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Notizie su Israele 321 - 18 novembre 2005

1. «E' in arrivo la terza intifada»
2. Il ritiro da Gaza e la democrazia israeliana
3. Dove finiranno gli scarichi fognari di Gaza?
4. Nuove vittime degli attentati suicidi
5. Pace archeologica tra Israele e Palestina
6. Il rapporto della sinistra con Israele
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 31:35-36. Così parla il Signore, che ha dato il sole come luce del giorno e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare in modo che ne mugghiano le onde; colui che ha nome: il Signore degli eserciti. «Se quelle leggi verranno a mancare davanti a me», dice il Signore, «allora anche la discendenza d'Israele cesserà di essere per sempre una nazione in mia presenza».
1. «E' IN ARRIVO LA TERZA INTIFADA»




Munir Maqdah
Fondatore dei Martiri di Al Aqsa: ''Israele non mostra la minima volontà di pace. Scateneremo una serie di azioni mai viste''

ROMA - I problemi dei palestinesi ''si sono aggravati negli ultimi tempi. Siamo alla vigilia di una terza intifada. Scateneremo una serie di azioni mai viste''. Lo ha annunciato Munir Maqdah, fondatore dell'organizzazione Martiri di Al Aqsa, in un'intervista al settimanale L'Espresso. ''I kamikaze - sottolinea - sono le nostre armi nucleari''.
Gli aspiranti kamikaze, assicura, arrivano ''a centinaia. Uomini e donne, che a volte rivelano personalità più fredde e determinate. Tutti spinti da una molla irresistibile: l'odio dettato dall'abbrutimento in cui è costretto a vivere il nostro popolo. E' l'occupazione che seleziona i candidati. Noi insegniamo loro solo la tecnica per farsi esplodere''. Munir Maqdah si è detto poi ''d'accordo con la resistenza del popolo iracheno per liberarsi della potenza occupante''.
Maqdah considera ''giusto'' quanto affermato dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad su Israele. ''Non c'è mai stato il diritto per Israele di esistere. E' un'entità creata artificialmente. E prima o poi, se Dio vorrà, faremo in modo che venga cancellata. Ci siamo dimostrati pazienti e responsabili nel rispettare la tregua chiestaci da Abu Mazen. Ma frutti non se ne vedono. Israele - continua - non mostra la minima volontà di pace. Continua ad attaccarci. E allora, che prospettiva ci resta? Dovremmo accettare per l'eternità e in silenzio la ghettizzazione del nostro popolo? Gli attentati contro i nostri leader? L'impossibilità per noi profughi di tornare in patria, pur prevista da una delle tante risoluzioni trascurate dell'Onu? E perché definire utopistico il nostro progetto?''.
''Già con la seconda Intifada - ricorda Munir Maqdah - abbiamo paralizzato la loro economia, bloccato il turismo, impedito una nuova ondata migratoria di ebrei verso Israele, incoraggiato anzi un controesodo dettato dalla paura''.

(Adnkronos, 17 novembre 2005)





2. IL RITIRO DA GAZA E LA DEMOCRAZIA ISRAELIANA




L'eclissi della ragione: riflessioni sul "disimpegno" da Gaza

di Ariel Viterbo - ottobre 2005, Nevè Daniel


È difficile tentare di condensare in un articolo le proprie riflessioni sugli avvenimenti successi quest'estate in Israele. Ho stentato a lungo a tornare alla tastiera per fissare in poche righe il mio sguardo sulla realtà israeliana e condividere la mia esperienza coi lettori italiani. Complice anche l'evolversi della situazione interna israeliana, che mi ha portato a scendere in piazza a manifestare, piuttosto che a sedermi a tavolino a scrivere. Ma ormai l'estate è passata, il ritiro da da Gaza è terminato, giunge il tempo di tornare a scrivere. Con grande rabbia, col cuore ferito.
    Il "disimpegno" (così si dice in political correct?) da Gaza e dal nord della Cisgiordania, con la distruzione totale di venticinque insediamenti civili e il trasferimento coatto di diecimila cittadini israeliani strappati alle loro case, è stato il trionfo di una inusuale efficienza israeliana e allo stesso tempo la sconfitta della ragione. Lo stato ha vinto, il sionismo ha perso, ha subito la più grande sconfitta della sua esistenza. La democrazia formale ha prevalso, la democrazia vera è stata calpestata. La legge ha vinto, la giustizia è stata fatta a brandelli. Da qualsiasi punto di vista lo si voglia vedere lo sgombero rappresenta il punto più basso della storia del sionismo.
    Di nuovo: mi è difficile ordinare le idee, spiegare al lettore lontano dalla realtà quotidiana di qua, l'enormità dell'errore commesso da Sharon. Ci proverò passo passo.


