità sofferente, insanguinata e fatta a pezzi dal terrorismo. Un regista sur le terrain, che "va sul posto" con la cinepresa in spalla e che ha un gran cuore coraggioso. Forse bastano queste poche parole per capire che con Rehov, 50 anni, ebreo nato in Algeria, bisogna parlare senza perdersi in sottigliezze e arabeschi.
    Il suo film «The silent exodus», l'esodo silenzioso, che narra come nel 1948 un milione di ebrei furono depredati ed espulsi dagli arabi, evoca un dolore che si protrae, che ha perso date e riferimenti, una saga dolorosa out of time, out of space come nei versi di Poe.

«Il mio film — dice Pierre Rehov — è stato proiettato al Festival dei diritti dell'uomo a Parigi e alle Nazioni Unite, a Ginevra, più o meno nello stesso quadro. Nel ventesimo secolo l'espulsione degli ebrei dai Paesi arabi non era una risposta alla creazione dello Stato d'Israele, ma qualcosa di più complesso che faceva seguito a odio diffuso, umiliazioni e pogrom nati ed esplosi nella società islamica nei secoli passati. Quei rifugiati venivano dal Marocco, dalla Siria, dalla Tunisia, dalla Libia, dallo Yemen e dall'Egitto. Molti hanno taciuto per pudore, altri per dimenticare l'esperienza subita, specie le donne violentate e chi ha subito sevizie vergognose. Come una sorta di contraltare, la seconda parte del film parla dei rifugiati palestinesi. In sostanza volevo sfatare una mitologia vittimistica che dipinge i palestinesi che da cinquantacinque anni vivono nei "campi". In realtà si tratta di periferie e il termine "campo" è usato per motivi politici. Sono chiamati rifugiati quando non lo sono più. Ho puntato la mia cinepresa sulle complicità che hanno creato tale situazione».

Signor Rehov, il suo nuovo progetto, invece, parlerà dei figli prediletti di un dio feroce, dei kamikaze del terrorismo, delle bombe umane.
«Arrivato ormai agli ultimi metri di pellicola, il film vuole indagare nei recessi più intimi, più profondi di coloro che sacralizzano la strage in Occidente e in Oriente. La psicopatologia degli islamikaze, immagine che preferisco. Cioè, come nella vicenda di un serial killer, abbiamo un individuo, in un determinato contesto socioculturale, un essere umano che è stato bambino coi suoi giochi, poi adolescente su un terreno di football… Come può un bel giorno decidere di "farsi esplodere" morendo e portando con sé giovani della sua stessa età, donne, vecchi e bambini? Per concludere l'opera mi mancano le interviste di due candidati suicidi, non perderò nemmeno una sequenza».

Taluni sostengono da tempo, signor Rehov, che il terrorismo sfrutti dei "sepolcri imbiancati". Lei ha citato poco fa le complicità per i rifugiati palestinesi. Vuole essere più chiaro?
    «Prendiamo la Francia che, sotto la maschera del diritto d'asilo, ha la sua parte di responsabilità nelle azioni di Khomeini, che era suo ospite prima di andare in Iran. La Francia non ha accolto Abu Nidal e il dottor George Habbash, alfieri del terrore? Ha ospitato, sempre in nome dei diritti dell'uomo, un terrorista della peggior specie come Arafat, inventore del terrorismo moderno. Io accuso non solo la Francia, ma anche l'Europa per il modo come, attraverso i media, è trattato il problema israelo-palestinese. Contesto le menzogne dei giornalisti di solito rifugiati in un grande e famoso albergo e ricattati dagli stessi giovani palestinesi che vanno a fare ricerche per loro conto sugli avvenimenti. E per finire dico che la Francia non ha una democrazia sana».

Intende dire una Francia filoaraba?
«Io direi una Francia araba. Si poteva definire "filoaraba" all'epoca di de Gaulle, prima che ci fossero dieci milioni di immigrati nella società francese ormai di fatto occupata».

