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Notizie su Israele 313 - 21 settembre 2005 |
1. A colloquio con una «deportata» da Gaza
2. «Non ci separeremo!» 3. I villaggi della gioventù in Israele 4. Indiani convertiti all'ebraismo 5. Investimenti israeliani in Italia 6. Chi corre in chador e chi sfida le pietre palestinesi 7. Sondaggio sulla questione arabo-israeliana 8. Musica e immagini 9. Indirizzi internet |
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1. A COLLOQUIO CON UNA «DEPORTATA» DA GAZA
Il mensile in lingua tedesca edito a Gerusalemme, "israel heute", nel suo numero di aprile aveva pubblicato un'intervista con Rahel Saberstein, una residente nel blocco di insediamenti di Gush Katif, nella striscia di Gaza (ved. Notizie su Israele n.288). Dopo l'avvenuto sgombero, un redattore del mensile ha intervistato di nuovo la signora Saberstein. Shalom, signora Saberstein! Lei viveva con suo marito Moshe in Newe Dekalim, quando sei mesi fa l'abbiamo intervistata. Adesso, a causa dei provvedimenti di sgombero, ha dovuto lasciare la sua casa ed è provvisoriamente alloggiata in un albergo di Gerusalemme. Come ha vissuto personalmente lo sgombero? Nella notte prima dello sgombero sono arrivati a Gush Katif centinaia di soldati e si sono seduti sulle dune di sabbia senza dire una parola e senza prendere contatto con noi. Era come in un film di Science Fiction. Anche il giorno dopo, quando siamo usciti in strada, era ancora tutto come in un film. Dappertutto fumo e pneumatici che bruciavano, persone disperate che dovevano lasciare la loro casa senza sapere dove sarebbero andate. E dappertutto reporter e cameramen. Poi sono arrivati altri soldati, questa volta vestiti di nero. Che impressione miserevole, vedere questi giovani nelle loro uniformi portare la bandiera e il simbolo della Knesset, oggetti che rappresentano il Sionismo ed Eretz, ma che loro usavano per cacciare ebrei dalle loro case. E poi che è successo? Siamo stati caricati nei bus senza sapere dove andavamo. Ognuno doveva prendere il suo bagaglio a mano con la biancheria per pochi giorni. A Gerusalemme siamo stati ricevuti da volontari. Durante tutto questo tempo io ero in stato di choc per tutto quello che stavo vivendo. E delle vostre cose, che ne è stato? Alcuni giorni dopo i nostri beni sono stati stipati dentro dei container, per i quali abbiamo dovuto pagare 1.500 shekel (circa 270 euro) e che dovevamo sgomberare entro 21 giorni, altrimenti avremmo dovuto pagare 7.000 shekel di multa, più 1.000 shekel al mese per un successivo deposito. Tutto questo verrà sottratto dal rimborso che riceveremo dallo Stato, come anche il soggiorno in albergo e le altre spese che abbiamo causato allo Stato. A quanto ammonta il risarcimento per famiglia che riceverete dallo Stato? Il rimborso viene calcolato sulla base dei metri quadrati dell'appartamento. Il proprietario di un appartamento medio di 3 camere con 500 metri quadrati di terra è stato indennizzato con 150.000 dollari. Fino ad ora però non abbiamo visto neanche uno shekel dal governo. Con il ritiro la maggior parte ha perso il suo posto di lavoro e si trova per così dire davanti al nulla. Perché non è andata in una delle villette che Ariel Sharon ha preparato? Io volevo rimanere fino all'ultimo momento a casa mia. Le villette sono capanne di latta col tetto, come negli slum, dove non entra neanche un frigorifero ma costano 400 dollari al mese e per le quali bisogna firmare un contratto di due anni. Per 1.900 famiglie sono state costruite in tutto 325 villette. Per ognuno di questi container di latta il governo ha speso 100.000 dollari, a quel che dice, invece di dare il denaro ai coloni, che con quei soldi avrebbero potuto costruirsi una vera casa. Perché tutto l'insediamento di Gush