<- precedente seguente -> pagina iniziale arretrati indice



Notizie su Israele 312 - 14 settembre 2005

1. Riflessioni sullo sgombero da Gaza
2. Nella Palestina gestita dagli arabi
3. Che cosa accadrà nella striscia di Gaza?
4. La Giornata della Memoria infastidisce i musulmani
5. Visita del Presidente dell'Agenzia Ebraica in Olanda
6. Cooperazione economica Italia-Israele
7. Il racconto di un'ebrea sfuggita ai nazisti
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 65:8-10. Così parla il SIGNORE: «Come quando si trova del succo in un grappolo, si dice: "Non lo distruggere perché lì c’è una benedizione", così farò io, per amor dei miei servi, e non distruggerò tutto. Io farò uscire da Giacobbe una discendenza e da Giuda un erede dei miei monti; i miei eletti possederanno il paese, i miei servi vi abiteranno. Saron sarà un recinto di greggi, la valle d’Acor, un luogo di riposo alle mandrie, per il mio popolo che mi avrà cercato.»
1. RIFLESSIONI SULLO SGOMBERO DA GAZA




Odio di sé

di Yehuda Serezo

12 settembre 2005. Questa mattina ogni ebreo nel mondo, quando ha acceso la sua televisione, ha potuto assistere a uno spettacolo tra i più deprimenti. In effetti, i palestinesi prendevano possesso della striscia di Gaza festosamente, ma anche animati da odio verso tutto quello che poteva ricordare loro la presenza ebraica nella regione.
    E' dunque sotto l'occhio benevolo dei poliziotti palestinesi che centinaia di uomini, donne e perfino bambini si sono attaccati con una violenza inaudita alle sinagoghe dell'ex Gush Katif. A colpi di massi e di pietre hanno distrutto 3 dei 23 luoghi di preghiera che contava la regione. Dire che la polizia non ha agito, sarebbe falsare il dibattito, perché abbiamo ben potuto osservare sulle catene della televisione francese che quegli uomini - che si supponeva dovessero far rispettare l'ordine - danzavano sul tetto delle sinagoghe con la bandiera palestinese in mano.
    In un passato molto recente abbiamo sentito un ministro francese parlare di Stato di diritto e di mezzi da fornire alle forze di polizia palestinesi affinché possano svolgere al meglio il loro compito. Mi chiedo se il fumo che si sprigiona dalle sinagoghe in fiamme non gli abbia oscurato la vista e se una inalazione troppo forte non gli abbia fatto perdere la giusta nozione delle cose e degli avvenimenti.
    Perché alla fine, siamo obiettivi: quale potere religioso al mondo accetterebbe senza battere ciglio che degli esseri umani distruggano i suoi luoghi di culto, e soprattutto nel modo in cui si è verificato questa notte nella striscia di Gaza? Se Israele avesse anche soltanto danneggiato una moschea, è sicuro che l'opinione internazionale ci avrebbe ancora una volta gettato in pasto ai leoni, e che l'obbrobrio internazionale si sarebbe abbattuto su di noi.
    Ma oggi nessun commento, nessuna reazione ufficiale è venuta ad alleviare il dolore del popolo ebraico, obbligato in nome della pace ad assistere ad uno dei più immorali sacrilegi. No, la tendenza è stata piuttosto al silenzio, espressione di un'approvazione appena mascherata. In fondo, non sono altro che i simboli dell'occupazione fatta da coloni astiosi, è dunque normale che i palestinesi vogliano sbarazzarsene per cancellare il più presto possibile ogni traccia di presenza ebraica sulla loro terra...
    