Ma ci sarà bene un arabo che lei apprezza, a parte il filosofo Averroè che insegnava filosofia a Cordova nel XII secolo?
    «Io non sono antiarabo. Sono nato in Algeria, i miei compagni di scuola erano arabi, sono fiero di avere molti amici nei territori palestinesi, arabi laici e progressisti. Non ce l'ho con l'Islam, con la lettera maiuscola. Faccio la guerra all'integralismo islamico, agli islamisti. Per ora guerreggio intellettualmente, ma presto temo, ahimè, che mi batterò fisicamente. Il mio primo bersaglio è la vigliaccheria del mondo occidentale».

Lei, dunque, prevede questa guerra tra due civiltà.
«C'è poco da prevedere. Siamo già in guerra, anche se nessuno osa dirlo. L'Occidente si è perso di vista, si sta cercando, si trova alla fine della propria visione materialistica ed esistenziale. Va alla deriva verso la decadenza, trascinato da ondate di paura. Ricorda com'era fiero l'Occidente della conquistata libertà sessuale? La gioia si è spenta con la diffusione dell'Aids. E i valori di libertà individuale, di fronte, per esempio, a quello specchio deformante che era l'Urss? Ci cullavamo nella democrazia liberale, tutta luci come una kermesse, poi ecco che il nemico comunista scompare. La nostra scienza non basta più, la nostra tecnologia, nemmeno, in realtà noi non "ci" amiamo più… Ricordo che restava l'illusione di un mondo arabo da "coltivare". E il mondo arabo, con il quale avevamo "amoreggiato" negli Anni Quaranta per strapparlo ai nazisti e più tardi, in Afghanistan, per strapparlo ai russi, rifiuta il nostro modernismo. Non può accettarlo perché mette in causa i suoi stessi valori. Maometto è l'ultimo profeta e dopo di lui nulla può essere aggiunto. Abbiamo trovato un Islam retrogrado, in Indonesia, in Sudan, in Kosovo, in Medio Oriente… Ormai siamo circondati se non invasi».

Quindi lei teme che ogni arabo (per intenderci: l'arabo della porta accanto) da un giorno all'altro possa trasformarsi in un guerriero fondamentalista?
    «La differenza tra un musulmano estremista e un musulmano moderato non è basata su una nozione dogmatica, ma su una nozione temporale. Il primo crede nella profezia che l'Islam sarà la sola religione nel mondo perché Allah lo vuole, quindi è suo dovere combattere subito per accelerare il corso degli eventi. Anche il secondo pensa che l'Islam diventerà la sola religione nel mondo, ma ciò avverrà, direi, naturalmente, man mano, quindi tollera ebrei e cristiani. In termini più cronistici, bin Laden e i suoi seguaci attaccano prima le statue di Buddha a Bamyan, grande simbolo religioso, e poi, circa due mesi dopo, il World Trade Center che non è il simbolo dell'Occidente, ma il simbolo del giudeocristianesimo. I grattacieli appartengono agli ebrei e si ergono a New York, prima città ebraica del mondo, il tutto inoltre si trova nel cuore del business cristiano. Il risultato di tutto ciò è che su un miliardo 350 milioni di musulmani (che prima delle statue di Buddha e delle Torri gemelle potevano essere divisi in un miliardo di moderati e 350mila estremisti) in poche settimane Bin Laden è riuscito a convertirne alla jihad forse il venti per cento. Ha creato cioè duecento milioni di nuovi seguaci. Bin Laden ha vinto, anche se provvisoriamente. Il suo Islam può essere annientato solo da una sconfitta totale delle truppe del terrore arabo-islamista».

