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Notizie su Israele 268 - 24 novembre 2004

1. Le riposte intenzioni del «premio nobel»
2. Intervista con il ministro israeliano Ehud Olmert
3. Non solo soldati e carri armati
4. Il morente che non moriva
5. Leader arabi parlano di Arafat
6. Olocausto, in rete il database delle vittime
7. «Risuscitato» dall'Olocausto
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 33:13-14. O voi che siete lontani, udite quello che ho fatto! Voi che siete vicini, riconoscete la mia potenza! I peccatori sono presi da spavento in Sion, un tremito si è impadronito degli empi. «Chi di noi potrà resistere al fuoco divorante? Chi di noi potrà resistere alle fiamme eterne?»
1. LE RIPOSTE INTENZIONI DELLO SCOMPARSO «PREMIO NOBEL»




Con Oslo Arafat contava di far fuggire gli ebrei

da un articolo di Khaled Abu Toameh
    

Khaled Abu Toameh
Un autorevole giornalista palestinese rivela che nel 1994 Yasser Arafat gli aveva spiegato d’aver accettato gli Accordi di Oslo perché contava sul fatto che quegli accordi avrebbero costretto migliaia di ebrei a fuggire da Israele.
    Abdel Bari Atwan, direttore del quotidiano arabo edito a Londra Al-Quds al-Arabi, racconta che Arafat fece queste affermazioni durante un loro incontro a Tunisi, pochi giorni prima che la leadership dell’Olp facesse il suo ingresso nella striscia di Gaza grazie agli accordi firmati con Israele. “Lo incontrai nel suo ufficio intorno alle tre del mattino – ricorda Atwan – E Arafat mi disse: ascolta Abdel Bari, so che sei contrario agli accordi di Oslo, ma devi ricordare sempre quello che ti sto per dire: verrà il giorno in cui vedrete migliaia di ebrei fuggire dalla Palestina. Io non vivrò abbastanza per vedere quel giorno, ma tu lo vedrai sicuramente. Gli Accordi di Oslo ci aiuteranno a raggiungere questo obiettivo”.
    Prima di firmare gli Accordi di Oslo, Atwan era legato da rapporti stretti con Arafat e i due si incontravano regolarmente. Dopo di allora, Atwan divenne un critico esplicito degli Accordi di Oslo e della corruzione nell’Autorità Palestinese. Nel corso degli ultimi anni Atwan ha chiesto ripetutamente ad Arafat di dimettersi, accusandolo di aver abbandonato i palestinesi circondandosi di collaboratori corrotti.
    “I nostri stretti rapporti terminarono con la firma dei famigerati Accordi di Olso – sottolinea Atwan – Ma ero lieto di incontrarlo ogni tanto, nelle capitali d’Europa, all’apice del periodo della cosiddetta pace dei coraggiosi”.
    Atwan rivela inoltre che fu Arafat che decise di creare le Brigate Martiri di al Aqsa, l’ala armata e terroristica di Fatah. “E’ stato il presidente Arafat colui che ha istituito le Brigate Martiri di Al Aqsa – ha detto Atwan – come reazione al tentativo israeliano e statunitense di metterlo ai margini dopo il fallimento delertice di Camp David (nel luglio 2000). A Camp David Arafat affrontò un’enorme pressione da parte di Israele, Stati Uniti e alcuni arabi affinché accettasse un compromesso su Gerusalemme. Paradossalmente alcuni leader arabi, fra i quali il principe ereditario saudita Abdullah bin Abdel Aziz, chiamarono Arafat chiedendogli di mostrare flessibilità sulla questione di Gerusalemme”.
    Atwan dice che Arafat rifiutò le offerte fatte da Israele a Camp David “perché non era pronto a firmare un accordo definitivo con lo stato ebraico: era ben consapevole che tale accordo lo avrebbe fatto passare alla storia come un traditore, perché avrebbe dovuto cedere il diritto al ritorno e gran parte della sovranità su Gerusalemme”.
    Atwan afferma che Arafat, quando lo incontrò a Tunisi nel 1994, era isolato e depresso: “La maggior parte della gente attorno a lui lo aveva abbandonato, alcuni perché non volevano condividere la responsabilità per le conseguenze degli Accordi di Oslo; la maggior parte per motivi finanziari. I paesi del Golfo avevano interrotto gli aiuti economici all’Olp (dopo che Arafat aveva appoggiato l’invasione del Kuwait nella prima guerra del Golfo)”.
    
(Jerusalem Post, 21 novembre 2004 - israele.net)





2. INTERVISTA CON IL MINISTRO ISRAELIANO EHUD OLMERT




«Disarmate i terroristi»

di Gigi Riva

Ehud Olmert, vicepremier d’Israele e ministro dell’industria e del commercio, è un uomo molto pragmatico. Così, in questa intervista a “L’espresso” ribadisce di coltivare una speranza per il dopo Arafat, ma preferisce che parlino i fatti. Traccia un confine molto netto tuttavia sulle concessioni possibili e no. Nessuna divisione di Gerusalemme (“Mai”), nessuna apertura sul ritorno dei profughi. Mentre il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza si farà, comunque, in primavera. Per quel tempo non vede la possibilità di avere un interlocutore affidabile dall’altra parte. Immagina che faticheranno, i palestinesi, a formare una nuova leadership e avranno difficoltà a contenere le fazioni armate, come dimostra la sparatoria in cui è stato coinvolto a Gaza il presidente in pectore Abu Mazen. Insomma: aspettare e vedere. E’ questo l’atteggiamento che Israele si deve imporre. Cinquantanove anni, fama di duro del Likud, ex sindaco di Gerusalemme, Olmert è considerato l’uomo più vicino ad Ariel Sharon, colui che condivide in pieno (e spesso suggerisce) la politica del premier, comprese le eventuali concessioni in cambio della pace. Non a caso, e sembra un messaggio per l’ala destra del partito, “tempo è venuto per un attento, ragionevole e possibile cambiamento”. Un altro modo per definire le dolorose concessioni, la formula di Sharon.