Katif non si trasferisce nella striscia di terra Nizanim? Ad un insediamento su questa zona si oppongono, tra l'altro, i verdi, che sono preoccupati per la sopravvivenza delle tartarughe. Inoltre su questo territorio avanza pretese la città di Ashkelon, che lì per i prossimi 5-10 anni non vuole vedere neanche una casa. E che è successo ai coloni che non si sono trasferiti nelle villette? Alcuni sono stati alloggiati in misere case per studenti, senza lavatrici, con sanitari difettosi, e inoltre devono essere sgomberate prima dell'inizio del semestre. Altri sono stati sparsi in alberghi per tutto il paese. Adesso abbiamo sentito dire che in Ashkelon, sul confine con la striscia di Gaza, sono pronti per noi due grattacieli che si trovano esattamente sulla linea di tiro dei palestinesi. Lì ci vuole il governo, perché tanto noi al terrorismo ci siamo già abituati. E adesso come va? Vogliamo rimanere insieme. I nostri figli sono cresciuti in un ambiente senza criminalità e senza droghe, educati in un profondo amore per il paese, con ideali e nella fede ebraica. Come vedete Dio in tutto questo? La nostra fede in Dio non è cessata. Adesso dobbiamo imparare ad attendere dove ci porterà il Suo cammino. Nel frattempo non smettiamo di pregare e di educare i nostri figli nella fede in Dio. E una cosa sappiamo: Dio è con noi! Molte grazie per questa intervista, signora Saberstein! (israel heute, n. 325, ottobre 2005) 2. «NON CI SEPAREREMO!» I «deportati» dalla striscia di Gaza fanno udire la loro voce Non ci separeremo! Ne' dai nostri fratelli ne' dalla nostra patria Ci sono molte persone che ci pongono soprattutto due domande : A. I nostri rapporti con quelli che hanno agito contro di noi. B. I nostri rapporti attuali con lo Stato. A. Per quanto riguarda il rapporto con i nostri fratelli sembra che da tempo non ci sia stata una situazione così tesa nel paese e questo a causa del sentimento di tradimento morale che ha provocato l'espulsione. Noi ci sentiamo come Giuseppe quando fu gettato nel pozzo dai suoi fratelli. La questione principale e' quale atteggiamento tenere con i fratelli che si sono comportati così male con noi? Dalla figura di Giuseppe potremmo forse trovare la risposta alla nostra domanda. Giuseppe anche dopo essere stato tradito dai suoi fratelli non dimentico' mai il rapporto famigliare. Giuseppe non si comporto' pensando "essi non sono piu' i miei fratelli", ma "Giuseppe riconobbe i suoi fratelli (nonostante il fatto che ) essi non lo riconobbero tale." Anche i profeti ammonirono duramente i peccatori d'Israele per le gravi colpe morali che commettevano, ma mai si staccarono e si separarono da costoro, anzi li richiamarono incessantemente affinche' correggessero le loro cattive azioni e tornassero al Signore che li avrebbe accolti, e non dissero mai "essi sono arrivati alla fine del loro percorso e tra poco vedremo la loro scomparsa". Molti ci chiedono anche se c'è stata la guerra civile. La risposta è NO! Per combattere questa guerra bisogna essere in due. I combattenti dell'Irgun furono perseguitati in maniera brutale, incarcerati, consegnati al nemico ed il culmine si ebbe col caso dell' "Altalena" dove spararono contro di loro per ucciderli e li uccisero. Ci fu allora guerra civile? NO, perchè soltanto una delle due parti aprì il fuoco, mentre l'altra non dimenticò mai che gli avversari erano fratelli e che ciò che li accomunava era sempre molto di più di ciò che li divideva. Questo è l'obbligo morale che abbiamo anche noi oggi. Nonostante tutto il nostro dolore sanguinante, esso veramente sanguina, siamo obbligati, obbligati, obbligati a capire che tutto il popolo ebraico è un unico corpo e non esiste la possibilità che ci sia una parte sana mentre l'altra è ammalata. Se, malauguratamente c'è una