Non credo che nessuno possa offrire una ricetta per debellare il terrorismo islamista, nemmeno un esperto come Walter Laqueur del Center for Strategic and International Studies.
    «L'Europa è il ventre molle della strategia arabo-islamista, fino a poco tempo fa si faceva ancora la distinzione tra l'Hamas sociale e quello guerriero. Terrorizzare il terrorismo? Non si potranno mai terrorizzare i terroristi perché sono dei fanatici per i quali la morte vale più della vita. La fede musulmana è molto più forte della fede occidentale. Restano solo due bastioni contro il terrorismo islamico, Israele e gli Stati Uniti. In Europa l'Islam ha già vinto».

(Corriere della Sera, 12 novembre 2004)





3. LE AMBIGUITA' DELLA CHIESA CATTOLICA




«Un farneticante teorico dei complotti
scrive sul quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana»


Il numero 36 della rivista gratuita ZERO11, distribuita in tutta Italia in quarantamila copie, pubblica a pagina 66 un intervista a Maurizio Blondet. Intervistato nella sede del quotidiano cattolico AVVENIRE, il giornalista, definito "il più grande esperto nazionale di cospirazioni", sostiene che negli Stati Uniti:

«...oggi è rilevante un'alleanza triplice. La lobby ebraica (potentissima, ha tutti i media, i cinema etc); il complesso militare industriale (aziende che no operano sul mercato ma aspettano la commissione del Pentagono); infine i petrolieri (come Cheneye Bush figlio). Quando ci sono queste tre forze unite non c'è un'alternativa che si possa opporre negli Stati Uniti.»

«L'11 settembre, è sempre più chiaro, l'hanno fatto elementi del settore militare-industriale uniti probabilmente a esperti israeliani, con aerei teleguidati, per avere un pretesto per fare la loro "Guerra Mondiale dei 15 anni".»

A riprova di queste farneticazioni Blondet non porta che la certezza, smentita dai fatti, che

«E' impossibile guidare quegli aerei senza essere piloti di 737.»

L'intervistatore si premura di informare ironicamente i suoi lettori che Blondet

«E' in una lista di pericolosi antisemiti internazionali, insieme alla Pivetti e a Franco Freda».

    Anni fa, Blondet è stato effettivamente segnalato come antisemita dall'Anti Diffamation League, per un libro, "I fanatici dell'Apocalisse" (edizioni Il Cerchio) nel quale tra l'altro sosteneva l'inevitabile distruzione di Israele, probabilmente mediante armi chimiche, come attuazione della "profezia" evangelica "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli".
    Nel suo successivo volume "Cronache dell'Anticristo" (Effedieffe) ha

prosegue ->
esplicitamente identificato Israele con l'Anticristo, e ha ipotizzato che il mea culpa papale per l'antigiudaismo cristiano fosse il risultato di un complotto ordito da famiglie ebree polacche falsamente convertite, da secoli, al cattolicesimo e in realtà seguaci di Jacob Frank, un falso messia settecentesco, con lo scopo di ridurre il cristianesimo a un "ebraismo per gentili".
    Nei successivi volumi "Colpo di stato in America","Chi comanda in America" e "Osama Bin Mossad" (Effedieffe), ha sviluppato le tesi su cui verte l'intervista pubblicata da ZERO11.
    In "Chi comanda in America", in particolare, ha attribuito a Israele non solo la responsabilità dell'11 settembre, ma anche quella del terrorismo suicida che lo ha crudelmente colpito in questi anni.
    Blondet scrive, oltre che su rivistine dell'ultradestra, su AVVENIRE, il quotidiano della Confernza episcopale italiana, del quale è editorialista e inviato di punta. Da quelle pagine ha spesso attaccato con malizia Israele, senza mai spingersi a riprodurre le sue tesi più estreme. Dalla collaborazione con AVVENIRE, tuttavia, Blondet trae evidentemente una credibilità e un prestigio che favoriscono la circolazione e l'accettazione della mitologia paranoide di cui in altri contesti si fa banditore.
    La Chiesa Cattolica dichiara di essere impegnata nella lotta all'antisemitismo e nel dialogo ebraico cristiano, e giudica non solo l'antisemitismo, ma lo stesso antigiudaismo religioso, alla luce dei progressi esegetici e teologici, un peccato.
    Com'è possibile, dunque, che un giornalista come Maurizio Blondet scriva sul quotidiano della CEI?