Basta, conosciamo la posizione delle nazioni del mondo nei nostri riguardi e non sono le belle parole di alcuni che faranno cambiare la situazione. Quello che tuttavia è la cosa più grave ai miei occhi, è l'atteggiamento tenuto da certi israeliani. Il deputato laburista Haïm Ramon è arrivato perfino a dire che quelle sinagoghe potevano essere distrutte, contro il parere dei rabbini, perché non servivano come luoghi di preghiera, ma erano strumenti di propaganda e luoghi di incontro politico. Alludeva certamente ai tafferugli avvenuti in certe sinagoghe al momento dell'evacuazione, e senza dubbio molti considerano i salmi letti dai fedeli radunati come incitazioni alla violenza.
    Ovviamente non c'è da fare alcun commento a questo approccio di un deputato israeliano, tanto è chiara la divisione che regna in seno alla popolazione. Risultato di una democrazia spinta all'estremo, questo atteggiamento ci fa capire a qual punto la società israeliana è fratturata e a qual punto è urgente ridare uno scopo unitario al nostro popolo.
    Unità. Una parola così bella, carica di tante speranze in una vita migliore, ma così difficile da applicare. Questa mattina i nostri nemici hanno distrutto i simboli della nostra fede, del nostro attaccamento alla Legge dei nostri padri. E mentre agivano così, alcuni di noi piangevano mentre altri applaudivano a piene mani. Non so a che cosa porterà questa decisione presa dai nostri dirigenti, ma mi dico una cosa: il Creatore deve veramente essere in collera con noi per lasciare che i suoi figli subiscano una simile umiliazione.
    In questo mese di Ellul, quando tutti gli ebrei implorano la misericordia divina, forse sarebbe bene ritornare a delle relazioni più semplici fra di noi. Sarebbe sufficiente ricordarsi che ogni ebreo è l'elemento indissociabile di un tutto e che quando uno di noi ha male, è tutto il popolo che soffre. In effetti, bisognerebbe che avessimo almeno tanta compassione per i nostri fratelli quanta ne abbiamo per i nostri nemici. Ma sinceramente, mi chiedo se è utile amare gli altri se questo deve condurci ad odiarci fra di noi.

(Guysen Israël News, 12 settembre 2005)

_______________________

«Rientro in albergo e vedo il cielo rosso come il sangue. La sinagoga brucia. Consentiamo che si provveda all'opera di spegnimento solo nei limiti in cui è necessario per la salvaguardia degli edifici circostanti. E lasciamo bruciare il resto. Le squadre d'assalto stanno eseguendo un lavoro terribile. [...] Nel raggiungere l'albergo ho sentito il fracasso delle vetrine infrante. Bravi, bravi! Le sinagoghe ardono come vecchie catapecchie... »

(dal diario di Joseph Goebbels dopo la "notte dei cristalli")