parte ammalata tutte le parti del corpo ne risentono ed è quindi impossibile pensare che gli altri abbiano un problema e che a noi non ci riguardi. Quando incontro rabbia tra le persone vuol dire che c'è ancora della rabbia da ripulire in me. Tutto il dolore profondo che sentiamo deve trasformarsi in preghiera al Signore in favore del nostro Popolo, perchè noi crediamo in D. o e sappiamo che tutto ciò che fa è per il nostro bene, ed essendo soltanto Lui che conosce il futuro, noi continueremo ad agire ed ad avere la massima fiducia in Lui. Noi proseguiremo a dire la preghiera per la pace e la salvezza dei nostri adorati soldati, faremo , però, una piccola aggiunta, quando arriveremo alle parole "ed invierai benedizione e successo in tutte le loro azioni... " aggiungeremo la parola "buone" perchè non vogliamo che siano benedette azioni moralmente sbagliate come deportare ebrei dalle loro case e dalla loro terra, perchè l'esercito israliano non fu creato per tali scopi e neanche la preghiera per invocare su di loro l'aiuto divino. B. Per quanto riguarda i nostri rapporti attuali con lo Stato, quello che ci dobbiamo credere, nonostante tutta la campagna denigratoria mossa contro di noi dal Governo e dai media, è che cos'è lo Stato d'Israele per noi. Il Gaon di Vilna paragonò il Popolo d'Israele alla visione delle ossa secche di Ezechiele. Il Popolo ebraico nella diaspora è come le ossa disperse, non è un Popolo ma un insieme d'individui. Ma, avanzando la Redenzione le ossa incominciano a riunirsi formando lo scheletro che incomincia poi ad essere ricoperto dai muscoli e dalla pelle. Così come avviene la rinascita del corpo avanza il risorgimento nazionale. Lo Stato, senza alcun rapporto con il potere politico e le sue diversificazioni, è un segno che il Popolo d'Israele è risorto, e ciò non viene messo in dubbio non dalla distruzione di Iamit, non dagli accordi di Oslo e neanche oggi. Ma ora, forse più che in passato, si sente che lo Stato d'Israele è un corpo senz'anima. Il nostro compito sarà, con l'aiuto di D. o Benedetto, d'infondere lo spirito e la morale ebraici nello Stato d'Israele e nelle Sue istituzioni. (Dani Swarz, Sderot. "Lo Mitnatkim ! Lo Meacheinu Velo Mimedinatenu" [Non ci separiamo! Nè dai nostri fratelli nè dal nostro stato], Meat min haor, 16 settembre 2005; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair - italianhonestreporting). 3. I VILLAGGI DELLA GIOVENTU' IN ISRAELE Una nuova speranza per i bambini a rischio Appello Unificato per Israele 2005. Il Dossier della Campagna. Quando aveva 13 anni, Yuri ha perso suo padre, proprio a un anno dallarrivo della sua famiglia in Israele. A sua madre veniva lasciata lincombenza di sostenere la famiglia, sia economicamente che emotivamente, per cui doveva superare, con le sue sole forze, la più difficile fase dellinserimento. Non conoscendo la lingua e non avendo familiarità con il mercato del lavoro in Israele, ha avuto grandi difficoltà a mantenere la propria famiglia, che si è così trovata in una situazione di estrema indigenza. A Yuri è stata infusa una nuova speranza quando, due anni fa, è stato accolto nel villaggio della gioventù di Hadassah-Neurim, vicino alla città di Natania. Oggi, Yuri va molto bene negli studi, si è fatto molti amici ed ha fiducia nei propri mezzi. 200.000 bambini sono sotto la supervisione del Dipartimento di Assistenza Sociale. Quasi il 16% dei bambini israeliani, sotto i 17 anni di età, vive in famiglie, in cui entrambi i genitori sono disoccupati. 