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Notizie su Israele 316 - 12 ottobre 2005

1. Voglia di pace in un sondaggio palestinese
2. La «Sezione Palestinese di Al Qaida»
3. La Striscia di Gaza come il Vietnam del Nord
4. La testimonianza di Oren Almog
5. «Ho annunciato la Parola di Dio a Yasser Arafat»
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 53:3-5. Disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia, era spregiato, e noi non ne facemmo stima alcuna. Tuttavia erano le nostre malattie che egli portava, erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato; ma noi lo ritenevamo colpito, percosso da Dio e umiliato! Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità; il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di lui e grazie alle sue ferite noi siamo stati guariti.
1. VOGLIA DI PACE IN UN SONDAGGIO PALESTINESE




Nei Territori si spera che la tregua con Israele regga

Pace e sicurezza, interna ed esterna: è questa l'aspirazione prioritaria dei palestinesi a un anno dalla morte di Yasser Arafat e dalla fine della spirale della violenza, a quasi due mesi dallo storico smantellamento delle colonie ebraiche a Gaza. Questo il dato forse più significativo di un sondaggio reso pubblico ieri dal Centro Studi dell'Università Birzeit di Ramallah, che conferma anche la forte crescita di popolarità del presidente Abu Mazen, l'uomo che ha posto la sua impronta sullo stop impresso alla violenza. Sono indicazioni importanti a poco più di tre mesi dalle elezioni politiche palestinesi del 26 gennaio, che vedranno scontrarsi il movimento al-Fatah del presidente e gli integralisti di Hamas.
Il ritiro israeliano da Gaza ha rafforzato il desiderio della popolazione palestinese di evitare un ritorno alla violenza. Secondo il sondaggio il 74% dei palestinesi è in favore della tregua in vigore con Israele dall'inizio dell'anno. La percentuale dei favorevoli raggiunge l'83% a Gaza. Rimane però una chiara ambiguità nei confronti dei gruppi armati: il 60% dei palestinesi rimane contrario al loro disarmo. A Gaza però le cose stanno cambiando: il 46% è favorevole al disarmo - in forte crescita rispetto a prima del ritiro israeliano - il 50% é contrario.
Fra i politici palestinesi il più popolare rimane il segretario di al-Fatah in Cisgiordania Marwan Barghuti, detenuto in Israele dove sconta una triplice condanna all'ergastolo. L'Anp ha chiesto la sua liberazione fra le misure di fiducia in discussione prima del prossimo vertice fra Abu Mazen e il premier israeliano Ariel Sharon. Barghuti ha un indice di popolarità nettamente superiore a quello del leader di Hamas Mahmud az-Zahar.
L'altro dato importante emerso dal sondaggio è quello della esasperazione dei palestinesi davanti alla situazione di anarchia armata che regna nei territori, dove spadroneggiano ancora indisturbati i vari gruppi armati. La priorità numero uno per il 38% dei palestinesi è la lotta contro il caos.

(Corriere Canadese, 12 ottobre 2005)






2. LA «SEZIONE PALESTINESE DI AL QAIDA»




Al Qaida è a Gaza e fa volantinaggio contro gli infedeli

In un campo profughi distribuiti opuscoli che esortano i musulmani alla costituzione della «grande nazione islamica»

di Gian Micalessin

Il progetto, già rimandato una volta, del primo summit dopo il ritiro da Gaza tra il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)e il primo ministro israeliano Ariel Sharon si dissolve all’orizzonte. E nella Gaza abbandonata da Israele fa di nuovo capolino Al Qaida. Non l’Al Qaida fumosa dei comunicati internet o quella indicata dai rapporti dell’intelligence israeliana, ma una Al Qaida in carne e ossa, una Al Qaida che distribuisce volantini con la propria firma tra le palazzine del campo profughi di Khan Younis.
A suonare il «de profundis» a 24 ore dal summit fissato per oggi e destinato a rilanciare il negoziato della road map è stato il portavoce palestinese Nabil Abu Rudeineh, che ha addebitato il rinvio alla «scarsa preparazione».
Le voci su una possibile cancellazione circolavano sin dalla scorsa settimana quando i negoziatori israeliani, incaricati di preparare l’incontro con la controparte, avevano respinto le richieste per il rilascio di un gruppo di prigionieri palestinesi. Quel diniego, unito al rifiuto di ritirare l’esercito da altre città della Cisgiordania, ha bloccato il lavoro interlocutorio.
I palestinesi esigevano la liberazione di un gruppo di prigionieri incarcerati ancora prima degli Accordi di Oslo, il rilascio di un malato terminale e di un recluso assai anziano e un accordo per il ritorno alle loro case in Cisgiordania dei militanti deportati costretti all’esilio all’estero o deportati a Gaza dopo l’assedio alla Natività di Betlemme.
«La cosa importante sono i risultati non i tempi del summit», ha detto il negoziatore palestinese Saeb Erakat dopo un colloquio con David Welch, sottosegretario statunitense per il Medio Oriente. In agenda anche il viaggio di Abu Mazen negli Usa, dove il 29 di questo mese sarà ricevuto dal presidente George W. Bush. L’incontro israelo-palestinese, dicono fonti palestinesi, avverrà dopo il colloquio tra il capo della Casa Bianca e il numero uno dell’Anp.
L’anticipo del vertice con Sharon, originariamente fissato per novembre, era stato voluto dagli americani per rilanciare la trattativa della «road map». Erakat ha precisato che il contenzioso riguarda una ventina di prigionieri detenuti dagli inizi degli anni Ottanta nelle carceri israeliane e il ritiro delle truppe israeliane prima da Betlemme e poi da altre città. Secondo il ministro palestinese, Sufian Abu Zaydeh, incaricato di negoziare la liberazione dei detenuti, Israele pur dicendosi disposto a qualche rilascio non ha voluto formulare impegni precisi. «Questo non è abbastanza per l’opinione pubblica palestinese, Abbas avrebbe serie difficoltà ad uscire da un incontro con Sharon senza risposte sull’argomento», ha detto il ministro. La data per l’incontro a questo punto slitta di nuovo a novembre.
I timori sulla presenza di Al Qaida nella Striscia di Gaza - già annunciata via internet e confermata dall’intelligence militare israeliana – si fanno intanto sempre più concreti. Diversi volantini firmati dalla «Sezione Palestinese di Al Qaida» sono stati distribuiti tra venerdì e sabato nella zona del campo profughi di Khan Younis.
Il testo dei volantini - quasi un’introduzione all’ideologia del gruppo terrorista - spiega che l’obiettivo della formazione è il ritorno al Califfato e la creazione di un unico Stato islamico per tutti i musulmani. «La nazione musulmana è rimasta vittima della cospirazione degli infedeli che hanno distrutto il Califfato e ci hanno diviso in tanti Stati piccoli e deboli... Ora bisogna tornare a un’unica e potente nazione musulmana».
Il volantino sembra l’ultimo tentativo dei simpatizzanti di Al Qaida di far presa sull’opinione pubblica di Gaza e attirare nuovi militanti. In precedenza la misteriosa cellula di Al Qaida in Palestina aveva rivendicato con un filmato diffuso via internet il lancio di una salva di missili contro la colonia di Neve Dekalim durante il ritiro israeliano.
Un ufficiale delle forze di sicurezza dell’Autorità palestinese a Gaza ha accusato Hamas sostenendo che ad agire per nome e per conto dell’organizzazione di Osama Bin Laden sarebbe un gruppo di militanti dell’organizzazione fondamentalista. «Fanno gli interessi di quella destra israeliana - ha detto il funzionario – che prevedeva l’arrivo di Al Qaida dopo il ritiro del loro esercito».