Ehud Olmert voi avete sempre sostenuto che Yasser Arafat era parte del problema, non parte della soluzione. Ora parte del problema non c’è più e dunque intravede una soluzione?
Vedo la possibilità che la vecchia politica venga accantonata. E ci sono le speranze che ci si trovi di fronte a un nuovo inizio. Ma nei primi passi che siamo chiamati a intraprendere dobbiamo fare molta attenzione. Ancora non sappiamo se ci sarà una leadership palestinese stabile, se avrà l’autorità per disarmare i terroristi e per guidare una soluzione negoziale, di compromesso. Certo si apre una fase di opportunità e ci sono nuove aspettative.”

Quando dice vecchia politica intende, per estensione, anche vecchi politici, cioè Abu Mazen e Abu Ala? In altre parole, pensate sia meglio trattare con loro o con la nuova generazione, coi quarantenni di Al Fatah?
“Perché, sulla transizione dobbiamo decidere noi per i palestinesi? E’ sbagliato impostare il ragionamento in questo modo. La nuova leadership la decidano da soli. A noi interessa solo che costruiscano insieme un sistema democratico credibile. In Israele abbiamo una democrazia e nessuno può anticipare chi sarà il prossimo leader, chiunque lo può essere.”

Nei ranghi di al Fatah sono in molti a sostenere che dipende anche da voi, dall’atteggiamento che assumerete, per poter avere davvero elezioni libere e avviare un processo di rinnovamento. Cosa pensate di fare per aiutarli?
“Certo è bizzarro. Da un lato ci si chiede di disimpegnarci, dall’altro ci si chiede di essere convolti, di aiutarli a far crescere la democrazia”.

Ci sono delle ragioni oggettive. Come si fanno a tenere elezioni libere se non c’è libertà di circolazione, se ci sono centinaia di check-point? In questo senso il vostro atteggiamento può essere determinante.
“Se finirà il terrore, se si avvierà il circuito virtuoso del dialogo, allora potremo lasciare molti check-point.”

Lei crede che Hamas, l’organizzazione che ha provocato più lutti, potrà abbandonare davvero la scelta del terrorismo?
“Dubito moltissimo. E devono capire che l’alternativa al coinvolgimento politico non è seminare il terrore, perché saranno eliminati. Non esiteremo a eliminare chiunque sia direttamente coinvolto nel terrorismo. E allora quella di entrare nel processo politico può essere una buona scusa, per molti di loro, per salvarsi la vita.”

Un argine a un possibile buon risultato di Hamas è la candidatura di Marwan Barguti, il più popolare tra i capi di Al Fatah. Ma si trova in un carcere israeliano dove sta scontando la condanna a cinque ergastoli. Liberarlo è un altro modo per aiutare una leadership palestinese laica e non fondamentalista.
“Io credo che Abu Mazen sarà eletto presidente. Cosa succederà nel futuro non lo so e non lo posso prevedere. Né posso per ora considerare Barguti un’alternativa”.

Gli stessi giornali israeliani scrivono di un possibile scambio con la vostra spia Azam Azam, detenuto in Egitto. O addirittura di un accordo con gli americani che restituirebbero l’agente del Mossad Jonathan Pollard, detenuto negli Usa.
“Il fatto che sia scritto non significa nulla”

Dunque lei esclude che Barguti possa essere liberato?
“Ho forse detto questo? No, ho detto non so. Penso sia prematuro speculare su questa ipotesi adesso.

La macchina elettorale, da parte palestinese, è pronta. A parte Gerusalemme Est dove non sono state ancora ultimate le liste perché lo avete impedito. Eppure ai palestinesi di Gerusalemme Est nel 1996 fu concesso di votare? Perché questa vostra resistenza?
“In linea di principio non mi oppongo al fatto che gli abitanti di Gerusalemme Est, tutti, possano votare, purché lo facciano fuori da Gerusalemme. Se lo facessero a Gerusalemme, si aprirebbe un processo per dividere la città.

Questione per lei totalmente inaccettabile.
“Le parti che sono sotto il nostro controllo, la città vecchia, il centro, devono rimanere sotto la sovranità di Israele”.

Scusi l’insistenza, ma il punto è delicato. Gerusalemme è città santa per tre religioni. Impossibile pensare a una sorta di protettorato?
“Per l’Islam Gerusalemme non è la città più importante, è solo il terzo centro in ordine d’importanza e non è mai stata capitale di nessuna entità politica musulmano araba. Per i cristiani è certo un luogo importante. Ma solo per noi ebrei è tutto, ed è stata capitale.”

Lei recentemente ha sostenuto che i residenti dai sobborghi che potrebbero finire in futuro sotto controllo palestinese hanno diritto a votare, non quelli dei sobborghi che poi saranno sotto controllo israeliano. Significa che ha un’idea precisa della partizione dei sobborghi.
“Ce l’ho, ma non è il momento per dirla”.

Durante il loro recente incontro Bush e Blair hanno rilanciato il loro impegno sul problema israelo-palestinese. E Bush ha detto di volere la costruzione di uno stato palestinese in quattro anni. Lei è d’accordo?
“Io sono favorevole, certo Ma detta così non significa nulla. Bisogna capire come verrà costruito e non quanti anni ci vorranno. Nessuno controlla tutto da queste parti”

La demografia, da queste parti, guida la politica. Nel 2020, secondo alcune proiezioni, gli arabi saranno in numero superiore agli ebrei sul territori che va dal Giordano al Mediterraneo. La soluzione dei due stati serve anche a dividere le popolazioni, vero?
“Forse il sorpasso ci sarà anche prima del 2020 o forse poco dopo. Comunque in uno spazio di tempo molto piccolo. Dobbiamo essere coscienti della situazione prima che sia troppo tardi”.