10.000 giovani sono stati rimossi dalle loro case, perchè soggetti ad imminente pericolo, mentre altri 31.000 lo sono potenzialmente. Senza unassistenza, migliaia di giovani in Israele potrebbero degradare in una spirale di indigenza senza un tetto, affamati, e con nessuna speranza per il futuro. I villaggi per la gioventù danno ai ragazzi a rischio una speranza per un futuro migliore, offrendo loro un rifugio sicuro, pasti caldi e unistruzione formale, rafforzando, allo stesso tempo, la loro auto-stima. Trasformare la vita dei bambini Uno dei fenomeni più tetri della realtà economica israeliana è rappresentato dal considerevole numero di nuovi immigranti e di israeliani della seconda e terza generazione, che si trovano intrappolati in una spirale di povertà, di ignoranza e di alienazione, dalle quali non riescono ad uscire senza un valido intervento. Il Keren Hayesod UIA sovvenziona quattro villaggi della gioventù, gestiti dallAgenzia Ebraica, che danno un alloggio e uneducazione formale ai giovani olim indigenti e ai ragazzi nati nel paese, che sono rimasti intrappolati in questo circolo vizioso. I ragazzi che vivono in questi villaggi provengono da famiglie, che presentano più problematiche, quali violenze domestiche, abbandono o tossicodipendenza. Alcuni di questi ragazzi sono orfani di uno o di entrambi i genitori. Altri provengono da famiglie divise o disastrate. Molti di loro hanno sofferto di abusi e violenze. Al momento della loro ammissione al villaggio della gioventù, gran parte di loro sono semi-analfabeti e soffrono di iper-attività o dislessia. In molti casi, il loro comportamento problematico copre unimmagine negativa che hanno di se stessi e una mancanza di auto-stima. Nel corso di due o tre anni, questi ragazzi, che hanno seri handicap di apprendimento, ricevono un tetto, pasti caldi e sostanziosi, cure mediche generali, vari servizi e consulenza psicologica, oltre ad una buon livello di cultura generale, che li aiuta ad uscire dalla spirale di povertà e a costruirsi un futuro migliore. |
Senza le terapie correttive che ricevono nei villaggi della gioventù, le
probabilità di questi ragazzi di finire il liceo o di arruolarsi nellesercito sarebbero minime, per non dire inesistenti, per cui finirebbero probabilmente
sulla strada, intrappolati nel circolo vizioso della povertà. Per molti di loro, il villaggio della gioventù rappresenta una parvenza di focolare, che, in verità, non hanno mai conosciuto. (Keren Hayesod, 20 settembre 2005) 4. INDIANI CONVERTITI ALLEBRAISMO Perdute tribù dIsraele o profughi economici? CHURACHANDPUR - Circa 700 ebrei indiani Bnei Menashe, ritenuti discendenti di una delle tribù perdute di Israele, si sono ufficialmente convertiti allebraismo ortodosso ed hanno acquisito il diritto a tornare a vivere in Israele. Una Beit din (commissione di rabbini) è arrivata apposta in India la scorsa settimana per convertire i Bnei Menashe. Il rabbino capo sefardita Shlomo Amar aveva annunciato ad aprile di aver identificato la Bnei Menashe, o discendenti di Manasse, uno dei figli del patriarca Giuseppe, come una delle 10 tribù perdute di Israele. Attualmente altre 9 mila persone aspettano con impazienza di potersi convertire ed avere quindi la possibilità di trasferirsi dai poveri stati di Mizoran e Manipur (nordest dellIndia), ad Israele. La scorsa settimana nel Mizoram circa 1000 Bnei Menashe hanno richiesto di essere convertiti, ma a più di 800 la conversione è stata rifiutata. In Manipur la hanno richiesta in 2 mila, ma solo 500 sono stati i convertiti. Lyon Fanai, un leader dei Bnei Menashe, ha detto: per ora è stata convertita una piccola parte della popolazione. Ma il Beit din tornerà per continuare a convertire. Alla fine anche noi avremo il diritto di aliyah (ritorno in Israele), e ristabilirci nella terra natia che abbiamo perso molto tempo fa. David Haokip è un giovane leader di 23 anni del Bnei Menashe. Ha aderito al giudaismo 5 anni fa e si reca alla sinagoga a pregare tre volte al giorno. Quando abbiamo saputo che eravamo stati