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Notizie su Israele 280 - 5 febbraio 2005

1. Le sorelle della pace
2. Riformiamo il Giorno della Memoria
3. Intervista a Michael Oren
4. Qual è il nome dell'Europa?
5. Riformare l'Islam dall'interno?
6. Cambiamenti all'interno della vita ebraica americana
7. Sulla scia di espulsioni e massacri
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Ezechiele 28:25-26. Così parla DIO, il Signore: «Quando avrò raccolto la casa d’Israele in mezzo ai popoli fra i quali essa è dispersa, io mi santificherò in loro davanti alle nazioni, ed essi abiteranno il loro paese, che io ho dato al mio servo Giacobbe; vi abiteranno al sicuro; costruiranno case e pianteranno vigne; abiteranno al sicuro, quando io avrò eseguito i miei giudizi su tutti quelli che li circondano e li disprezzano; e conosceranno che io sono il SIGNORE, il loro DIO».
1. LE SORELLE DELLA PACE




Da sinistra: Samar e Angelica


Come sorelle


Cresciute dalla parte diversa del muro, nella terra che lacrima sangue, santa ma non più sacra per chi calpesta, sputando odio, il suo futuro. Una, Angelica, ebrea di Roma che vive in un kibbuz in Israele, con il suo teatro color arcobaleno: l'altra, Samar, palestinese cristiana, mamma di tutte le orfane nella sua Betania. Un giorno il destino, che segue ben strane tracce, le mette di fronte: e in un istante entrambe capiscono che sono davanti a uno specchio. «Se ci chiedete se abbiamo paura vi rispondiamo di no: il vero eroismo è dialogare con qualcuno che sta dall'altra parte...» .
    Costruiscono speranze una parola alla volta l'israeliana Angelica Calò Livnè e la palestinese Samar Sahhar, amiche per la pelle e per la pace, maestre universali di tolleranza e convivenza: nel loro reciproco sorriso, un ponte infrangibile di comprensione tra due popoli che nemmeno si ricordano più perchè mai debbano odiarsi. Un incontro emozionante, pieno di cose, di esempi, di verità non artefatte, quello di ieri pomeriggio in Comune: dove il vicesindaco Paolo Buzzi e l'assessore provinciale alle relazioni internazionali Gabriele Ferrari hanno accolto la storia emblematica di due donne straordinarie in cerca della strada che porta a domani.
    «Siamo due madri - ha detto Samar -, due insegnanti: vogliamo un futuro migliore per i nostri figli. Non facciamo politica: ma educhiamo alla pace per costruire un altro destino alla nostra gente» . Lezioni di convivenza, contro la rabbia, amplificata ma cieca: «Da noi tanti bambini non vanno a scuola: imparano dalla tv, dai media, che manda loro messaggi d'odio e di vendetta. I kamikaze sono i figli della disperazione e dell'ignoranza» . E allora provarci, comunque: magari con le parole di un bimbo di 6 anni. Che davanti a quello sfacelo le chiese: «Ebrei, palestinesi...: ma perchè non viviamo insieme?» . Piccoli, per nulla fragili, fiori nel deserto: «Tanti palestinesi vogliono la pace: cosí come tanti israeliani» . Non sono solo le bombe: è la paura dell'altro, la diffidenza. Poi però, quando meno te lo aspetti, uno squarcio nel buio, un'altra crepa nella parete dell'odio: «Ho messo allo stesso tavolo ebrei, cristiani e musulmani. Sul muro ho scritto: "L'amicizia non si può dividere"» .
    Sono un solo abbraccio Samar e Angelica, due corpi e un'anima: sono la storia - come racconta l'israeliana - di «due popoli lacerati che soffrono alla stessa maniera, che hanno la stessa paura di sparire dalla faccia della terra» . Ma la speranza è dappertutto: basta crederci. Non siamo rimaste a casa a piangere davanti alla tv: vogliamo fare qualcosa, invece. Insegnare a guardare dall'altra parte, ad esempio» . E scoprirsi sullo stesso confine, nella stessa barca: «La nostra amicizia è un dono, ringrazio Dio per questo» . Donne, insegnanti: e madri. «Io ho quattro figli - spiega ancora Angelica -, due sono nell'esercito. Tutte le madri di Israele ogni volta che nasce un bimbo si augurano che non debba imbracciare un fucile. Ma 18 anni passano in un secondo, in un attimo: e il giorno arriva. E tutte le doglie del parto non valgono il dolore di vedere un figlio in divisa» .
    Soldati «bambini» che marciano al passo dell'odio gratuito: ma «la scintilla di Dio è in tutti gli esseri umani» . E illumina anche, c'è da scommetterci, il Teatro dell'Arcobaleno voluto e creato dalla romana d'Israele, «laboratorio di etnie e di convivenza: la diversità è ciò che ci arricchisce. Poi sí, lo vediamo: i problemi esistono. Ma come diceva Peres, la pace la firmano i potenti ma la costruisce il popolo» .
    Ricevute in municipio anche da Anna Podestà responsabile dell'agenzia per la promozione relazioni internazionali del Comune e da Paolo Mancini, presidente dell'associazione culturale Eliot, che le ha volute a Parma promuovendo anche l'incontro serale di ieri al circolo di lettura, Angelica e Samar, candidate al premio Nobel per la pace, si confortano a vicenda in un ultimo sorriso. Il resto? «Sta tutto nelle mani di Dio» . F. Mol.
    