Lei non crede alla possibilità di vivere assieme.
“Perché no? Lo abbiamo fatto a lungo. Ma non può essere in uno Stato binazionale.

Il Muro è stato costruito per dividere?
“Intanto premetto che la barriera di separazione sarà ultimata e riguarderà anche Gerusalemme. La ragione maggiore della sua costruzione è la sicurezza. Da questo motivo principale ne discendono altri, come dividere la popolazione”.

In quale percentuale devono essere gli ebrei per conservare la natura dello stato? Qualcuno sostiene almeno il 75 per cento.
“E’ ragionevole.”

Sarà riesumata la Road Map?
“Quel piano può ripartire solo se loro faranno i passi preliminari. Cioè stop al terrorismo, costruzione della democrazia, trasparenza”.

Secondo lei due mesi sono sufficienti per preparare queste fondamentali elezioni?
“Ne dubito moltissimo”.

Tornando a Gaza, gli stessi coloni potrebbero chiedervi di rivedere la decisione e di trattare con la controparte.
“Nel caso risponderei: tempo è arrivato, per Israele, per dare una svolta, un cambiamento. C’è oggi la possibilità di un ragionevole, attento e possibile cambiamento. E dobbiamo seguire questa prospettiva.

Se non con l’attuale maggioranza, forse con un governo che coinvolga il partito laburista?
“Lo spero”.

Un accordo di grande coalizione da fare dopo eventuali elezioni?
“No, prima, per scongiurarle”.

Se il Labour entra nella coalizione si libera uno spazio a sinistra.
“Non hanno alcuna chance. Se il Likud sarà responsabile, l’opinione pubblica preferirà sicuramente un governo di centro-destra piuttosto che uno di centro estrema-sinistra”.

In conclusione, dopo la morte di Arafat, lei è più ottimista o pessimista?
“Ci sono più speranze. E qui mi fermo. Noi dobbiamo aspettare e guardare”.

( L'Espresso, 22 novembre 2004 - da Informazione Corretta)





3. NON SOLO SOLDATI E CARRI ARMATI




Medici per la pace: Palestina e Israele fianco a fianco grazie al Meyer

di Sara De Carli

In un anno 700 bambini palestinesi curati negli ospedali israeliani grazie al progetto “Saving Children. Medicine in the service of Peace”, promosso da Regione Toscana e Ospedale Meyer.
    
    
In un anno settecento bambini palestinesi sono stati curati nei maggiori ospedali israeliani grazie al progetto di cooperazione sanitaria internazionale “Saving Children. Medicine in the service of Peace”, promosso e voluto dalla Regione Toscana con l'Ospedale pediatrico Meyer e la Fondazione Peres.
    Sono i dati emersi ieri durante il convegno che si è svolto al Demidoff Hotel del Pratolino a cui ha partecipato una folta delegazione di medici palestinesi ed israeliani, i pediatri delle Aziende toscane e quelli di libera scelta della regione. L'importante appuntamento, il terzo organizzato sui temi più attuali della pediatra, ha permesso di fare il punto della situazione sul progetto, che ha un profondo valore umano. Come ha evidenziato Massimo Toschi, consigliere per la pace e la cooperazione della Presidenza della Regione Toscana “la forza di questo progetto è straordinaria perché ha anticipato i tempi aiutando due popoli a guarire dall'odio, attraverso la cura dei bambini. E se non ci sarà odio, non ci sarà guerra”.
    La forza dei bambini per un nuovo futuro del popolo israeliano e del popolo palestinese. “In Palestina, in Cisgiordania e nella striscia di Gaza – ricorda Anwar Dudin, medico palestinese protagonista di Saving Children – vivono tre milioni mezzo di persone, la metà di loro sono bambini sotto i quindici anni. La forza di questo progetto? La vedono dalle famiglie che solitamente identificano gli israeliani come quelli che portano i soldati e i carri armati, ora conoscono anche israeliani che si occupano di loro e curano i loro figli”. Dan Shanit, direttore del Dipartimento di Medicina del Centro Peres, ricorda come tra i 700 bambini palestinesi curati grazie al progetto negli ospedali israeliani, 200 sono stati sottoposti a interventi chirurgici. Tra le patologie curate quelle di natura cardiologica, neurochirurgica, ortopedica e ricostruttiva dalle ustioni.
    Il convegno al Pratolino, come spiega Marco Evi Martinucci, responsabile dei progetti di Cooperazione internazionale della Regione presso il Meyer, rientra nel percorso di aggiornamento medico pediatrico che corre parallelo alla cura diretta dei piccoli palestinesi. Due gli argomenti di attualità medica affrontati: il trapianto di midollo osseo e le ultime raffinate tecniche di Neurochirurgia. “E' evidente che il Meyer vuole mantenere in maniera molto forte questo impegno pluriennale all'interno del progetto regionale di cooperazione sanitaria internazionale - dice Paolo Morello Marchese, direttore generale del Meyer - e mette a disposizione tutte le risorse scientifiche, professionali e strutturali al servizio di questo grande progetto di pace e di aiuto dei bambini che nel Mediterraneo soffrono a causa degli eventi bellici. In modo speciale gli operatori del Meyer sono onorati di partecipare alla realizzazione di un progetto di integrazione israelo-palestinese in ambito sanitario pediatrico. Contiamo di essere ancor più pronti con tutte le nostre forze con l'apertura e il trasferimento nel Nuovo Ospedale Pediatrico”.