riconosciuti ha dichiarato - è stato il giorno più bello della mia vita. Ora spero che il Beit din mi sceglierà per essere convertito. Oggi si incontrerà con il Beit din a Churachandpur. Sono semplicemente profughi per motivi economici ha dichiarato invece L. Thanggur, un ministro di culto di Churachandpur, sottolineando che la conversione al giudaismo ortodosso garantisce il passaporto per Israele. Se avessero avuto qui un miglior impiego o opportunità, non avrebbero mai immaginato di andare in Israele e desiderare questa conversione. Secondo la tradizione giudaica nel 722 a.C. gli Assiri invasero Israele e 10 tribù furono ridotte a schiavitù. Le tribù fuggirono dallAssiria e si rifugiarono in Afghanistan, Tibet e Cina. Intorno allanno 100, un gruppo lasciò la Cina per andare verso sud, nellarea fra il nordest dellIndia ed il Myanmar. Shavei Israel, unassociazione con sede a Gerusalemme, da anni lavora cercando di localizzare le tribù perdute e riportarle in Israele. Studi dellassociazione mostrano che i Chin del Myanmar, i Mizo del Mizoram e i Kuki del Manipur sono tutte discendenti di Manasse. Secondo lorganizzazione vi sono almeno 2 milioni di discendenti di Manasse nelle regioni montuose del Myanmar e nel nordest indiano. Basandosi su studi e ricerche, compresa la prova del Dna, le autorità israeliane sono giunte alla conclusione che le comunità ebraiche del nord est dellIndia sono proprio tribù perdute dIsraele. (AsiaNews/Agenzie, 20 settembre 2005) 5. INVESTIMENTI ISRAELIANI IN ITALIA Israeliani in affari col Materano di Emilio Salierno Forse a Salandra una delle 10 più grandi centrali fotovoltaiche MATERA - Sono qui da noi da quasi due anni, eppure degli israeliani nessuno se n'era accorto. Addirittura hanno realizzato a Marconia (con imprenditori locali) una sorta di «kibbutz» per la coltivazione di asparagi, un'azienda agricola pilota di circa 50 ettari di cui si è parlato in occasione della visita dell'ambasciatore israeliano in Italia, quando è stato anche annunciato l'avvio di altre coltivazioni, a cominciare dall'avocado, gli alberi originari dell'America Latina che producono frutti ricchi di proteine e vitamine, e già ampiamente presenti in Medio Oriente. Senza contare l'interesse per l'acqua salmastra di cui sarebbe ricco il sottosuolo dell'area basentana, assai utile all'irrigazione. Insomma, l'attenzione degli israeliani per il nostro territorio è davvero forte e sconfina in altri settori, come ad esempio il fotovoltaico, un altro dei fronti su cui pare si voglia seriamente investire. Giovanni D'Alessandro, titolare della «Res-struttura» di Salandra, impresa che è partner degli israeliani per le iniziative «energetiche», dice che la joint venture creatasi allo scopo «sta sostenendo in territorio salandrese uno studio per individuare il sito idoneo ad accogliere quella che sarà una delle 10 più grandi centrali fotovoltaiche del mondo. Pensiamo di avviare l'impianto entro pochi mesi. Un progetto ambizioso che proietterà il Materano in un'ottica internazionale, insieme naturalmente alle altre iniziative sostenute dagli israeliani. Loro vogliono crearsi un'altra grande finestra in Europa ed hanno scelto questa volta la Basilicata. I rappresentanti della multinazionale che opera nel settore energetico con cui stiamo lavorando, sono già stati in Basilicata lo scorso anno, mostrando molta attenzione soprattutto per l'agricoltura. E non a caso nel recente sopralluogo in occasione dell'arrivo dell'ambasciatore in Italia sono stati visionati altri terreni marginali in agro di Salandra». Se l'iniziativa per il fotovoltaico si dovesse realizzare nella misura prevista, l'enorme impianto che si metterebbe su sgombrerebbe definitivamente il campo da tutte le altre ipotesi di centrali (non solari) da