(Il Giornale, 11 ottobre 2005)





3. LA STRISCIA DI GAZA COME IL VIETNAM DEL NORD




Dopo il ritiro da Gaza arrivano le armi per Hamas

di Stefano Magni

Milletrecento fucili d’assalto. Centinaia di missili anti-carro AT-23 Sagger, una quantità sconosciuta di missili anti-aerei Strela, duecentocinquanta tonnellate di esplosivi… ci sarebbero armi a sufficienza per rifornire un reggimento. Ma non stiamo parlando di rifornimenti a un esercito regolare, bensì di armi di contrabbando che sarebbero state acquistate dalle organizzazioni terroristiche islamiste Jihad Islamica e Hamas, a Gaza, all’indomani del ritiro israeliano. La notizia proviene da fonti di intelligence ed è stata diffusa in Italia da Il Velino, lo scorso 20 settembre. Le armi proverrebbero dai Balcani e sarebbero giunte a Gaza tramite una nuova rete di tunnel sotterranei, analoga a quella che era già stata soppressa dall’esercito israeliano al confine con l’Egitto, passando prima per il Sudan, lo Yemen e l’Egitto. Tutto l’affare sarebbe stato condotto usufruendo dell’intermediazione di agenti segreti iraniani e Hizbollah, a riprova che l’Iran, nonostante la facciata pragmatica, mantiene una politica estera segreta rivoluzionaria.
Non vi sarebbero solo armi destinate alle due organizzazioni terroristiche, ma anche centinaia (si stima da 500 a 700) di nuove reclute, fra cui probabilmente anche molti terroristi di Al Qaeda. Evidentemente gli islamisti palestinesi hanno festeggiato per il disimpegno israeliano dalle colonie a Gaza ed ora stanno già passando ad una fase successiva, più avanzata, della loro guerra contro Israele. E all’interno dell’Autorità Palestinese, che si rifiuta tassativamente di disarmarli, sono anche ben accompagnati. Per dirla con le parole di Farouk al Qaddumi, leader dell’OLP: “Dobbiamo mantenere la Striscia di Gaza come una base simile al Vietnam del Nord e prepariamoci alla completa liberazione della Cisgiordania”. Anche se la Jihad islamica e Hamas si spingono oltre e parlano della “liberazione di tutte le terre palestinesi”, quindi la conquista di tutta Israele. Mai paragone fu più azzeccato, purtroppo per Israele. Pure il Vietnam del Nord, nonostante ufficialmente non fosse in guerra né con gli Stati Uniti, né con il Vietnam del Sud, infiltrò terroristi, armi e poi militari attraverso la pista di Ho Chi Minh fin dal 1959.
Finché, ben sedici anni dopo, non giunse il momento di uscire allo scoperto e invadere il vicino meridionale. I Palestinesi non hanno nemmeno bisogno di una loro pista così mimetizzata, organizzata e complessa come quella usata dai Nordvietnamiti, perché la Striscia di Gaza è già un cuneo dentro Israele e la nuova frontiera può essere aggirata in molti modi: dall’aria (razzi), da terra (valichi e tunnel), dal mare (lungo la nuova costa palestinese). Che la guerra non sia finita, ma sia entrata in una nuova fase, lo si può dedurre anche dall’azione compiuta dalle Forze di Difesa Israeliane lo scorso 21 settembre: un raid che ha portato all’arresto di 14 presunti terroristi, membri della Jihad Islamica, che stavano molto probabilmente preparando altri attentati suicidi ai danni dei civili israeliani. Dopo il ritiro ci sono sicuramente anche incoraggianti segnali di apertura da parte dei Palestinesi. Mohammed Gazal, uno dei leader di Hamas, il 22 settembre ha dichiarato che lo Statuto di Hamas del 1988 “non è il Corano”. Per cui può essere modificato anche l’articolo che prevede esplicitamente la distruzione dello Stato di Israele. È una mossa comprensibile: in vista delle elezioni, probabilmente Hamas vuole presentarsi, aggirando il veto di Sharon.
Ma lo stesso giorno, altri leader di Hamas hanno ribadito che non cederanno mai le armi e che si preparano a rapire soldati israeliani per usarli come “merce di scambio”. E mentre il ministro dell’istruzione israeliano, la signora Limor Livnat, introduceva le canzoni arabe nel programma delle scuole elementari (per far conoscere e rispettare meglio la cultura araba agli scolari israeliani), la televisione pubblica palestinese mandava in onda programmi educativi di tutt’altro tenore. Nell’ultima settimana, le tre televisioni pubbliche palestinesi, hanno ripetuto sotto varie forme, il messaggio che Israele non ha il diritto di esistere e che deve essere “liberata” l’intera area dal Giordano al Mediterraneo. In un programma educativo del 2003, trasmesso la scorsa settimana, si ribadiva che Israele, per il fatto stesso di esistere, costituisce una minaccia per tutto il mondo arabo. In un altro programma, si sosteneva che la Palestina non sarà “unificata” finché vi sarà Israele, un “coltello conficcato nel cuore della Nazione Araba”. E anche un professore universitario palestinese, Ismael Al Fara, dell’Università Al Quds, intervistato dalla televisione pubblica, ha espresso un parere non troppo pacifico nei confronti del vicino israeliano: “Niente è paragonabile alla gioia degli oppressi che trionfano sugli oppressori. Ma la nostra gioia rimarrà incompleta fino al ritorno in tutte le nostre terre: la Cisgiordania, Gerusalemme, Tel Aviv, Jaffa, Haifa, Safed e tutte le altre città che ci sono state rubate”.
Proprio tutte: evidentemente anche quelle costruite dagli Ebrei e abitate da loro da sempre. E la folla armata palestinese, che il 21 settembre ha incendiato quanto restava ancora (qualche maceria e poco più) della colonia ebraica di Kadim, in Cisgiordania, ha seguito l’entusiasmo dei miliziani delle Brigate Martiri di Al Aqsa: “Questa è la nostra vittoria” ha esultato il loro leader “la vittoria delle nostre armi”. Non c’è alcun cenno al disimpegno israeliano. Nessun riconoscimento per una concessione unilaterale e gratuita del governo Sharon. La parola “disimpegno” è addirittura sconosciuta dai media palestinesi: viene sostituita da “insikhab” (ritirata), “tard” (espulsione), “dakhr” e “indikhar” (cacciata, sconfitta). Il ritiro degli Israeliani è visto solo ed esclusivamente come il frutto di una vittoria militare, in cui il terrorismo ha avuto un ruolo determinante; il terrorismo e la diplomazia non sono considerati incompatibili, ma come due elementi complementari della politica palestinese. Il terrorismo, sostengono i leader armati palestinesi, riprenderà con maggior vigore fino al ritorno alla linea dei confini del 1949 e al rientro di tutti i profughi (per i gruppi più “pragmatici”), oppure fino alla distruzione di Israele, nei termini dei gruppi islamisti. Mohammed Dahlan, che pure è considerato come uno dei leader più pragmatici dell’Autorità Palestinese, ha anch’egli parlato di vittoria militare da sfruttare perché “…la ritirata israeliana non è un atto di carità, ma il frutto della fiera resistenza del nostro popolo negli anni”. O il già citato Qaddumi, che ha reso noto come questo sia solo “…l’inizio della liberazione, che è stata conquistata da tutte le fazioni della resistenza palestinese”.