(VITA.it non profit online, 19 novembre 2004)





4. IL MORENTE CHE NON MORIVA




di Ada Carella

Con tutti questi prepotenti politici del mondo non si sa chi è il più intelligente, il più furbo, il più onesto o il più disonesto per il suo paese, ma anche nei riguardi degli altri stati. Ogni nazione ha le sue pecore nere e i suoi integerrimi, ruoli a volte variabili. In questo momento, vi è un’overdose di dirigenti che s’incontrano e che si lasciano, che si riprendono e che si odiano… ma per tutti la prudenza o la menzogna sono obbligatorie. Un esempio recente: il presidente della Repubblica Jacques Chirac si è trovato, durante l’agonia di Arafat nell’ospedale militare francese, nell’obbligo di dover smentire che il rais fosse stato avvelenato, ma anche la parola cirrosi era difficile da pronunziare, essendo nel linguaggio comune seguita generalmente dall’aggettivo «epatica» che colpisce coloro che abusano di bevande alcoliche, la confusione fra una cirrosi e un’altra poteva suscitare drammi. Oltre alla deontologia che esige il silenzio sulle condizioni di qualsiasi malato, la circospezione di Chirac assomigliava più al terrore di provocare una sommossa da parte dei fedelissimi del rais, particolarmente permalosi ed abituati, secondo il modus vivendi del loro capo, all’attacco. L’avvelenamento, vero o falso, è stato un regalo ai palestinesi, che l’hanno attribuito ad Israele; l’accusa al presidente Ariel Sharon di averlo ordinato è ormai in bocca a molti di loro, potendo quindi questi permettersi, con la coscienza tranquilla, qualsiasi atto terroristico contro questa nazione. Qualora la droga mortifera gli fosse stata somministrata, in che momento è stato possibile farlo? Non prima di salire sull’aereo che lo avrebbe portato in Francia, Arafat avendo salutato, con le braccia alzate e un gran sorriso, le personalità che restavano a terra; allora in Francia, da una persona introdottasi nell’ospedale militare francese in cui è stato ricoverato, una specie di sicario, come nelle serie poliziesche televisive. Al capezzale del morente che non moriva, si alternavano i medici che diffondevano bollettini sul suo stato di salute, mentre giostravano attorno al letto le questioni testamentarie e matrimoniali e il destino di un popolo; parallelamente, il presidente della Repubblica francese si affacciava molte volte al giorno alla tv con un viso tormentato, per aver poi le lacrime agli occhi quando ha dovuto annunziare ai francesi la morte di Arafat, che ha subito esaltato per aver creato un popolo palestinese, senza però dargli uno stato. Altro mistero: è stato il presidente Chirac a proporre ai palestinesi di ricoverare in ospedale Arafat in Francia o gli è stato imposto? Ne ha ricavato onori, favori, vantaggi personali o nazionali? Molte eminenti firme hanno commentato che, scomparso Arafat, sarebbe stato più facile convincere i palestinesi a raggrupparsi in un sistema democratico. Esiste in arabo quest’aggettivo? L’«ex potenza coloniale», come si autoproclama la Francia quando tiene a ricordare che lo era, ha però sempre qualche problema con le sue ex colonie e protettorati, di cui segue la politica e le elezioni, che forse le costano care, ma da cui trae dei vantaggi, come dicono gli stessi dirigenti locali, possedimenti perduti che l’aureolano ancora di una certa forza; ma queste ex colonie non la amano, anche se molti francesi, nei secoli passati, e ancor oggi, vi si sono istallati per lavorarvi e viverci con la propria famiglia, in relativi buoni rapporti con la popolazione indigena. Il fatto è che il sistema colonialista francese è congenito al Paese, anche nella sua vita quotidiana.

(Brescia On Line, 22 novembre 2004)





5. LEADER ARABI PARLANO DI YASSER ARAFAT




I brani seguenti sono testi di clip, recentemente proposti da MEMRI TV Monitor Project, che hanno come soggetto Arafat (http://memritv.org/).


1) L’ambasciatore palestinese in Iran: Arafat ha combattuto la jihad e lo stato palestinese è il nostro programma

Segue un brano di un’intervista a Salah Al Zawawi, ambasciatore palestinese a Teheran, concessa alla rete televisiva Al Alam (Iran).

Lui sapeva che questa via è quella del martirio e della jihad. Lui sapeva che questa grande causa ha bisogno di martiri, non di capi che pensano al loro futuro personale e non a quello della nazione. Lui ha combattuto la jihad ed è stato protagonista di molte battaglie. Qualche volta era nel giusto e qualche volta sbagliava. E quando sbagliava noi gli abbiamo detto: è un errore. E quando era nel giusto noi lo abbiamo elogiato. E adesso se ne è andato […]. Se mi chiedete quale sarà sicuramente la fine dell’entità sionista, vi risponderò che uno di questi giorni sparirà. E i suoi capi, che vedono cosa succederà in futuro, lo capiscono. E’ solo questione di tempo. Ma noi non viviamo nella giungla e non siamo staccati da quel che succede nel mondo. Vediamo che il mondo è retto da forze internazionali, è retto da organizzazioni internazionali. Noi e le nazioni del mondo siamo sottoposti a queste organizzazioni in molti campi e dobbiamo accettare le legittime decisioni internazionali. Il nostro programma graduale, di cui ho già fatto cenno, è costituire uno stato sovrano palestinese indipendente con Gerusalemme capitale. Per quanto riguarda la soluzione del conflitto, lo lasciamo alla storia. Tocca alle prossime generazioni. E chi sogna di liberare la Palestina domani, sta davvero sognando. 

 
2) Hani Al Hassan del Comitato centrale di Fatah: I negoziati raccolgono quello che la lotta armata ha seminato

Ecco alcuni passaggi di un’intervista di Hani Al Hassan del Comitato centrale di Fatah.

Al Hassan: Noi di Fatah abbiamo una regola: la lotta armata semina e la lotta politica raccoglie. Chi non semina non raccoglie, e chi semina e rifiuta di

prosegue ->
raccogliere è un criminale. Quindi, quando Oslo non portò alcun risultato la semina avvenne nella forma dell’Intifada. La questione ora è sapere se l’attuale periodo è una fase di raccolta o una fase di semina. Noi riteniamo che il periodo attuale sia una fase di semina, fin che non vedremo risultati nella posizione internazionale. Vediamo che oggi c’è un cambiamento nel mondo. L’Europa è cambiata e il suo atteggiamento è più chiaramente a nostro favore. L’America si è impantanata in Iraq e non sa cosa fare. Oggi vediamo gli eroi di Falluja  e tutto quello che sta avvenendo laggiù. Israele si trova nel bel mezzo di una crisi economica interna che non sarà risolta neppure col fiume di finanziamenti che arrivano dall’America. Perciò ci sono delle nuove opportunità: vedremo se la situazione politica ci consentirà di ottenere risultati politici e di determinare un cambiamento a nostro favore. In caso contrario, riprenderemo a seminare.

 
3) Raid Al ‘Aidi, leader delle Brigate dei martiri Al Aqsa: Colpiremo a Tel Aviv e a Hedera

Seguono brani di un’intervista con Raid Al ‘Aidi delle Brigate dei Martiri Al Aqsa, che ora si chiamano “Brigate  Martiri Arafat”.

Al ‘Aidi
: Chiamiamo a raccolta da qui tutti gli eroi delle Brigate dei Martiri Al Aqsa sparsi in tutto il paese perché si oppongano a questo invasore e lo colpiscano ovunque, senza esclusione di colpi. Noi delle Brigate dei Martiri Al Aqsa infliggeremo colpi dolorosi contro questa mostruosa entità. Lo stato palestinese si realizzerà solo intensificando la resistenza, sostenendo la resistenza, fin che l’occupante oppressore se ne vada dalla nostra terra, dato che questo oppressore non capisce il linguaggio della pace o della resa. Questo oppressore capisce solo il linguaggio delle sparatorie e della polvere da sparo, e noi daremo a questo oppressore, se Allah lo vuole, una lezione come gli abbiamo dato in passato, a Tel Aviv, a Hedera e dovunque. Intensificheremo i nostri colpi contro l’invasore in questi giorni difficili che il popolo palestinese sta attraversando.

 
4) Il nuovo leader di Fatah, Farouq Qaddumi: La resistenza è la via dell’intesa politica

Seguono brani di un’intervista col nuovo leader di Fatah Farouq Qaddumi.

Qaddumi: La resistenza è la via per raggiungere un’intesa politica perché non pretendiamo di essere in grado di battere l’esercito israeliano. Ma questa politica fu decisa dall’OLP quando, nel 1974, Abu Ammar, nostro fratello martire, nostro fratello presidente, si alzò alle Nazioni Unite e disse: “Io tengo in una mano il fucile e nell’altra il ramo d’ulivo”.

Intervistatore: Sì.

Qaddumi: [Arafat ha detto:] “Non lasciate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano”. E intendeva: “Io sono pronto a trattative politiche, ma se non ci sono trattative politiche continueremo a portare il fucile”. Tutto questo è stato chiaro fin dal 1974.

 
5) Muhammad Rashid, consigliere economico di Arafat: Arafat non possiede beni personali

Da un’intervista con Muhammad Rashid, consigliere economico di Arafat.

Muhammad Rashid: Per quanto ne so, e mi prendo la responsabilità di queste parole, il fratello sofferente Abu Ammar non possiede beni personali in alcuna parte del mondo, non una tenda, né una casa, né un edificio, né una fattoria. Io ho lavorato col presidente Arafat per questi ultimi 25 anni e lui non possiede un conto in banca che si possa chiamare conto personale, a nome di Yasser Arafat. In tutta onestà non riesco a figurarmi il periodo dopo il presidente. Nutro una profonda fede in Allah e nelle preghiere della gente di tutto il mondo per il presidente. Non so nulla di un testamento e vi chiedo di dispensarmi dal parlare di questo argomento.

Intervistatore: Muhammad Rashid, sei preoccupato per la sicurezza nelle strade palestinesi?

Muhammad Rashid: No, sono preoccupato per la scomparsa di quel gigante a guardia dei diritti nazionali palestinesi. Sono preoccupato che questo gigante che, agli occhi di tutti, garantiva [i diritti palestinesi] … Io ho fiducia nei suoi colleghi e fratelli, ma Abu Ammar è Abu Ammar, e lo sappiamo tutti.

 
6) Ex rappresentante dell’OLP: L’unità nazionale sarà “più facile” se Arafat muore

Shafiq Al Hut, già rappresentante dell’OLP in Libano, alla TV Al Manar (Libano), 7 novembre 2004.

Shafiq Al Hut: Io ritengo che, se Abu Ammar scompare di scena, ciò renderà più facile il processo di unità nazionale. Io penso che lui non aveva alcuna intenzione di stabilire nuove relazioni né una leadership che preveda l’esistenza di opinioni autorevoli [diverse]. Si era abituato - che Allah gli conceda lunga vita - a governare da solo. Abu Ammar era in grado, fino all’ultimo istante, di affrontare il Comitato esecutivo […]. Non c’è Comitato esecutivo senza Yasser Arafat. Il Comitato esecutivo non ha mai potuto contestare una decisione di Arafat. Era un uomo storico, un uomo nazionale, un grande simbolo, di grande rilevanza, a cui era difficile opporsi. Ha messo in ombra molti. Quale successore godrà di tale potere?