2. NELLA PALESTINA GESTITA DAGLI ARABI




Il cristianesimo sta morendo nel suo luogo di nascita

di Daniel Pipes

La notte tra il 3 e il 4 settembre nei pressi di Ramallah, in Cisgiordania, ha avuto luogo ciò che alcuni osservatori definiscono un pogrom. Quella notte, 15 giovani musulmani del villaggio di Dair Jarir scatenarono la loro furia contro, il vicino villaggio cristiano di Taybeh, abitato da 1.500 persone.
    Qual è il motivo di questo attacco? Una donna musulmana del villaggio di Dair Jarir, la ventitreenne Hiyam Ajaj, si era innamorata del suo datore di lavoro cristiano, Medhi Khouriyye, proprietario di una sartoria a Taybeh. La coppia mantenne per due anni una relazione clandestina e nel marzo scorso Hiyam rimase incinta. Quando la famiglia della giovane venne a saperlo, la uccise. Era l'1 settembre. Non essendo però ancora soddisfatti di aver perpetrato semplicemente questo "delitto d'onore" – poiché la legge islamica vieta categoricamente agli uomini non-musulmani di avere rapporti sessuali con donne musulmane – gli uomini della famiglia Ajaj cercarono di vendicarsi contro Khouriyye ed i suoi familiari.
    Lo fecero due giorni dopo, attaccando Taybeh. La famiglia Ajaj insieme a degli amici irruppero nelle abitazioni e rubarono mobili, oggetti preziosi ed elettrodomestici. Lanciarono delle bottiglie molotov contro alcuni edifici e versarono del kerosene in altre abitazioni, per poi appiccare il fuoco. Danneggiarono almeno 16 case, alcuni negozi, una casa colonica ed un distributore di benzina. Gli assalitori danneggiarono automobili, si dettero ai saccheggi e distrussero una statua della Vergine Maria.
    "Sembrava una guerra", ha raccontato a The Jerusalem Post un abitante di Taybeh. Trascorsero delle ore prima dell'arrivo delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese (AP) e dei vigili del fuoco. I 15 assalitori rimasero solo qualche ora in stato di fermo, per poi essere rilasciati. Quanto a Khouriyye, egli venne arrestato dalla polizia palestinese, messo in cella e ripetutamente picchiato (come racconta la sua famiglia).
    Come osserva l'agenzia stampa Adnkronos International, per i palestinesi cristiani "il fatto che gli aggressori musulmani siano stati rilasciati mentre il proprietario della sartoria cristiano è ancora in galera, simboleggia nel migliore dei casi l'indifferenza mostrata dall'Autorità palestinese nei confronti della situazione in cui versano i cristiani palestinesi, e nel peggiore dei casi l'episodio mostra che l'AP prende posizione contro di loro".
    Suleiman Khouriyye, un cugino dell'aggredito, additando la sua casa data alle fiamme ha asserito: "Lo hanno fatto perché siamo cristiani. E perché siamo quelli più deboli". La famiglia Khouriyye ed altri ricordano che gli aggressori inneggiavano Allahu Akbar e scandivano altri slogan anti-cristiani: "Al rogo gli infedeli! Al rogo i crociati!" Al che, un impenitente cugino di Hiyam Ajaj ha replicato dicendo: "Abbiamo ridotto in cenere le loro abitazioni perché hanno disonorato la nostra famiglia e non perché sono cristiani".
    Questo attacco rientra in uno schema più ampio. Secondo il custode francescano di Terra Santa, Pierbattista Pizzaballa, tra il 2000 e il 2004 sono stati rilevati 93 casi di soprusi solo tra i cristiani che vivono nell'area di Betlemme. L'episodio più grave si è svolto nel 2002, quando i musulmani uccisero le due sorelle Amre, di 17 e 19 anni, considerate delle prostitute. Ma dall'autopsia risultò che le ragazze erano vergini – e che avevano subito delle torture agli organi genitali.
    "Quasi ogni giorno, e sottolineo pressoché ogni giorno, le nostre comunità subiscono vessazioni da parte degli estremisti islamici di queste aree", chiosa padre Pizzaballa. "E se non sono membri di Hamas o della Jihad islamica, vi sono scontri con (…) l'Autorità palestinese". Oltre agli islamisti, pare che operi "una mafia musulmana". Con la complicità dell'Autorità palestinese. Essa minaccia i cristiani ed i proprietari delle abitazioni, riuscendo spesso a costringerli ad abbandonare i loro averi.
    La campagna delle persecuzioni ha successo. Proprio mentre la popolazione cristiana di Israele è in aumento, quella dell'Autorità palestinese è in forte calo. Betlemme e Nazareth, storiche città cristiane da quasi due millenni, adesso sono a maggioranza musulmana. Nel 1922, a Gerusalemme i cristiani erano più numerosi dei musulmani; oggi, i cristiani ammontano a un mero 2% della popolazione della città.
    "La vita cristiana è soggetta a ridursi a delle chiese vuote, a una gerarchia senza congregazione e priva di fedeli nel luogo di nascita del cristianesimo?" È quanto si chiede Daphne Tsimhoni tra le pagine del Middle East Quarterly. È difficile prevedere cosa impedirà allo spettro futuro di diventare realtà.
    Un fattore che potrebbe contribuire ad evitare questo funesto esito sarebbe quello che le chiese protestanti alzassero la voce contro i musulmani palestinesi poiché costoro vessano e scacciano i cristiani palestinesi. Sinora, sfortunatamente, le chiese episcopale, luterana evangelica, metodista e presbiteriana, come pure la Chiesa Unita di Cristo, hanno ignorato il problema.
    Piuttosto, esse perseguono l'auto-indulgente strada di manifestare la loro indignazione morale contro gli israeliani e arrivano perfino a ritirare i loro investimenti dallo Stato ebraico. Dal momento che esse sono ossessionate da Israele, ma rimangono in silenzio di fronte all'agonia in cui versa il cristianesimo nel suo luogo di nascita, ci si chiede cosa le renderà consapevoli di quanto sta accadendo.

