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Notizie su Israele 311 - 6 settembre 2005

1. Testimonianze da Gush Katif
2. «Fino alla completa liberazione della Palestina»
3. Ricerca di sicurezza
4. Alla caccia dell'ultimo criminale nazista
5. La comunità ebraica di Venezia
6. Antisemitismo e integrazione a Roma
7. Una tendenza che sembra in aumento
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Ezechiele 18:29-30. Ma la casa d’Israele dice: "La via del Signore non è retta". Sono proprio le mie vie quelle che non sono rette, casa d’Israele? Non sono piuttosto le vie vostre quelle che non sono rette? Perciò, io vi giudicherò ciascuno secondo le sue vie, casa d’Israele, dice DIO, il Signore. Tornate, convertitevi da tutte le vostre trasgressioni e non avrete più occasione di caduta nell’iniquità!.
1. TESTIMONIANZE DA GUSH KATIF




«Oggi gli ex coloni sono persone morte dentro»

di Grazia Lissi

GERUSALEMME - Si chiamano Joseph, Abraham, Aron, Hanna, Ruth, Deborah, sono alcuni dei tanti giovani e bambini di Gush Katif, un paese evacuato della striscia di Gaza. Figli di agricoltori, sono cresciuti con un forte legame alla terra in cui sono nati, dove i nonni e i genitori hanno iniziato le loro attività più di trent'anni fa aiutati dai sussidi governativi. Protagonisti di una pagina di storia più complessa di quanto avrebbero mai pensato, saranno i futuri operatori di pace? I loro volti sono apparsi nei Tg di tutto il mondo, contrapposti ai militari loro coetanei o di poco più grandi che li obbligavano a lasciare le loro case.
    «Tutti gli ebrei sono i miei fratelli» dice Tzippora, diciannove anni, studentessa universitaria, volontaria. «Quando hanno annunciato l'evacuazione ho deciso di trasferirmi a Gush Katif per stare vicino alla popolazione, ho vissuto là per più di un mese, per intensificare le relazioni con loro, con i loro bambini, per essere presente e vicina quando i militari li avrebbero mandati fuori dalle loro case. Adesso continuo a stare al loro fianco, sono persone morte, hanno ucciso il loro cuore. Mi chiedono perché lo faccio: non posso non farlo, che li conosca o no il mio compito è aiutarli. Israele è la mia terra, loro sono il mio popolo.»
    Cinquantadue famiglie, quasi cinquecento persone di Gush Katif sono state alloggiate per una settimana all'Hotel Shalom di Gerusalemme, adesso vivono in un campeggio, fuori della città, in attesa di una sistemazione definitiva. Sono famiglie numerose, alcune hanno dieci figli, abituate a vivere insieme, ad aiutarsi, si conoscono tutti, nessuno di loro ha mai chiuso a chiave la porta di casa.
    «La nostra scelta di essere volontari è perché noi ci amiamo. Queste persone sono ebree, come me, e nel loro paese non hanno una casa» continua Shira Guttenberg, volontaria, venti anni, studia per diventare assistente sociale, vive a Gerusalemme, ma è cresciuta a Londra. «Qui vivono cinquantadue famiglie che hanno dai due agli undici figli, alcune donne sono incinte, una deve partorire fra poco, molti anziani sono rimasti con loro, hanno lasciato tutto nelle loro case. Noi gli abbiamo dato i vestiti, le cose di prima necessità … non hanno dato loro il tempo di organizzarsi. Sono tutti contadini, con la terra hanno lasciato il lavoro, i raccolti ormai pronti. Israele è la casa di ogni ebreo, il suo senso è dare a tutti una casa».
    «Un mio amico ha fatto obiezione e adesso è in carcere - interrompe un giovane - Nessuno scrive queste cose: i soldati hanno avuto un compito molto duro, nessuno dice alla nazione quanti non erano d'accordo.»
    Rachel Konigsberg ventiquattro anni, insegnante, vive a Gush Katif da sette anni. «Noi vogliamo la pace perché Dio ci benedice con la pace e vorremmo averla senza spargimento di sangue, ma in questo paese sembra difficile. Tutti noi abbiamo avuto un lutto per terrorismo, tutti noi piangiamo un parente, un amico. Quando cinque anni fa un autobus è saltato in aria ognuno di noi conosceva bene sia i morti che i feriti, ci siamo aiutati l'un altro. Gush Katif è innanzitutto una comunità molto forte, che abbiamo costruito tutti insieme, possono toglierci tutto la casa, la terra, ma non possono separarci. Il governo ci dica adesso dove ci manderà tutti quanti, noi vogliamo rimanere uniti, come prima, per ricominciare. Questa settimana io avrei dovuto insegnare ma non ho più la classe e hanno disperso i miei alunni.»
    Una giovane donna interviene. «Le case annunciate non sono ancora pronte per tutti, in molte manca la luce, l'acqua, abbiamo tutti bambini piccoli. Aspettiamo l'indennizzo promesso dallo stato alle famiglie evacuate»».
    Moshe Liebler è uno psicologo di Gerusalemme, ha studiato in Francia all'Università di Vincennes, ma ha vissuto in America, anche lui in questi giorni assiste volontariamente le famiglie dei coloni. «Per i giovani e i bambini di quei luoghi ci vorranno anni per elaborare l'abbandono delle loro case, per i più piccoli è ancora inspiegabile. Mesi fa con mia moglie e i miei quattro figli ho lasciato la mia casa e mi sono trasferito a Gush Katif, per stare vicino a quella popolazione nel momento dell'arrivo dei militari. C'erano persone spaventate, angosciate per la paura di essere scacciate dalle loro case. Sto curando una bambina di undici anni che non vuole più camminare perché è stata traumatizzata da una bomba scoppiata vicino casa sua, molte donne sono in uno stato depressivo, non riescono a capire l'ingiustizia. Sto parlando molto con i francesi che non conoscendo perfettamente l'ebraico preferiscono esprimersi, in questa situazione, nella loro lingua. Nel periodo in cui mi sono trasferito a Gush Katif potevo ancora fare dei colloqui, della terapia, ma nelle ultime settimane è stato più importante stare con le persone, ascoltarle, lasciarle esprimere, rimanere loro vicino, anche se sono disperse negli alberghi e in situazioni di emergenza. Guardi là: ci sono pile di vestiti che distribuiamo perché da casa hanno potuto portare pochissimo, queste persone non hanno mai preso qualcosa da qualcuno, si sono sempre guadagnati onestamente da vivere e adesso sono come dei rifugiati. E' un dramma nazionale, umano. Come psicologo dico: non spezzino le comunità, diano loro la possibilità di ricominciare insieme, come hanno sempre vissuto».