L'aspetto politico: democrazia violentata

Il Likud guidato da Sharon ha vinto le elezioni nel gennaio del 2002 sulla base di un programma che prevedeva la continuazione delle trattative coi palestinesi ed escludeva ritiri unilaterali, proposti invece dal partito laburista guidato allora da Miznah (qualcuno ricorda ancora questo ennesimo generale con sentimenti da salvatore della patria?). il Likud ricevette 38 mandati al parlamento, ai quali si aggiunsero subito altri due del partito di Nathan Sharanski, i laburisti terminarono con 19. Non c'era dubbio allora che il popolo non voleva nessun ritiro unilaterale.
    Il governo che sorse si basava su una coalizione formata oltre che dai quaranta parlamentari del Likud da undici membri dei partiti della destra e dai quindici del partito laico di Shinui. Non solo, ovviamente, i partiti di destra ma nemmeno Shinui appoggiava o proponeva il ritiro unilaterale, nessuno ne aveva mai parlato se non per attaccare i laburisti. Alla coalizione di governo si potevano aggiungere anche i parlamentari ultraortodossi: una grande maggioranza di circa novanta membri della Knesseth contro ogni ritiro unilaterale
    Quando Sharon, per quale motivo nessuno lo sa, adottò il piano di sgombero da Gaza e dal nord della Cisgiordania, si trovò ovviamente di fronte al dissenso del suo partito. Accettò allora di sottoporre il piano ad un referendum interno al partito e si impegnò di accettarne i risultati. I membri del Likud respinsero il piano a grande maggioranza, Sharon si rimangiò l'impegno e continuò col suo piano.
    Propostolo al governo per essere adottato come linea ufficiale, dovette prima licenziare due ministri del partito più a destra, per sbarazzarsi dell'opposizione più agguerrita, quindi accettare il compromesso proposto dai ministri del suo partito, secondo il quale il governo approvava il piano ma rinviava la decisione sullo sgombero degli insediamenti civili. Tale decisione sarebbe stata presa solo immediatamente prima della messa in atto dello sgombero e per ogni gruppo di insediamenti si sarebbe votato a parte, al termine dello sgombero del gruppo precedente. Così, spiegarono i ministri, si sarebbe controllata la reazione dei palestinesi allo sgombero ed eventualmente si sarebbe potuta bloccare la realizzazione del piano, qualora i terroristi avessero colpito. Giunti al dunque però un'altra volta Sharon si è rimangiato la parola: le votazioni sullo sgombero degli insediamenti sono state fatte una dopo l'altra, senza attendere lo sgombero dei primi insediamenti  e il piano è stato realizzato senza pause, senza controlli.
    Infine, la prova più lampante che il piano di sgombero ha realizzato una linea politica opposta a quella per merito della quale è stato eletto Sharon, è il fatto che per realizzarlo Sharon ha dovuto cambiare tutta la coalizione di governo. Abbandonato anche dal partito nazional-religioso e da più di un terzo dei parlamentari del suo partito, compresi due ministri, Sharon ha dovuto allearsi col partito laburista, il partito che aveva perso le elezioni per aver proposto il ritito unilaterale.
Come è possibile definire questo insieme di azioni politiche se non come l'umiliazione totale della democrazia?
 

L'aspetto militare: un'altra battaglia persa

Coi palestinesi, piaccia o no, siamo in guerra. E per siamo intendo lo stato d'Israele e chi si identifica con esso. E la guerra dura da quando il movimento sionista ha cominciato a riportare gli ebrei nella Terra d'Israele. Da allora, di occasioni per trovare un compromesso e dividersi la terra, ce ne sono state parecchie. Chi le ha rifiutate, sono stati i palestinesi e i loro alleati arabi. Scrivo questo perché sia chiaro che faccio parte di coloro che pensano che la ragione sia dalla parte di Israele anche in tutto il periodo dal 1967 ad oggi, anche quando Israele occupa territori che non fanno parte dello stato internazionalmente riconosciuto.
    La fase attuale della guerra è cominciata cinque anni fa, nell'ottobre del 2000, dopo il fallimento del vertice di Camp David tra Arafat e Barak. Fin dall'inizo la sensazione era che Israele, assai più forte militarmente dei palestinesi, stesse perdendo, ai punti, la contesa. Incertezze nel reagire, reazioni miranti più a far rumore che a colpire, ostinazione a voler conservare intatte le istituzioni palestinesi anche quando erano esse a guidare gli attacchi, ritiri tattici da posizioni prima conquistate: tutto l'operare militare d'Israele ha mostrato segni d'impotenza, di stanchezza lungo tutti i cinque anni. Solo nella primavera del 2002, l'escalation degli atti di terrore aveva finalmente spinto il governo (già allora guidato da Sharon) ad autorizzare un'operazione militare a vasto raggio, che riuscì a colpire le organizzazioni terroristiche, limitandone a lungo le possibilità d'azione. Ma poi di nuovo l'incertezza nel terminare l'operazione e la mancata eliminazione dell'Autorità Palestinese, riportarono la situazione nei termini precedenti. E dalla stanchezza, forse, nacque il piano del disimpegno: ritirarsi dalla striscia di Gaza e dal nord della Cisgiordania, smantellando tutti gli insediamenti civili e lasciando il territorio nelle mani palestinesi. A cose fatte, non posso che tornare su quanto scrissi esattamente un anno fa. Il piano è privo di ogni logica diplomatica: il ritiro è stato unilaterale, nessuno è ora tenuto a dare ad Israele qualcosa in cambio. Il ritiro è in realtà illusorio, perché dovremo continuare a controllare la costa di Gaza, il suo spazio aereo, il confine di terra per impedire l'arrivo di armi ed esplosivi e la penetrazione di terroristi nel territorio israeliano. Il ritiro è pericoloso, perché dal confine con l'Egitto affluiranno liberamente armi, esplosivi e terroristi che verranno usati per bombardare le città e i kibbuzim della costa meridionale di Israele (Ashkelon, Ashdod, Sderot, e via dicendo). Il ritiro è bugiardo perché non potremo "disimpegnarci" dai palestinesi di Gaza: dovremo continuare a permettere loro di venire a lavorare in Israele, altrimenti ci accuserebbero di affamarli. Il ritiro è impossibile: non basta ritirare i soldati per togliersi la responsabilità del destino dei palestinesi. Agli occhi del mondo, noi resteremo i responsabili fino a che non ci sarà un'autorità statale che ci sostituirà, non ci si può disfare di Gaza come ci si disfa di un paio di calzini bucati. Il ritiro è una vittoria per i palestinesi, un invito ai terroristi a continuare a colpirci, per spingerci ad un altro ritiro. I portavoce del Chamas l'hanno già detto esplicitamente. La lotta dei palestinesi è per ottenere tutto Israele, non una piccola parte che già controllano.
    Lo sgombero da Gaza e dal nord della Cisgiordania, sgombero privo di ogni logica militare e diplmomatica, segna un'altra battaglia persa nella guerra coi palestinesi.
 

L'aspetto sionista: uno stato malato

Per la prima volta nella sua storia, il movimento sionista, rappresentato dalla sua realizzazione pratica, lo Stato d'Israele, ha distrutto insediamenti civili ebraici nella Terra d'Israele, senza motivo e senza ottenere nulla in cambio. Una distruzione fine a sé stessa che è apparsa agli occhi degli arabi la prova lampante della verità della loro affermazione che gli israeliani sono degli estranei, dei conquistatori in Palestina. Chi fugge, chi si ritira, chi distrugge le sue stesse case, chi sradica i propri abitanti dalle loro abitazioni, chi abbandona un pezzo di terra, dimostra di non averlo mai posseduto davvero. I sionisti sono come i crociati, amano ripetere i palestinesi. Colonizzatori senza radici, che non hanno nessun vero senso di appartenenza a questa terra. La possiedono come una proprietà da lasciare quando i problemi sono ardui da risolvere. Il ritiro da Gaza e dal nord della Cisgiordania ha significato anche il rafforzamento delle armi retoriche e propagandistiche dei palestinesi.
    Potremmo ignorarli, i canti di vittoria degli arabi, se il ritiro avesse significato qualcosa di positivo per Israele, per il sionismo. Ma nemmeno Sharon e il suo governo sono riusciti ad indicare un risultato positivo del piano. Passati i giorni ardenti di agosto, alle porte del nuovo inverno, tutti coloro che hanno appoggiato il piano, governo, maggioranza, mass media, intellettuali, movimenti di sinistra, tutti tacciono, cercano di dimenticare e far dimenticare che una presenza ebraica a Gaza e nel nord della Cisgiordania sia mai esistita. Nessuno vuole spiegare perché la situazione internazionale d'Israele, che doveva migliorare di 180 gradi, sia rimasta la stessa: isolati, sotto pressione, a stento tollerati. Nessuno vuole ammettere che uno Stato che abbandona territori che aveva conquistato in guerra, senza richiedere nulla in cambio, eterna la situazione di conflitto imposta dal nemico e prepara il prossimo ritiro, senza sapere dove si fermerà l'ultimo sgombero. Nessuno vuole ammettere che un movimento nazionale che distrugge parte di sè stesso dimostra di essere gravemente malato, forse d'un male incurabile.
  Il ritiro da Gaza e dal nord della Cisgiordania ha fatto a brandelli la democrazia israeliana, mette in pericolo la sicurezza in tutto il territorio nazionale, indebolisce il movimento nazionale ebraico, a vantaggio di quello palestinese. Israele apre il nuovo anno con sempre maggiori dubbi sul proprio futuro.

(Morasha.it, 18 novembre 2005)





3. DOVE FINIRANNO GLI SCARICHI FOGNARI DI GAZA?




Tra poco il piano di disimpegno di Sharon minaccera' anche il modernissimo impianto di desalinizzazione dell'acqua marina, costato oltre un miliardo di scekels, ad Askelon. Vi domanderete: cosa c'entra il disimpegno voluto da Sharon con l'acqua? I palestinesi, che non sono piu' sotto controllo israeliano, stanno costruendo velocemente una fognatura gigantesca che finira' in mare nel nord della striscia di Gaza. Tale costruzione potrebbe causare danni catastrofici ad Israele. Un documento preparato dagli esperti del ministero delle acque avverte che lo scarico mettera' in serio pericolo il funzionamento del nuovissimo impianto di Askelon a causa dell'elevato inquinamento che provochera' in tale zona costiera e che mettera' in pericolo anche l'uso per i bagnanti. Fin quando Israele era presente nella zona, con l'esercito e gli insediamenti, impedi' ai palestinesi di mettere a punto il loro piano e gli arabi erano "costretti" ad usare piccole fognature dotate di sistemi di purificazione nella zona nord orientale della citta' di Gaza.
Il prof. Haim Gavirzman, uno dei maggior esperti in idrologia in Israele, ed il prof. Stiv Berner, esperto degli scarichi nel Mediterraneo, presentarono ricorso in tribunale per impedire il ritiro israeliano sino a quando non si fosse giunti ad un accordo con l'autorita' palestinese sull'utilizzo e lo scarico dell'acqua.
Il ricorso fu respinto. Dal ricorso presentato si possono apprendere molte cose come, ad esempio che le acque inquinate ed infette colpiranno subito Askelon e la zona costiera circostante, situata 8 Km. a nord del confine. Se lo scarico lavorera' in continuazione il danno ecologico dopo aver colpito Askelon arrivera' in qualche settimana ad Ashdod ed in qualche mese nella zona del Gush Dan (zona di Tel-Aviv). Gavirzman gia' previde che l'impianto di desalinizzazione piu' grande e piu' moderno al mondo costruito ad Askelon dovra' smettere di funzionare quando le acque diventeranno cosi' sporche ed inquinate da intasare i suoi impianti di raccolta.

(N. Ierushalmi, "Nikuz mei abiuv meAza", "ARBAAH KANFOT N. 78, 8/11/05;
liberamente tratto e tradotto dall'inglese da Eleazar Ben Yair).






4. NUOVE VITTIME DEGLI ATTENTATI SUICIDI




I palestinesi assaporano una dose della loro stessa medicina

di Daniel Pipes

L'attentato suicida di Hadera, in Israele, perpetrato il 26 ottobre scorso con un bilancio di 5 vittime, ha destato la solita esultanza palestinese: circa 3.000 persone sono scese in piazza per festeggiare al grido di "Allahu Akbar", invocando ulteriori attacchi suicidi contro gli israeliani e congratulandosi con la famiglia del "martire" per il successo dell'attacco.
    Ma i palestinesi sono rimasti insolitamente immusoniti dopo le tre esplosioni dinamitarde del 9 novembre ad Hamman, in Giordania, in cui hanno perso la vita 57 persone e centinaia sono rimaste ferite. Questo perché per la prima volta i palestinesi sono stati le principali vittime degli stessi "martiri" islamisti.
    Il massacro perpetrato nel corso di un banchetto nuziale che si stava svolgendo nella sala da ballo dell'hotel Radisson SAS ha spezzato le vite di 17 familiari di coloro che il quotidiano londinese Times ha definito una "felice coppia di palestinesi, amata dalle loro importanti famiglie e dagli amici". Nell'attentato hanno perso altresì la vita quattro dirigenti dell'Autorità palestinese, tra di loro Bashir Nafeh, a capo dell'intelligence militare in Cisgiordania.
    Dopo vent'anni di orrori perpetrati contro gli israeliani, alcuni dei quali al momento degli attacchi stavano altresì partecipando a degli eventi festivi (un pranzo di Passover, un Bar Mitzvah), i palestinesi, che costituiscono la maggioranza della popolazione giordana, si sono inaspettatamente trovati ad essere vittime di attentati suicidi.
    E indovinate un po': ciò non è affatto piaciuto loro.
    Il fratello di una donna rimasta ferita nell'attacco ha raccontato a un reporter: "Voglio bene a mia sorella. Darei la vita per lei, e se le accadesse qualcosa, io sarei veramente….". E poi sconvolto, l'uomo smette di parlare e inizia a piangere. Un altro familiare ha definito i terroristi come dei "feroci criminali". Un terzo ha detto ad alta voce: "Mio Dio, mio Dio, è possibile che gli arabi uccidano gli arabi e che i musulmani uccidano i musulmani?"
    Io esprimo tutta la mia solidarietà alla famiglia. Spero anche che i palestinesi, famosi in tutto il mondo non solo per il pesante bilancio di attentati suicidi ma per averli perpetrati con entusiasmo, beneficeranno di questa singolare opportunità di apprendimento.
    Non vi sono al mondo mezzi di comunicazione di massa né sistemi scolastici che indottrinano i bambini a diventare degli attentatori suicidi. Nessuno celebra festosamente la morte dei kamikaze; nessun altro genitore spera che i propri figli si facciano saltare in aria. Nessun altro popolo riceve un ampio sostegno e finanziamenti per l'attività terroristica dalle autorità. Nessuna altra popolazione ha generato un leader così inestricabilmente legato al terrorismo come lo è stato Yasser Arafat, né gli è stata così strettamente fedele.
    (Le commemorazioni per il primo anniversario della sua morte, che cade l'11 novembre, sono state caratterizzate da calorose dichiarazioni del genere "egli rimarrà vivo nei nostri cuori" e da ribadimenti in merito alla volontà di proseguire il suo operato.)
    Gli attentati di Amman, attribuiti ad al Qaeda, hanno svelato l'ipocrisia dei palestinesi e dei loro fiancheggiatori che condannano gli atti di terrorismo perpetrati contro di loro ma non contro gli altri, specie contro gli israeliani. Shaker Elsayed, imam della moschea Dar al-Hijrah, in Virginia, ha denunciato l'attacco di Amman definendolo come "un atto insensato". Bene! Ma Brian Hecht, membro di The Investigative Project, osserva che Elsayed ha alle spalle una lunga serie di giustificazioni di attacchi terroristici contro gli israeliani: "Il jihad è indispensabile per chiunque: bambini, donne e uomini", egli ha asserito. "Costoro devono compiere il jihad con ogni mezzo di cui dispongono".
    La Regina Noor di Giordania ha incarnato questa ipocrisia quando ha dichiarato che i terroristi di Amman "hanno commesso un importante errore tattico, dal momento che hanno attaccato dei civili innocenti, principalmente musulmani", il che implica la sua approvazione per vittime che non sono musulmane.
    L'ignominiosa liaison che unisce i palestinesi agli attentati suicidi e al "martirio" vacillerà in seguito alle atrocità di Amman? Un pizzico della medicina da loro somministrata potrebbe insegnare agli stessi palestinesi che ciò che viene messo in circolo torna alla fonte? Alla fine il barbarismo

prosegue ->
colpisce anche i barbari?
    Piccoli segnali evidenziano un cambiamento di idee, almeno al momento e in Giordania. Un sondaggio d'opinione condotto nel 2004 alla Jordan University rilevò che due terzi dei giordani adulti considerava Al-Qaeda in Iraq come "una legittima organizzazione di resistenza". Dopo gli attentati, un altro sondaggio d'opinione ha rilevato che nove dei dieci partecipanti al sondaggio che in precedenza avevano espresso la loro approvazione per Al-Qaeda hanno mutato opinione.
    Per mutare la condotta palestinese occorre che le popolazioni civili finiscano per adottare una linea dura per il terrorismo suicida. Il che significa rigettare Hamas come organizzazione politica ed escludere ogni forma di dialogo con questo gruppo. Il che vuol dire rifuggire dai film di propaganda come "Paradise Now", una pellicola che riabilita gli attentati suicidi palestinesi. E ciò significa condannare Sami Al-Arian, estremista operativo della Jihad islamica palestinese, e le sue coorti della Florida.
    Il messaggio diretto ai palestinesi deve essere semplice, coerente e universale: tutti condannano inequivocabilmente il terrorismo suicida, senza eccezione alcuna, sia che si tratti di un'arena elettorale, diplomatica o scolastica e sia che l'attentato venga perpetrato ad Amman piuttosto che a Hadera.

(New York Sun, 15 novembre 2005, dall'archivio di Daniel Pipes)





5. PACE ARCHEOLOGICA TRA ISRAELE E PALESTINA




Per acclamazione all'Unesco hanno deciso di riattivare il Comitato previsto a Oslo nel 1993 e poi sospeso.

DURBAN (Sudafrica) - Durante la XXIX Sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale dell'Unesco a Durban (10-18 luglio 2005) è giunto un appello («Decisione» n. 29 Com 11d, paragrafo 4) affinché venga ricostituito il Comitato misto israelo-palestinese sull'archeologia. Istituito in seguito agli accordi di Oslo del 1993 (in cui si richiedeva «la protezione dei siti archeologici situati in territorio sotto il controllo dell'Autorità palestinese»), era stato poi sospeso soltanto tre anni dopo a causa della crisi generata dal famoso «tunnel» vicino al muro del Tempio, realizzato dagli israeliani e fortemente avversato dai palestinesi. Il primo passo sarà, all'inizio di settembre, la riunione delle Commissioni nazionali israeliana e palestinese a Parigi, presso l'Unesco. L'appello di Durban (per il quale Caruso, l'ambasciatore italiano dell'Unesco, si è molto prodigato) è stato presentato nel quadro del dialogo in corso sul problema della tutela e della gestione dei siti archeologici sul territorio palestinese: questione molto delicata e carica di risvolti politici (ulteriormente acuiti dalle recenti vicende legate agli sgomberi dei coloni dalla Striscia di Gaza), a causa della sovrapposizione di reperti di diverse epoche e civiltà (in particolare ebraica, romana, islamica e cristiana). È stato approvato per acclamazione. Non si tratta ancora di un accordo di piena collaborazione, ma di un'apertura: evidentemente, di straordinario significato. E il completamento del ritiro da Gaza apre la possibilità di un effettivo avvio del Comitato. Intanto, sono continuate per tutta l'estate, pur tra le difficoltà del momento, le indagini nell'antica Anthédon, all'interno del campo profughi di Chati, prossimo a Gaza. Riaperti nel 2003 dopo il blocco dovuto alla seconda Intifada, comprendono una grande casa ellenistica con affreschi e una residenza di epoca romana. Sono numerosi i siti archeologici all'interno della Striscia. Per tutti, i rischi di danni sono all'ordine del giorno sia per gli scontri armati, sia per l'urbanizzazione prodotta da una crescita demografica superiore al 3% annuo.