(L'Opinione.it, 24 settembre 2005)





4. LA TESTIMONIANZA DI OREN ALMOG




Ci sono cose che è meglio non vedere

A due anni dall'attacco suicida al ristorante 'Maxim" (21 morti, 51 feriti), in cui persero la vita cinque membri della sua famiglia, papà e un fratello inclusi – così come l'uso della vista – il dodicenne Oren Almog ha molte cose da dire. Sull'autista che accompagnò la terrorista che si fece esplodere ("Mi auguro che verrà punito come si deve"), sulla sua sofferenza ("Mi sono chiesto perché è successo proprio a me"), sulla nostalgia per il fratello morto (il Sony Play Station è un avversario meno bravo di lui") e sulla cecità ("Vorrei ancora poter vedere, anche per un solo istante"). Un monologo tremendo e impressionante.

di Eti Abramov

Un ragazzino sta seduto su una barca a vela nella Marina di Tel Aviv e naviga verso l'orizzonte. Da lontano, con la visiera del cappellino messa all'indietro, si direbbe uno dei tanti  ragazzini dodicenni. Se lo si osserva da vicino, però, ci si accorge che Oren Almog è cieco. Sono passati quasi due anni da quel fatidico 4 ottobre 2003, quando una terrorista suicida si fece esplodere al ristorante Maxim a Haifa, uccidendo 21 persone e ferendone altre 51, distruggendo interamente o parzialmente più famiglie. Tale fu il destino della famiglia Almog. Il nonno Zeev – ex comandante della scuola ufficiali navale ad Acco, la nonna Ruth, il loro figlio Moshik, con la consorte Orly e i loro figli Oren (10 anni), Tomer (9) e Adi (5), la sorella di Moshik, Galit Shtayer e suo figlio Assaf (10) che tornavano dalla spiaggia ed erano entrati nel ristorante. Dei nove solo quattro sono sopravvissuti: Orly, Galit, Adi e Oren, che ha perso la vista in seguito all'esplosione.
Due anni sono passati da allora e la lotta per la vita è diventata la lotta per il diritto a condurre una vita normale, nonostante le gravi ferite. Un mese fa, i superstiti hanno intrapreso una nuova battaglia, questa volta tra le mura di un tribunale, contro l'uomo che aveva accompagnato nella sua macchina la terrorista suicida.
Nel corso dell'ultima udienza, che si è svolta circa tre settimane fa, una commovente lettera è stata letta ai giudici da Ofer Shtayer, lo zio di Oren e il padre del figlio Assaf, di benedetta memoria. La lettera è stata scritta in questi ultimi mesi da Oren in caratteri Braille.
"Tutta la nostra famiglia sta soffrendo molto," ha scritto Oren, "non solo perché stiamo soffrendo i dolori fisici delle nostre ferite ma soprattutto perché non ci sono più tanti dei nostri familiari. Ho raccontato abbastanza sulla disgrazia che ha colpito e colpisce tuttora la nostra famiglia, e tutto ciò a causa della negligenza criminale di un uomo che mi fa piacere non dover mai più vedere."
Oren è scoppiato in pianto, i familiari delle vittime hanno asciugato le loro lacrime e i giudici hanno abbassato la testa. Lo zio Ofer ha continuato a leggere: “Onorevoli Giudici, purtroppo io non vi posso guardare negli occhi, ma voi lo potete fare con me. Volete vedere altri bambini in Israele nella mia condizione? Guardatemi negli occhi e guardate negli occhi di ogni bambino israeliano e dite a tutti "basta!" Basta con coloro che aiutano i clandestini terroristi a restare in Israele. Lanciate un messaggio chiaro dichiarando che chi mette in pericolo le vite della gente di Israele e dei loro figli non potrà più vedere la luce del giorno dopo. Promettete a me e a tutti i bambini d'Israele che la punizione da voi comminata sarà così esemplare che dissuaderà le persone a continuare a trasportare queste bombe viventi che non possono essere né giustificate né tollerate.”