(La Provincia di Sondrio, 4 settembre 2005)




2. «FINO ALLA COMPLETA LIBERAZIONE DELLA PALESTINA»




Gaza non basta. La violenza continuerà

di Stefano Magni

Dopo il ritiro israeliano da Gaza, la violenza continuerà contro Israele. Non sono solo i “falchi” israeliani a ipotizzarlo, ma sono i Palestinesi stessi ad affermarlo. Non alcuni Palestinesi estremisti e isolati, ma gli stessi leader “laici” dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese. Finché è Hamas a predicare la distruzione di Israele, nessuno ci fa più caso: è considerato praticamente “normale”. È risaputo che l’obiettivo strategico del partito islamista Hamas è la distruzione dello Stato di Israele. Fanno comunque molta impressione le dichiarazioni rilasciate alla stampa dal leader di Hamas Mahmoud al Zahar, proprio durante il ritiro israeliano e durante la tregua: “Il nostro piano non consiste nel liberare la Striscia di Gaza, né di liberare la Cisgiordania o Gerusalemme. Il nostro piano, nella sua prima fase, consiste nel liberare le aree occupate nel 1967”.
    E più in là, nell’intervista rilasciata al quotidiano Asharq al Awsat, al Zahar specifica che: “Non riconosciamo e non riconosceremo mai uno Stato chiamato Israele. Israele non può accampare diritti su alcun centimetro della terra palestinese. Questa è un’istanza importante. La nostra posizione è derivata da una convinzione religiosa. Questa è una terra sacra. Non è proprietà dei Palestinesi o degli Arabi: questa terra è proprietà dei Musulmani di tutto il mondo”.
    Hamas, si può anche pensare, rimane comunque un’organizzazione estremista che non rappresenta la volontà dell’Autorità Nazionale Palestinese. Anzi, Hamas e la Jihad Islamica sono dichiaratamente nemiche di Abu Mazen. Isolando e combattendo quella sola organizzazione islamista, dunque, si risolve il problema e si porta a termine la Road Map? “Noi sosteniamo i nostri fratelli di Hamas e affermiamo che nessuna organizzazione armata palestinese sarà sciolta, perché la Palestina non è solo Gaza, ma, invece, la Palestina è Palestina dal fiume Giordano fino al Mediterraneo: questa è la nostra terra e noi abbiamo il diritto di difenderla”: questa dichiarazione, più che esplicita, è stata rilasciata lo scorso 15 agosto (dunque all’inizio delle operazioni di ritiro israeliane) da parte del braccio armato di Al Fatah, il partito che attualmente ha la maggioranza di governo nell’Autorità Nazionale Palestinese.
    D’accordo che Abu Mazen, il presidente dell’ANP ora parla di “jihad per la ricostruzione e contro la povertà”, ma solo tre settimane fa, il 12 agosto, anche a lui era scappato un: “Oggi stiamo celebrando la liberazione di Gaza e della Cisgiordania settentrionale, domani celebreremo quella di Gerusalemme”, affermando che Gaza era semplicemente “…un punto di partenza per la creazione di uno Stato Palestinese con capitale Gerusalemme”. E, siccome il suo discorso era rivolto ad una comunità di pescatori nella Striscia di Gaza, aveva dichiarato che: “Oggi stiamo iniziando la marcia dei pescatori verso la libertà. Ben presto pescherete in tutta la costa della Palestina”. E cosa intendeva con quel “tutta la costa della Palestina”? Anche Tel Aviv e Haifa? Negli accordi di pace, non ci dovrebbero essere altri sbocchi sul mare, se non Gaza e i territori circostanti, dunque non poteva che riferirsi ad Israele.