realizzare sul territorio materano (che ce ne faremmo, infatti, di tanta energia?). Ma non finisce qui. Le antenne israeliane, infatti, sono anche puntate su quello che un domani potrebbe sostanziarsi come il filone del cosiddetto «turismo religioso», sfruttando una risorsa sinora poco considerata: le loro tracce storiche presenti sul territorio lucano, e in particolare le catacombe ebraiche, presenti a Venosa ma anche a Miglionico. Del resto, il solco in tal senso è stato tracciato da tempo dalla Fondazione per i beni culturali ebraici in Italia, una onlus di emanazione dell'Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane), con sede a Roma, costituita nel 1986 con lo scopo di promuovere il recupero, la conservazione, il restauro e la valorizzazione del patrimonio storico artistico ebraico italiano, compreso ogni bene di interesse culturale, religioso, archeologico, archivistico, bibliografico e musicale e per diffonderne dovunque la conoscenza. Proprio la Fondazione collabora con l'Ucei e il ministero per i Beni e le attività culturali per iniziative volte al recupero delle catacombe ebraiche, in particolare di quelle di Villa Torlonia a Roma e di Venosa. Dimenticate per anni, nel 1988 le catacombe ebraiche della Penisola hanno ricevuto attenzione quando, in esecuzione del Concordato tra Vaticano e Stato italiano vennero affidate alla Sovrintendenza. E il ministero dei Beni culturali, tra l'altro, ha già stanziato 1.440.000 euro con cui si aprirà a Roma, tra qualche giorno, il cantiere di recupero. (La Gazzetta del Mezzogiorno, 19 settembre 2005) 6. CHI CORRE IN CHADOR E CHI SFIDA LE PIETRE PALESTINESI Sportive musulmane nel mirino, gli integralisti minacciano lindiana Mirza di Fabio Morabito ROMA E indiana, e musulmana. A soli 18 anni è già una stella del tennis, sta scalando in fretta le classifiche mondiali, e nel suo Paese è amata e ammirata, sembra, più ancora di tanti forti giocatori di cricket, sport che è una passione nazionale. Sania Mirza, però, deve muoversi con la scorta armata. E stata minacciata da un gruppo di integralisti islamici, apertamente, sulle pagine di un quotidiano di Nuova Delhi: «Se non cambia il modo con cui va vestita in campo, le impediremo di giocare» è la minaccia di tale Siddiqullah Cowdhary, del gruppo Jamat-Ulema-e-Hinda. Ma Sania veste con un pudore che sarebbe adeguato anche per una tennista di quarantanni fa. Certo, la gonnellina è quella, corta, che impone la ragionevolezza di questo sport ormai diventato superatletico. La pretesa è invece che si vesta secondo «labbigliamento imposto dal codice islamico». Sania, più che il suo essere musulmana (osservante, e prega cinque volte al giorno, fa sapere il suo agente Anirban Das Blah) paga così la sua celebrità. La vicenda racconta di come sia difficile essere atlete, e musulmane. Nonostante quanto successe con Hassiba Boulmerka, la prima grande campionessa araba, che fu anche uneroina contro gli integralismi e i divieti alle donne. Boulmerka, algerina campionessa dei 1.500 metri, che ha vinto tanto, Olimpiadi (Barcellona 92) e titoli mondiali (Tokyo 91 e Goteborg 95), venne minacciata di morte perché gareggiava con il volto scoperto («Non ho mai messo il velo», ha sempre rivendicato con orgoglio) e con le gambe nude. Certo, la Boulmerka ha aperto una strada (e Nouria Benida Merah, la sua erede, algerina e olimpionica anche lei nei 1.500 non ha dovuto soffrire le stesse pressioni); ma sembra non bastare, ancora. E non è mancato, anche alle ultime Olimpiadi ad Atene nel 2004, chi, per la sua interpretazione delle leggi coraniche, alla fine si è visto confinato a nota di colore. E il caso, ad esempio, di Roqaya Al Ghasra, velocista del Bahrain, che si è imposta lo chador anche in gara. E cè chi ha dovuto affrontare