"Oren, provi della rabbia verso quell'autista?"
"Sì, certo! Voglio che riceva una punizione esemplare, non sei anni di carcere."
Oren non ha perso la vista subito dopo l'esplosione. "L'ultima immagine che ricordo è quella di un medico che mi ha messo un tubo in bocca. Dopo un mese, mi sono svegliato cieco."
All'inizio i medici hanno cercato di salvare la vista di Oren con alcuni complessi interventi medici all'estero. Oggi, il ragazzo sogna un'operazione all'avanguardia che possa collegare i suoi occhi ai centri cerebrali senza bisogno del nervo ottico.
"Dovrò aspettare almeno cinque anni per questa operazione, che è in sé molto complicata perché coinvolge il cervello."
Oren ha fatto ritorno a scuola ed ora frequenta la scuola media, pur se continua a sottoporsi alle cure mediche all'ospedale Tel Hashomer.
Dopo aver concluso le elementari con il resto dei suoi compagni, oggi, primo settembre, primo giorno di scuola in Israele, comincia le medie, al "Reali" di Haifa. "Adesso che sono in una nuova scuola," dice, "ci sono alcuni compagni che mi conoscono e altri che si sentono a disagio a farmi delle domande. E, naturalmente, ci sono quelli che chiedono, "Sei tu l'Oren Almog dell'attentato al ristorante "Maxim"? O più semplicemente: "Cosa ti è successo?".
Oggi ognuno può chiedere quello che vuole, ma, agli inizi, me la prendevo, mi offendevo, specialmente per quello che mi dicevano i bambini più piccoli. Per esempio, se uno esclamava "Ecco lo sfregiato," mi offendeva molto di più di uno che diceva "Ecco il cieco!".

"Come ti sei arrangiato a scuola?"
"All'inizio mi hanno aiutato a raggiungere i vari posti, poi, piano piano, ho imparato a cavarmela da solo. Scrivo in alfabeto Braille e l'ho persino insegnato ai miei compagni, così per gioco. I compiti in classe, me li fanno fare oralmente."

"Hai amici ciechi"?
"Non proprio. Conosco molti ragazzi ciechi che preferiscono non fare l'annuale gita scolastica, ma io però non li capisco. Le gite sono la cosa più divertente che esista. Quest'anno con la mia classe, siamo andati nel Deserto di Giudea."

"E non avevi paura di cadere dalla rupe"?
"No, perché non potevo vedere a che altezza ero. E' un vantaggio dei ciechi. Non mi spaventa ciò che non posso vedere. Quando ci siamo calati con le funi, ad esempio, ero a ridosso del burrone e mi appoggiavo all'indietro. Non potevo vedere i  50 metri sotto di me, e così ho cominciato a scendere, tutto qui..."

"Qualcuno potrebbe dire che tutta la tua vita è sull'orlo di un burrone". 
"Cadere è una cosa che non mi fa paura. Sai su quante cose ho sbattuto contro e quante cicatrici ho che non sono dell'attentato? Non riesco a capire la gente che mi dice continuamente, "Sta' attento, c'è uno scalino!" E con ciò?"

"Come fai a sapere quello che indossi"?
"Lo sento. Ogni maglietta o paio di pantaloni ha una propria etichetta speciale."

"Di notte sogno molto"
E' difficile guardare Oren e pensare che questo bel ragazzo non può più vedere le onde del mare o il viso di sua mamma. Anche se lui cerca di convincere chi gli sta vicino che non è poi così terribile. "Ormai mi sono abituato all'idea di essere cieco," afferma. "Ho un cane Labrador che si chiama 'Patach'. E' un normale cane da compagnia, non un cane per non vedenti. Ho poi un orologio speciale, che però non  metto. Lo uso soprattutto di notte. Dal momento che non posso distinguere tra il giorno e la notte, mi posso alzare alle due di notte e pensare che sono le otto di mattina. Così lo tengo sotto il cuscino."

"Cosa sogni di notte"?
"In realtà sogno molto. In rapporto alla gente che è cieca dalla nascita, io so che cosa ho sognato. Se chiedi a un bambino cieco dalla nascita di che colore è il cielo ti risponderà azzurro, senza sapere in verità che cos'è. I bambini ciechi dalla nascita ti diranno anche qual è il loro colore preferito. Se a qualcuno piace il mare e sa che il mare è blu, tenderà a proiettare i suoi sentimenti e ti dirà che ama il blu. Per me non è così. Quando dico che mi piace il blu, so a che cosa mi riferisco."

