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Notizie su Israele 319 - 3 novembre 2005

1. Tra gli espulsi di Gadid
2. L'orrore di Ramallah, cinque anni dopo
3. Un saggio sui firmatari del «Manifesto della razza»
4. Risolubile o irresolubile?
5. Il Rav Kadouri: «Ho incontrato il Messia»
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Amos 9:14-15. Io libererò dall’esilio il mio popolo, Israele; essi ricostruiranno le città desolate e le abiteranno; pianteranno vigne e ne berranno il vino; coltiveranno giardini e ne mangeranno i frutti. Io li pianterò nella loro terra e non saranno mai più sradicati dalla terra che io ho dato loro», dice il Signore, il tuo Dio.
1. TRA GLI ESPULSI DI GADID




Un’ultima... assistenza per gli espulsi di Gadid

di Gil Revel

Gil Revel e' un uomo d'azione che si e' offerto volontario nell'aiutare le famiglie espulse da Gadid a ritrovare una sembianza di normalita' nella loro vita quotidiana. Qui ha accettato di descrivere per i lettori i primi passi di queste famiglie a Neve Ilan.

Le famiglie israeliane di Gadid, Gush Katif, dopo la loro partenza forzata dalle loro case sono alloggiate provvisoriamente nelle camere dell'hotel di Neve Ilan a sud di Gerusalemme. La direzione dell'hotel l'informa subito con la maggior gentilezza possibile che lo Stato paga loro soltanto le stanze. Non hanno neanche l'autorizzazione a cucinare in tali stanze. Il posto piu' vicino dove procurarsi mangiare casher si trova a Mevasseret-Zion, distante circa 5 Km.
    Dopo varie trattative con i rappresentanti governativi essi ottengono anche che lo Stato paghi 2 pasti al giorno. Questo gruppo di profughi e' costituito per lo piu' da giovani, ci sono 80 bambini ed una decina di neonati tra un mese ed un anno di eta'. La maggior parte di loro ha perso quasi tutto con la distruzione delle loro case e ben pochi containers sono arrivati alle nuove destinazioni provvisorie. La cosa difficile pero', per persone cosi' attive, e' non aver niente da fare. Quando siamo andati a trovarli, una decina di volontari da Gerusalemme e da Mevasseret-Zion, decidemmo che ciascuno di noi si prendesse a carico una famiglia andando a salutarla prima di recarsi al lavoro e stando con loro qualche ora quando tornano. Questi poveretti ci sono estremamente riconoscenti e ci ringraziano dicendoci: "Vedendo i media pensavamo che il paese intero non ci potesse vedere, tanta solidarieta' ci commuove e mitiga il nostro dolore e ci conforta moltissimo".
Non e' rimasto loro quasi niente, mancano anche dei beni piu' necessari come, ad esempio, il vestiario. Dei volontari in poche ore raccolgono cosi' tanti vestiti che il gruppo decide di darne parte agli espulsi sistemati in altri hotel.
    Cosa si puo' dar da fare a queste persone cosi' laboriose diventate in modo improvviso e contro la loro volonta' dei "parassiti"? Dei volontari forniscono loro libri in ebraico, inglese e francese. Per i bimbi arrivano giochi e dolciumi.
    Per i giovani si mobilita il Bnei Brith francofono di Gerusalemme, la loggia Robert Gamzon e particolarmente il suo presidente. La direzione dell'hotel mette molto gentilmente a disposizione un deposito maleodorante, inestetico e senza condizionatore, dove si crepa dal caldo. Viene riempito alla rinfusa con le molte offerte arrivate. Ma questi giovani ne han sopportate di molto peggio e la gioia regna in poco tempo nell'ex deposito.
    Riaprono le scuole. Per i piu' piccoli le lezioni si tengono nell'hall dell'hotel sotto gli sguardi attenti delle madri e... dei turisti, perche' Neve Ilan Holiday Inn continua a funzionare anche per i turisti. Gli studenti piu' grandi sono sparpagliati nelle scuole che li hanno accolti a Gerusalemme, un autobus li porta a destinazione, alcuni fanno anche 50 Km. per arrivare a scuola.
    Gli evacuati, secondo la maggior parte dei media, beneficiano di vacanze prolungate a spese dello Stato e fanno una vita da Rotschild.
    Che cos'hanno realmente all'orizzonte? Ci vorranno per lo meno due anni prima che le loro nuove case nel sud del paese siano pronte. Han promesso loro che tra circa sei settimane potranno abitare nei caravanes, le famose "caranville' di cui ciascuno puo' ben immaginare il conforto...
    Ma gia' tutti gli espulsi sono gia' stati informati con una lettera personale (quale efficacia!) che debbono lasciare l'hotel e chi resta le spese di soggiorno saranno dedotte dalle sue' gia' misere indennita' future. Quindi per gli evacuati tutto va veramente per il meglio, lo Stato fa fare loro proprio una vita da Rotschild !?