(New York Sun, 13 settembre 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)





3. CHE COSA ACCADRA' NELLA STRISCIA DI GAZA?




Un lavoro per Hamas

di Carlo Panella

Da mesi bande di “terroristi disoccupati organizzati” spadroneggiano per Gaza, si dedicano all’industria dei sequestri per denaro o per “public relations”, come nel caso di Lorenzo Cremonesi, occupano manu militari uffici dell’Anp, come fossero “Comitati di base di disoccupati”, per farsi dare lo stipendio, fanno attentati contro dirigenti palestinesi, impongono la sharia a suon di mitra e di linciaggi, come nel caso di quella sventurata fidanzatina colpevole di aver passeggiato mano nella mano sul lungomare col suo ragazzo.
    I media mondiali danno conto di tante e tali imprese con disinvolta obbiettività, come se tutto ciò fosse normale, come se in altre lotte di liberazione nazionale, alla vigilia della liberazione, tutto questo fosse accaduto (ma non ve ne è una in cui sia accaduto), come se anche tutto fosse da addebitarsi alle “colpe” di Israele. Si perde così una buona occasione per comprendere che cosa accadrà nella Striscia di Gaza nei prossimi mesi, e come sia inadeguata la strategia di Abu Mazen che rifiuta di disarmare le bande armate palestinesi e spera in una fine dell’ondata di violenze affidata solo al processo di rappresentanza politica delle elezioni. E’ una pia speranza, destinata al fallimento, perché da 49 anni non smantella quella politica sociale aberrante che tutte le dirigenze arabo-palestinesi hanno sviluppato proprio a partire da Gaza. Una “strategia sociale” unica al mondo e mirata a un solo fine: produrre armati, produrre terroristi, diffondere idee di morte.
    Tutta la vicenda palestinese dal 1948 in poi è caratterizzata da un unicum, che non si è mai verificato in nessuna organizzazione di liberazione nazionale: la voluta, programmata cristallizzazione dei propri campi profughi. Qui, in questi agglomerati che non si sono voluti sciogliere nelle popolazioni arabe, complice l’Onu terzomondista, “la rabbia palestinese” è stata coltivata, armata ideologicamente e praticamente per un solo fine: distruggere Israele. Gamal Abdel Nasser nel 1956 dà il crisma ufficiale e teorizza questa strategia: annette all’Egitto il territorio di Gaza, ma non concede ai suoi abitanti la cittadinanza egiziana, dichiarando che “i profughi palestinesi saranno la nostra arma per distruggere l’Entità sionista”. E’ la strategia della “produzione di profughi per produrre terroristi”. Così è.
    Oggi quel cinico mostro giuridico va ricordato perché chiarisce bene di chi sia la responsabilità nella vita cinquantennale dei profughi. In quegli stessi anni, ovunque nel mondo, altri popoli che avevano dichiarato guerre ingiuste e le avevano perse (e i palestinesi avevano dichiarato una guerra ingiusta nel 1948, perché contro una risoluzione dell’Onu), sudano sangue per svuotare i propri campi e integrare nelle loro società i profughi: 12 milioni di tedeschi dell’Est, 300 mila italiani di Istria e Dalmazia; milioni di indù e musulmani tra Pakistan ed India… Dappertutto, in una decina di anni, i campi vengono smantellati, senza peraltro diminuire l’identità politica dei profughi, che resiste ai decenni.
    Non così gli arabi di Egitto, proprio a Gaza, non quelli di Giordania, non quelli del Libano. Pure, alcuni Stati arabi chiamano da allora 5 milioni di immigrati per le proprie economie da petrodollari. Ma gli emiri importano pachistani e filippini, non palestinesi. I palestinesi devono stare nei campi a crescere la loro rabbia, per fare da “bombe” per una lotta armata che “è una strategia, non una tattica”, dice al Fatah nel suo Statuto. E così è.
    La strage dimenticata di Tell al Zatar Nel 1970, dopo mesi in cui accade ad Amman quello che accade oggi a Gaza, re Hussein è costretto a “settembre nero”, per evitare il golpe di Arafat, innescato nei campi profughi. Nel 1976, identico uso dei profughi nella guerra civile libanese, ed è la strage di Tell al Zatar (di cui stranamente nessuno si ricorda), nel 1982 Sabra e Chatila: i morti palestinesi a opera di arabi superano così di gran lunga tutti quelli addebitabili a Israele. Poi, negli ultimi 12 anni, tutti i media palestinesi hanno cresciuto generazioni di ragazzi che esaltano il martirio, che odiano gli ebrei “porci e scimmie”, che non sanno aspirare ad altro se non a sparare e a morire. Contemporaneamente, l’Intifada delle stragi blocca ogni uso produttivo dei milioni di dollari piovuti dall’Europa, fa saltare ogni possibile integrazione del mercato del lavoro di Gaza in quello israeliano, fa arretrare di un terzo il reddito dei palestinesi, produce corruzione, elimina il lavoro dalla prospettiva culturale dei giovani cui indica solo il mitra.
    Ora, però, inaspettatamente, i palestinesi di Gaza hanno piena disponibilità della loro patria. Il problema è che non hanno la minima idea di che farsene. Nessuno glielo ha mai detto. Chi si preoccupa di dirglielo, come Hamas e le Brigate di al Aqsa, spiega che la patria di Gaza serve solo come retroterra per attaccare, accumulate le forze, “l’Entità Sionista” e distruggerla. Come sempre. A ridicolizzare le belle speranze nelle virtù taumaturgiche del voto di Abu Mazen.