"Com'è vivere nel buio?"
 "La verità è che alle volte detesto il buio, però ci sono cose che è meglio non vedere. Ad esempio, il "vedere" l'ospedale mi fa sentire ancora piùtriste."

"Ci sono cose che hai nostalgia di vedere"?
"Il vedere in sé mi manca. Punto e basta. Non importa come, ma vorrei tanto poter ancora vedere, anche per un solo istante."

"Immagino il colore dell'acqua"
Prima della sua menomazione, Oren era un ottimo atleta, ed era stato anche il più giovane israeliano ad essere insignito della cintura nera di karate. Dopo l'attentato, Oren aveva preferito smettere la sua attività agonistica. Ma questo fino a qualche mese fa, quando ha ricevuto una telefonata da Avi Mizrachi, che dirige la regione nord dell'associazione "Etgarim". "Mi aveva chiamato per dirmi che in quel fine settimana ci sarebbe stata una gara velica a Haifa. Siccome in passato avevo praticato questo sport, sapevo di che cosa si trattava. Naturalmente, se si pensa a due non vedenti che se ne stanno solitari su una barca a vela, ci si potrebbe chiedere come possano farcela. All'inizio, infatti, la cosa è abbastanza stressante. Tuttavia, mi sono abituato all'idea che devo cavarmela con le mie sole forze, senza l'aiuto degli altri. Questo è molto importante per me."

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Oggi, navigare è diventato vitale per Oren. Due settimane fa è tornato da un campo estivo organizzato da "Etgarim" sulle rive del lago di Tiberiade. "Passavo quasi tutta la giornata, dalle otto di mattina alle quattro di pomeriggio, a fare differenti attività sportive d'acqua, come la bici d'acqua e la barca a banana. Il mare mi dà una sensazione di massima libertà. In qualsiasi direzione ti muovi, senti l'acqua intorno e la serenità. Sei alquanto solo – tu e la tua barca."

"A che cosa pensi quando navighi"?
"Quando mi alleno, quando cioè non sono veramente in alto mare, sento l'acqua e ne immagino il colore. Se sbaglio direzione, penso a mio nonno. Come nell'allenamento di oggi. Mi sono fermato, ho aspettato con pazienza qualche secondo che mi passasse la tensione e ho pensato a ciò che avrebbe fatto mio nonno."
Il sogno di Oren è vincere la medaglia d'oro ai Giochi Olimpici per la classe non-vedenti. Le sue possibilità sono buone, anche per il fatto che ci sono solo cinque rivali in Israele. Un mese fa, Oren ha partecipato alla sua prima gara internazionale nel primo campionato mondiale di vela per non vedenti, tenutosi in Italia. E' ritornato con molta esperienza e grandi ambizioni. Sabato prossimo, infatti, alla Marina di Tel Aviv, con la sua barca Martin 16, sfiderà Eitam Shmueli, soldato di 21 anni, anch'egli non vedente. Il vincitore se la vedrà poi con il vincente della seconda gara. Ogni barca ha due posti – uno per il navigatore non vedente e l'altro per un giudice di gara vedente. La gara comporta la regata velica e un giro di boa.
Questa gara contrassegnerà il varo della Scuola per navigatori non vedenti "Etgarim", dedicata alla memoria di Amir Russo, un navigatore nato cieco e morto tre anni fa in un incidente di navigazione in Grecia. L'associazione "Etgarim" (= Sfide) è stata fondata dieci anni fa da Yoel Sharon, un invalido della Guerra del Kippur. "Lo sport di sfida è uno straordinario strumento di riabilitazione", afferma Sharon. "Cerchiamo di fare in modo che Oren raggiunga l'impossibile per dimostrargli che ogni cosa è possibile." Quando vogliamo descrivere l'epitome dell'impotenza umana, siamo soliti usare l'espressione "come un cieco in alto mare". D'altra parte, non c'è nulla come il mare per sfruttare al massimo i cinque sensi e raggiungere lo scopo.
Oren è molto ottimista sulle sue chances nella prossima gara. "Il terzo posto è assicurato, ma penso anche al secondo," dice, e subito aggiunge che le Olimpiadi di Pechino lo aspettano, anche perché allora avrà già 16 anni (l'età minima per poter partecipare). "Vedi," aggiunge, "qualcosa di buono è venuto fuori dalla mia menomazione. In una regata velica normale ci sono almeno 120 concorrenti nella mia categoria mentre adesso ho pochissimi rivali e potrei essere anche il migliore".

"Secondo quanto dicono a "Etgarim" sei molto bravo e competitivo".
"Non cerco la competizione nella vita. Sono felice quando mi viene offerta una sfida o una gara, ma non trasformo ogni cosa in una competizione. Non mi interessa essere il migliore in ogni sfida."

"A chi ti ispiri nella vita"?
"A Dror Cohen (nota del traduttore: il pilota e velista paraplegico di "Etgarim" che ha vinto la medaglia d'oro alle Paraolimpiadi di Atene). Ha una medaglia d'oro, ha vinto due campionati mondiali e ha preso parte a innumerevoli gare."

"Vorresti arruolarti nell'esercito?"
"Certamente. Non potrò diventare un combattente ma mi piacerebbe fare qualcosa di interessante."

"Vuoi studiare all'università?"
"Sì, ma prima vorrei fare un viaggio intorno all'Australia. Questo è il mio sogno, viaggiare intorno al mondo con uno yacht."

I sopravvissuti della famiglia Almog vivono ancora nella stessa casa di Haifa. Appena tornato a casa, dopo aver passato nove mesi in ospedale, Oren ha chiesto di trasferirsi nella stanza del suo fratello più giovane Tomer, caduto nell'attacco terroristico. Adi, la sua sorellina, è rimasta nella sua stanza al piano di sopra. Oren dice che lui e sua sorella non parlano della tragedia. "Lei è piccola e non capisce molte cose," spiega.