(ISRAEL-L'ENJEU N.3, edizione del 30/9/2005. Liberamente tratto e tradotto dal francese da Eleazar Ben Yair)





2. L'ORRORE DI RAMALLAH, CINQUE ANNI DOPO




La vita dopo il linciaggio

Le loro vite si sono incrociate per un solo momento, quando i loro mariti, Vadim e Yossi, furono uccisi nel corso di un linciaggio che riempì di orrore tutto il paese. Chani Avrahami racconta del motivo per cui ha permesso ai suoi figli di vedere le immagini dell'assassinio. Irena Norzhich racconta di ciò che si dice ad un bambino di quattro anni che non ha mai incontrato suo padre. Entrambe parlano dei sogni che ritornano.

di Gil Meltzer

Ha una voce bassa, tranquilla e gli occhi non rivelano nulla, ma straccia, pezzo per pezzo il tovagliolino di carta che tiene in mano. Solo quando comincia a descrivere la sequenza degli avvenimenti di quel terribile 12 ottobre 2000, la facciata di autocontrollo di Chani va in briciole. In quasi totale contraddizione, Irane Norzhich lascia che le lacrime le inondino il viso e ride, a volte nel medesimo istante. Soppesa con cura le parole, ma i suoi occhi rivelano tutto – amore, dolore e nostalgia.
    Cinque anni sono passati dacché il mondo di queste due donne, così diverse fra loro, è crollato. Cinque anni sono passati dacché il caporale Vadim Norzhich ed il sergente maggiore Yossi Avrahami imboccarono la strada sbagliata e si ritrovarono nel centro di Ramallah, dove furono assassinati nel corso di un linciaggio che riempì di orrore tutto il paese. Sono passati cinque anni da quando gli israeliani, con gli occhi incollati allo schermo, attanagliati dal terrore, furono spettatori di uno degli avvenimenti più orripilanti mai accaduti in questo paese. Un'équipe televisiva italiana riprese una plebaglia impazzita di centinaia di palestinesi, mentre assediava la stazione di Polizia di Ramallah, dove altre decine, in un parossismo di violenza, uccidevano i due riservisti israeliani, profanandone i corpi.
    Chani era sposata da 14 anni ed aveva tre figli. Irena era una nuova immigrata dal Kazakhstan, che si era sposata solo una settimana prima ed era incinta di tre mesi. Non si erano mai incontrate prima ed anche ora preferiscono che le cose rimangano così, ciascuna da sola con il proprio dolore.
    Chani Avrahami non è mai stata intervistata fino ad oggi, ferma nella sua decisione di non esporre la propria pena al pubblico israeliano: "E' una questione privata e famigliare, fra me ed i miei figli", afferma. Ora, dopo cinque anni, ha accettato di parlare dei suoi pensieri e delle sue sensazioni.