(Il Foglio, 13 settembre 2005)





4. LA GIORNATA DELLA MEMORIA INFASTIDISCE I MUSULMANI




Londra strizza l’occhio all’Islam e pensa di cancellare l’Olocausto

di Erica Orsini

Consiglieri del governo chiedono a Blair di abolire la ricorrenza della Shoah e istituire il giorno del Genocidio in memoria anche delle vittime arabe

LONDRA - Con i tempi che corrono a Londra non è più politicamente corretto neppure celebrare il giorno dell’Olocausto. I cittadini musulmani potrebbero offendersi. Qualche anno fa, nessuno ci avrebbe mai pensato, ma adesso

prosegue ->
tutto è diverso. Dopo gli attentati del 7 e del 21 luglio, dopo aver accertato che gli estremisti islamici che hanno voluto colpire al cuore la capitale britannica erano anche suoi cittadini, i consiglieri del governo preferiscono usare i guanti di velluto con i musulmani che vivono nel Paese. E se da un lato l’esecutivo si fa meno tollerante con chi predica l’odio razziale, dall’altro tenta il possibile per non urtare la sensibilità del mondo islamico moderato.
    Così, ieri il Sunday Times ha rivelato che la commissione governativa scelta per mettere a punto le varie strategie di lotta interna contro il terrorismo, il 22 settembre suggerirà al premier Blair di rimpiazzare l’attuale “Jewish Holocaust Memorial Day” con un più generico “Genocide Day” che dovrebbe riconoscere uguale dignità anche alle vittime musulmane perite nelle stragi di massa compiute in Palestina, in Cecenia e in Bosnia, così come alle vittime di tutte le altre fedi religiose.
    Il primo ministro sarà presto chiamato a dare una risposta all’ipotesi suggerita dalla commissione, ma la scelta sarà spinosa. Il giorno dell’Olocausto - che viene ricordato ogni 27 gennaio - è stato fissato nel 2001 dallo stesso Blair dopo una lunga campagna portata avanti dai leader ebraici del Paese e ora un possibile cambiamento potrebbe provocare violente reazioni nella comunità. Blair dovrà tuttavia tenere in considerazione le argomentazioni addotte dalla sua stessa commissione. Secondo i consiglieri, lo status speciale del giorno dell’Olocausto aumenterebbe il senso di alienazione degli estremisti perché “esclude” i musulmani. «Una simile celebrazione - ha spiegato un membro della commissione - potrebbe dare l’impressione che le vite occidentali valgono di più di quelle che non lo sono. Si tratta di una percezione che va cambiata e un modo per farlo sarebbe sponsorizzare un Genocide Memorial Day. L’Holocaust Memorial Day suona troppo esclusivo per molti giovani musulmani - ha spiegato ancora la commissione - e invia segnali errati. E il rancore della gente può sfociare nell’estremismo».
Ieri, un portavoce degli Interni ha detto che la proposta di un “Genocide Day” da celebrare separatamente verrà considerata, ma ha sottolineato come si guardi all’Olocausto in termini di “tragedia determinante nella storia europea”. E Mike Wine, direttore del British board of Deputies, ha già annunciato di volersi opporre ad ogni cambiamento poiché «il significato del 27 gennaio è ricordare «il giorno più oscuro della storia moderna».
    Insomma, a molti le cautele dei consiglieri di Blair sembrano eccessive. Anche dopo gli attentati di luglio. Sulla morte di sei milioni di persone innocenti, non si dovrebbe insomma più discutere. La loro memoria non può essere moneta di scambio nell’ambito di una strategia per combattere il terrorismo internazionale. E per i musulmani che si sentono offesi ed esclusi da questa celebrazione, la parlamentare laburista di Liverpool, Loise Ellman, ha avuto parole chiare: «Questi gruppi dovrebbero smetterla di tentare di eludere l’enormità dell’Olocausto».