"Quando ti parlo della tua famiglia ti vengono le lacrime agli occhi".
Forse ho le lacrime agli occhi, ma non piango più perché non c'è più niente su cui piangere. C'erano momenti in cui mi chiedevo perché mi fosse successo tutto questo, ma poi mi sono reso conto di non avere il controllo sulle cose e non si può portare indietro l'orologio."

"Qual è la cosa più difficile nella tua vita senza tuo fratello Tomer?”
"Tutto. Il Sony Play Station è meno impegnativo di una volta. Mi mancano le nostre chiacchierate. Quando torno a casa con delle buone notizie per un esame a scuola o per un buon allenamento in barca, devo raccontarlo a qualcuno. Così lo racconto a mamma ed è tutto. Non c'è più nessuno a casa con cui parlare. Adi non si interessa alle mie cose di scuola perché solo adesso ha cominciato a frequentare la prima elementare."

Oren racconta che dopo l'accaduto "sento di avere più responsabilità a casa." Se gli si chiede se la cosa gli fa piacere, risponde, "Sì, certo, ma avrei preferito che ci fosse qui il mio babbo, anche se per me è molto importante non deluderlo."

"Odii Succoth, la festa in cui avvenne l'attentato?”
"No, prima di allora non avevamo mai fatto la capanna. Trovo che il Pesach di questo anno sia stato particolarmente duro, perché a Pesach la famiglia si riuniva al completo e abbiamo sentito molto la mancanza di quelli che non ci sono più. Questo è stato il secondo Pesach senza di loro, il primo l'avevo trascorso in ospedale per cui  l'avevo sentito di meno.”

“Che cosa è più difficile per te – l'essere menomato della vista o la mancanza della famiglia?”
"La famiglia, di gran lunga. La cecità non è poi un problema così terribile per me. Non mi crea un problema non vedere, ormai me ne sono fatto una ragione. Ma sono le festività che si trascorrono in famiglia che rappresentano il periodo più difficile per noi, perché non esiste più l'esperienza di stare tutti riuniti insieme. Cinque persone morte in una sola famiglia sono una perdita immensa."

(Yediot Ha'haronot - da Keren Hayesod, 10 ottobre 2005)





5. «HO ANNUNCIATO LA PAROLA DI DIO A YASSER ARAFAT»




Come è possibile ottenere la vera pace nel Vicino Oriente?

Il 19 giugno scorso ha avuto luogo a Basilea un incontro di solidarietà con Israele, organizzato dal mensile evangelico “Chiamata di Mezzanotte” (in tedesco “Mitternachtsruf”). I due principali oratori erano il palestinese Taysir Abu Saada, ex tiratore scelto dell'OLP che oggi è un cristiano dichiarato e un amico d'Israele, e l’israeliano Moran Rosenblit, che un tempo era conosciuto per le sue dichiarazioni decisamente ostili agli arabi e anche lui oggi è un cristiano convinto e un amico dei palestinesi e degli arabi. Riportiamo l’intervista che in quell’occasione Norbert Lieth ha fatto ai due oratori per il mensile evangelico.

Chiamata di Mezzanotte: Per favore, parlateci un po' di voi.
Taysir Abu Saada: Mia moglie Karen, adesso mi accompagna. Abbiamo due figli: un maschio ed una femmina. Tutta la famiglia serve il Signore.
Moran Rosenblit: Io sono accompagnato da mia moglie Melissa. Il nostro primo figlio sta per nascere.

Potete dirci qualche cosa del vostro ambiente familiare prima della vostra conversione?
T.A.
Sono cresciuto come musulmano. Sono dunque andato più volte alla Mecca. Mio padre e mia madre, così come gli altri componenti della mia famiglia sono ancora oggi musulmani, ed hanno bisogno della nostra intensa intercessione. Sono riconoscente a Dio per aver trasformato la mia vita.
M.R. Sono nato in Israele come Ebreo. La mia famiglia è ebrea. Dato che i miei genitori sono degli Ebrei secolari non sono stato allevato nella fede. Oggi mi considero come un discepolo ebreo di Gesù piuttosto che come un cristiano nel senso proprio della parola.

Signor Abu Saada, lei ha conosciuto personalmente l'anziano capo dell'OLP, Arafat? Se sì, quali sono state le sue reazioni con lui?
T.A.
E' quando sono entrato nel movimento di Fatah, fondato da Yasser Arafat, che ho imparato a conoscerlo. Lui visitava tutte le basi operative e trascorreva un discreto tempo con noi.

Taysir Abu Saada
Quale immagine aveva del giudaiamo, ossia dei sionisti?
T.A.
Non solamente come musulmano, ma anche come profugo, come palestinese, vedevo negli Ebrei delle persone che hanno sottratto a noi il paese. E chi cresce nel mondo arabo, fin dalla sua più giovane età è indotto ad odiare gli Ebrei. E' per noi la cosa più naturale al mondo. Noi pensiamo anche al fatto che siamo dei profughi perché ci è ripetuto senza tregua che gli Ebrei ci hanno preso il paese.

Signor Abu Saada, lei ha affermato di aver servito Al-Fatah. Che cosa l'ha condotto a questo? Il Corano ha avuto un peso in questo?
T.A.
Il Corano non ha avuto nessuna influenza sulle mie decisioni. Mi sono unito Al-Fatah soprattutto nel desiderio di recuperare i territori che ci hanno sottratto gli Ebrei. C'è un proverbio presso i palestinesi che dice: «Un uomo senza terra è un uomo senza onore. E per un uomo senza onore, è meglio essere morto».

Signor Rosenblit, lei ha combattuto nell'esercito israeliano contro il popolo palestinese o contro dei terroristi. Quale immagine ha avuto degli Arabi?
M.R.
A causa della perdita di amici e dei nostri scontri con i palestinesi
Moran Rosenblit
lanciatori di pietre ed i terroristi assassini, io non ho mai amato gli Arabi; il mio più grande desiderio era ucciderli tutti.