(Gazzetta di Parma, 4 febbraio 2005)





2. RIFORMIAMO IL GIORNO DELLA MEMORIA




Lettera al Presidente dell'Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane

di Davide Romano - Segretario Nazionale Amici Di Israele Onlus

Carissimo Amos Luzzatto,

all'indomani del Giorno della Memoria credo opportuno proporre una riflessione sulla sua utilità: sicuramente la diffusione della conoscenza di quanto è accaduto durante la II guerra mondiale è stata soddisfacente. E nulla al momento ci fa pensare che così non sarà nel futuro. Il problema oggi, mi pare essere un altro.
    Così come è attualmente concepito, il Giorno della Memoria è utilissimo per combattere chi nega l'esistenza dei forni crematori, ma il rischio insidioso oggi non mi pare siano i negazionisti, bensì i manipolatori. Innumerevoli sono ormai i casi di volontario travisamento della Shoah, provenienti anche da diversi autorevoli personaggi della cultura italiana. Una delle più classiche manipolazioni è il paragone tra gli ebrei vittime dei nazisti ed i palestinesi vittime degli israeliani, ma anche l'equazione sionismo - razzismo o sionismo - nazismo ha una certa (aberrante) dignità.
    Tali paragoni vengono alimentati da professori universitari, da giornalisti, da comici, così come da molti studenti. Sempre più numerosi sono i casi di ex-deportati che, al termine della dolorosa esposizione della propria storia nelle scuole, si sentono domandare dallo (sprovveduto) studente di turno: "ma perchè fate ai palestinesi quello che avete subito dai nazisti?".
    In questa maniera il giorno della Memoria rischia di diventare un boomerang: tutta l'indignazione che proviene dall'apprendimento di quanto successo nei campi di sterminio rischia di proiettarsi contro gli ebrei stessi. Una cosa inconcepibile.
    Per questo bisogna cambiare. Per questo il Giorno della Memoria va riformato. Per questo non deve più essere solo un giorno del ricordo, ma un’occasione di ricordo e di comprensione di cosa è stato. Solo chi ricorda ma non capisce la Shoah può infatti paragonare Auschwitz a Jenin o ad Abu Ghraib. Capire la specificità della Shoah vuol dire comprendere che c'erano gli innocenti da un lato e i colpevoli dall'altro. Punto. Non c'erano torti e ragioni più o meno equamente distribuiti, come nella gran parte degli altri conflitti della storia.
    Capire la specificità della Shoah vuol dire comprendere che il regime nazista mirava alla distruzione degli ebrei, dei Rom, degli omosessuali e dei Testimoni di Geova a causa di quello che erano, non per quello che facevano. Visione che certo più si addice agli Jihadisti tagliagole che alla società aperta israeliana dove convivono a pieno diritto le diversità. Se il sionismo ha una colpa, è quella di non essere riuscito a costituire Israele prima dell'avvento del nazismo: sarebbe stata una delle migliori medicine contro la Shoah. Per questo chiedo di ripensare il Giorno della Memoria: perchè nessuno confonda più la medicina con la malattia.
    