(Il Giornale, 12 settembre 2005)





5. VISITA DEL PRESIDENTE DELLA AGENZIA EBRAICA IN OLANDA




Il 26 luglio, nell'ambito di una visita privata in Olanda, il nuovo Presidente dell'Agenzia Ebraica, Zeev Bielski, ha incontrato i maggiori contribuenti e amici di Israele del Keren Hayesod d'Olanda (CIA) e ha conosciuto di persona gli affezionati  e solerti attivisti dell'organizzazione.
Il signor Bielski si è incontrato con i maggiori contribuenti del CIA, con i membri del Consiglio, con i volontari e con i leader delle organizzazioni ebraiche/sionistiche.
Il nuovo Presidente, nelle prime ore della sua tappa olandese, ha avuto modo di   incontrare anche i leader dell'associazione "Cristiani a favore di Israele (CVI)", l'Eben Ezer, il fondo di emergenza di Olanda, Germania e Londra, l'associazione "Cristiani a favore di Israele" del Belgio e il "Help Jews Home" della Norvegia. Nel corso degli incontri, al signor Bielski è stato consegnato un assegno di 150,000 Euro, donato dai "Cristiani a favore di Israele" ed un altro assegno della stessa somma, offerto dall'associazione "Help Jews Home" a sostegno dell'immigrazione e della integrazione dei Falashmura di Etiopia in Israele.
In entrambi gli incontri, il Presidente Bielski ha tenuto a riaffermare la sua visione sul ruolo che deve avere l'Agenzia Ebraica, come garante del futuro dello Stato di Israele.
Chi ha preso parte agli incontri ha avuto la sensazione che l'intensa giornata del Presidente è stata estremamente importante, proficua e ben riuscita.
Dopo il suo ritorno in Israele, Zeev Bielski ha fatto partecipe la leadership del Keren Hayesod delle sue più vive impressioni sulla visita nei Paesi Bassi e ha espresso il suo più vivo apprezzamento per l'ottimo lavoro che svolge il Magbit del KH in Olanda.

(Keren Hayesod, 8 settembre 2005)





6. COOPERAZIONE ECONOMICA ITALIA-ISRAELE




Il Trentino pronto a sostenere in Israele progetti per agricoltura, ricerca e aiuto sanitario ai bimbi palestinesi
    
 
TEL AVIV - Il Centro Peres per la Pace, insieme alla Camera di Commercio, sono stati il cuore degli incontri a Tel Aviv della delegazione trentina guidata dal Presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai.
    Presso la Camera di commercio si è svolto il confronto con i vertici dello sportello unico per le imprese e della Camera di commercio Israel-Italia. Dellai e gli assessori Benedetti e Salvatori, insieme al Consiglio d’amministrazione di Agenzia per lo sviluppo, hanno fatto il punto sulle opportunità offerte da “un Paese che ha solo 6 milioni di abitanti ma che per tante ragioni è al centro dell’attenzione”: l’economia israeliana si è radicalmente trasformata negli ultimi 15 anni, passando da agricola ad un’economia focalizzata sull’alta tecnologia.
    L’Italia è il terzo fornitore di Israele (dopo Usa e Germania) e il sesto cliente (dietro Usa, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi e Turchia). L’opportunità di unire tecnologie israeliane d’eccellenza alla capacità industriale italiana, puntando sul mercato unico europeo, ha incentivato numerose aziende israeliane in Italia. La sfida è ora quella di “fare sistema”.
    Dellai, Benedetti e Salvatori hanno presentato il fondo unico per la ricerca ,con il bisogno del Trentino di innestare intelligenze nel sistema produttivo, con un investimento che è doppio rispetto a quello nazionale, e lo Sportello unico per le imprese. Salvatori ha parlato dell’idea, che il Trentino intende portare avanti con decisione, di una ricerca che sappia convivere con la sostenibilità ambientale: tutto quello che sa combinare un ambiente sano e le tecnologie che ci aiutano nel mantenerlo tale è al centro dei nostri progetti.
    Il direttore del Centro Peres ha sottolineato che il ruolo principale del Centro: quello di lavorare per la pace. Un centro per la pace ma anche “un centro per l’estero, cercando di puntare su progetti -  nel campo dell’industria, della cooperazione e in diversi altri settori, che modifichino, risolvendoli, i problemi mediorientali”. Pertanto il Centro lavora nel campo della sanità, in quello dell’agricoltura; è impegnato  in diversi settori e ha come scopo “la promozione del dialogo continuo, soprattutto con la Palestina e con la Giordania”. Oltre alla sanità pubblica, al centro dell’ attenzione, informatica, nuove tecnologie, il dialogo tra giornalisti, opinionisti e persone che “possono far cambiare la mentalità”. Anche lo sport è considerato un veicolo importante.
    Dellai ha parlato della pace come di un “progetto importante e insieme difficile, che va costruito di giorno in giorno e che di conseguenza va costruito dal basso, interessando più soggetti. Per noi - ha aggiunto dicendosi sin d’ora disponibile a sostenere un progetto sanitario per i bambini palestinesi - è importante che il Centro s’impegni per partecipare a diverse iniziative in Trentino sui temi della pace e della globalità, e che si avvii una collaborazione nei campi della cooperazione allo sviluppo. Sarebbe importante collaborare con il Centro in tal senso, senza dimenticare la ricerca scientifica, che è al centro della nostra visita.
    Per quanto riguarda l’agricoltura il Centro Peres e l’Istituto agrario di San Michele hanno già avviato un’ottima  collaborazione, lavorando sulla “gestione di prodotti che siano sani, che siano accettati dal mercato e che rispettino l’ambiente”: coltivazioni integrate è la parola d’ordine. Il Centro spende risorse per palestinesi, egiziani e siriani e conta  di riuscire ad arrivare ad un programma rurale per tutti questi Stati.
    Infine, il progetto “salvate i bambini”, nato in Italia e sviluppatosi grazie agli aiuti italiani. Israele è un Paese d’alto livello dal punto di vista della medicina. Così non è da parte palestinese. Un milione e mezzo di bambini si sono ammalati negli ultimi anni e sono spesso stati portati in Italia per essere curati. Con l’aiuto degli ospedali israeliani e investendo i soldi qui anziché nel difficile spostamento dei bimbi di qui all’Italia in pochi anni è stato possibile qualificare anche i medici palestinesi. I costi sono alti ma i risultati (1500 bambini salvati negli ultimi anni) sono importanti. Ci sono enormi possibilità di partecipazione. Grazie al progetto è nata l’associazione pediatrica palestinese, tanto per fare un esempio. E Dellai ha detto che per il progetto legato alla salute dei bambini il Trentino è pronto, così come in campo agricolo le porte sono aperte.

(INFORM - N. 188 - 13 settembre 2005)






7. IL RACCONTO DI UN'EBREA SFUGGITA AI NAZISTI




Shoà: così fui salvata dagli italiani

di Aldo Baquis

«Il mondo non deve dimenticare: deve sapere come fummo crocifissi, come fummo bruciati». Il racconto di Klara Rosenfeld Silverman con tanti italiani «eroi».