Il vostro motto, di tutti e due, era: Soltanto un Israeliano morto è un buon Israeliano, per l'uno; e per l'altro: Soltanto un Arabo morto è un buon Arabo. Qual è oggi il vostro motto?
T.A.
Gesù è la risposta per il mondo di oggi.
M.R. Io non posso che condividere in pieno questo parere.

Abbiamo notato nelle vostre conferenze, che voi oggi provate un autentico amore l'uno verso l'altro. Come siete giunti a questo fondamentale cambiamento nelle vostre relazioni, da nemici che eravate, adesso siete amici!
T.A.
Per me, questa è stata un'opera di rivelazione da parte di Dio. Quando ho accettato Gesù Cristo nel mio cuore, sono stato purificato da ogni male, ivi compreso il mio odio per gli Ebrei. Se ricordo bene, avevo quella stessa settimana, un incontro con un proprietario ebreo. Quando, prima della mia conversione, io parlavo di affari con degli Ebrei, cercavo di «dominarli prima del pranzo», prima che essi «avessero il sopravvento su di me durante la cena». Ma, all'epoca della conversazione con questo proprietario ebreo, una totale serenità albergava in me. Inoltre, egli acconsentì a tutto ciò che gli chiedevo. Era alquanto strano: il mio precedente odio per quest'uomo si era come volatilizzato, la mia ragione diceva al mio cuore: «Svegliati! Dov'è dunque l'odio che tu nutrivi sempre nei confronti degli Ebrei?» Ed il mio cuore rispondeva: «Io sono purificato dall'Ebreo che adesso adoro: Gesù Cristo».
M.R. Per me, questo cambiamento si è concretamente avviato quando ho incontrato Taysir. Era la prima volta nella mia vita di credente che qualcuno del clan arabo veniva verso di me per domandare perdono per i miei amici uccisi. Questo fu anche per me la prima volta che mi scusavo per il mio atteggiamento ostile. A partire da questo momento Gesù mi ha trasformato un po' per volta. Alcuni anni dopo, mentre eravamo negli USA, mi sono recato con Taysir in un ristorante che apparteneva ad un palestinese. C'era là una bandiera palestinese. Il sorriso si irrigidì sul mio viso e, tutto a un tratto, diventai serio e silenzioso. Alla nostra uscita dal ristorante, Taysir mi domandò perché ero diventato improvvisamente così cupo. La mia risposta fu: «Non hai visto la bandiera?» Egli ritornò al ristorante, gettò uno sguardo sulla bandiera e si mise a ridere. Quella stessa sera, tardi, ci siamo di nuovo recati al ristorante. Il proprietario venne a sedersi alla nostra tavola. Taysir gli parlò in arabo. Io non compresi nulla, ma afferrai il linguaggio, parlavano di Dio. L'insistente voce dello Spirito Santo si faceva chiaramente sentire in me: «Che cosa è più importante per te: la bandiera o l'uomo seduto vicino a te?» A questo punto, mi sono pentito davanti a Dio. Ed oggi, ogni essere umano è per me infinitamente prezioso; non mi fermo più ai dettagli.

Voi avete oggi tutti e due un incarico: per ognuno, mettere il suo popolo in contatto col vangelo di Gesù Cristo, gli Arabi e gli Ebrei. Come vi proponete di realizzare questo?
M.R.
Mettendo in contatto col Vangelo gli Israeliani ed i Palestinesi, noi rechiamo loro il messaggio della riconciliazione.

Avete degli scopi concreti?
T.A.
Sì, personalmente vorrei vivere nuovamente con la mia famiglia nella striscia di Gaza. E - se Dio lo vuole - ciò si farà alla fine del prossimo anno. Mi piacerebbe abitare là per diffondere il messaggio dell'amore di Dio fra le persone. Nel frattempo, cerco di manifestare l'amore che ho conosciuto agli Arabi e rendere testimonianza presso di essi della mia personale salvezza. Per mettere dei musulmani o degli Ebrei in contatto con questo prezioso messaggio che libera, è molto importante stabilire delle relazioni individuali.
M.R. Mia moglie ed io ritorneremo in Israele. Vogliamo procedere nel modo che ci riferì un certo signore che crede ora in Gesù Cristo. Ci disse che la migliore interpretazione della Bibbia era stata sua madre, e questo perché essa viveva praticamente la Parola di Dio. E' precisamente questo che vogliamo pertanto fare: mostrare nel nostro vivere quotidiano quello che è il messaggio biblico, riflettere la luce di Dio. Noi crediamo - e ne abbiamo la convinzione - che Dio vuole così creare delle nuove persone desiderose di fidarsi di Lui. Il nostro compito sarà quello di accompagnarle in un processo di formazione insegnando loro come vivere da cristiani per, a loro volta, conquistare altre anime a Gesù.

Voi viaggiate attualmente in due attraverso l'Europa con l'impegno di dare innumerevoli conferenze. Qual è il tema dei vostro messaggio per i popoli, per esempio per quelli dell'Occidente?
T.A.
L'Europa ha sempre avuto gli sguardi del mondo intero puntati su di lei; essa era quasi il centro del mondo. Il messaggio che vorrei recare agli Europei e in particolar modo alle Assemblee ed alle Chiese d'Europa è: «Svegliatevi ed alzatevi!» L'esempio meno glorioso di quello che accade quando, come cristiani, noi dormiamo, non vegliamo e non preghiamo, è Londra. L'Islam ha preso possesso di questa città. Noi eravamo là, recentemente. E sono rimasto molto stupito di vedere quanto l'Islam si propaga. Dio ha fatto in modo che numerosi musulmani siano venuti e vengano in Europa: I veri cristiani in Europa dovrebbero considerare questo non come una maledizione, bensì come una benedizione. Perché se, per il loro attaccamento a Dio e per l'annuncio del Vangelo, aiutano i musulmani a convertirsi, ciò sarà un grande motivo di speranza tanto per l'Europa che per il Vicino Oriente ed il resto del mondo. C'è una cosa che non vorrei omettere: colui che, fra i cristiani, ama apertamente Israele, non dovrebbe, in compenso, odiare i Palestinesi. E colui che ama gli Arabi non deve in nessun modo detestare gli Israeliani. Poiché colui che ha ottenuto in Gesù Cristo il perdono dei suoi peccati deve provare come una necessità pressante amare tanto gli Israeliani che i Palestinesi e gli Arabi.