    Tuttavia, Abu Mazen, anche in passato, ha sempre evitato di parlare in termini di “guerra” contro Israele. Sono altri i leader dell’Autorità Nazionale Palestinese che celebrano esplicitamente la violenza. È il caso del primo ministro Ahmed Qurei (Abu Ala), il quale all’inizio di agosto, ricordò simbolicamente: “i figli di Yasser Arafat, il martire; i figli di Ahmad Yassin, il martire e i figli di tutti i martiri. Gerusalemme è più vicina che mai. Continueremo fino alla vittoria. Nessuno di noi deve mollare finché non saremo sul suolo di Gerusalemme”. Lo stesso Abu Ala, come Abu Mazen, ha ribadito all’inizio del ritiro israeliano da Gaza che: “festeggeremo ancora quando avremo raggiunto tutti i nostri obiettivi, stabiliremo uno Stato Palestinese con capitale Gerusalemme e tutti i profughi torneranno”.
    Ma il più esplicito di tutti, rimane il leader dell’OLP, Faruq Qaddumi, il quale, nel 2003, aveva dichiarato a un settimanale arabo israeliano: “Da un punto di vista strategico non siamo diversi da Hamas”. Qaddumi, il cui motto più famoso è “Gli Arabi sono 300 milioni, mentre alle spalle di Israele c’è solo il mare”, proprio in questi giorni sta trasferendo il suo quartier generale a Gaza, quasi a voler indicare che dalla città appena “liberata” dalla vicinanza degli insediamenti ebraici proseguirà la lotta contro Israele. Un obiettivo che ha sempre dichiarato pubblicamente, per cui ha lavorato in accordo con altri nemici di Israele: nel 2003, in Libano, quando si incontrò con lo sceicco Nasrallah, leader degli Hizbollah, per creare “coesione tra la resistenza libanese e quella palestinese”; in Siria, quando si incontrò con i leader di Hamas e della Jihad Islamica per “la liberazione della Palestina”; in Iran, nel dicembre 2004 per “la cooperazione tra l’OLP e l’Iran” per “la liberazione di Gerusalemme”.
    D’altra parte, non c’è nulla di cui stupirsi. L’OLP, fin dalle origini, si pose come obiettivo la distruzione di Israele e la creazione di uno Stato Palestinese dal Giordano al Mediterraneo con capitale Gerusalemme. Gaza e la Cisgiordania sono solo degli obiettivi intermedi, fissati dal programma strategico di Arafat nel 1968, dopo la loro occupazione da parte dell’esercito israeliano avvenuta in seguito alla Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967. Arafat, ancora impressionato dall’esempio della rivoluzione algerina contro i Francesi, che si era da poco conclusa vittoriosamente, aveva previsto il “trasferimento di tutte le cellule rivoluzionarie” nei territori occupati, così che “la resistenza possa trasformarsi gradualmente in una rivoluzione popolare armata”. Le tattiche studiate nel 1968 sono le stesse che sono state applicate contro Israele negli ultimi anni, nel corso della II Intifada: “Impedire l’immigrazione e incoraggiare l’emigrazione, distruggere il turismo, indebolire l’economia israeliana e costringere a divergere gran parte delle sue risorse nella sua sicurezza, creare e mantenere un’atmosfera di paura e ansia che costringa i Sionisti a realizzare che per loro è impossibile vivere in Israele”. Il contesto in cui queste tattiche sono state concepite è un piano strategico di più ampio respiro e di lungo termine: prendere il controllo di tutti i territori che Israele è disposto a cedere e usarli come base per un successivo balzo in avanti, fino alla “completa liberazione della Palestina”.