RISHON LE-ZION (Tel Aviv) - Nella sua stanza, in una confortevole casa di riposo per anziani a pochi chilometri da Tel Aviv, la signora Klara Rosenfeld Silverman tiene fra le mani, orgogliosa, la prima copia del libro in cui ha narrato le sue drammatiche vicissitudini nella seconda guerra mondiale e spera che quelle pagine così sofferte diventino un giorno un film. «Una parte consistente riguarda l'Italia. Gli italiani - nota - hanno fatto molto per aiutarmi. Devo loro così tanto... devo loro la vita».
    Con i due figli, Klara non aveva mai trovato finora la forza di descrivere l'inferno nazista a Lwow (Leopoli, in Polonia). Ancora oggi rivede in maniera vivida la uccisione del fratellino minore o le impiccagioni di ebrei nelle strade: subito le torna il nodo alla gola, gli occhi si inumidiscono. «Da Leopoli - esclama - non mandarono molti ebrei al campo di sterminio di Auschwitz: preferivano finirci sul posto».
    «Eppure - prosegue - il mondo non deve dimenticare: deve sapere come fummo crocifissi, come fummo bruciati». Klara ha allora deciso di scrivere in prima persona la sua testimonianza: pagine su pagine in polacco, tradotte in inglese dal marito ed ora pubblicate in Inghilterra col titolo 'Da Leopoli a Parma' (edizioni Vallentine Mitchell).
    Nel luglio 1941, all'ingresso delle forze tedesche, a Lwow gli ebrei erano oltre 160 mila. «C'erano ebrei dappertutto!», si lamentò in un rapporto confidenziale un ufficiale delle SS di nome Katzmann. Una loro «evacuazione» immediata - scriveva - sarebbe stata nociva alla economia di guerra tedesca. Per cui, in via provvisoria, furono allestiti campi di lavoro forzato. Nei mesi seguenti i nazisti e i loro collaborazionisti ucraini avrebbero provveduto ad assottigliare la comunità ebraica: seimila morti nel luglio 1941, cinquemila nel dicembre 1941, 15 mila ebrei trasferiti nel lager di Lodz nel marzo 1942 e altri 50 mila nell'agosto 1942. Pur di scampare agli aguzzini, gli ebrei si rifugiavano in nascondigli disperati: in tubature, fogne, pozzi, soffitte, anche in armadi. L'attacco finale al ghetto di Leopoli è dell'agosto 1943: ci fu una disperata resistenza armata, alcuni militari tedeschi rimasero uccisi. Le vittime ebree sono calcolate in 3000.
    Informazioni di intelligence giunte fin dal 1942 alle SS indicavano che fra i militari italiani a Leopoli ve ne erano alcuni impegnati ad aiutare i perseguitati ebrei offrendo viveri, nascondigli, o una possibilità di fuga dall'inferno.
    Nella memoria di Klara (allora diciottenne) sono rimasti impressi in particolare tre nomi di benefattori: Stefanelli, che oltre un reticolato gettava quantità di cibo e pacchi agli ebrei del ghetto, Rosario Tornabene, di Catania, che le procurò documenti falsi e Fosco Annoni, colui il quale le avrebbe organizzato una nuova esistenza a Parma.
    Klara aveva conosciuto i militari italiani quando era stata chiamata come governante nel comando generale di Leopoli, in un palazzo nobiliare. Là aveva avuto occasione di vedere alti ufficiali e di incontrare anche la figlia di Mussolini, Edda. Emozionata al suo cospetto, l' apprendista cameriera fece cadere alcuni bicchieri a terra.
    Quando nel 1943 il contingente italiano ebbe ordine di tornare in patria alcuni militari - fra cui un ufficiale, di cui non sa il nome - decisero che non potevano abbandonarla al suo destino. Per due settimane fu tenuta chiusa in una stanza. I tedeschi fiutavano qualcosa, ma gli italiani rifiutarono di consegnare la chiave.
    Poi Klara fu portata alla stazione ferroviaria - che pullulava di nazisti - vestita da soldato italiano. Subito fu tolta di circolazione, tenuta nascosta dietro casse di munizioni. Durante il tragitto poteva avvicinarsi a un finestrino: ma nelle soste del convoglio tornava a nascondersi.
    Rimasta di fatto sola al mondo (ad eccezione di un fratello, che riteneva fosse in Unione Sovietica) Klara arrivò infine in Italia con una unica meta: l'indirizzo di Parma dove viveva la famiglia di Fosco Annoni. «Vivevano in condizioni di grave indigenza, eppure Fosco e la sorella Tina non esitarono a soccorrermi» ricorda Klara.
    Tina e Fosco la misero in contatto con un certo padre Francesco il quale ebbe cura che la profuga fosse accolta (con la identità fittizia di Clara Morselli) nel convento di Traversetolo (Parma). Ancora oggi Klara parla con tenerezza di suor Maria Gertrude: «Fu per me - ricorda - come una madre».
    A Traversetolo furono le campane ad annunciare la fine della guerra. Klara - che si era convertita al cristianesimo - voleva a quel punto riacquistare la propria identità: dopo un periodo di organizzazione a Modena, partì infine per la Palestina.
    Nel libro, Rosenfeld descrive in dettaglio le atrocità perpetrate contro gli ebrei dai nazisti e dalla popolazione locale, ma dedica anche alcuni capitoli ai benefattori italiani.
    Nel 1993 Fosco e Tina Annoni sono stati onorati con il maggiore riconoscimento dello stato di Israele: la medaglia di 'Giusto fra le Nazioni'. Nel libro compaiono altri militari italiani che a Leopoli, malgrado i sospetti covati dalle SS, diedero egualmente prova di umanità. Klara non ne conosce la identità: ma ancora oggi benedice la loro memoria.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 10 settembre 2005)





MUSICA E IMMAGINI




Ma Tovu




INDIRIZZI INTERNET




Lubavitch News Service

Israel UpClose




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.