tante e tali difficoltà per approdare al palcoscenico dei Giochi, senza nessuna chance ma in omaggio al principio: «Limportante è partecipare». E questa è la storia di Sanaa Bkheet, prima palestinese ai Giochi, giunta ad Atene con le scarpette che le ha regalato una multinazionale che così si è fatta pubblicità con questa ragazza che, si è raccontato, si allenava sulla spiaggia e sullasfalto (sulla pista datletica di Gaza no, lavevano distrutta i bombardamenti), e tra bambini che le tiravano le pietre. Il riscatto, per quelle che si considerano le più osservanti, è in questi giorni: a Teheran, in Iran, dal 25 settembre sono di scena, per una settimana, le Olimpiadi islamiche riservate alle donne. Parteciperanno circa duemila atlete, per 42 Paesi; ci sarà anche una delegazione britannica e una statunitense; i giornalisti uomini potranno assistere solo alla cerimonia di apertura e a quella di chiusura. Limportante è partecipare, ma senza farsi vedere. (Il Messaggero, 18 settembre 2005) 7. SONDAGGIO SULLA QUESTIONE ARABO-ISRAELIANA Israele e Palestina: giudizi da disinformati di Anna Jannello Molti sono convinti che Israele appena nato abbia subito attaccato militarmente i paesi circostanti; furono invece gli stati arabi, non riconoscendolo, a lanciare un'invasione dell'ex protettorato britannico. Alla base di opinioni politiche radicate da anni e difese strenuamente spesso cè una errata conoscenza dei fatti. Sulla questione israelo-palestinese, che da decenni cattura con la sua drammaticità lattenzione pubblica e su cui si sono consumati centinaia di dibattiti televisivi e réportage giornalistici, per esempio, non tutti gli italiani hanno le idee chiare. Anzi: il 43,5 per cento è convinto (a torto) che lo stato palestinese esista da più tempo di quello israeliano, opinione che cresce proporzionalmente con il grado distruzione. A pensare la Palestina come stato autonomo antecedente a Israele è infatti il 30,1 per cento di italiani in possesso di un diploma elementare, ma la percentuale cresce al 46,2 per cento fra chi ha la licenza media, sale al 50,3 per cento fra i diplomati fino a raggiungere un notevole 55,1 per cento di convinti assertori in chi è arrivato alla laurea. Percentuale che sbalordisce «Una percentuale che mi ha lasciato francamente sbalordito» commenta Arnaldo Ferrari Nasi, docente alla facoltà di Scienze politiche di Genova, che ha curato il sondaggio sulla conoscenza dei fatti inerenti alla questione arabo-israeliana «Ma che la dice lunga su come la storia sia una materia bistrattata nelle scuole superiori italiane». Ritenere che lo stato di Palestina, autoproclamato tale nel novembre 1988 durante una sessione del Consiglio nazionale palestinese, sia nato prima di Israele comporta una chiave di lettura diversa dellintricato conflitto fra i due popoli. Spartizione La metà degli intervistati (50,6 per cento) ha correttamente risposto che la creazione dello stato isrealiano fu decisa dallAssemblea generale delle Nazioni Unite; il 41,3 per cento è però convinto che Israele abbia subito attaccato militarmente i paesi circostanti (furono invece gli stati arabi, non riconoscendo la spartizione in due stati, a lanciare uninvasione dellex protettorato britannico. Simpatie equanimi Quanto invece alle simpatie in favore degli eredi di David Ben-Gurion o di Yasser Arafat, gli italiani si dimostrano equanimi: il 47,8 per cento dice di essere ugualmente solidale con entrambe i popoli, anche se qualche preferenza in più, soprattutto fra i giovani (18-34 anni), viene accordata alla causa palestinese. (Panorama, 12 settembre 2005) MUSICA E IMMAGINI Der Gasn Nigun INDIRIZZI INTERNET The Central Zionist Archives International Fellowship of Christians and Jews Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |