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Notizie su Israele 315 - 5 ottobre 2005

1. Accenni di democrazia in «Palestina»?
2. Sviluppi di democrazia in Israele
3. Chiede perdono ai «coloni» evacuati
4. Memoriale della Shoah in Francia
5. Progetti di scambi culturali
6. Intervista al Rabbino Capo di Roma
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 2:11-12. Lo sguardo altero dell’uomo sarà umiliato, e l’orgoglio di ognuno sarà abbassato; il Signore solo sarà esaltato in quel giorno. Infatti il Signore degli eserciti ha un giorno contro tutto ciò che è orgoglioso e altero, e contro chiunque s’innalza, per abbassarlo.
1. ACCENNI DI DEMOCRAZIA IN «PALESTINA»?




Palestina : tempi duri per i duri , la società si apre al dialogo

di Mauro Giannini

Mahmoud Abbas
Tempi duri per Hamas, che da un lato perde consensi elettorali, dall'altro vede i suoi leader arrestati, ed infine viene attaccata dalla stampa, mentre gli intellettuali palestinesi aprono al dialogo con Israele.
Il gruppo militante estremista islamico ha vinto, secondo i dati ufficiali palestinesi, solo in 13 municipalita' su 104, contro le 51 vinte da Al Fatah. Il resto dei voti sono andati a altri gruppi o coalizioni minori. Hamas ha accusato di conseguenza ieri il Comitato per le elezioni palestinese di aver favorito il movimento del primo ministro Abu Mazen a suo discapito. Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas a Gaza, ha affermato che i risultati reali differiscono da quelli proclamati da Jamal Shobaki, presidente del comitato, ed ha annunciato "diremo al popolo la verita'".
Non ci si attendeva, invero, un risultato molto favorevole ad Al Fatah, nel mirino per accuse di corruzione a suoi membri nel governo, mentre Hamas era accreditata perche' ritenuta principale autrice del recente ritiro da Gaza di Israele.
Probabilmente, pero', i recenti lanci di razzi su Sderot hanno velato la posizione del movimento fondamentalista, mentre Hamas attribuisce il calo al fatto che nelle azioni militari israeliane in reazione ai lanci di missili sono stati arrestati 35 membri di Hamas, fra cui alcuni candidati alle municipali. Anche il presidente dell'ANP, Abu Mazen, ha condannato gli arresti.
17 degli arrestati e' comunque risultato eletto, ha detto Shobaki. Fra gli arrestati vi era Mohammed Hamdan, numero due della lista elettorale di Hamas e figura cenrale che si pensava avrebbe guidato la corsa elettorale nell'area di Ramallah. Anche un'altra figura di spicco del movimento, lo sceicco Hassan Yusef, e' stato arrestato all'inizio della scorsa settimana.
I due arresti hanno molto fiaccato l'entusiasmo dei militanti di Hamas per le elezioni, ma secondo parte della stampa palestinese, altre vicende recenti hano pesato sull'esito del voto.
Il giornalista Hassan al-Batal, del quotidiano di Ramallah Al-Ayyam, ha scritto un paio di giorni fa un lungo articolo raccontando degli esiti dell'esplosione verificatasi la scorsa settimana al corteo di Hamas. Batal ha commentato duramente l'abitudine del movimento di coinvolgere ragazzini nelle sue adunate armate, dato che molti fra questi sono rimasti feriti, anche in modo grave, dall'esplosione.
Inoltre l'editorialista palestinese ha ironizzato sulle immediate accuse a Tev Aviv da parte di uno dei capi di Hamas presenti sul luogo dell'esplosione. Questi avrebbe affermato che vi erano sul posto schegge di missile israeliano, ma le accuse si sono poi rivelate infondate.
Non vi e' quindi piu' molta sintonia da parte degli intellettuali e della societa' civile palestinese con chi pensa di risolvere ancora con le armi un confltto che sembra in via di risoluzione pacifica. Piuttosto alcuni cercano il dialogo e le affinita' con gli Israeliani moderati.
Lo scrittore e critico Ahmed Harb, professore universitario di Ramallah, richiesto di una indicazione dal comitato svedese per l'assegnazione del premio Nobel, ha segnalato caldamente lo scrittore israeliano Sami Michael, che a suo giudizio ha un ruolo di formazione delle coscienze tanto israeliane che arabe e palestinesi.
Harb ha detto che la sua lettera di segnalazione voleva essere anche un messaggio di pace per entrambe le parti. Ricambia Michael, secondo cui Harb sta correndo un grosso rischio con la sua segnalazione, e che ritiene il professore palestinese un esempio di come Israeliani e Palestinesi possano collaborare in altri campi.
Palestinesi probabilmente in buona parte ormai stanchi di scontri ed attentati e desiderosi solo di pace, ricostruzione ed autodeterminazione.

(Osservatorio sulla legalità, 2 ottobre 2005)


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Scontri a Gaza, è rivolta contro Hamas

I deputati sfiduciano il premier e chiedono un altro governo. Il presidente: «Caos irresponsabile».
Dopo gli spari e i morti dell’altra notte, irruzione in parlamento dei poliziotti dell’Anp. Pretendono il pugno duro coi miliziani

di Francesco Cerri

GAZA — Tensione alle stelle ieri a Gaza dopo la notte di scontri fra forze Anp e miliziani di Hamas, che hanno provocato la morte di tre persone, un ufficiale di polizia e due civili. Gli incidenti di Gaza potrebbero portare alle dimissioni del governo del premier Abu Ala, o quanto meno a un suo profondo rimpasto in vista delle cruciali elezioni politiche del 25 gennaio, che Hamas spera di vincere superando il movimento al-Fatah del presidente Abu Mazen. Ieri il parlamento palestinese ha chiesto al rais di cambiare il governo, che si è dimostrato incapace di porre fine alla situazione di caos nei Territori che Abu Mazen ha ereditato dal suo predecessore Yasser Arafat, e di nominare una nuova compagine che gestisca i territori fino alle elezioni. Per la prima volta dal ritiro israeliano dalla Striscia, la sfida per il potere fra Hamas e l'amministrazione palestinese guidata da Abu Mazen è degenerata l’altra sera in un scontro armato aperto. Centinaia di miliziani integralisti si sono scontrati a lungo con le forze dell'Anp, usando armi automatiche, mitragliatrici, perfino razzi anti-carro. Le strade di Gaza City sono state teatro di scene di guerra urbana. Tre persone sono morte, fra cui un ufficiale di polizia, e oltre 50 sono state ferite. Ieri mattina a Gaza City è tornata una calma precaria, ma il clima è rimasto di forte tensione. Nel pomeriggio decine
Poliziotti palestinesi in protesta
di poliziotti hanno fatto irruzione nella sede del parlamento nel centro della città per chiedere misure contro i miliziani integralisti, che continuano a sfidare impunemente, circolando armati, gli innumerevoli divieti di esibire armi in pubblico promulgati dal governo Anp. I protestatari si sono radunati nel cortile davanti al palazzo dell'emiciclo, dove si svolgeva una sessione in collegamento video con Ramallah dell'assemblea legislativa palestinese dedicata appunto al caos nei territori. Gli agenti - molti provenienti dal campo profughi di Shatti alla periferia ovest di Gaza City teatro ieri degli scontri più violenti - hanno sparato in aria nel cortile. «Chiediamo all'Autorità Palestinese di prendere misure contro Hamas. Il nostro sangue viene versato per l'Anp, ma loro non fanno nulla» ha denunciato un manifestante. A fine pomeriggio il parlamento palestinese si è pronunciato per la costituzione di un nuovo governo. In una mozione approvata con 43 voti a favore, 5 contrari e 5 astensioni i parlamentari hanno chiesto al presidente Abu Mazen la formazione di una nuova compagine ministeriale in grado di porre fine al caos. Il parlamento ha dato 15 giorni al presidente per varare una diversa compagine di governo. Se questo non avverrà, i deputati potrebbero adottare formalmente una mozione di sfiducia ad Abu Ala. Il presidente ha denunciato in tv «l'irresponsabile caos» evidenziato dagli scontri di Gaza, che sembrano dimostrare l'incapacità dell'Anp di gestire il territorio dopo il ritiro israeliano. «Molti pensano che questo sia un test per il futuro stato palestinese: ma se continuiamo così - ha ammonito il presidente - riterranno che non lo meritiamo».

(Il Tempo, martedì 4 ottobre 2005)





2. SVILUPPI DI DEMOCRAZIA IN ISRAELE




Il sistema politico in Israele

di Gabriele Cerri

La decisione del primo ministro israeliano Ariel Sharon di procedere al ritiro delle colonie dalla Striscia di Gaza, per quanto sia stata sofferta sul piano umano, ridisegnerà gli assetti geopolitici dell'area mediorientale e rappresenterà una base su cui costruire una nuova fase di rapporti tra la popolazione ebraica ed il mondo islamico circostante. Questa decisone è stata fortemente voluta dal primo ministro israeliano che, a costo di uno scontro con il parlamento ed il mondo partitico del suo Paese, ha attuato il suo piano strategico e politico. Le indubbie capacità di leader, che Sharon ha dimostrato sia in qualità di governante sia durante la sua carriera militare, unite alla determinazione ed alla forza caratteriale, lo hanno portato ad affrontare uno dei dibattiti politici e mediatici più sentiti ed eclatanti degli ultimi anni.
     Il sistema istituzionale di governo dello Stato di Israele ha contribuito a dare la possibilità a Sharon di attuare un disegno politico preciso. Questo sistema istituzionale ha preso forma dopo la creazione dello Stato come entità territoriale e la promulgazione di una Costituzione scritta ad opera dell'assemblea costituente nel 1948. Essendo quest'ultima eletta con un sistema proporzionale puro, si decise di utilizzare lo stesso sistema per l'elezione del parlamento israeliano, la Knesset, che vide la maggioranza del partito Mapai, il partito laburista. Maggioranza che il Mapai riuscì a mantenere per un periodo molto lungo, precisamente dal 1949 al 1977, grazie alla mancanza di un opposizione sufficientemente forte a livello di consensi elettorali. Ciò permise al partito laburista israeliano di sfruttare l'elevata frammentazione dei partiti che componevano il parlamento per creare governi di coalizione in cui la sfera predominante era detenuta dal movimento politico Mapai stesso, quasi si trattasse di governi monopartitici con appoggi esterni.
     Nel 1977 la vittoria del partito di opposizione, il Likud pose fine all'egemonia di sinistra del governo israeliano cui però non seguì un egemonia di destra in grado di portare avanti la stessa pratica politica precedentemente applicata. La sostanziale parità di consensi dei due partiti maggiori ed i loro tentativi di conquistare l'elettore moderato e di centro per poter migliorare i loro risultati elettorali diedero la possibilità ai partiti estremisti di destra e di sinistra di incrementare i loro consensi e di conseguenza il loro potere contrattuale visto il sistema proporzionale puro e senza soglia di sbarramento. La situazione di stallo creatasi, in cui i due maggiori partiti nazionali israeliani erano forti di un consenso popolare notevole, ma non maggioritario che non permetteva loro di governare senza cedere alle pressanti richieste dei partiti minori portò alla creazione di quello che vene definito governo di unità nazionale. L'alleanza tra i due movimenti politici poteva trovare accordi su questioni di politica estera ed economica, ma non su altri temi che necessitavano di essere affrontati con urgenza e che rimasero irrisolti per il periodo di coabitazione.
     Da qui l'idea di un premier direttamente eletto dal popolo (in alternativa ad una profonda riforma del sistema elettorale), che venne introdotta nel 1992 ed entrò in vigore per la tornata elettorale del 1996 e del 1999 per essere poi abolita nel 2001. Il fallimento di questa riforma elettorale, che si prefiggeva di far esprimere direttamente al popolo il governo e di ridurre il numero dei partiti, è imputabile alle successive modifiche parlamentari del testo originale. Infatti, questo prevedeva, in origine, che il vincitore eletto primo ministro non necessitasse della fiducia parlamentare e potesse nominare e revocare i ministri di gabinetto in modo da poter governare anche con un governo monopartitico di minoranza alla Knesset, la quale poteva sfiduciarlo solo con una maggioranza qualificata. La modifica approvata prevedeva ancora la fiducia parlamentare, che mantenne in vigore la pressione politica dei partiti minori, il voto disgiunto per il governo ed il parlamento, che diede all'elettore la facoltà di votare un primo ministro slegato dal partito, e l' introduzione di uno sbarramento all'1% poi 1,5% che, essendo molto basso, non ottenne l'effetto sperato.
     Il sistema proporzionale puro ha portato alla vanificazione del processo di riforma delle istituzioni ed ha indebolito il premierato che nelle intenzioni originarie dei promotori avrebbe dovuto, oltre a rendere il governo maggiormente legittimato, ridurre il numero dei partiti, che al contrario sono aumentati a dismisura tanto da rendere necessario un successivo innalzamento della soglia al 2%. Da qui la necessità della nuova legge del 2001 che ha abolito il premierato ed ha introdotto la sfiducia costruttiva che può trovare l'opposizione del Parlamento solo se le forze politiche in esso presenti siano in grado di proporre una nuova coalizione con a capo un premier sostituto e la prerogativa del primo ministro di designare e licenziare i ministri governativi. Da questo fatto derivano la capacità e la possibilità di Ariel Sharon di attuare il ritiro da Gaza. Come primo ministro, infatti, ottenne la maggioranza necessaria all'approvazione del provvedimento licenziando due suoi ministri in disaccordo con il ritiro che lo avrebbero fatto rimanere in minoranza di un voto. Poi ha convinto la parte recalcitrante del partito e della coalizione con la prospettiva di uno scioglimento anticipato del parlamento che, vista la frammentazione politica, ideologica e religiosa in cui versa, non sarebbe stato in grado di proporre una alternativa valida. Infine grazie alla sua popolarità ed ai risultati politici personali ottenuti durante il suo mandato ha fatto comprendere che, se il caso lo avesse ritenuto necessario, avrebbe costituito un nuovo partito trascinato dal suo carisma personale che avrebbe ottenuto una rappresentanza parlamentare.

(Ragionpolitica, 30 settembre 2005)





3. CHIEDE SCUSA AI «COLONI» EVACUATI




GERUSALEMME - La prossima settimana in Israele sarà celebrato il grande giorno dell'espiazione. In preparazione a questo giorno, domenica scorsa Jonatan Bassi, il capo dell'autorità israeliana per il ritiro Sela, ha chiesto perdono agli ex coloni ebrei della striscia di Gaza per "evitabili sofferenze".
«Vorrei chiedere perdono ai coloni che hanno visto in me e nell'autorità per il ritiro i responsabili del loro trasferimento», ha detto Bassi in una intervista con la radio dell'esercito israeliano. «Se abbiamo fatto loro del male inutile in aggiunta ai colpi del destino che certamente hanno già subito, chiedo veramente, veramente perdono», ha aggiunto.
Il 13 ottobre si celebra il cosiddetto "Yom Kippur". E' il giorno più sacro del calendario ebraico, giorno in cui gli ebrei chiedono perdono di tutti i peccati fatti durante l'anno.
Le 633 famiglie evacuate dalla striscia di Gaza e dal nord della Cisgiordania trascorrono il nuovo anno "Rosh HaShanah" in alberghi o in alloggi provvisori.

( Israelnetz Nachrichten, 4 ottobre 2005)





4. MEMORIALE DELLA SHOAH IN FRANCIA




Il museo degli orrori

di Riccardo Venturi
    
Un imponente muro di cemento nasconde la facciata del museo e protegge la corte sottostante, sorvegliata da telecamere a circuito chiuso e accessibile solo da un gabbiotto con i vetri antiproiettile e gli strumenti di controllo di un aeroporto. È questo il primo impatto con il memoriale della Shoah, situato nella parte più tranquilla del Marais verso la Senna, inaugurato nel ’56, rinnovato nel ’92 e da quest’anno aperto al pubblico. È attraverso la rete di dispositivi di sicurezza – indici sempre più significativi dell’attuale situazione politica – che prendiamo coscienza del luogo che ci apprestiamo a visitare.
     Il muro con i nomi degli ebrei deportati dalla Francia conta circa 76.000 persone di cui 11.000 bambini – 2.500 i sopravvissuti, anche se la lista è tuttora in aggiornamento. I nomi sono incisi sulla pietra, ogni rigo ne contiene tra i cinque e gli otto, un calcolo che dà le vertigini: percorrendo il corridoio, le righe ci avvolgono dalla testa ai piedi, confondono la vista e rendono precario il nostro equilibrio. Sulla corte spunta la cupola in bronzo della cripta, su cui sono impressi i nomi dei campi di concentramento e al cui interno sono conservate le ceneri delle vittime del ghetto di Varsavia. Consacrata ai sei milioni di ebrei morti senza sepoltura, è costituita solo da una stella di David in marmo e da una luce perpetua al centro. Cenere, fiamma, nomi incisi sulla pietra: la cripta è un luogo fatto di pochi elementi, in cui la dimensione simbolica soppianta quella visiva.
     Nella sala attigua sono conservate le schede nominative degli ebrei, riempite dalla prefettura di polizia sotto Vichy, tra il ’41 e il ’44. Gli schedari, in ordine alfabetico, danno un’idea tangibile dell’indefettibile apparato amministrativo che ha reso possibile la ghettizzazione e la deportazione del popolo ebraico nonché una sfaccettatura dell’antisemitismo francese, che faceva dell’ebreo lo straniero inassimilabile, secondo un darwinismo razziale, al popolo francese. Il governo di Vichy promulgò del resto di sua iniziativa leggi contro gli ebrei, dall’interdizione dalla funzione pubblica all’istituzione dei campi di Drancy, Pithiviers e Beauve la Rolande.
     L’allestimento del museo cerca di rendere il più interattivo e il più eterogeneo possibile il materiale documentario: proiezioni video e album di famiglia, ritagli di giornale e affiches d’epoca, lettere manoscritte e videointerviste ai sopravvissuti, mentre una cronologia dei fatti cadenza il percorso. Un approccio che, offrendo simultaneamente una messe di informazioni e stimoli, di date e numeri, di immagini e voci, tiene all’erta il visitatore, correndo a volte il rischio di disorientarlo. Del resto è così che si costituisce la storia, la cui istanza narrativa non è altro che il risultato di una selezione arbitraria e di un montaggio di frammenti.
     A ritenere la nostra attenzione è la rappresentazione della sinagoga come una donna velata, le foto dell’incontro tra Hitler e Petain nel ’40 o i segni distintivi gialli – colore del demone e della follia – che gli ebrei dovevano portare sul petto. Ancora, le foto dei cervelli in scatola ordinati sugli scaffali, risultato del programma di eutanasia T4, oggi conservati a Vienna; le scatole di gas Zyklon B proveniente da Birkenau, dove in 24ore – quando l’industria della morte lavorava a tempo pieno – si potevano eliminare 3000 persone con il gas e incenerirne altre 4800. O ancora la voce dell’ex-SS Suchomel, che restò in prigione solo quattro anni, intervistato da Claude Lanzmann a Braunau am Inn, villa natale di Hitler, mentre intona un marziale inno al lavoro e alla Germania, che i detenuti erano costretti a cantare e che, confessa, nessun è sopravvissuto per serbarne memoria.
     Ma a restar impresse sono soprattutto le foto insignificanti, emotivamente forti in quanto incapaci di testimoniare il reale, come quella della facciata della villa sul lago di Wannesee, vicino Berlino. Una foto che non sfigurerebbe in un album di famiglia se non fosse che lì, nel ’41, fu discusso e approvato lo sterminio di massa degli ebrei in Europa – la cosiddetta “soluzione finale”. Dei quindici alti funzionari delle SS che presero parte alla conferenza, vi sono dei ritratti fotografici da cui non traspira alcuna emozione, ed è proprio questo mutismo a gelare i nostri tentativi di comprensione. Destabilizza vedere come sotto i nostri occhi non ci siano altro che i cliché di un gruppo di commilitoni con la divisa in ordine e lo sguardo un po’ annoiato. Non si tratta certo solo del male come mysterium iniquitatis, ricordato di recente da Benedetto XVI nella sinagoga di Colonia, ma anche dell’incapacità della storia di dare ragione.
     La missione segreta dell’operazione speciale 1005 dell’SS Blobel voleva cancellare le tracce delle esecuzioni di massa, affinché il mondo non venisse mai a conoscenza degli orrori perpetrati in quei campi recintati che sorgevano accanto a ridenti cittadine con i fiori sul terrazzo, come a Dachau. Le camere a gas furono distrutte e i corpi delle vittime riesumati e bruciati – perché non ne restasse che cenere – come avvenne nel campo di Sobibor nel ’43, dove al suo posto fu impiantata una foresta. Molti si illudevano che i sopravvissuti non sarebbero stati mai creduti: è per questo che i memoriali non sono solo ricettacoli della memoria di un popolo, ma operosi e insostituibili luoghi di scrittura della storia.

(Caffè Europa, 4 ottobre 2005)

prosegue ->
5. PROGETTI DI SCAMBI CULTURALI




Atenei, un ponte Napoli-Medio Oriente

di Camilla Formisano

Pasquale Ciriello, rettore dell’Università “L’Orientale” di Napoli, rientrato dalla missione di pace che ha visto impegnata una delegazione napoletana dal 27 settembre allo scorso 1 ottobre, fa un bilancio dell’iniziativa e illustra i progetti di scambio culturale con gli Atenei israeliani e quelli palestinesi.

Domanda. Lei è appena tornato dalla quattro giorni di missione partenopea in Palestina. Qual è il suo giudizio complessivo su questi giorni?
Risposta. E’ stata un’esperienza di estremo interesse. Anche se come studioso conoscevo bene la situazione mediorientale, viverla da dentro è ben diverso. Ci si rende conto di quanto la situazione sia complessa. Molto più di quanto si immagini.
D. Sono già partiti progetti di scambio culturale con Israeie e Palestina?
R. Abbiamo una convenzione attiva con l’Università di Tel Aviv e una con l’Università di Al Quids. A quest’ultima abbiamo già fatto dono di circa duemilacinquecento volumi per la costituzione di una biblioteca, e pensiamo di poter dare una mano nella ristrutturazione di alcuni locali dell’Università da destinare a area museale. Un altro progetto in corso è “Scudo Blu”, scudo ovviamente inteso in senso simbolico, per la protezione di alcuni reperti archeologici di epoca bizantina ritrovati a Ramallah, nei territori occupati. Sono reperti che senza l’interesse della comunità scientifica andrebbero persi, è importante proteggere tali ricchezze, anche in una situazione difficile e di continua guerriglia come quella israelo-palestinese.
D. Avete intenzione di mandare studenti dell’Orientale in viaggio studio in Palestina?
R. Il nostro progetto punta a mandare alcuni nostri studenti in stage formativo nei siti archeologici per dare una mano ai lavori di scavi. Purtroppo tale progetto non è attualmente realizzabile per la mancanza delle condizioni di sicurezza e di pace. I nostri docenti vanno spesso, ma mandare gli studenti, attualmente, sarebbe un azzardo.
D. Ci saranno studenti palestinesi e israeliani qui a Napoli?
R. Sì, già da quest’anno accademico le Università di Tel Aviv e Gerusalemme stanno selezionando alcuni dei loro studenti da mandare qui a Napoli nell’ambito di un progetto che vede impegnate Federico II e Orientale.

(Il Denaro, 4 ottobre 2005)





6. INTERVISTA AL RABBINO CAPO DI ROMA




La rivista "Confronti", che si presenta come "mensile di fede, politica, vita quotidiana", nel suo ultimo numero di settembre pubblica un'intervista al Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni.

Ebrei e cristiani
dopo l'insegnamento del disprezzo


Intervista a cura di Ottavio Di Grazia

Il percorso dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo dalla fine della seconda guerra mondiale è stato segnato da gesti, documenti, convegni, pubblicazioni di straordinaria importanza. Ripercorreme le tappe significa attraversare pagine di storia che hanno, almeno parzialmente, rimarginato ferite e abbattuto muri che sembravano invaticabili. Dopo un lungo periodo contrassegnato da un «insegnamento del disprezzo» (J. Isaac); dopo i primi contatti avvenuti - paradossalmente - nei campi di sterminio nazisti, dove ebrei e cristiani dovevano confrontarsi con quel sistema totalitario e riscoprire eredità comuni e comuni valori.
Più tardi ci sono state prese di posizione delle Chiese e di coraggiosi precursori del dialogo che hanno preparato e spianato la strada e reso possibile e credibile la volontà di intraprendere una nuova fase di relazioni. Per non parlare di chi già prima della guerra aveva posto in maniera decisiva il problema della necessità del dialogo. La strada che si apriva era in salita. Tuttavia la ricerca, l'ostinazione di tanti, ha dato risultati che possiamo dire positivi.
Sia il mondo cattolico che quello protestante hanno prodotto documenti decisivi per rovesciare una tradizione e una teologia antisemite.
Documenti più o meno noti fino alla Nostra Aetate, di cui ricorrono i 40 anni dalla promulgazione, hanno creato le condizioni per un diverso rapporto con l'ebraismo, radice santa del cristianesimo, e per un diverso modo di rapportarsi all'altro. L'urgenza di stabilire sempre migliori relazioni ebraico-cristiane non deve farci ignorare i problemi aperti, le ombre, le ipocrisie, i nuovi antisemitismi, il difficile rapporto con le questioni legate allo Stato di Israele e al conflitto israeliano-palestinese. Il dialogo deve poter aprire nuovi scenari, ora che diverse questioni sono state chiarite. Si tratta di fare nuovi passi in avanti nella consapevolezza delle nostre storie, delle nostre verità parziali, deIIa nostra percezione dell'alterità mai riconducibile a un comune denominatore, alla piú o meno celata volontà di cancellarne tracce, volti, culture, testimonianze di fede. E soprattutto occorre che il dialogo si apra a forme nuove e a nuovi orizzonti in questo scorcio di storia. Della nostra storia.
Su questi temi abbiamo intervistato il Rabbino Capo di Roma Rav Riccardo Di Segni.

A quarant'anni dalla «Nostra Aetate», che bilancio può tracciare di questa stagione di dialogo ebraico-cristiano?
Il percorso dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo è stato, in questi anni, segnato da numerose cerimonie, atti pubblici, dichiarazioni, convegni, incontri, pubblicazioni. Abbiamo visto trasformazioni epocali, da molti punti di vista, sono caduti una serie di muri, c'è stato un sostanziale avvicinamento dei vari mondi cristiani nei confronti dell'ebraismo. Si è manifestata una volontà molto forte di revisione dottrinale, nel senso di non considerare gli ebrei reietti, e accanto all'aspetto dottrinale c'è stato, appunto, quello mediatico e spettacolare che sulla massa delle persone ha avuto un impatto ancora maggiore. Gesti come quelli compiuti da papa Giovanni Paolo II: in particolare la visita alla sinagoga di Roma o al muro del pianto di Gerusalemme.
A questo si aggiunga che la predicazione nelle chiese non è più quella di un tempo. Almeno come primo impatto l'approccio della Chiesa cattolica nei confronti dell'ebraismo è di grande rispetto. Ci sono dei punti significativi, uno fra tanti è che la Santa Sede ha riconosciuto lo Stato di Israele.

Solitamente quando si parla di dialogo ebraico-cristiano, almeno in Italia, si punta molto l'attenzione sulle relazioni col mondo cattolico, Ma il cristianesimo è una realtà molto più articolata e complessa, ci sono anche i protestanti e gli ortodossi. Rispetto a loro cosa si sente di dire?
Della realtà ortodossa non conosco nulla, di quella protestante posso parlare a partire dai rapporti che abbiamo con le Chiese italiane che sono sempre stati molto cordiali e rispettosi. Penso che il punto di partenza fosse già molto diverso: ci univa in qualche modo una parte di storia comune, nel senso che entrambi eravamo stati, per così dire, oggetto degli attacchi della Chiesa cattolica. Quindi da questo punto di vista i rapporti col mondo protestante hanno seguito fin dall'inizio strade diverse, e sono partiti in un certo senso avvantaggiati.

Qualunque forma di dialogo ha dei livelli minimi possibili ma poi, appena si entra nel merito di specifiche questioni, nascono le difficoltà. Ritiene che il dialogo debba essere necessariamente «minimalista» o che si possa azzardare anche un'ipotesi più complessa, che metta in gioco (ferme restando le reciproche storie) possibili soluzioni a problemi anche motto importanti? Ci può essere anche un altro livello di dialogo che sappia confrontarsi con una serie di nodi teologici sugli statuti della verità delle singole tradizioni religiose?
Intanto vorrei specificare che, quando si parla di dialogo, non dobbiamo pensare a tentativi di conversione dell'altro, cosa che non è affatto chiara. Partendo da questo presupposto, ci sono, come dice lei, numerosi livelli; uno di questi, del tutto speciale, è quello che riguarda il dialogo teologico. Ripeto un concetto espresso numerose volte: l'incontro tra le religioni non è una trattativa politica. La trattativa politica è: «Io ti do un pezzo di terra e tu mi dai ... ». La trattativa politica si basa su una concezione diversa che prevede una concessione reciproca, o su rapporti di forza per cui uno concede e l'altro reagisce di conseguenza. Sul piano teologico questo non è assolutamente possibile. Non è che noi due, ammesso che ne avessimo qualche facoltà e potere, ci mettiamo attorno al tavolo e diciamo: «Io riconosco te e viceversa». Questo è impossibile dal punto di vista tecnico ed è arduo pensarlo, perché i tempi dell'evoluzione teologica sono lunghi e si seguono strade diverse, Quindi pensare a una sorta di trattativa con concessioni è assurdo. Se ci si mette a parlare di teologia, penso che si rischi più lo scontro che l'incontro. Anche in questo caso, si dovrebbe fare una sorta di autocritica. Spesso alcune parti del mondo cristiano mettono nell'agenda il fatto che gli ebrei debbano conoscere il Cristo. La risposta a questa sollecitazione da parte nostra è tanto forte quanto incomprensibile all'interlocutore, nel senso che a noi non interessa. E allora di che discutere? E' già tanto se noi prima di tutto riusciamo a guardarci in faccia come entità non ostili, ma come persone civili che potrebbero fare delle cose insieme. Dal punto di vista teologico quello che si può chiedere, non a livello paritetico ma rispetto a quello che può effettivamente accadere, è che ci sia, attraverso questa conoscenza, uno stimolo per rivedere il proprio modo di pensare all'altro. Così come la Chiesa cattolica sta facendo assiduamente negli ultimi decenni cercando di definire cos'è Israele, e qual è il rapporto con l'ebraismo, non altrettanto è stato fatto in campo ebraico, parlo del campo ebraico autorevole. E' tempo che il mondo ebraico autorevole affronti questi problemi e dia anche su questo delle risposte.
E' molto difficile che lo faccia, però, perché sono pochi coloro che hanno gli strumenti, in entrambi i campi; quindi, ripeto, è molto difficile. Non è neanche tanto un problema di volontà.
Uno degli aspetti essenziali del dialogo ebraico-cristiano è la sua assoluta asimmetria: partiamo cioè da posizioni completamente diverse. Siamo fratelli spiritualmente, ma non siamo due entità paritetiche che si confrontano. Ci sono enormi differenze, innanzitutto numeriche, ma soprattutto storiche. Forse è forte dirlo, è quasi un paradosso, ma il cristiano non può fare a meno dell'ebreo per definire la sua identità, mentre invece l'ebreo può farne a meno tranquillamente. E allora per un cristiano interrogarsi su se stesso è fondamentale farlo a partire dalla sua radice ebraica. Per l'ebreo può essere una dimensione arricchente ma non è essenziale.

C'è una riscoperta da parte di studiosi ebrei della figura di Gesù di Nazareth. Dal suo punto di vista potrebbe essere questo un passo non per rimettere in discussione questa asimmetria, ma comunque una modalità di riprendere in esame questa relazione?
Allora chiariamoci su dove si vuole arrivare. Il problema non è definire l'ebraicità di Gesù, cosa per noi ultrascontata.

Non scontata per i cristiani, però...
Certo, ma il problema è se questo diventa l'anticamera per considerare e riconoscere il messia come Gesù figlio di Dio, Per noi è un problema definire se e quanto sia eterodossa la sua dottrina, poi ci fermiamo. Non è possibile andare oltre. Ma - ripeto - dire che gli ebrei si interessano a Gesù è dire una cosa scontata.

Probabilmente, da un punto di visla storico, non è stato sempre così scontato. Credo che l'ultimo secolo abbia avuto studiosi di altissimo profilo nel mondo ebraico che si sono occupati di questa figura. Non so se prima fosse così scontato.
Prima di tutto contesto un po' la sua affermazione circa l'altissimo profilo...

Pensavo a personaggi come Neusner, Klausner, Flusser, Buber....
Il problema è che questi insigni studiosi non hanno alcuna importanza dal punto di vista normativo. Dal punto di vista della guida spirituale del popolo ebraico, queste persone, sia detto con tutto il rispetto, non rivestono alcun ruolo. Già se mi parla di Heschel è diverso, ma già Heschel stava con un piede in una scarpa e con l'altro in un'altra, rispetto alle varie forme di ortodossia ebraica. Gli autori da lei citati, certo, con tutta la considerazione per il loro lavoro filologico, non sembra che abbiano queste caratteristiche.
In passato c'era una vera coscienza del fatto che Gesù fosse ebreo, il problema era la misura del rispetto con il quale veniva considerata questa figura e questo vuol dire prendere atto che gli ebrei rispettano Gesù e il cristianesimo nella misura in cui il cristianesimo rispetta gli ebrei.

Dunque, qual è stata la posizione dell'ebraismo ortodosso, che risposte ha dato?
Si tratta di una questione importante, un nucleo essenziale del problema ancora Iontano dalla sua soluzione. Ma la partecipazione di alcuni capi rabbini israeliani è segno di disponibilità all'ascolto e dell'apertura di un credito di fiducia.

Questi anni sono stati importanti. Anni che possiamo datare, almeno per quello che riguarda il mondo cattolico, dal Concilio Vaticano II, mentre per le chiese protestanti possiamo già riferirci al Sinodo delle chiese della Renania Westfalia del 1947-48. Si tratta di una lunga stagione fatta di luci e ombre. Mi pare che lei abbia sottolineato con chiarezza gli aspetti positivi, le luci. E le ombre?
Parlerei, da un certo punto di vista, di lentezza. Penso alle differenze tra il pontificato di Paolo VI, al confronto che si può fare a livello emblematico tra come Paolo VI fece la sua visita in Terra Santa e come l'ha fatta Giovanni Paolo II; penso ai problemi irrisolti cioè a quelli che vengono chiamati «incidenti di percorso»; alla storia della difficoltà di come si è giunti alla definizione del problema della Shoà; alla quale si è arrivati, ma in maniera strana. Il probletna ancora delle conversioni degli ebrei, le beatificazioni, ci sono tanti piccoli «incidenti» che sono ancora problemi irrisolti.

Per restare nel mondo cattolico, nel passaggio dal pontificato di Giovanni Paolo II quello di Benedetto XVI, rispetto al dialogo ebraico-cristiano, che contributo a suo parere potrà dare questo pontefice a tale questione? Ratzinger si è già schierato con molta nettezza per un cammino ecumenico molto marcato.
Bisogna vedere in che termini. Credo che i punti principali dottrinali del pontificato di Giovanni Paolo Il siano stati segnati dal pensiero di Ratzinger, per cui ritengo che da un punto di vista dottrinale ci debba essere una continuità. Da un punto di vista degli eventi mediatici e spettacolari aspettiamo, perché qui entra in gioco la personalità, il carattere individuale. Ma per quello che ho capito, credo che non ci saranno arresti, anzi fin dal primo momento ha mandato dei messaggi molto chiari, di volontà di proseguire.

L'impressione chesi ha frequentando ambienti cristiani è che vi sia come una discrasia tra un dibattito anche molto autorevole e serrato su vari temi e la vita concreta, nelle parroccbìe, nelle comunità ecc. dove il problema del dialogo non passa così facilmente. Dal punto di vista della sua esperienza di rabbino capo, e quindi del mondo ebraico, si può dire la stessa cosa?
lo invece posso dire che sono sorpreso molte volte da come il «semplice» fedele si avvicina agli ebrei e all'ebraismo; sono persone che si avvicinano perché hanno avuto un influsso positivo, poi magari la massa silenziosa o che non parla con me non la conosco. Probabilmente ci sono ampie fasce a cui il problema non interessa affatto e che sono rimaste legate a impostazioni tradizionali. Da questo punto di vista, il clamore eccessivo, per esempio, che è seguito al film The Passion, è servito a mettere in evidenza quanto siano forti gruppi di potere perfettamente radicati ai quali questo tema, cioè quello della delicatezza dei nostri rapporti, interessa molto meno.

La cosa drammatica, per quello che mi riguarda, rispetto a questo film, è che non soltanto il semplice credente è stato favorevolmente colpito da quella trama,ma anche teologi di primo piano abbiano applaudito favorevolmente il film, e questo fa problema in una stagione di dialogo.
Una cosa analoga, riguarda un'altra proiezione, quella de Il mercante di Venezia. Infatti ho saputo che, alla fine della scena della conversione, ci sono stati degli applausi scroscianti in sala.

Questo ci porta di filato a episodi di antisemitismo di cui, lo dico con dolore, si ritorna spesso a parlare. Episodi più o meno caricati, dalla squadra di calcio al diplomatico israeliano che non è riuscito a parlare in diverse università e così via. Secondo lei l'antisemitismo è un problema che resta sullo sfondo o di cui dobbiamo preoccuparci?
Dunque, tutti questi fatti che lei ha citato sono probabilmente abbastanza marginali, ma sarebbe sbagliato trascurarli. Livelli di antisemitismo preoccupanti sono quelli di cui non si parla. Per esempio la radicata convinzione, in tutti i settori della società - e ribadisco tutti, trasversale da un punto di vista dell'appartenenza sociale: dai massimi livelli al semplice cittadino - che noi siamo cittadini israeliani, con i quali si ragiona con grande cordialità perché magari siamo simpatici, portiamo la cultura e cosi via... ma c'è una incapacità assoluta, certe volte, di capire la natura della presenza ebraica in un posto come l'Italia, dove stiamo da più di 21 secoli: siamo più romani dei romani.
Ancora, collegato a questo aspetto e non volendo scendere nella banalità politica: facendo riferimento al governo Sharon, i modi con cui si critica Israele sono intrisi di pregiudizio antiebraico. Ossia si opera una traduzione di un linguaggio politico in un pregiudizio religioso.

Una delle ragioni forti della vulgata più recente è questa: «non siamo antisemiti, siamo antisionisti», Una delle espressioni più forti che viene anche da ambienti di sinistra.
Non c'è nulla di nuovo in questo.

Ancora una questione sul piano dottrinario, perché ritengo che sia il cuore del problema. Lei sa benissimo che la teologia cristiana in senso ampio, da tempo, però non so fino a che punto, ha smesso di utilizzare concetti come «teologia sostitutiva» e tutto un armamentario teologico che si era costruito intorno a una teologia lunga secoli, una teologia «adversus judaeos». Sostanzialmente, in anni recenti, si prova a fare una teologia cristiana dell'ebraismo. Lei cosa ne pensa?
Prima di tutto non condivido la premessa, perché parlare dei fratelli maggiori secondo me è significativo e diamo per scontato questo. Secondo me è giusto che ogni mondo ragioni sul significato dell'altro; che ci sia una teologia cristiana dell'ebraismo penso sia positivo. Ma occorre dire che non c'è una teologia ebraica del cristianesimo.

Forse perché parlare di una teologia ebraica in assoluto è più complicato, non ha una dogmatica...
Però che ci sia un pensiero forte e qualcuno che pensi in maniera decisiva su questo non sarebbe male.

(Confronti, settembre 2005)





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