(Morasha, 2 febbraio 2005)





3. INTERVISTA A MICHAEL OREN (*)




«Perché sinistra, Europa e Nazioni Unite
non fanno sentire Israele al sicuro»


di Amy K. Rosenthal

Non c’è nessuno che sappia difendere il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele come Michael Oren. Da buon ebreo americano ha deciso di coniugare idealismo e azione ed è andato a vivere in Israele, dove si è arruolato in Tsahal per combattere la guerra del Libano nel 1982. Poi ha ripreso la divisa americana, quella della sesta flotta, per “dare una mano” – come dice lui – nella prima guerra del Golfo, restando un (atipico) intellettuale. E’ stato consigliere della delegazione israeliana presso le Nazioni Unite, ora è membro del think tank Shalem Center di Gerusalemme e, nel 2002, ha pubblicato un libro, “La guerra dei sei giorni” (uscito in Italia nel 2003), tiene due rubriche, – una sul Washington Post e una su New Republic – e ha anche coltivato la sua passione per le storie e i personaggi.
    Oren è molto attento agli ultimi sviluppi in medio oriente, senza perdere di vista le influenze esterne, soprattutto il ruolo degli Stati Uniti di George W. Bush e della destra cristiana che, come ha detto David Brooks, editorialista del New York Times, alla conferenza organizzata dal Foglio con l’Adl e il ministero degli Esteri, “è in America l’alleato naturale degli ebrei e di Israele”. Secondo Oren “esiste ancora un certo antisemitismo a destra”, ma è la sinistra mondiale ad aver perso la direzione: “Buona parte della sinistra europea è diventata così moralmente povera da non sapersi smarcare dalle più terribili forme di estremismo islamico, escludendosi da qualsiasi discussione produttiva sull’antisemitismo”. Oren definisce “curioso” il fatto che “un europeo di sinistra un giorno dica che gli ebrei non hanno il diritto di avere uno Stato, o addirittura che sono ‘nazisti’, e il giorno seguente li inviti a una discussione sull’antisemitismo. Le due cose non stanno insieme”. La destra cristiana americana è invece diventata una grande sostenitrice di Israele anche perché Bush “ha tenuto conto degli umori di 70 milioni di elettori più delle opinioni di 2-3 milioni di elettori ebrei”. Il presidente americano e il premier israeliano sono spesso stati definiti “assassini” e “colonialisti”, perché l’antiamericanismo e i sentimenti anti-israeliani sono spesso le facce della stessa medaglia: “Israele e Stati Uniti credono più di ogni altro paese nell’amore per la patria, nell’uso impenitente della forza e sono entrambi molto religiosi.
    Sono questi gli elementi che segnano la differenza con l’Europa occidentale. Quando gli europei vedono Israele come un’appendice degli Stati Uniti non hanno del tutto torto: è una caratteristica dell’asse israelo-americano e attiene anche ai rapporti tra i due capi di Stato. Bush e Sharon si trovano sulla stessa lunghezza d’onda. Sono colonialisti? Gli Stati Uniti non hanno più alcuna colonia da molto tempo e Israele non ne ha mai avuto una, ha insediamenti in aree ‘contese’ che stanno in parte fuori e in parte dentro al suo territorio nazionale”.
    E’ anche per questo che, in sede Onu, sono sempre gli Stati Uniti a sostenere Israele, perché “hanno una coscienza del mondo, una visione chiara e globale” molto diversa da quella della Francia, per esempio, che “organizza funerali di Stato per Yasser Arafat”: “Quando vediamo cose del genere sappiamo di sentirci al sicuro soltanto con gli Stati Uniti”. Le Nazioni Unite non possono essere mediatori super partes perché sono “fondate sulla regola della maggioranza. I paesi musulmani e del Terzo mondo, che votano in blocco contro Israele, sono i più rappresentati nell’Assemblea generale. Per di più l’Europa spesso li segue, per cui finisce che il 35 per cento delle risoluzioni su Israele sono una condanna. Poi paesi come Libia e Arabia Saudita siedono nella Commissione Onu per i diritti umani: questi fattori non mettono certo l’Onu in una posizione in cui possono giocare un ruolo realisticamente mediatore nel conflitto arabo-israeliano”.
    L’atteggiamento dell’Europa nei confronti del conflitto israelo-palestinese è stato “notevolmente sbilanciato”, secondo Oren, in quanto, “non riuscendo a giocare un ruolo utile, l’Europa ha finito per squalificare se stessa”. Avrebbe dovuto essere più bilanciata, ma è “inconcepibile anche soltanto l’aver mostrato un così dogmatico rispetto per Arafat, un uomo corrotto e violento, responsabile dell’omicidio di molti israeliani e di tanti arabi, un uomo che ha mentito in ogni occasione: conferirgli autorevolezza è stato molto irrispettoso”.
    Secondo Oren, infatti, esiste una differenza tra l’espressione critica verso Israele e l’antisemitismo, ma “l’antisionismo è spesso indistinguibile, finisce per confluire nell’antisemitismo”. Per esempio, “ci sono fumetti con Sharon che mangia bambini palestinesi o Sharon che guida un carro armato contro Gesù Bambino a Betlemme: queste immagini sono prese dalla letteratura antisemita e danno un messaggio inequivocabilmente antisemita”. Ogni volta che Israele “è tenuto sotto accusa” molto più di ogni altro Stato occidentale, allora si tratta di antisionismo, “quando gli europei paragonano il trattamento di Israele sui palestinesi al nazismo, si tratta di antisemitismo”. Il comportamento dell’Europa è ambiguo, ma ci sono i nemici dichiarati, come la Siria – “Bush si è impegnato per bloccare la vendita di armi russe con un certo successo, ma la preoccupazione rimane”, spiega Oren – e l’Iran, “la maggiore minaccia per Israele”, che “sta tentando di prendere il controllo sul Libano del sud ed è coinvolto nel terrorismo palestinese iracheno. Gli iraniani proveranno a spostare il loro confine occidentale”. La cattura di Osama bin Laden è una priorità dell’Amministrazione americana ma ora è necessario “instaurare la democrazia in Iraq e favorire l’accordo di pace tra israeliani e palestinesi”. E’ quello che, secondo Oren, Tony Blair non ha capito bene: non ci sarà alcuna “pace di Londra” perché “il premier inglese ha configurato la conferenza in modo tale da non affrontare il tema della pace ma quello della riforma democratica palestinese”.
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(*) Michael Oren è stato consigliere della delegazione israeliana presso le Nazioni Unite, è membro del think tank israeliano Shalem Center e autore del saggio storico "La guerra dei sei giorni", oggi ristampato negli Oscar Mondadori.
    
(Il Foglio, 3 febbraio 2005 - da Informazione Corretta)





4. QUAL E' IL NOME DELL'EUROPA?




Europa, il tuo nome è vigliaccheria

di Mathias Döpfner (*)

«Europa, il tuo nome è Appeasement!», ha scritto qualche giorno fa Henryk M. Broder su «Welt am Sonntag». Una frase che non esce più dalla testa, perché è terribilmente vera.
    L'appeasement è costato la vita a milioni di ebrei e non ebrei quando gli alleati in Inghilterra e in Francia negoziarono troppo a lungo ed esitarono fino a che capirono che Hitler non poteva essere vincolato con dei trattati, ma soltanto combattuto.
    L'appeasement ha stabilizzato il comunismo sovietico e la DDR quando dei paesi europei hanno trasfigurato un disumano regime oppressivo in una possibile alternativa ideologica.
    L'appeasement ha paralizzato l'Europa quando, mentre in Kosovo infuriava il genocidio, si è continuato a discutere fino a che gli americani si sono decisi a sbrigare per noi la faccenda.
    L'appeasement europeo, camuffato sotto la fumosa parola «equidistanza», relativizza in Israele gli attentati suicidi dei fondamentalisti palestinesi invece di proteggere l'unica democrazia in Medio Oriente.
    E' l'appeasement che plasma la mentalità quando l'Europa ignora le oltre 300.000 vittime torturate e uccise da Saddam in Iraq e con autosoddisfatto senso di giustizia pacifista assegna brutti voti a George Bush.
    Ed è ancora appeasement nella sua forma più grottesca quando si reagisce all'escalation di violenza dei fondamentalisti islamici in Olanda e in altre parti d'Europa proponendo di introdurre in Germania un giorno festivo islamico.
    Che cosa deve accadere prima che l'opinione pubblica e la classe dirigente politica realizzino che si sta svolgendo una specie di crociata, un sistema di attacco particolarmente perfido, concentrato sui civili, contro le nostre libere società occidentali da parte di fanatici musulmani? Un conflitto che probabilmente durerà più a lungo dei grandi conflitti militari degli ultimi secoli. Un attacco portato da un nemico che non si lascia addomesticare dalla tolleranza e dal venirgli incontro, ma che anzi considera tali gesti come segni di debolezza e si sente soltanto incoraggiato.
    Due presidenti americani del recente passato hanno avuto il coraggio di un anti-appeasement: Reagan e Bush. Reagan ha posto fine alla guerra fredda, Bush ha riconosciuto - appoggiato dal convinto socialdemocratico Tony blair - il pericolo della guerra islamica contro la democrazia. Il suo ruolo storico sarà apprezzato fra qualche anno.
    L'Europa per ora si è tranquillamente ritirata nel suo angolo multiculturale invece di difendere con carismatica consapevolezza i valori della società liberale e agire come centro attrattivo di forza nell'area di tensione delle vere potenze modiali: America e Cina. Noi europei amiamo esibirci come maestri mondiali di tolleranza di fronte agli intolleranti, come ha giustamente osservato Otto Schily. E perché poi? Perché siamo così morali? O piuttosto perché siamo così materialisti?
    Per la sua politica Bush ha rischiato una svalutazione del dollaro, un più alto indebitamento dello Stato, un cronico aggravamento dell'economia politica americana, perché era in gioco il tutto per tutto.
    Così, mentre i rapaci animali da preda capitalisti americani sanno riconoscere le loro priorità, noi europei difendiamo con apprensione le prebende del nostro benessere sociale. Meglio non immischiarsi, potrebbe diventare caro. Preferiamo quindi discutere sulle 35 ore alla settimana, sul diritto all'assistenza medica dentistica, e ascoltiamo con piacere i predicatori televisivi che "tendono la mano agli assassini".
    Di questi tempi l'Europa assomiglia un po' a una vecchia zia che allunga le mani tremanti sui suoi ultimi gioielli mentre uno scassinatore fa irruzione

prosegue ->
nella casa dei suoi vicini.
    Europa, il tuo nome è vigliaccheria.
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(*) Mathias Döpfner è amministratore delegato del colosso editoriale tedesco Axel Springer.

(Die Welt, 20 novembre 2004)





5. RIFORMARE L'ISLAM DALL'INTERNO?




Per una riforma del mondo arabo-islamico
    
di Nonie Darwish
    
Nata e cresciuta musulmana, sono diventata adulta a Gaza [allora sotto controllo egiziano] e al Cairo all’epoca in cui Gamal Abdel Nasser si era lanciato nell’impresa di unire tutto il mondo arabo per distruggere Israele. L’Egitto mobilitava gli arabi di Gaza e incoraggiava i feddayin a compiere incursioni al di là dei confini di Israele. Mio padre, alto ufficiale dell’esercito egiziano, venne ucciso in seguito a una di queste operazioni. Dopo la sua morte, la nostra famiglia fu coperta di attenzioni. Per qualche settimana. Comunque, le vedove degli shahid (martiri) come la mia povera mamma dovevano sobbarcarsi da sole il peso di tirare avanti in una società che rispetta solo le famiglie guidate da uomini.
    Nelle scuole elementari di Gaza ci venne insegnato l’odio verso gli ebrei, la vendetta e la ritorsione. Una pace con Israele non veniva mai presa nemmeno in considerazione. Mi veniva detto di non accettare caramelle da estranei perché potevano essere ebrei che cercavano di avvelenarmi.
    Ho vissuto nel mondo arabo fino all’età di trent’anni, assistendo a tre grandi guerre e alla sempre crescente influenza dell’islam fondamentalista. La libertà di parola era soppressa. In una certa misura i cittadini si erano adattati a vivere sotto i dittatori. Le statue e i ritratti dei capi erano dappertutto. Da ogni radio venivano mandate in onda canzoni che li celebravano.
    Ho visto l’oppressione delle donne, l’uccisione delle ragazze in nome del “delitto d’onore”, la mutilazione genitale femminile, la poligamia con i suoi devastanti effetti sulle dinamiche famigliari.
    Alla fine è stato con gioia che sono riuscita a lasciarmi tutto questo alle spalle, trasferendomi in America nel 1978. Improvvisamente potevo godere della libertà di religione e dell’eguaglianza fra classi ed etnie.
    Il mio primo lavoro mi venne offerto da una donna d’affari ebrea. Vidi cristiani ed ebrei praticare le rispettive fedi pacificamente. Tra i miei amici ebrei e cristiani ascoltai parole di amore, di comprensione, di perdono e di shalom [pace]. In tutta sincerità mi chiedevano: cosa possiamo fare per arrivare alla pace con gli arabi?
    Mi sentii tradita dalla mia cultura d’origine, fautrice di violenza, che parlava di pace solo alla presenza degli occidentali. Capii che ero cresciuta dietro un muro di paura, di menzogne e inganni dei mass-media che ci tenevano separati dal resto dell’umanità. Ma non ero ancora in grado di rendere con le parole questi pensieri.
    Quando tornai in Egitto nel 2001 la situazione era diventata ancora più difficile. Le sponde del Nilo erano invase da inquinamento, sostanze tossiche e immondizia. Ho visto l’estrema povertà, la disoccupazione, l’inflazione alle stelle, la corruzione e la cattiva amministrazione imperanti.
    Siamo rientrati negli Stati Uniti il 10 settembre 2001. La mattina dopo cambiò tutto il mondo.
    Nell’istante stesso in cui vidi il secondo aereo colpire le Torri Gemelle capii che il jihad era arrivato in America. Con orrore ho visto che il paese che mi aveva dato rifugio, protezione e speranza subiva una mostruosa aggressione che scaturiva dalla mia stessa cultura d’origine. Telefonai immediatamente a diversi amici musulmani. Tutti, senza eccezione, cercavano giustificazioni per il terrorismo, negavano qualunque responsabilità della cultura islamica, e concludevano che l’11 settembre era frutto di una cospirazione degli israeliani. Non erano estremisti fondamentalisti: erano tutti musulmani moderati, gente colta che ha girato il mondo.
    Iniziai a riflettere sulla società nella quale ero cresciuta. Coloro che non praticano l’islam in modo abbastanza fervente sono presi di mira dagli estremisti. Ne risultano scontri interni, omicidi politici, “fatwe” violente, terrorismo. I governi arabi sono costantemente in lotta per mantenere la stabilità interna. Un nemico esterno non musulmano diventa indispensabile per sviare l’attenzione della gente.
    Ricordo quando, giovane ragazzina, mentre ero in visita da un amica cristiana al Cairo all’ora delle preghiere del venerdì, entrambe udimmo i violenti attacchi contro cristiani ed ebrei che venivano dagli altoparlanti della moschea: “Che Iddio distrugga gli infedeli e gli ebrei, nemici di Dio. Noi non saremo mai loro amici, né stringeremo mai con alcun patto”. E udimmo i fedeli rispondere: “Amen”. La mia amica era terrorizzata, e io sprofondavo dalla vergogna. Fu allora che capii per la prima volta che c’era qualcosa di molto sbagliato nel modo in cui la mia religione veniva insegnata e praticata.
    Sono questi predicatori quelli che hanno trasformato giovani uomini indifesi in terroristi. Nessun governo è “abbastanza islamico” per loro. In questa perversa dinamica, solo i regimi tirannici riescono a sopravvivere.
    Ma cambiare il modo il cui viene insegnato l’islam non sarà facile, soprattutto perché il cambiamento deve venire dall’interno. Finora i musulmani non sembrano genuinamente interessati a questa riforma.
    Una vasta e ben finanziata campagna, all’opera dopo l’11 settembre, si preoccupa di tutelare l’immagine e la reputazione dell’islam. Ma non affronta la necessità fondamentale di imprimere una riforma all’islam.
    Dopo l’11 settembre ho dovuto rompere il mio silenzio. Insieme a pochi altri arabi e musulmani, abbiamo trovato la forza, il senso di responsabilità e l’onestà intellettuale per dire ad alta voce che l’America e Israele non sono il nemico. Andando in giro per l’America ho avuto il privilegio di incontrare molte persone, ho condiviso lacrime e abbracciato molte donne e giovani studentesse.
    Gli americani, semplicemente confusi dalla cultura islamica, spesso mi domandano: “Perché i musulmani non sono sdegnati per l’11 settembre? Perché i musulmani moderati non parlano ad alta voce?”.
    A poco a poco ho iniziato a ricevere e-mail da musulmani che sono d’accordo con me, che vogliono vivere in pace con Israele ma che hanno paura di dirlo apertamente. Ho capito che c’era bisogno di un luogo dove poter scambiare idee e parlarsi francamente, sia viso aperto che in modo anonimo. E così ho fondato il sito web arabsforisrael.com (Arabi per Israele).
    Recentemente una donna palestinese, che oggi vive negli Stati Uniti e che condivide le mie opinioni, mi ha mandato un e-mail che ho pubblicato sul sito. Come d’abitudine, ho protetto la sua identità siglando il messaggio come “anonimo”. Mi ha subito scritto: “No, metti il mio nome, il mio nome per intero”.
    È tempo che gli arabi si liberino dal tabù che impedisce l’autocritica. Un movimento di riforma all’interno del mondo islamico è ciò di cui abbiamo tutti disperatamente bisogno. L’islam è pieno di virtù e di bontà che devono venire alla luce del sole. È dovere di ogni buon musulmano contribuire far emergere la comprensione e la tolleranza dell’islam, non solo a parole ma anche con l’azione. Abbiamo bisogno di una cultura mediorientale che rifletta le diversità delle sue genti e rispetti eguali diritti per tutti: ebrei, cristiani e musulmani.
    Uno degli obiettivi deve essere quello accogliere a braccia aperte Israele come nostro vicino, e invitarlo a fiorire in mezzo a noi in un’atmosfera di coesistenza e di pace.
    Nutro un prudente ottimismo che il lato migliore della natura umana finirà col prevalere.
    
(Jerusalem Post, 25.12.2004 - da israele.net)
    
COMMENTO - Purtroppo, quelli che dicono che bisogna riformare l'Islam dall'interno lo fanno quasi sempre parlando dall'esterno, cioè dall'America. Qualche motivo ci sarà.





6. CAMBIAMENTI ALL'INTERNO DELLA VITA EBRAICA AMERICANA




Il futuro del giudaismo

di Daniel Pipes

Fino al XVIII secolo, è esistito fondamentalmente un solo tipo di giudaismo, che oggi viene chiamato ortodosso. Esso equivaleva a vivere secondo i 613 precetti religiosi e a pervadere di fede la vita degli ebrei. In seguito, a cominciare dal filosofo Baruch Spinoza (1632-1677) e con una vivace evoluzione subita nel corso dell'haskalah ("illuminismo"), a partire dalla fine del Settecento, gli ebrei svilupparono una vasta gamma di interpretazioni alternative della loro religione, molte delle quali sminuirono il ruolo della fede in seno alle loro vite e indussero a una concomitante riduzione del senso di appartenenza ebraica.
    Queste alternative e altri sviluppi, in particolare l'Olocausto, assottigliarono le file ortodosse fino a renderle una piccola minoranza. La percentuale della popolazione ebraica ortodossa a livello mondiale toccò i picchi più bassi nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, quando essa scese all'incirca al 5%.
    Ma nei successivi sessant'anni si assistette a una rinascita dell'elemento ortodosso. Ciò fu altresì dovuto ad innumerevoli fattori, in particolar modo ciò fu causato da una tendenza insita tra i non ortodossi a sposare i non ebrei e poi a fare pochi figli. Recenti stime riguardanti gli Stati Uniti, pubblicate dal National Jewish Population Survey, puntano in questa direzione. Ad esempio, la percentuale degli ortodossi presenti nelle sinagoghe americane è passata dall'11% del 1971, al 16% del 1990, e al 21% tra il 2000 e il 2001. (Va notato, che le cifre assolute della popolazione ebraica americana sono crollate nel corso di questi decenni.)
    Se questa tendenza dovesse avere seguito, è plausibile che si tornerebbe alla stessa proporzione esistente due secoli fa, con gli ortodossi che ancora costituivano la grande maggioranza degli ebrei. Se ciò accadesse, il fenomeno non ortodosso potrebbe apparire in retrospettiva solamente un episodio, un'interessante, importante, decisiva e già destinata al fallimento ricerca di alternative, il suggerire di vivere secondo la legge potrebbe essere essenziale per il mantenimento dell'identità ebraica a lungo termine.
    Queste considerazioni di natura demografica arrivano alla mente dopo aver letto un recente articolo pubblicato sul Jerusalem Post dal titolo "Un Leader Haredi Americano Esorta all'Attivismo", a firma di Uriel Heilman, in cui l'autore riporta un "discorso epocale" pronunciato alla fine del novembre 2004 dal rabbino Shmuel Bloom, vicepresidente esecutivo dell'Agudath Israel of America. L'Agudath, un'organizzazione ortodossa con il compito di "mobilizzare gli ebrei osservanti della Torah al fine di perpetuare il vero giudaismo", è costituita da membri che vanno da uomini sbarbati di fresco a quelli che portano i cappelli neri (gli haredi), da ebrei che hanno condotto i propri studi nelle università laiche agli studenti di lingua yiddish delle scuole talmudiche.
    Rabbi Bloom ha detto davanti a un pubblico di iscritti all'Agudath che gli andamenti demografici della popolazione ebraica stanno a indicare che gli ortodossi americani non riescono più, come in passato, a celarsi dietro i loro interessi confessionali e pretendono che le istituzioni ebraiche non ortodosse si addossino il peso maggiore delle responsabilità comuni. Piuttosto, gli ortodossi devono adesso unirsi, o perfino mettersi a capo dei loro correligionari non-ortodossi onde combattere uniti l'antisemitismo, inviare denaro in Israele ed esercitare pressioni sul governo americano. Egli chiese: "Il punto è: desideriamo fare affidamento sugli ebrei laici giacché chi si occuperà di questo se la comunità laica è ridotta? Noi dobbiamo ampliare la nostra agenda e includere questioni che fino ad oggi abbiamo confidato che venissero compiute dagli ebrei laici".
    Egli esagera quando dice che alcuni ebrei ortodossi americani siano stati coinvolti in questioni di ordine nazionale (si pensi al senatore Joseph Lieberman) e comunitario (viene alla mente Morton Klein dell'Organizzazione Sionista d'America). Ma Rabbi Bloom ha ragione quando afferma che le istituzioni ortodosse americane siano in genere rimaste fuori dalla mischia se non per perseguire gli esigui punti che avevano inserito in agenda.
    Altri, in seno all'Agudath, concordano con la necessità che gli ortodossi espandano le loro ambizioni. David Zwiebel, vicepresidente esecutivo per il governo e gli affari pubblici dell'organizzazione, osserva che: "Malgrado la nostra comunità sia in aumento e nutra fiducia in se stessa, è indubbio che dobbiamo perlomeno ammettere che vi sarebbero talune responsabilità che adesso andrebbero condivise".
    Heilman interpreta questo intento di rivestire un ruolo più importante nella vita del Paese e della comunità ebraica come "un segnale tanto del successo della comunità haredi americana nel sostenere i propri numeri quanto della sua incapacità di trasporre quel successo in una maggiore influenza in seno alla più vasta comunità".
    Ciò potrebbe essere altresì foriero di un più profondo cambiamento all'interno della vita ebraica americana e non solo, costituendo un importante indizio dell'arrivo dell'era politica degli ortodossi e magari perfino di un suo possibile rimpiazzo del giudaismo non-ortodosso.

(New York Sun, 25 gennaio 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)





7. SULLA SCIA DI ESPULSIONI E MASSACRI




Chiese rubate

da un articolo di Michael Freund

Nell'antico quartiere ebraico di Segovia, la chiesa del Corpus Christi spicca come un pugno nell'occhio, e non senza buone ragioni.
     Posta a nord-ovest di Madrid, Segovia è meglio conosciuta come popolare luogo per turisti spagnoli, che si accalcano per vedere il suo imponente acquedotto romano e il famoso Alcazar, un medioevale castello della monarchia castigliana.
     Meno conosciuto è il passato ebraico, che cessò bruscamente nel 1492, quando un Editto di Espulsione obbligò gli ebrei a lasciare Segovia. Nonostante il passar del tempo, tuttavia, l'ingiustizia di questo atto è ancora ben viva.
     Questo perché l'area del Corpus Christi, che adesso ospita un convento-chiesa, è servita per molto tempo come Grande Sinagoga di Segovia, fino a che le autorità ecclesiastiche non se ne sono impossessate come i briganti piombano sulla preda.
     Dopo aver pagato all'ingresso un biglietto di pochi euro, ho girato nell'edificio dove una volta risuonavano le preghiere dello Shabbath e dove le ammalianti arie dello Yom Kippur venivano espresse con timore, solo per fermarmi a fissare con stupore le assurde icone cattoliche che pendevano alle pareti.
     Confuso e "incensato" continuavo a girare, fino a che mi sono ritrovato vicino a una suora che era niente di meno che la madre superiora stessa. Notando gli scuotimenti del mio capo, mi domandò con un sorriso se ero venuto per una visita. "Sì", le risposi, e poi educamente le chiesi perché non restituivano la sinagoga agli ebrei.
     Il sorriso sulla sua faccia sparì improvvisamente, sostituito da un cipiglio tutt'altro che celestiale. "Perché è un luogo cristiano", disse decisa.
     "Sì", dissi con calma, "ma prima era una sinagoga, perché non la restituite?"
     "Perché è per tutti", disse bruscamente. Poi si girò e se ne andò.
     Ho l'impressione che il fondatore del Cristianesimo non avrebbe approvato che una casa ebraica di adorazione venisse scippata al suo legittimo proprietario e trasformata in qualcosa che non aveva mai pensato di essere.
     Il Corpus Christi non è un caso unico. Purtroppo in tutta l'Europa si possono trovare molti altri casi simili, in cui la Chiesa Cattolica si è impossessata di proprietà e di beni ebraici sulla scia di varie espulsioni, massacri e persecuzioni. [...]
    
(Jerusalem Post, 2 febbraio 2005)

COMMENTO - Evidentemente le ripetute pubbliche "richieste di perdono" sono giudicate più che sufficienti.





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