Amore a prima vista

Ognuno di noi ha i suoi momenti indimenticabili. Fino all'ottobre 2000, Chani aveva avuto quattro di questi momenti: quello in cui aveva incontrato suo marito Yossi, poi il giorno del loro matrimonio, la nascita della figlia e la Milà (circoncisione) dei due gemelli.
    Ricorda l'inverno del 1986 come se fosse ieri. Aveva 17 anni e si trovava a Londra in vacanza. Stava tentando di aprire il portone d'ingresso dell'albergo in Russel Square, mentre teneva in mano i diversi pacchetti degli acquisti. Rammenta che aveva il cappotto fradicio dall'interminabile pioggia inglese. All'improvviso la porta si aprì e vide di fronte a lei un giovane con "un lungo cappotto di lana e la cravatta", che le sorrise e si offrì, in ebraico, di portarle i pacchetti, proprio come un vero gentiluomo.
    Yossi, che allora aveva 24 anni, era in viaggio con un amico. Chani era con sua madre. Il loro primo appuntamento fu nelle strade di Londra, l'ultimo dell'anno. "E' stato l'Anno Nuovo della mia vita", dice. Una settimana più tardi era di ritorno a casa dei genitori, a Petach Tikva. "Era vestito nel modo meno israeliano possibile. Aveva i pantaloni e la camicia stirati, portava la cravatta ed un cappotto lungo. Mia madre rimase molto impressionata".
    Tre anni più tardi, Chani interruppe il servizio militare e divenne la Signora Avrahami. Shanì nacque un anno dopo ed i gemelli videro la luce dopo altri quattro anni. Comperarono un piccolo appartamento vicino ai genitori di Chani, Yossi dirigeva una merceria, mentre Chani si laureava in letteratura inglese e pedagogia. La famiglia Avrahami guardava al futuro con ottimismo.
    Anche Irena Norzhich è stata in grado di ricordare minuto per minuto gli avvenimenti della giornata in cui incontrò l'uomo che doveva diventare suo marito ed il padre di suo figlio. A differenza di Avi e Chani, Irena e Vadim non si incontrarono in un albergo di lusso in una capitale europea. Il loro incontro avvenne tra gli scaffali di un negozio della catena Greenberg (ora chiusa) ad Or Akiva, dove Vadim lavorava. "Ho provato qualcosa nel momento in cui l'ho visto – rammenta – Non so nemmeno spiegare che cosa fosse", Vadim era timido, così la giovane maestra d'asilo prese l'iniziativa e registrò il proprio numero di telefono nel cellulare di lui.
    Irena era immigrata in Israele dal Kazakhstan nel 1995, dopo avere visitato il paese l'anno prima: "Vidi che i fiori qui crescono anche d'inverno e che si poteva andare al mare tutto l'anno. Sapevo che questo era il posto per me", dice ridendo.
    Ci mise quattro anni ad accettare la proposta di matrimonio di Vadim. "L'ho amato dal primo momento, ma era un tipo molto chiuso. Sentivo di non volere prendere alcuna decisione affrettata, finché non lo avessi conosciuto molto bene", afferma. Si sposarono all'inizio di ottobre, con una modesta cerimonia a Natania, presenti un piccolo gruppo di famigliari ed amici intimi, provenienti soprattutto dal Kazakhstan. Mentre si trovava sotto la Huppà, Irena annunciò di essere incinta di tre mesi.
    Sapevano che Vadim era stato richiamato in servizio di riserva per la settimana successiva e decisero di rinviare il viaggio di nozze, nonché l'acquisto del nuovo letto matrimoniale, fino al suo ritorno.
    Prima di parlare dell'assassinio del marito, Chani chiede di sospendere l'intervista, per potere rimanere da sola alcuni minuti e trattenere le lacrime. "Yossi mi disse che sarebbe andato a fare il servizio di riserva a Gerusalemme – rammenta – Non sapevo che era stato destinato a Beth El. Se avessi saputo che gli era stato chiesto di andare nei territori, avrei fatto di tutto per impedirgli di partire. Avevamo tre figli, accidenti!"

"Ho ucciso Yossi"

Quella mattina, il 12 ottobre 2000, Chani con i tre figli accompagnarono in macchina Yossi all’incrocio di Sirkin. Yossi aveva detto che un suo commilitone gli avrebbe dato un passaggio da lì. Chani udì per la prima volta il nome di Vadim Norzhich solo in un notiziario che riferiva dell'assassinio. "Yossi prese il borsone dal bagagliaio e controllò di avere con sé la pistola. Gli diedi un bacio e fissammo di parlarci durante la giornata. Lasciai Shanì a scuola, Idan e Roì all'asilo e andai al lavoro. Non c'era alcun indizio che stesse per succedere qualcosa".
    Come d'accordo, Vadim passò a prendere Yossi all'incrocio. Aveva cominciato il suo servizio di riserva due giorni prima, ma aveva avuto una licenza per vedere l'ecografia di suo figlio. Non seppe mai che era un maschio.
    Chani udì per la prima volta degli avvenimenti di Ramallah mentre era al lavoro. "Ero nel mio ufficio, quando all'improvviso entrò qualcuno che mi disse di aprire il sito internet di YNET, che riferiva quanto stava succedendo a Ramallah. Non c'erano ancora nomi e nemmeno i particolari esatti di quello che era accaduto, ma le gambe cominiciarono a tremarmi, all'improvviso. Non riuscivo a capire che cosa mi stesse succedendo. Non pensai nemmeno per un istante che Yossi potesse essere coinvolto, ma il mio corpo non smetteva di tremare".
    Dopo pochi minuti, chiamò sua madre, chiedendole di tentare di telefonare a Yossi. "Mia madre non mi chiamava mai al lavoro. Noi non facciamo queste cose, ci parliamo solo da casa. Da quella chiamata, ho cominciato a capire che stava succedendo qualcosa di terribile".
    Chani chiamò Yossi al suo portatile, ma con sua sorpresa, le rispose una voce sconosciuta di uomo. "Chiesi di parlare con Yossi. Ero sicura che si trattasse di uno dei suoi amici dell'esercito. Quello però non mi rispose. Chiesi di nuovo di parlare con Yossi e l'altro improvvisamente disse: 'Non sono Yossi. L'ho appena ucciso a Ramallah', e la comunicazione cadde".
    Quando racconta che allora aveva pensato si trattasse di un brutto scherzo di un suo commilitone, comincia a piangere: "Pensai si trattasse di una forma di umorismo macabro da esercito. Sappiamo tutti come tendono a comportarsi gli uomini quando sono in servizio di riserva. Così richiamai e questa volta qualcuno rispose in arabo. Fu allora che crollai e non fui più in grado di rialzarmi".
    I delegati del comando militare della città sopraggiunsero dopo poco: "Mi chiesero di entrare in ufficio e quando mi accorsi che sulla scrivania c'era la cassetta del pronto-soccorso, capii subito perché erano lì. Chiesi all'ufficiale se era ferito o morto e la sua risposta fu: morto".
    Anche Irena apprese la morte del marito mentre era al lavoro. Poiché era incinta di tre mesi, un'ambulanza fu mandata all'asilo-nido dove lavorava. Non prese parte al funerale di Vadim. Pensando che non sarebbe stata in grado di sostenere lo stress emotivo, la famiglia la persuase che sarebbe stato meglio per lei e per il bambino se non fosse andata: "Farò di tutto per assicurare che il bambino di Vadim nasca – disse allora – Adesso è la cosa più importante della mia vita".

Papà non ritornerà”

Dal momento in cui è stata colpita dalla tragedia, Chani ha lottato per mantenere l'equilibrio. "E' stata una delle cose che ha consentito a me e ai miei figli di sopravvivere a questo periodo terribile. Se non avessi mantenuto il completo controllo di me stessa, non so che cosa sarebbe successo".

- Come ha comunicato la notizia ai suoi figli? Sua figlia aveva nove anni e i due gemelli ne avevano solo cinque.
Li ho messi seduti tutti e tre e ho detto loro che papà era andato all'esercito e che non sarebbe ritornato perché era morto. Non gli ho detto come era morto, perché in quella fase nemmeno io sapevo che cosa fosse successo. Fin dal primo momento, ho deciso di non nascondere nulla ai bambini e che ci sarebbe stata una trasparenza totale".

- Hanno visto quelle orrende immagini del linciaggio?
Hanno insistito per vedere tutto ed io ho deciso di permetterglielo. So che ci sono molte persone che affermano che ho causato loro un terribile danno emotivo, e che, di conseguenza, devo cominciare a risparmiare per la loro psicoterapia, che durerà tutta la vita, ma sono convinta di avere fatto la cosa giusta. Ho preferito essere io stessa a mostrare e a dire loro tutto. Questo mi ha lasciato almeno un certo controllo della situazione e penso che sia stata la decisione giusta".

- Che cosa le è passato per la testa mentre guardava la televisione?
"Ho provato una nausea terribile. Sembrava una scena presa da un film dell'orrore con un pessimo regista. Un film dello studio del più perverso regista del mondo. Non hanno detto chi dei due sia stato gettato dalla finestra, ma credo di avere visto delle scarpe nere e so che Yossi era uscito di casa con delle scarpe rosse".

Diverse ore prima del funerale, Chani chiese di vedere il marito per l'ultima volta: "Era coperto da un lenzuolo bianco. Solo il viso era visibile. Era rimasto bello come era sempre stato. Aveva la testa coperta di bende. L’ho baciato e gli ho scosso la faccia. Per un momento ho sperato che forse il mio tocco lo avrebbe risvegliato, ma non è successo. E' stato un attimo surreale, come tutto l'avvenimento. Persino adesso, non ho del tutto interiorizzato ciò che è successo. Mi manca terribilmente. Alle volte lo sogno ancora e nei mei sogni persino discutiamo, così la mattina mi sveglio con la voce rauca".
    Il figlio di Vadim è nato sei mesi dopo la sua morte. Irena lo ha chiamato David-Vadim, una combinazione fra un nuovo nome ed il nome di suo padre, che non conoscerà mai. "Volevo un angelo in cielo per proteggerlo", dice.
    Sei mesi fa, proprio questo piccolo ha fatto a sua madre la domanda che lei maggiormente temeva: "Dov'è papà?"  Non sapevo che cosa rispondergli. Così, invece, con suo zio Michale lo abbiamo portato a vedere la tomba di Vadim al cimitero militare di Or Akiva e gli ho detto che suo padre era sepolto là e che gli vuole molto bene".
    Contrariamente a Chani, Irena ha fino ad ora rifiutato di vedere le immagini dell'assassinio di suo marito. Se la sua opinione prevarrà, anche suo figlio non le vedrà mai. "Lo voglio allontanare quanto più possibile da tutto ciò, per proteggerlo".

Sono così arrabbiata”

Con il passare del tempo, il sentimento di rabbia di Chani si è accresciuto insieme al dolore. Rabbia nei confronti dell'esercito, del governo e anche di Yossi. "Durante il primo anno, gli incaricati del comando militare della città sono stati degli angeli, i miei salvatori in assoluto – dice – Non mi hanno lasciata sola neanche un momento. Hanno accompagnato i miei figli a scuola, all'asilo, a tutte le attività all'aperto. Si sono assicurati che non rimanessero soli nemmeno un attimo. Devo a loro la mia vita".
    Una trentina di palestinesi che hanno preso parte al linciaggio sono stati catturati e detenuti dai Servizi di Sicurezza e dall'Esercito nel corso degli ultimi cinque anni. Abed Al-Aziz Zalha, l'uomo con le mani insanguinate della famosa fotografia, è stato recentemente trasferito nel nuovo braccio di massima sicurezza del Penitenziario Ayalon. Un'alta fonte dei Servizi di Sicurezza ha affermato che, sebbene molti di coloro che presero parte nell'assassinio siano ancora a piede libero nell'Autonomia Palestinese "Tutti loro sanno che alla fine Israele farà i conti con ciascuno di loro".
    Quando le si chiede come stia oggi, Irena diventa silenziosa e le lacrime cominciano a scorrere. "E' tutto così difficile – sussurra – Sono immigrata

prosegue ->
in Israele perché pensavo che qui sarei stata felice. Amo ancora molto Israele, il mio paese, ma da quando Vadim è stato assassinato non so più che cosa provare".
    Come Chani, anche Irena afferma di incontrare ancora suo marito ogni notte e di parlare, e persino discutere, con lui. Le piacerebbe poter riportare per iscritto i suoi sogni e queste conversazioni con suo marito, ma quando si sveglia, è sempre con una sensazione di delusione e di perdita. "Aspetto le notti – dice sorridendo fra le lacrime – Non per sfuggire, ma per incontrare il mio Vadim".
    Chani ammette che alcuni dei suoi ricordi cominciano a sfuocarsi. Ricorda con chiarezza se stessa ed i bambini incollati al televisore, circondati da decine di parenti ed amici, a guardare le orrende immagini provenienti da quell'edificio di Ramallah, ma non riesce a ricordare le reazioni dei suoi figli davanti a quelle scene. Ricorda ogni istante della Milà dei gemelli, ma ha difficoltà a ricordare quello che hanno fatto al funerale del padre. "Non sono sola – afferma – Yossi è ancora con noi, ogni giorno, ogni ora, ma la sua immagine impallidisce lentamente. Questa è per me la cosa più difficile".

(Keren Hayesod, 31 ottobre 2005 - adattato dal Yedioth Aharonot)





3. UN SAGGIO SUI FIRMATARI DEL «MANIFESTO DELLA RAZZA»




Gemelli, un antiebreo nel nome del padre

di Giordano Bruno Guerri
    
Il regime fascista doveva approdare necessariamente al nazismo. Non solo per la sua alleanza alla Germania razzista; non solo per rafforzare lo spirito di un popolo che si voleva di origini romane, guerriero e imperiale. Da secoli la Chiesa cattolica diffondeva sulla penisola - soprattutto a opera dei gesuiti, nelle parrocchie e durante le funzioni religiose - chiarissimi messaggi antiebraici contro un popolo «deicida», mestatore e affarista che non si poteva e non si doveva integrare in nessuna comunità. C’è poi da tenere presente (lo si dimentica quasi sempre, per interesse fazioso o per ignoranza) che prima della seconda guerra mondiale e di quanto si scoprì sui campi di sterminio nazisti, in tutto il mondo il razzismo era un atteggiamento culturale diffuso quanto tollerato, accettato, non così pernicioso e disprezzabile com’è oggi.
    Il regime dunque non avrebbe avuto nessun bisogno di giustificare la propria volontà di applicare un razzismo di Stato, ma lo volle fare per dargli anche una credibilità scientifica. Nell’estate del 1938 nacque così, prima delle leggi conseguenti, Il Manifesto della razza, noto anche come Manifesto degli scienziati razzisti. Non erano tutti scienziati, né di primo piano (non nominiamoli neppure), né portarono teorie e dimostrazioni scientifiche alle loro tesi di una «pura» razza italiana e ariana, come alla pretesa di una inferiorità e pericolosità ebraica. Eppure il loro testo, ispirato da Mussolini in persona, bastò a giustificare le leggi successive e carriere che - molto meno comprensibilmente - nella maggior parte dei casi proseguirono anche dopo la guerra e la caduta del regime.
    Ne nacque anche una serie di istituti, istituzioni e collegamenti con il razzismo tedesco che, durante la disgraziata fase della guerra civile del 1943-45, portò a una fattiva collaborazione fascista per lo smistamento in Germania di gran parte dei 58mila ebrei italiani, molti dei quali fascisti fin dalla marcia su Roma.
    Benché sia più un pamphlet che un libro di analisi storiografica, è dunque utile (e documentato) il recentissimo libro di Franco Cuomo “I dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il «Manifesto della razza»” (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 274, euro 14,50). Utile a definire non solo la posizione e la responsabilità dei dieci, ma anche quella di tanti studiosi e personalità dei troppi intellettuali che si compromisero non poco con il razzismo fascista, da Giovanni Papini al giovane Giorgio Bocca, da Amintore Fanfani (ancora soltanto un brillante docente di economia corporativa all’Università Cattolica di Milano) a Agostino Gemelli, fondatore e «padrone» di quell’università. Ma è significativo che le polemiche nate attorno al libro di Cuomo vertano soltanto attorno alla figura di Gemelli, invece che sulla società e sull’intelligenza italiana. Allo stesso modo spesso si fa di papa Pio XII l’unico responsabile del razzismo cattolico, senza badare alla diffusa e non indifferente responsabilità della Chiesa tutta e di tantissimi credenti. Da una parte infatti infierisce con gioia un anticlericalismo di maniera, dall’altra risponde con ancora maggiore furia lo sdegno del tutto ingiustificato di tanti cattolici che difendono a priori il medico, poi francescano, di cui è in corso una difficile causa di canonizzazione che questo libro rende ancora più ardua.
    Che Agostino Gemelli fosse un francescano ben difforme dal fondatore dell’ordine lo si deduce da tutta la sua vita, nonché dai suoi studi e dalle sue posizioni politiche e interne alla Chiesa. È acclarato anche dal comportamento persecutorio che ebbe verso uomini diversamente cristiani, come padre Pio da Pietrelcina (visionario fanatico o no che fosse) e ancora di più dalle trappole e dagli inganni delinquenziali che tese a un sant’uomo (per quanto scomunicato) come don Eugenio Buonaiuti, sacerdote e uno dei dodici non firmatari del giuramento fascista imposto ai docenti universitari nel 1931. Oggi da molte parti dell’intelligenza cattolica si vuole a tutti i costi difendere Gemelli - all’epoca molto stimato dai nazisti - dall’accusa di essere stato razzista e antisemita, ma è opera ridicola, come voler difendere Achille Starace, che nel 1938 in occasione del suicidio dell’editore ebreo Angelo Fortunato Formaggini - a causa delle leggi razziali - commentò: «È morto proprio come un ebreo: si è gettato da una torre per risparmiare un colpo di pistola». Quattordici anni prima, in occasione del suicidio di Felice Momigliano, Gemelli scrisse sulla rivista dell’università, Vita e Pensiero: «Se insieme con il positivismo, il libero pensiero e Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione». Occorre altro? Si vada a leggere il libro di Cuomo.

(Il Giornale, 2 novembre 2005)






4. RISOLUBILE O IRRESOLUBILE?




Come una malattia incurabile
    
da un articolo di Shaul Rosenfeld
    
La visione politica del mondo di moltissime persone si fonda sulla certezza che il conflitto arabo-israeliano possa essere risolto. Non c’è quasi politico, anche in Israele, di destra come di sinistra, che sia disposto a sollevare, anche solo in via ipotetica, la possibilità che questo conflitto non sia affatto risolvibile. Affermazioni come “tutti i problemi hanno una soluzione, ci vuole solo sufficiente volontà” oppure “è impensabile vivere sempre con la spada in pugno” costituiscono un denominatore comune ampiamente condiviso. Coloro che la vedono così antepongono, forse senza accorgersi, i loro desideri all’esame della realtà dei fatti. Non c’è niente di male nel coltivare volontà e desideri, a patto che essi non divengano uno strumento sostitutivo della lettura della realtà. Viceversa, il “libero” andirivieni fra desideri e realtà, e a maggior ragione il forzare la realtà entro i propri desideri, segnala tipicamente una difficoltà nel fare i conti con una realtà problematica, e nell’accettarne le implicazioni. […]
    Tra i suoi tanti mali, il mondo ci fa dono di vari problemi almeno per il momento irrisolvibili in campi come la fisica, la matematica, la filosofia, la biologia. Ciò che vale per la scienza può valere anche per i conflitti politici. Alcuni di essi sono durati secoli, altri sono finiti con la scomparsa di uno o di entrambi i contendenti. Alcune nazioni non hanno lasciato dietro di sé niente di più che una nota a pie’ pagina nei libri di storia. È probabile che gran parte di coloro che erano coinvolti in quei conflitti credessero sinceramente nella possibilità di risolvere il loro problema, fino al momento in cui le loro speranze non sono svanite nel nulla.
    Il conflitto arabo-israeliano è un conflitto del tipo che non può essere risolto? Sembrerebbe proprio di sì. Purtroppo presenta quasi tutte le caratteristiche per renderlo tale almeno per il futuro prevedibile.
    Israele è percepito nel mondo arabo come un elemento estraneo, una spina nel fianco in una regione che gli arabi considerano fondamentalmente arabo-islamica. La relativa accettazione di fatto dell’esistenza di Israele nasce dalle magre possibilità che gli arabi ritengono d’avere, oggi, di eliminare Israele, dai legami che Israele ha con gli stati Uniti e, per alcuni paesi arabi, dai vantaggi economici garantiti dagli Stati Uniti. Qualora la forza di Israele o gli interessi delle varie parti diminuissero, scomparissero o cambiassero, Israele si troverebbe immediatamente costretto a combattere di nuovo per la propria sopravvivenza.
    E non si tratta solo del conflitto israelo-palestinese, per il quale si può dire che le massime concessioni che Israele potrebbe fare sono molto meno del minimo che l’altra parte è disposta ad accettare, anche solo come passaggio provvisorio. In realtà la grande quantità di materia prima di natura storica, religiosa, culturale ed etnica che alimenta l’ethos predominante nel mondo arabo verso Israele non favorisce certo la genuina accettazione di un’entità politica indipendente ebraica nella regione. Tutt’al contrario.
    L’immagine di Israele più diffusa fra gli altri abitanti di questa regione – quella di un’entità che opprime ed espropria e umilia e, contemporaneamente, di un’entità democratica e vincente (nelle guerre contro gli arabi), prospera e avanzata – certo non costituisce ragione d’ottimismo per coloro che sperano realisticamente in una riconciliazione.
    Intanto i non realisti preferiscono, ad esempio, riproporre la sconsiderata strada di Oslo pur di veder attuato il loro schema.
    Dunque, cosa si può fare? Bisogna evitare di cadere in trappole ingenue, tentare con cautela di risolvere ciò che può essere risolto, adoperarsi per abbassare l’intensità del conflitto, e continuare a vivere con la porzione di conflitto irrisolvibile. Come le malattie croniche che possono essere tenute sotto controllo, dobbiamo continuare a convivere con questo conflitto. Ci abbiamo convissuto per 120 anni, possiamo farlo per altri 120 anni e anche più, a patto di calcolare le nostre mosse con oculatezza, per esempio quando si tratta dell’aspetto demografico, astenendoci da piani troppo ambiziosi e pretenziosi come quelli ciclicamente riproposti da personaggi come Yossi Beilin.
    Gli studenti di medicina imparano la regola del “primum non nocere”, prima di tutto non nuocere, cioè, nella sua accezione più ampia: considerare i possibili danni che possono essere provocati dall’intervento che si vorrebbe risolutore. E qui è il caso di aggiungere: considerare il danno provocato dal tentativo di risolvere ciò che fondamentalmente non può essere risolto. Una regola che dovrebbe essere insegnata anche nelle scuole della politica.
    