 
7)
Suha Arafat: Allah Akbar, i leader palestinesi vogliono seppellire vivo mio marito

Questo è il testo del messaggio di Suha Arafat al popolo palestinese:


Suha Arafat
: Mi rivolgo al popolo palestinese, dal capezzale di Yasser Arafat. Sia reso noto agli uomini d’onore, fra la gente palestinese, che un pugno di “aspiranti eredi” arriverà domani a Parigi per cercare di seppellire Abu Ammar vivo. Io chiedo che voi vi rendiate conto dell’enormità di questa cospirazione. Io vi dico: Stanno cercando di seppellire Abu Ammar vivo. Abu Ammar sta bene e farà ritorno alla sua terra. Rivoluzione fino alla vittoria! Allah Akbar, Allah Akbar.


8) I capi palestinesi reagiscono alle accuse di Suha Arafat: Conoscevamo Abu Ammar prima che lei fosse nata

Seguono le reazioni dei capi palestinesi alla dichiarazione di Suha Arafat:

Al-Tayyeb Abd Al-Rahim, Segretario generale della Presidenza dell'Autorità Palestinese:

 Televisione Al-Jazeera: Abbiamo ascoltato con stupore l'appello della signora Suha Arafat al popolo palestinese dall'ospedale in cui il presidente è in cura. Questo appello è illogico, non equilibrato e assolutamente falso.
Siamo rimasti sorpresi che Suha Arafat stia rimandando e si rifiuti di ricevere la delegazione, sostenendo di averne l'autorità secondo la legge francese. Il nostro popolo è stupito da una tale posizione. Penso che il nostro popolo sia ben consapevole del complotto mirato a istigare la guerra civile fra le sue componenti.

Televisione Al-Arabiya: Non siamo eredi, ma compagni in armi, compagni sulla stessa strada. Siamo compagni in un viaggio durato più di mezzo secolo. Coloro che pensano con la logica degli eredi e dell'eredità non sono né compagni di strada né compagni di viaggio, ma compagni per corrispondenza, compagni in un soliloquio, le cui parole non avranno eco fra la nostra gente né la influenzeranno.
Ciò che ha detto Suha Arafat - la signora Suha Arafat - non rappresenta il nostro popolo o la nostra direzione politica. Se il presidente, possa egli guarire se Allah lo vuole, sentisse tali cose, lui le rifiuterebbe completamente. Non le permetterebbe mai.
Yasser Arafat non è proprietà di una piccola famiglia. Appartiene all'intero popolo palestinese. È il nostro simbolo, la nostra guida, il nostro insegnante e il nostro presidente.
Siamo rimasti sorpresi che la signora Suha Arafat desideri distruggere la fermezza della direzione politica palestinese e che desideri un monopolio al di sopra del presidente. Non ne conosciamo il motivo.
Entrare a far parte della politica palestinese è possibile secondo le norme e le regole che il popolo palestinese ha accettato. A coloro che a Parigi stanno pensando con la logica degli eredi, dico che - Dio ce ne guardi!, e dopo una lunga vita, e noi tutti vogliamo la salute del presidente per completare il suo sogno - la successione avverrà secondo le regole e le norme che il presidente stesso ha autorizzato.

Hani Al-Masri, commentatore politico della televisione Al-Arabiya: Dobbiamo chiarire che il problema della malattia, della vita e della morte del presidente Arafat, non interessa soltanto la sua famiglia. Il popolo palestinese è la famiglia di Yasser Arafat e qualunque cosa lo riguardi ha molte conseguenze politiche, che non possono essere gestite in questo modo limitato, riflettendo interessi strettamente personali ed egoistici.
Poiché il sistema politico e la legge palestinese non riconoscono alcun ruolo politico alla moglie del presidente palestinese, possiamo escludere la possibilità che riguardi il governo e le autorità.
Riguarda l'eredità personale, soldi e di proprietà, e c'è un tentativo di sfruttare al massimo la malattia del presidente e la risposta della direzione politica palestinese non è abbastanza buona. Questa situazione non può essere trascinata indefinitamente, poiché causa lotta civile e corrosione interna dalle quali solo Israele trae vantaggio.

Saleh Tamri, ministro palestinese per la Gioventù e per lo Sport, alla televisione Al-Arabiya: Per Allah sono esterrefatto. Ho avuto bisogno di qualcuno che mi ricordasse che è veramente la signora Suha Arafat a parlare. Ciò che ha detto offende Yasser Arafat, il popolo palestinese, lei stessa e noi tutti. È normale che il popolo e la direzione politica palestinesi aspettino chiarimenti sulla salute del presidente Yasser Arafat e che poi la signora Suha, che rilascia una simile dichiarazione causando confusione - in realtà, non ha causato confusione - e che accusa i suoi colleghi ed allievi di volerlo seppellire vivo?!
Nelle scorse due settimane, il popolo e i capi palestinesi hanno creduto a ogni genere di storia contraddittoria. Una volta ci è stato detto che il presidente soffre di un'influenza acuta. Lo abbiamo accettato e siamo rimasti in silenzio. Poi ci è stato detto di un'infezione dello stomaco.  Lo abbiamo accettato e siamo rimasti in silenzio. Quindi la possibilità di una leucemia. Poi la possibilità di un avvelenamento, con tutte le speculazioni che ne conseguono. Dubbi e sospetti hanno cominciato a crescere. Nessuna delle persone che avevano parlato aveva visto Arafat.
Siamo la famiglia di Yasser Arafat. Abbiamo conosciuto Yasser Arafat persino prima che la signora Suha Arafat fosse nata. Ci preoccupiamo per Yasser Arafat e nessuno ha il diritto di negare la verità al popolo palestinese.

Intervistatore: Quali erano i motivi [di Suha], a suo parere? Come analizzate questo punto?

Saleh Tamri: È difficile analizzare questo. Per Allah, è più facile analizzare una tavoletta di geroglifici che analizzare questa dichiarazione. La signora Suha non è una ragazza ignorante e non è una sempliciotta.
Ci aspettavamo che Suha ci desse un barlume di luce sullo stato fisico di Yasser Arafat, ma non lo ha fatto. Purtroppo, la sua dichiarazione incoraggerà molte persone a diffondere voci e non voglio neppure pensare alle voci che circolano. Sono anche sorpreso dal silenzio di Nasser Al-Qidwah, nipote di Abu Ammar, un combattente, un capo del Fatah e una figura ben nota, che tuttavia resta in silenzio. Nabil Abu-Radeina, alle cui dichiarazione siamo abituati, nel momento in cui dovrebbe parlare, mantiene il silenzio. Ramzi Khuri resta in silenzio. Tutti quelli che circondano Arafat rimangono zitti.

Intervistatore: Perché?

 Saleh Tamri: Tutti loro dicono che la legge francese garantisce a Suha i diritti per quanto riguarda il presidente Yasser Arafat. Se dovesse giacere a letto il presidente Chirac, anziché Yasser Arafat, sua moglie lo confischerebbe?!


9) Sermone palestinese del venerdì: Le scimmie ed i maiali hanno avvelenato Arafat

Segue un brano da un sermone palestinese del venerdì dello sceicco Ibrahim Mudeiris.

Sceicco Ibrahim Mudeiris: Tutti auguriamo salute e una pronta ripresa al presidente Yasser Arafat, perché questo popolo - ed io credo ciò con tutto il cuore - a causa delle gravi circostanze attuali, questo popolo ha realmente bisogno di questo capo. Questo capo, che è stato sotto assedio per quasi quattro anni, solo perché ha aderito ai principi nazionali ed islamici della Palestina e non ha preso i posti santi con leggerezza.
Quale capo arabo ha osato dire "no" alla Casa Bianca? Chi? Nessuno - né nella Casa Bianca né in quella nera - hanno osato dire "no" all’America, tranne questo leader. Lo ha detto e ne ha pagato il prezzo. Ha pagato il prezzo con la sua libertà e ora sta pagando il prezzo con la sua vita.
Siamo assolutamente sicuri che il responsabile del tentativo di assassinio contro il presidente è il governo sionista. Non abbiamo dubbi che questo governo lo ha avvelenato, in un modo o in un altro, per metterlo lentamente a morte. Nessun medico al mondo - sia in quello moderno sia in quello sottosviluppato - potrebbe curare il presidente senza conoscerne lo stato fisico.
Quei maledetti, quelle scimmie e quei maiali, quando hanno sentito che il presidente era morto hanno cominciato a cantare e ballare. Non abbiamo forse il diritto di pregare Allah per la sua guarigione, perché egli sia come veleno nel cuore di questi maiali? Non li avete visti alla televisione, abbracciarsi l'un l'altro, cantare e ballare? Queste scimmie! Questi maiali! [Ballare] venendo a sapere della morte del presidente. Questo capo è considerato l'ultimo dei giganti liberi della nostra epoca.

(The Middle East Media Research Institute, 23 novembre 2004 )





6. OLOCAUSTO, IN RETE IL DATABASE DELLE VITTIME




Il Museo dell'Olocausto mette per la prima volta online le schede biografiche di 3 dei 6 milioni di ebrei uccisi dai nazisti. Le informazioni disponibili in ebraico e in inglese.


GERUSALEMME - Per la prima volta il museo dell'Olocausto in Israele ha messo su Internet la vita di tre dei sei milioni di ebrei uccisi dalla Germania nazista. Il sito, www.yadvashem.org, in ebraico ed inglese, è stato elaborato da circa millecinquecento persone nell’arco di un decennio. Si tratta della digitalizzazione di cinquant’anni di lavoro sulle biografie delle vittime della Shoah.

LE FONTI - Il nuovo database si basa in parte su più di due milioni di "pagine di testimonianze" presentate sin dal 1950 da parte di sopravvissuti, parenti e amici di ebrei sterminati durante l'Olocausto al Yad Vashem, il gigantesco museo e monumento situato alla periferia di Gerusalemme. Alcune informazioni, come è spiegato nel sito, provengono anche dalla documentazione storica, tra cui corrispondenze tra ufficiali nazisti o liste di detenuti nei campi di concentramento.
«Milioni di nomi che appaiono in parecchi documenti storici non sono stati ancora identificati o registrati nel database; molti altri nomi sono ancora nella memoria dei sopravvissuti o delle famiglie», riporta il sito che permette a familiari e amici di segnalare eventuali nomi mancanti con la promessa che verranno verificati e inseriti nel database.

MOTORE DI RICERCA - Due i modi per effettuare ricerche nell'archivio digitale: per nome o per luogo. Inserendo per esempio il nome "Milan" (Milano in lingua inglese) compare l'elenco delle vittime nate, residenti, deportate o decedute nel capoluogo lombardo. Scrivendo invece il nome di una vittima in inglese o in ebraico, si apre una pagina con un capoverso di notizie biografiche, come la data e il luogo di nascita, stato civile, la residenza e, se è nota, data e luogo di morte. Accanto al paragrafo compare un link attraverso il quale si accede alla visualizzazione della "pagina della testimonianza" presentata allo Yad Vashem. Accanto al nome della vittima, si trova un altro link con cui reperire ulteriori informazioni sugli altri membri della famiglia deceduti.