(L'Opinione.it, 2 settembre 2005)





3. RICERCA DI SICUREZZA




Il ritiro da Gaza, una strategia di difesa

di Marta Brachini

Il ritiro israeliano da Gaza e lo smantellamento di alcuni insediamenti in Cisgiordania è stato completato con successo. E alle cronache seguono ora difficili interpretazioni e azzardate previsioni per il futuro. Ma a chi non vede alcun “trauma nazionale” nell’abbandono di quella striscia di territorio occupata dal 1967, non rimane che dare massima fiducia alle scelte del governo Sharon, guida del paese durante tre lunghi anni di terrore. Che venga pace o guerra dopo la ritirata, la svolta è avvenuta indubbiamente nel segno di una migliore opportunità di controllo militare del territorio israeliano. E’ inoltre una carta politica da giocare in sede internazionale, per una rapida ripresa dei negoziati secondo la road map, e parte dunque di quelle dolorose concessioni promesse dal premier israeliano. La decisione di ritiro unilaterale va di pari passo anche con la costruzione della barriera difensiva tra Israele e Cisgiordania e dunque verso la definizione di confini difendibili anche se molto probabilmente temporanei. In questo senso assume una estrema importanza l’annuncio del futuro passaggio del controllo dei confini di Gaza con l’Egitto alle truppe egiziane. Un accordo in via di definizione che illumina appunto sull’estrema convenienza militare per l’esercito israeliano il quale sarà sollevato dall’impegno di pattugliamento del corridoio di confine Gaza-Egitto - principale passaggio per il traffico d’armi - e dalla responsabilità della difesa degli insediamenti e della mobilità dei sui abitanti. Col vantaggio appunto di poter concentrare le forze all’interno del paese, anche mantenendo il controllo dello spazio aereo e marittimo della striscia di Gaza.
    In mancanza di pace Israele si accontenta della sicurezza. Ma la percezione di sicurezza e la politica di difesa cambia al mutare del contesto geopolitico. E la storia degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi ne costituisce un esempio rappresentativo. Per Israele la presenza di insediamenti nella striscia di Gaza e in Cisgiordania è stata parte rilevante della politica di difesa negli anni che vanno dalla Guerra dei sei giorni - 1967 - ai primi anni Novanta, ovvero prima della spartizione di detti territori in aree di influenza israeliana o palestinese. Gran parte delle strutture di insediamento sono state utilizzate in passato come basi di appoggio militare a scopo difensivo - nacquero infatti come insediamenti agricolo-militari, i Nahal in ebraico - e considerati dei veri e propri cuscinetti di difesa. Sorsero perlopiù lungo le rive del Giordano, ai piedi del Golan e a Gaza, considerando che Giordania, Siria ed Egitto sarebbero rimasti Stati belligeranti ancora per lungo tempo. Oggi, dopo il totale fallimento del processo di pace, lo scoppio della seconda Intifada e la morte di Arafat, le condizioni e le prospettive di dialogo sono mutate drasticamente tanto che la stessa vecchia formula “territori in cambio di pace” - che per anni ha egemonizzato il dialogo di pace tra israeliani e palestinesi - si rivela impraticabile.
    Secondo Tom Segev, uno dei maggiori storici e giornalisti israeliani, “la situazione geopolitica è cambiata, la possibilità di scambiare la pace coi territori è ormai minima, ma ognuno nel frattempo non può non riconoscere che il concetto terra in cambio di principi di pace è ancora corretto”. Il ritiro unilaterale da Gaza non ha nulla in comune col ritiro israeliano dal Sinai concordato con l’Egitto in cambio di pace nel 1979, oggi la scelta unilaterale vuole affermare una possibilità di pace ma è allo stesso tempo una capacità maggiore di difesa in caso di un'altra offensiva terroristica. Agli occhi dell’estremismo palestinese il ritiro è certamente una vittoria della seconda Intifada: dunque il primo passo per la riconquista della Cisgiordania, di Gerusalemme e un giorno di tutta Israele. Molti moderati, seguaci di Abu Mazen, ringraziano per lo sforzo israeliano, pur considerandolo atto dovuto, mentre guardano preoccupati alla prevedibile lotta di potere che si prefigura all’interno dell’attuale dirigenza di Al-Fatha e di Hamas. Non sono infondate dopotutto le lamentele dei critici del ritiro unilaterale quando affermano appunto che la mossa israeliana potrebbe costituire un pericoloso precedente e dunque un incentivo a continuare l’offensiva terroristica. Ma la maggioranza degli israeliani ha dato credito a Sharon, confidando nella compattezza del governo e auspicando un futuro migliore per il paese, costretto in una morsa di incertezza ancora per lungo tempo.

(Ideazione.com, 1 settembre 2005)





4. ALLA CACCIA DELL'ULTIMO CRIMINALE NAZISTA




Si chiama Aribert Heim e uccise centinaia di ebrei nel campo
di concentramento di Mauthausen. Gli inquirenti: è ancora vivo

Berlino - Secondo la stampa tedesca uno dei più feroci criminali nazisti, il dottor Aribert Heim, sarebbe ancora vivo e vivrebbe tranquillamente in Germania. Il medico nazista, nato in Austria, avrebbe ucciso centinaia di ebrei con iniezioni direttamente al cuore o operandoli senza anestesia nel campo di concentramento di Mauthausen sottoponendoli anche a brutali esperimenti durante le sette settimane che egli passò nel famigerato lager austriaco.

Inquirenti - Fino a pochi mesi fa gli investigatori pensavano che Heim fosse morto: gli inquirenti di Stoccarda hanno scoperto lunedi che esiste un conto corrente con quasi un milione di euro intestato all'ex medico nazista in una banca berlinese. Nessuno dei tre figli di Heim ha mai reclamato la somma intestata all'ex medico e ciò suggerisce che sia ancora vivo. Inoltre Heim

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avrebbe formulato una richiesta alle autorità tributarie del suo paese nel 2001.

Criminale - Oggi Aribert Heim avrebbe 91 anni: durante la seconda guerra mondiale lavorò a lungo a fianco dello spietato dottor Joseph Mengele e alla fine della guerra avrebbe vissuto per un breve periodo in Germania prima di scappare in Sudamerica. Heim nel secolo scorso sarebbe stato visto anche in Spagna e in Egitto. Gli investigatori di Stoccarda hanno messo una taglia sull'ex dottore nazista: chi darà delle informazione che aiuteranno gli investigatori a catturarlo otterrà una ricompensa di 150.000 euro. La rivista Der Spiegel ha intervistato Efraim Zuroff, del centro Wiesenthal, che ha assicurato che l'organizzazione «Operation Last Change», che ha l'incarico di assicurare alla giustizia gli ex criminali nazisti, si è messa sulle tracce di Heim.

Wanted - Heim è anche accusato di aver decapitati due detenuti di Mauthausen e sottoposto il loro cranio a procedimento chimico per esporlo. Da un altro detenuto ucciso avrebbe tagliato un pezzo di pelle con il tatuaggio di una nave per farci un lume e a un altro ancora che doveva operare a una gamba, avrebbe invece inciso l'addome e estratto tutte le interiora. Non si hanno notizie di Heim dal 1957. L'unica persona che si conosce che ha avuto contatti con lui è Fritz Steinacker, l'avvocato di famiglia. Egli ha rifiutato di dare informazioni e si è appellato al segreto professionale.

(Corriere della Sera, 30 agosto 2005)





5. LA COMUNITA' EBRAICA DI VENEZIA




Ebrei a Venezia, da 600 anni prova di coesistenza

di Giovanni Montanaro        

La comunità ebraica è, dal 1400, una parte fondamentale di Venezia; un patrimonio di civiltà, storia e arte offerto alla città. Della sua situazione, così come delle prospettive future e del significato oggi della proposta e della cultura ebraica, parliamo con Dario Calimani, che della comunità è il presidente.

La comunità di Venezia oggi...
    
È una delle più vivaci d'Italia, a livello storico e culturale. Oggi siamo circa 400 persone; per numero, credo al quinto posto in Italia. Quel che è certo è che abbiamo il più grande patrimonio artistico, e per di più interamente concentrato in un'area ben delimitata, rimasta intatta attraverso il tempo. Questa ne è l'unicità.

Manutenzione e restauro, dunque, sono all'ordine del giorno...
    
Già, le sinagoghe sono del '500 e '600, e dunque necessitano un'attenzione costante. Anche perché oggi, finalmente, abbiamo un turismo qualificato. Si parla di 100.000 visitatori all'anno, calcolando i soli biglietti staccati al museo ebraico. Il nostro intento è sempre stato quello di risollevare la zona come un punto di attrazione. Oggi ci siamo riusciti. Se vede, stanno aprendo negozi, gallerie d'arte, oltre a botteghe di specialità ebraiche.

Eppure, continuate a rilanciare...
    
Innanzitutto, entro fine anno, concluderemo il restauro dello storico edificio della casa di riposo e l'ampliamento del museo ebraico, che sarà organizzato come un vero e proprio percorso all'interno della vita ebraica e della storia dell'ebraismo italiano. E' una proposta di sempre maggiore apertura dialogica alle altre culture, oltre che un nuovo stimolo alla conoscenza della nostra. In terzo luogo, sempre all'interno del Ghetto, stiamo realizzando, in collaborazione con la Codess, un'aula didattica nella quale le classi scolastiche potranno svolgere un'attività educativa guidata sulla cultura ebraica. Le scuole si mostrano sempre più interessate ad ampliare le esperienze e le conoscenze degli allievi. Così, stiamo gestendo, in Calle del Forno, un importante recupero parallelo: architettonico e culturale.

Cosa può insegnare l'ebraismo oggi?
    
L'ebraismo a Venezia esprime una comunità che da 600 anni offre alla città la possibilità di confrontarsi con il diverso. Allo stesso modo di altre presenze di minoranza, quali armeni o greci ortodossi, i quali tuttavia sono sempre riconducibili al cristianesimo. Questa compresenza è l'esempio più lampante di come si possa convivere con il diverso, senza sconvolgimenti o alterazioni per le rispettive culture; anzi, arricchendosi a vicenda. Io sono e mi sento cittadino veneziano da 600 anni.

Qualcuno paventa oggi la possibilità di uno scontro di civiltà...
    
L'esperienza ebraica insegna invece che con l'accettazione e il rispetto delle reciproche identità - non con la mera tolleranza - la convivenza diventa elemento di crescita per tutti; ci vuole curiosità di conoscere, apertura all'altro, disponibilità sincera al dialogo. La nostra identità può essere e rimanere forte, e legata indissolubilmente alle sue radici, anche nella disponibilità all'incontro con l'altro. È giusto, allora, considerare e combattere il terrorismo sul terreno politico, non cercando e proponendo artificiosi e pericolosissimi scontri culturali fra popoli e civiltà diverse.

Come si integrano le minoranze?
    
Noi crediamo nella necessità di uno Stato laico. I singoli individui, invece, possono e devono poter essere ed esprimere quello che desiderano. Bisogna però stare attenti a non prevaricare l'identità altrui, a non conculcare la libertà dell'individuo, costringendolo a venir meno ai suoi principi, alle sue idee, alla sua fede. Certo, il terrorismo e le esigenze della sicurezza pongono oggi gravi problemi. Ma è indispensabile che l'estremismo altrui non ci condizioni e non ci faccia diventare estremisti a nostra volta. Credo fortemente che le parole chiave per la soluzione, non certo vicinissima, dei problemi siano "conoscenza", "disponibilità", "dialogo".

In Israele si torna a parlare di pace...
    
E la Comunità Ebraica Nazionale ne è felicissima. Il legame tra ebrei ed ebrei è indissolubile, è un rapporto affettivo. Il che non significa che talora non possa anche essere critico, all'interno di un legame che è comunque culturale, religioso, spesso famigliare, ben prima che politico.

E l'antisemitismo?
    
Purtroppo è parte della nostra cultura, come odio aprioristico dell'altro in quanto altro. Lo si deve riconoscere, innanzitutto, se lo si vuole combattere alla radice. E lo si può e lo si deve combattere con la cultura, con il dialogo, con la conoscenza. Certo, però, il quadro si presenterà più nitido dopo la pace in Israele. C'è la tendenza a minimizzare i gravi segnali di antisemitismo risorgente perché si considerano più conseguenze della politica di Israele che non odio nei riguardi dell'ebreo in quanto tale. Quando la pace avrà eliminato questa falsa premessa, tutto tornerà ad essere più chiaro e si vedrà che l'antisemitismo è endogeno alla nostra civiltà e alla nostra società: non ha cause, ma è fine a se stesso. E allora, dovremo riprendere ad impegnarci a lottare il mostro dell'odio che cova dentro di noi.

(Gente Veneta , no.32 del 2005)





6. ANTISEMITISMO E INTEGRAZIONE A ROMA




Rigurgiti antisemiti nelle scritte sui muri Ma tra ebrei e Roma c’è un vecchio amore

di Fulvio Stinchelli

Antiamericanismo e antisemitismo, strettamente abbracciati, rigurgitano sui muri dell'Urbe. «Forza Katrina: spazzali via tutti», sta scritto in viale del Vignola. Ma a chi si riferisce quel «tutti»? A chi pensa l'ignoto writer? In via Collatina troviamo la risposta: «Usa boia. Israele assassini». Al Nuovo Salario le idee sono ancora più chiare con un «Iraq libero» accompagnato da un esplicito «Viva Al Qaeda - abbasso il sionismo».
    Un giro automobilistico di Roma, prima che il rientro totale lo renda impossibile, si impone. E nel senso appena indicato si rivela istruttivo. Per quelli della mia generazione, addirittura terrificante. Nel tour mi accompagna un vecchio amico. Dice: «Questi muri parlano un linguaggio di altri tempi. Ricordi?». Certo che ricordo, come si fa a dimenticare? Anche allora, ai tempi della nostra infanzia, americani ed ebrei costituivano un tutt'uno nel pensiero e nel linguaggio dei seguaci di Telesio Interlandi. Stati Uniti, Inghilterra e Francia rispondevano alla definizione di «potenze demoplutogiudaico», con l'aggiunta tardiva di: «sovietiche». Prima, ai tempi dell'accordo Molotov-Ribentrop, no. Prima Hitler e Stalin se l'intendevano alla perfezione nell'odiare gli ebrei. Questa intesa, sessanta e più anni dopo, si ricompone e rinsalda sui muri della Roma attuale. Perché, vedete, l'antisemitismo non conosce particolari coloriture politiche. È eterno nella sua naturale, perfida trasversalità.
    Noto che la scritta al Flaminio, quella del «Forza Katrina», è firmata da una sigla di destra. Le scritte della Collatina invece tradiscono uno stile no-global. A ciascuno il suo, l'odio per gli ebrei conosce e pratica vie infinite e parallele. Questi rigurgiti, nella nostra città, fanno venire i brividi. I «gricciori» come si diceva un tempo. E pensare che ieri, a Roma e in altre 45 città italiane e 26 paesi del continente, si è celebrata la Giornata Europea della Cultura Ebraica. Qui da noi, manifestazioni un po' dovunque, dal Tempio alle strade dell'antico Ghetto, da via Catalana ad Ostia Antica. E sapete quale è stato il fulcro delle cerimonie? L'alimentazione. Ed è giusto che sia così, perché da secoli, a Roma, se vuoi mangiare bene devi andare «dove magneno li giudii». Loro, sì, che se ne intendono. Tra Roma e gli Ebrei è amore secolare, millenario. Giunsero, i primi, al tempo di Augusto Imperatore e s'insediarono in riva al Tevere. Per restarci, imperterriti, fino ai giorni nostri. Nonostante le persecuzioni, gli scherni, e da ultimo la terribile deportazione del 1943. Per secoli e secoli, gli ebrei di Roma hanno curato di restare uniti, ed ebrei, specie nei matrimoni. Per cui, a conti fatti, se c'è ancora un romano autentico, di origine controllata e garantita, bene, quello sarà sicuramente un israelita. Certo, da un secolo in qua, anche da noi, intorno al Portico d'Ottavia, si è fatta strada l'idea dell'integrazione. O assimilazione che dir si voglia.
    Cos'è l'assimilazione? Del grave problema si occuparono grandi ebrei come Sigmund Freud, Walter Benjamin. E lo stesso Marcel Proust, che era ebreo soltanto in linea materna, la linea che conta. Un grandissimo assimilato fu il nostro (dico nostro, perché la famiglia veniva da Ferrara) Beniamino Disraeli che, trasferitosi in Gran Bretagna, divenne il sommo statista che tutti sanno. Di lui, a ragione, fu detto: «Due volte straniero in Inghilterra, come veneziano e come giudeo, ma, dal primo all'ultimo giorno della sua vita pubblica, il più inglese degli inglesi». Un miracolo dell'assimilazione. Su questo tema, appunto, l'assimilazione per cui un ebreo assume toto corde una nazionalità, senza per questo rinunciare alle proprie origini, Evelyne Bloch-Dano ha scritto di recente un gran bel libro, edito da Grasset, che si intitola «Madame Proust». Si tratta ovviamente della biografia di Jeanne Weil, l'amatissima madre del grande Marcel. Un bel libro, dicevo, in cui la storia dei Proust, madre e figlio, è solo un pretesto. Il discorso e l'interesse della biografa si spingono più in là. Si cerca di spiegare, riuscendoci, cosa fu il fenomeno dell'antisemitismo e cosa è tutt'ora. Dal libro torniamo a Roma. Storicamente, l'Urbe è la città prima dell'assimilazione. Si può dire che l'abbia inventata. Ecco perché rigurgiti del tipo ripropostosi sulle nostre «murailles», vere carte della canaglia, ridestano sopite paure. Fanno venire i brividi. Specie a chi può, e deve, ricordare.

(Il Tempo, 5 settembre 2005)





7. UNA TENDENZA CHE SEMBRA IN AUMENTO




Un sito Internet per convertirsi all’ebraismo

di Gianni Verdoliva

Diventare ebrei. Per scelta. Un fenomeno nuovo e inaspettato. Specie se si considera che l’ebraismo, contrariamente all’Islam e al cristianesimo, non è una religione che tende a fare proselitismo. Eppure le conversioni all’ebraismo sono sempre esistite. E contano anche nomi del cinema come Elizabeth Taylor e Marilyn Monroe o della musica, come Madonna. Secondo un’interpretazione mistica la persona che si converte all’ebraismo possiede un’anima ebraica che sta cercando una casa. In termini pratici chiunque, dopo un adeguato periodo di studio, sia pronto a vivere secondo i principi della halakhà, la legge sacra, può essere convertito e diventare ufficialmente ebreo.
    Nei fatti però, molti rabbini, specialmente quelli ortodossi, non solo sono contrari alle attività di proselitismo ma addirittura scoraggiano le conversioni. Charlotte, uno dei personaggi del serial «Sex and the City», bussa per ben tre volte alla porta di una sinagoga di New York, animata dal fermo desiderio di diventare ebrea. Porta che le si richiude puntualmente in faccia. Fino a quando la sua insistenza non supera la diffidenza del rabbino. La scena del telefilm, per quanto fittizia, rispecchia una certa chiusura di una parte delle comunità ebraiche, in genere quanto meno circospetta nei confronti dei nuovi arrivati. Un atteggiamento che ha generato varie polemiche in seno alle comunità americane, specie alla luce dell’ultimo censimento che vede il numero degli ebrei in calo e delle comunità decisamente invecchiate. Anche per via dei figli nati da matrimoni misti che vengono considerati ebrei solo se la madre lo è.
    Contro questo rigore si batte il Jewish Outreach Institute di New York che promuove un’educazione ebraica dei figli nati da matrimoni misti. Questione controversa quella delle conversioni, anche perché i rabbini ortodossi non riconoscono la conversione all’ebraismo effettuata da rabbini di altre correnti, considerandole incomplete. Eppure aumentano i casi di conversione. Scelta che per alcuni è un ritorno. Molti infatti sono i casi di persone in Spagna, Portogallo e Brasile di persone che, pur essendo ufficialmente cattoliche, avevano conservato delle abitudini familiari, come l’usanza di accendere candele, retaggio del rituale ebraico. Sono i discendenti dei marrani, ebrei convertiti a forza al cattolicesimo che, ora, tornano alla loro fede di origine.
Il rabbino Celso Kukierkon nella sinagoga
con una fedele
Il rabbino Celso Kukierkon, che creato il sito
convertingtojudaism.org conferma il trend: «Recentemente sempre più persone scelgono di convertirsi all’ebraismo. Conduco diversi seminari all’anno negli Usa e in varie parti del mondo. Molti dei convertiti provengono dal protestantesimo, ma ci sono anche cattolici, seguaci di religioni orientali e anche musulmani. Rimango sempre colpito dalla conoscenza e dalla serietà dimostrata da chi decide di diventare ebreo». Persone di ogni età e ceto sociale. E di ogni provenienza geografica. Perché si registrano nuovi ebrei anche nei posti più impensati come l’Africa o l'India. O la Polonia, come il caso di alcuni bambini, ormai anziani, scampati all’Olocausto e allevati nella fede cattolica.

(Il Mattino, 3 settembre 2005)





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