(YnetNews, 30.10.2005 - da israele.net)
    
    
COMMENTO - Dell’irresolubilità politica del conflitto arabo-israeliano si è parlato anche in un passato numero di “Notizie su Israele”, anche se con argomenti molto diversi. Riportiamo uno stralcio di quell’articolo:
    
«Si può continuare a ripetere tentativi di soluzione del problema mediorientale attraverso accordi di pace e non riuscirci mai, ma essere comunque convinti che prima o poi si troverà una soluzione. E se fosse vera la proposizione: "Non è possibile trovare una soluzione pacifica in Medio Oriente che divida in due parti quella terra contesa?" Come se ne accorgerebbero i volenterosi sperimentatori? Il problema mediorientale è come la quadratura del cerchio: si può passare una vita a tentare di costruire con riga e compasso un quadrato di area equivalente a un cerchio dato e non riuscirci mai, eppure essere convinti che prima o poi un tentativo riuscirà. Come si potrà far capire al testardo sperimentatore che i suoi sforzi sono destinati all'insuccesso? C'è un solo modo: sottoponendogli una dimostrazione teorica dell'impossibilità logica di ottenere il risultato voluto per quella via. Se non vorrà leggere la dimostrazione, se rifiuterà di impossessarsi degli strumenti culturali necessari per capirla, sarà condannato a ripetere i suoi tentativi per tutta la vita e a rimanere sempre deluso. Se un problema è risolubile, si può sperare di trovarne prima o poi la soluzione, magari per vie traverse, con po' di fortuna e fantasia. Ma se un problema è irresolubile, per convincersene non c'è che un modo: leggere una dimostrazione teorica della sua irresolubilità. Bene, nella Bibbia è scritta la dimostrazione dell'irresolubilità del problema mediorientale con mezzi umani. E' impossibile ottenere la pace in quella martoriata regione manovrando la riga ebraica e il compasso arabo. C'è di mezzo qualcosa di “trascendente”, come nel caso del famoso pi greco.» (Notizie su Israele 249)





5. IL RAV KADOURI: «HO INCONTRATO IL MESSIA«




L’eminente cabalista, il Rav Itshak Kadouri, continua a sorprendere i suoi allievi rivelando loro dei segreti di cabala: questa volta è avvenuto in un corso dato durante uno Shabbat sulla personalità del Mashiah (Messia), che lui ha dichiarato di aver incontrato circa un anno fa.
Dopo aver annunciato con molto anticipo le numerose catastrofi naturali che hanno colpito il mondo in questi ultimi mesi, il rabbino centenario continua a diffondere numerosi segreti di cabala legati alla Liberazione e ai tempi messianici.
Secondo il Rav Kadouri, ci troviamo già nel primo periodo della Liberazione finale. Il Mashiah oggi si incarica di riportare gli ebrei verso la Torah.
Il sito NFC, che riporta queste informazioni, ha ottenuto conferma dal sito ufficiale del rabbino e del suo nipote, Yossi Kadouri. Quest’ultimo ha ricordato che durante un incontro tra suo nonno e il Rabbi di Loubavich z”l, l’Admour gli aveva assicurato che vivrà abbastanza a lungo per vedere il Messia.
NFC ha riportato in sintesi il corso, che uno degli allievi del Rav Kadouri si è incaricato di rendere comprensibile.
Numerose sono le persone che fanno fatica ad accettare la possibilità che i grandi cambiamenti che sperano, saranno realizzati da un uomo in carne ed ossa, ha dichiarato il Rav. La Liberazione che ci porterà ad una pace mondiale, ricorda, sarà diretta da un uomo che si vedrà affidare il potere. Il Mashiah riuscirà a riportare Israele verso la Torah per amore e ricondurrà i dispersi della Diaspora verso la Terra d’Israele. Le sue parole e il suo insegnamento saranno accettati da una grande parte degli uomini e lui non si legherà ad alcuna forma di politica.
Secondo il Rav Kadouri, che si basa sugli scritti di Maimonide, per far arrivare il suo messaggio egli si servirà dei media: gli strumenti che sono serviti a profanare il mondo serviranno a purificarlo.
Numerose sono le persone che faranno fatica a credere che si tratta veramente del Mashiah, afferma il rabbino, ma saranno proprio le persone che si sono allontanate dalla Torah a riconoscerlo facilmente, perché hanno sete di spiritualità. Il Messia del resto non parlerà in termini di “religiosi” o “laici”.
Due fasi precederanno il suo svelamento: la prima, durante la quale agirà per rinforzare il suo statuto di “Mashiah”, senza sapere ancora che lo è. La seconda, durante la quale si rivelerà ad alcune persone, non necessariamente dei rabbini. E’ allora che si rivelerà pienamente, ha dichiarato il Rav Kadouri, il quale ha poi affermato che a questo stadio “numerosi sono quelli che si meraviglieranno: «Era lui?», perché conosce numerose persone e numerose persone lo conoscono”.
Il rabbino ha concluso rispondendo alla domanda di un allievo che gli chiedeva chi è il Mashiah: «Colui che lo conosce non dice il suo nome e colui che dice un nome dimostra che non sa niente».

(Arouts 7, 30 ottobre 2005)





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