(Corriere della Sera, 22 novembre 2004)





7. «RISUSCITATO» DALL’OLOCAUSTO




Ucciso nella Shoah. «Ma io sono vivo»

Walter Landmann è un ingegnere in pensione che vive a Bedford, in Inghilterra. Negli anni ’40, insieme ai genitori, visse profugo ad Arsiero per sfuggire alle persecuzioni razziali del regime nazista di Hitler. Nel ’44, dopo una retata, i tedeschi caricarono la famiglia in un treno piombato diretto ai lager. Per i documenti, lui risulta morto ma nel febbraio scorso il “Giornale di Brescia” lo aveva "resuscitato". Evidentemente non è bastato.
    
di Marino Smiderle
    
Yad Vashem è il mausoleo-memoriale di Gerusalemme che ricorda i sei milioni di ebrei trucidati dalla follia criminale del nazismo. Fondato nel 1953 in seguito ad un provvedimento della Knesset, il parlamento israeliano, Yad Vashem è considerato il più completo e dettagliato archivio storico della shoah. Contiene 62 milioni di pagine di documenti, opportunamente classificati, 267.500 fotografie, oltre a migliaia di film e videotape con le testimonianze dei sopravvissuti. Il pubblico può accedervi per leggere e consultare questa enorme mole di documentazione.
    Da ieri anche gli utenti di internet hanno a disposizione l’elenco di circa 3 milioni di vittime della shoah (la metà dei 6 milioni di ebrei che hanno trovato la morte nei campi di sterminio). Tra questi figura ancora il nome di Walter Landmann, dalla cui documentazione risulterebbe morto a Tonezza il 30 gennaio 1944 insieme ai genitori, Moses Landmann e Barbara Eckl. Lo stesso Landmann che, nel febbraio di quest’anno, venne intervistato da Il Giornale di Vicenza a Bedford, in Inghilterra, la città in cui ora vive da tanti anni.
    La storia dell’ing. Landmann è affascinante, tormentata e condita da un lieto fine. L’abbiamo raccontata nel corso di un’inchiesta condotta sui circa 500 ebrei che negli anni della guerra vissero da profughi nei comuni del Vicentino. La famiglia Landmann, originaria di Monaco di Baviera, fu costretta a fuggire per la persecuzione insopportabile cui erano sottoposti in patria. Resistettero più di altri perché la mamma di Walter, Barbara Eckl, non era ebrea e le famiglie miste, teoricamente, non avrebbero dovuto essere toccate dalla furia hitleriana. Morale della favola, i Landmann fecero presto baracca e burattini e partirono per un lungo viaggio che avrebbe dovuto portarli in Egitto. Nel giugno del 1940 furono sorpresi in Cirenaica, all’epoca territorio italiano. Proprio nei giorni in cui Mussolini dichiarava l’ingresso in guerra dell’Italia accanto alla Germania.
    Vennero deportati in Italia, al carcere di Poggioreale prima, e al campo di concentramento di Ferramonti di Tarsi poi. Successivamente vennero destinati al confino libero ad Arsiero, nell’Alto Vicentino, dove vennero accolti con grande cordialità dalla gente del posto. Dopo l’8 settembre, la situazione precipitò.
    Walter Landmann ci ha raccontato la sua storia nello splendido Weir cottage, nel Bedfordshire, dove vive ora, circondato dal verde. Non ne parlava da tanti anni e l’occasione fu proprio la scoperta, stavolta negli archivi del Cdec, il Centro di documentazione ebraica in Italia, che per loro lo stesso Landmann risultava morto e sepolto.
    «Mi avete resuscitato dall’olocausto», affermò l’ingegnere nel corso dell’intervista. Una frase che venne usata per fare il titolo del servizio. Bene, ieri la scoperta fatta sul sito di Yad Vashem autorizza a fare un titolo opposto: «Mi avete seppellito una seconda volta. Ma io sono vivo e godo di ottima salute».
    Come è possibile che un simile errore, nonostante le segnalazioni che ci risulta essere state fatte alle autorità competenti, si ripeta in maniera così clamorosa? Dalla scheda di Yad Vashem, quella che riassume l’odissea della famiglia Landmann (fortunatamente con lieto fine, anche se a Gerusalemme questa bella notizia non è ancora arrivata, pur essendo passati 60 anni), vien fuori che a siglare il documento col certificato di morte è l’Unione delle comunità israelitiche italiane. Per amor di verità, sarebbe ora di correggere questa svista antipatica.
    «Io ho già avvisato lo Yad Vashem - afferma Landmann da Bedford - e ho fornito la documentazione più ampia sul fatto che il sottoscritto sia ancora in vita. E sul fatto che i miei genitori siano morti di morte naturale molti anni dopo. Ma quello che mi ha dato fastidio è il vedere che, non solo per la nostra famiglia, sia indicato Tonezza come luogo della presunta morte, quando tutti sanno che, nel Vicentino, non ci fu alcuna esecuzione ai danni di ebrei. Molti furono deportati in Germania, dove trovarono la morte, ma non è corretto dire che sono stati uccisi a Vicenza, o a Tonezza, o a Sossano o in qualsiasi altro comune che ha ospitato i profughi. Credo che il governo italiano, e nel caso specifico la Provincia di Vicenza, farebbero bene a contattare Yad Vashem perché vengano apportate le opportune correzioni».
    
(Il Giornale di Vicenza, 23 Novembre 2004)





8. MUSICA E IMMAGINI




If I Were a Rich Man




9. INDIRIZZI INTERNET




Modia

Hotel - Biblical gardens in Israel




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