Signor Resenblit, come è possibile la pace tra Palestinesi e Israeliani? I politici hanno fatto molti tentativi in questo senso, finora invano.
M.R.
La mia risposta si trova in Marco 1:15: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; Ravvedetevi e credete al Vangelo». Io non credo né alla politica né ai politici. No, le persone - Palestinesi come Israeliani - hanno bisogno di Gesù: è là l'unica liberazione e l'unica salvezza per essi.

Signor Abu. Saada, è esatta a notizia che lei abbia fatto visita ad Arafat poco prima della sua morte?
T.A. Sì, è esatta.

Lei ha potuto dire qualche cosa del Vangelo ad Arafat? E' rimasto sorpreso del suo cambiamento? O l'ha soltanto riconosciuto?
T.A.
Da come si è espresso di fronte a me, non potrei dire che fosse stupito del mio cambiamento; deve esserne stato informato prima. Mi ha salutato al mio ingresso nella sua camera. Si è naturalmente ricordato di me, poiché io ero uno di quelli che gli avevano dato del filo da torcere. All'epoca del nostro colloquio, affermò che anche lui avrebbe desiderato aiutare la Chiesa, ossia l'Assemblea, e garantirle la sua protezione. Questo ha spianato la via per parlargli della grandezza di Dio e per dirgli come ero arrivato a non più considerare gli Israeliani dei nemici: cioè che un cambiamento decisivo si era operato nel mio cuore. Lui mi ha ascoltato anche quando gli ho annunciato la Parola di Dio - dalla Genesi all'Apocalisse. Dio ha preparato il cammino per questo. A dire il vero, io non dovevo trascorrere più di dieci, quindici minuti al massimo in presenza di Arafat, ma infine sono trascorse più di due ore! Tutta la gloria spetta a Dio!

Credete che la profezia biblica si avveri oggi, realizzazione che si può osservare in particolar modo nel Vicino Oriente, e pensate che Gesù presto ritornerà?
M.R.
Ogni giorno ci avvicina a Gesù. Io sono convinto che la profezia biblica si avveri sempre di più. Questo ci indica che il Signore verrà presto. Come credenti, noi dobbiamo vegliare, poiché il tempo si abbrevia.
T.A. Per esperienza personale, sono completamente d'accordo con il mio fratello in fede. Un esempio: quando nel mese di maggio dello scorso anno, già credente, mi trovavo in una camera al Cairo dove ascoltavo le notizie in televisione e vidi quello che avveniva a Rafiach, esclamai, disgustato: «Eterno, perché tolleri tutto ciò?». Mi guidò allora a questo passaggio di Isaia: 19:18-25. Dopo aver letto, la situazione mi fu più chiara. Fu in particolar modo Isaia 19:23 che mi colpì: «In quel giorno, ci sarà una strada dall'Egitto in Assiria... ». Dovetti immancabilmente pensare ai trattati di pace tra Israele e l'Egitto. In Egitto, si è già intrapresa la costruzione della «strada progettata» ma dati gli avvenimenti verificatisi nella striscia di Gaza, i lavori sono stati interrotti. Dal lato Est: la Giordania e Israele hanno dei trattati di pace; è per questa ragione che la costruzione dell'autostrada prosegue in quella zona. Sappiamo che l'Assiria è l'attuale Iraq. Gli alleati hanno liberato il popolo iracheno dalla presenza del sanguinario dittatore Saddam Hussein. Secondo me, non ci vorrà più moltissimo tempo perché Israele firmi un trattato di pace con l'Iraq. Ciò che è scritto si realizzerà: «In quel giorno, ci sarà una strada dall'Egitto in Assiria ; gli Assiri andranno in Egitto, gli Egiziani in Assirla ; gli Egiziani serviranno il Signore con gli Assiri. In quel giorno, Israele sarà terzo con l'Egitto e con l'Assiria, e tutti e tre saranno una benedizione in mezzo alla terra» (Isaia 19:23-24). Perché questo? Perché Dio lo vuole e lo farà: Il Signore degli eserciti li benedirà, dicendo: «Benedettí siano l'Egítto, mio popolo, l'Assítia, opera delle mie mani, e Israele, mia eredità!) (v.25).
La costruzione di questa «strada» si realizza oggi sotto i nostri occhi.

Avete una parola di conclusione per i nostri lettori ?
T.A. Vorrei in particolar modo incoraggiare i lettori e le lettrici credenti a prendere molto sul serio la Parola di Dio, leggerla e applicarla nella loro vita. Non appoggiatevi sulle dicerie senza fondamento degli altri ma tenete piuttosto conto di quello che è scritto in Proverbi 3:5-6: «Confida nel Signore con tutto il cuore e non ti appoggiare sul tuo discernimento. Riconoscilo in tutte le tue vie ed egli appianerà i tuoi sentieri».
M.R. La mia conclusione si trova in Romani 14:12: «Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio». Come credenti, noi dovremo, ciascuno per se stesso, rendere conto davanti a Dio di ciò che abbiamo fatto o non fatto. E' arrivato il momento di consacrarci completamente a Dio, viviamo realmente il Vangelo affinché il mondo, attraverso il nostro amore, conosca e creda a questo Vangelo.

Signor Abu Saada, Signor Rosenblit, vi ringraziamo molto per averci concesso questa intervista.

(Chiamata di Mezzanotte, settembre 2005)





7. MUSICA E IMMAGINI




Moshiahk




8. INDIRIZZI INTERNET




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Storia di Israele




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