(Informazione Corretta, 16.11.2004)





4. TATTICHE DI COMBATTIMENTO DELLA JIHAD ISLAMICA




In Palestina "bambini collaterali" sono strumenti di guerra

ROMA - E’ normale che un militante ricercato, che può essere ucciso da un momento all’altro dalle forze di sicurezza, scelga di rifugiarsi in un’abitazione civile piena di bambini? Non è normale e infatti non è mai accaduto nelle mille storie di terrorismo conosciute, dai Tupamaros uruguagi sino ai Tamil dello Sri Lanka. Men che meno nelle mille storie della resistenza europea, dalla Spagna all’Ucraina. Invece in Palestina accade. E’ considerato normale che un dirigente di al Fatah braccato si rifugi appositamente in case piene di bambini. Non per difendersi – perché sa benissimo che ormai gli israeliani colpiscono lo stesso – ma per portarsi con sé nella morte anche i piccoli e usarli per efficace propaganda. L’ennesima conferma è l’intervista a Nasser Jamal, capo delle Brigate dei Martiri di al Aqsa di Nablus, uomo di Arafat, apparsa domenica sul Corriere della Sera.
    La giornalista racconta di averlo incontrato in una casa in cui la televisione è accesa e trasmette un cartone animato di Tom e Jerry e che “c’è una schiera di bambini a fargli da scudo”. La frase è inequivocabile: Nasser Jamal si fa scudo di una schiera di bambini. All’orrore della scelta si accompagna lo stupore del lettore cui la notizia è consegnata senza commento, come se anche la giornalista la ritenesse una scelta come tante, acquisita. In questo episodio però, risalta una scelta criminale di Nasser Jamal e anche la spiegazione dell’alto numero di morti di donne e bimbi a seguito delle operazioni anti terrorismo israeliane. L’esercito israeliano è l’unico al mondo nato, cresciuto e immerso in un continuo dibattito etico sulle azioni lecite o no (con quello tedesco è anche il solo in cui i soldati possono rifiutare ordini inumani); ha però deciso, dopo un tormentato dibattito, durante l’Intifada di al Aqsa, di colpire ugualmente terroristi palestinesi, anche se si fanno scudo di bambini.
    Israele ha scelto in mancanza d’alternative, pena l’impossibilità d’impedire che i terroristi continuino a fare strage di civili innocenti. Scelta terribile, che attira al paese critiche feroci, soprattutto in Europa. Ma chi critica Israele, e i soldati americani a Fallujah, obbligati alla stessa scelta, pena l’inazione, chiude da anni gli occhi su questa nuova “tattica islamica” che usa bambini come strumenti di guerra.
    La strategia è evidente, pubblica, rivendicata, ma quasi mai denunciata sulla stampa occidentale. Iniziò Ruhollah Khomeini mandando centinaia di migliaia di bambini, i bassiji, a morire sui campi minati iracheni, durante la guerra contro Saddam Hussein. Continuano oggi i terroristi palestinesi e iracheni che agiscono in mezzo ai civili, per coinvolgerli, volutamente, nel tiro di risposta alle loro azioni.
    Continua la stessa Autorità nazionale palestinese che usa della sua televisione, dei suoi giornali, delle sue scuole per educare i bambini al culto del martirio, per spingerli a diventare “martiri”, anche imbottendosi di esplosivo per uccidere civili innocenti. Da qui esce Amer al Fahr, sedici anni, che ieri si è fatto esplodere nel mercato di Tel Aviv, uccidendo tre israeliani. Da qui la disperazione di sua madre, Samira Abdallah: “Chi ha mandato a morte mio figlio deve vergognarsi”. Nelle manifestazioni palestinesi è ormai abituale vedere sfilare bambini, anche di pochi anni, incappucciati e ricoperti di candelotti di dinamite di cartapesta, mascherati da “martiri islamici”.
    Da questo disprezzo della vita dei propri piccoli, da questa oscena strumentalizzazione delle loro vite, nasce la logica di Beslan, dei terroristi islamici ceceni che hanno fatto dei bambini osseti le loro vittime. E’ questa un’articolazione della cultura della morte che ispira il loro islam scismatico.
    Peggio ancora, questo farsi scudo di minori per trascinarli con sé nella morte del jihad diventa addirittura strumento di propaganda. Queste “morti collaterali” non casuali, ma predeterminate dagli stessi palestinesi, che accompagnano l’azione d’israeliani e americani contro i terroristi, vengono poi usate per spiegare al mondo che israeliani e americani sono spietati. Invece sono spietati tutti quei Nasser Jamal che si rifugiano in mezzo “a una schiera di bambini a fargli da scudo”.

(Il Foglio, 2 novembre 2004 - da Informazione Corretta)





5. L'EREDITA' DEL «SISTEMA ARAFAT»




Uno Stato in bancarotta prima ancora di nascere

di Alberto Negri

Se fosse proclamato domani lo Stato palestinese sarebbe già un fallimento dal punto di vista finanziario e un successo politico molto dubbio perché avrebbe a disposizione soltanto il 22% della Palestina storica con una popolazione moltiplicata per cinque o sei volte. Quale eredità lascia Yasser Arafat ai palestinesi, a parte un innegabile orgoglio nazionale? Oggi i palestinesi sono un popolo più numeroso, più povero e con meno speranze di quello che il rais, tornando dall'esilio di Tunisi, aveva trovato assumendo dieci anni fa la guida dell'Anp.
    Nei Territori è innescata una bomba demografica e sociale. Un abitante su due ha meno di vent'anni, il 50% della forza lavoro è disoccupata. La densità in posti come Gaza supera i 1400 abitanti per km quadrato, un record mondiale. I palestinesi sono ancora più poveri rispetto al '94 quando fu insediata l'Amministrazione nazionale: allora il reddito medio pro capite di un arabo era 10 volte inferiore a quello di un israeliano, adesso il divario è salito a 18 volte. Nei Territori il Pil pro capite è di mille dollari l'anno.
    L'economia della Palestina è pesantemente dipendente da quella israeliana, costantemente condizionata dalla chiusura dei Territori e marchiata da un vizio d'origine: per 40 anni Arafat ha regnato su un impero con un groviglio di interessi e di conti all'estero che si è riversato con i suoi metodi dubbi e oscuri sull'Amministrazione. Si parla molto dei 4 miliardi di dollari che costituirebbero il tesoro segreto del defunto leader ma non si fa cenno ai conti in profondo rosso dei palestinesi che insieme a una situazione sociale esplosiva rischiano di far saltare la nuova e incerta leadership.
    Per una decina d'anni, dal '79 all'89, i conti dell'Olp, il governo in esilio dei palestinesi, furono alimentati dai petrodollari arabi: 200 milioni di dollari al mese, dei quali 85 erogati dai sauditi. Soldi investiti dal fondo nazionale in attività produttive, commerciali e immobiliari; una parte andava invece nei conti numerati di Arafat. Tutto veniva amministrato dal curdo iracheno Mohammed Rashid, l'eminenza grigia. Quando nel '90 Arafat si schiera con Saddam i petrodollari finiscono, sostituiti solo in parte dai contributi del rais iracheno e dai finanziamenti delle grandi famiglie palestinesi, gli Shuman (fondatore dell'Arab Bank), i Masri e i Sabbagh che non fidandosi di Arafat fondano una loro holding (la Padico).
    Gli accordi di Oslo del '93 salvano le finanze di Arafat e dell'Olp che accedono agli aiuti internazionali (i maggiori dell'Europa): 6,5 miliardi di dollari dal '94 al 2003. Secondo il Fondo monetario da questa somma sono spariti 900 milioni che non hanno mai raggiunto le casse palestinesi. Per sbrogliare la matassa, Arafat due anni fa ha dovuto accettare la nomina di un funzionario dell'Fmi, Salam Fayad, a ministro delle Finanze. Ma questo non ha cambiato molto le cose. Rimane un mistero dove siano finite, probabilmente su conti esteri e a Tel Aviv, le entrate delle tasse su importazioni e monopoli. Oggi l'Anp spende 185 milioi di dollari al mese e ne incassa in aiuti e tasse non più di 55, un buco di 135 milioni che è il vero fardello lasciato sulle spalle dei palestinesi.
    Per evitare un'esplosione sociale Arafat e i suoi hanno adottato una strategia evidente: distribuire e accaparrarsi prebende creando un apparato elefantiaco come collante sociale, con migliaia di dipendenti pubblici e un numero di direttori generali superiore a quello della Cina. I successori erediteranno il «sistema Arafat» e i suoi privilegi ma probabilmente anche la rabbia di migliaia di palestinesi che non saranno più frenati dall'icona di Mister Palestina.

(Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2004)





6. ALLA FESTA DELLE CAPANNE C’ERANO ANCHE GLI ITALIANI




Il 4 di ottobre si è tenuta a Gerusalemme una marcia, nella città della pace, per solidarietà verso la popolazione che da quattro anni vive sotto l’assedio del terrorismo suicida.
    In quei giorni vi erano in Israele più di ventimila persone, di cui almeno cinquemila hanno partecipato alla marcia organizzata dalla municipalità e dall’organizzazione Christian Embassy. E’ stato il più grande evento turistico dell’anno per Israele. Più di 60 nazioni portavano le loro bandiere e il loro sostegno. Anche dall’Italia, per la seconda volta, un gruppo di 55 credenti evangelici di varie chiese e regioni, ha sfilato con i colori della bandiera italiana.
    Camminare tra due ali di folla, soprattutto di bambini, è stato un segno tangibile della solidarietà e della manifestazione di amicizia che può esserci in queste occasioni. Durante la sfilata venivano offerti dei doni e dei ricordi soprattutto ai più piccoli.
Questa iniziativa del gruppo italiano si inseriva in un viaggio i cui punti principali sono stati l’incontro con gli israeliani e con le comunità messianiche, oltre alla visita e all’insegnamento sui luoghi di Gesù.
    Altro momento di forte impressione è stato il concerto per pianoforte del pianista Mattia Peli nell’auditorium di Affula (Galilea) per solidarietà alle famiglie delle vittime del terrorismo.
    Il concerto si è tenuto due giorni dopo l’ultimo attentato a Taba (Egitto), dove hanno trovato la morte anche le due ragazze italiane. Nonostante l’organizzazione che ci ospitava fosse impegnata nel recupero delle vittime e dei feriti, nonché nell’assistenza alle famiglie coinvolte, ugualmente i nostri ospiti israeliani hanno mantenuto il loro impegno. E’ stata una lezione di vita il vedere realizzato il detto di Gesù “lascia i morti seppellire i loro morti”. Infatti è stato offerto in nostro onore un balletto folk da giovani israeliani dai contenuti molto gioiosi, quasi che non fosse un giorno di lutto nazionale.
    Abbiamo potuto costatare di prima mano la lotta quotidiana e lo spirito di vita che caratterizza il popolo d’Israele.
    Un altro viaggio di questo tipo sarà effettuato dall’Italia dal 27 di marzo al 3 di Aprile.
    Vi invitiamo a partecipare.

Il responsabile del viaggio
Giovanni Melchionda
gmelchisedek@virgilio.it http://www.ilvangelo-israele.it/news/viaggio_israele.html.





MUSICA E IMMAGINI




Beni




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JTA - Global Jewish News

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