(Il Giornale dell'Arte, 15 novembre 2005)





6. IL RAPPORTO DELLA SINISTRA CON ISRAELE




"La sinistra e il suo rapporto con Israele e gli ebrei dopo il 1967: pregiudizi nel contesto europeo e mediorientale"

Relazione tenuta da Federico Steinhaus al convegno "Antisemitismo: politica progressista e risentimento antiebraico" tenutosi presso l'Accademia Europea di Bolzano il 12.11.2005.

Il 1967 è l'anno della rivoluzione copernicana nei rapporti fra lo stato di Israele e quella che genericamente definirò la sinistra.
Inizialmente la forza motrice di questo cambiamento di rotta sono stati i partiti comunisti che, ricordiamolo ai giovani, a quel tempo ricevevano ordini e slogan dall'Unione Sovietica e se ne appropriavano in maniera assolutamente priva di capacità critica. Ben presto anche altri settori della sinistra non comunista hanno recepito il messaggio, che in Italia è stato condiviso dalla sinistra di matrice sociale e cristiana.
Fino al 1948 la Palestina era stata considerata solamente una entità geografica abitata da poveracci appartenenti alle genti arabe ma privi di una qualsiasi identità autonoma; tra il 1948 ed il 1967 il destino di questi poveracci era stato gestito dai vari autocrati del mondo arabo senza che alcuno se ne preoccupasse minimamente.
Il fatto è che fino al 1967 lo stato d'Israele era ancora percepito come lo stato delle vittime della Shoah. I palestinesi non avevano coscienza di essere un popolo differenziato all'interno del grande oceano dei popoli arabi. Nemici di Israele erano gli stati arabi, non i palestinesi.

Nel 1967 Israele vinse – anzi stravinse - una guerra che era stata scatenata per annientarlo, e conquistò i territori che vent'anni prima le Nazioni Unite avevano destinati ad uno stato arabo della Palestina. La scelta di campo sovietica fu dettata da considerazioni strategiche a lungo termine (il controllo dei mari caldi, il sogno mai realizzato dagli zar) e fu giustificata e spiegata ai partiti satelliti con parole d'ordine viscerali che si concentravano sulla innata malvagità del sionismo, ma anche strizzando l'occhio all'estensione del concetto agli ebrei.
Oramai nell'immaginario collettivo gli israeliani, e per traslato i sionisti ed infine gli ebrei, erano un popolo forte, definito con tono tra lo spregiativo ed il preoccupato come dominatore.

Pur tra alterne vicende i partiti comunisti rimasero per i successivi 20 anni il faro verso il quale vastissimi settori della sinistra convergevano in tutta Europa con atteggiamenti di sudditanza ideologica e culturale. L'astio nei confronti di Israele poteva essere il collante innocuo idoneo a creare un'atmosfera di complicità ideologica che superasse eventuali contrapposizioni in altri settori della competizione politica. Così fu, e col trascorrere del tempo alcuni paradigmi di questa scelta di campo furono assimilati anche nell'inconscio dei cristiani militanti in partiti laici, ma plasmati fin dalla loro infanzia nella tradizione teologica dell'antigiudaismo.

Possiamo individuare i seguenti periodi nel rapporto politico e mediatico fra la sinistra ed il contenzioso arabo-israeliano che successivamente divenne palestinese-israeliano:

1) Tra il 1948 ed il 1967 l'Unione Sovietica, la prima potenza che aveva riconosciuto lo stato d'Israele nel 1948, manifestò una sostanziale solidarietà con Israele; la forte sottovalutazione degli interessi della popolazione palestinese fece da sottofondo alla visione del sionismo in quanto affermazione del diritto di autodeterminazione del popolo ebraico. Solamente i processi di Stalin contro molti medici ed alti ufficiali ebrei accusati di complottare contro di lui, e nel 1956 la breve guerra di Suez, gettarono una pesante ombra su questo scenario.

2) A decorrere dalla conclusione della "guerra dei sei giorni" nel giugno 1967 si verificò un capovolgimento repentino del fronte per quanto attiene al giudizio su Israele e sulle ragioni arabe. La scoperta del problema palestinese ha tuttavia ancora solo una dimensione umanitaria riguardante una massa di profughi, e non è una affermazione del diritto di quel popolo ad una patria; il silenzio sul massacro di molte migliaia di palestinesi ad opera dei regimi giordano e siriano è pressoché totale.

3) Dopo il 1982, l'anno della guerra del Libano e del massacro di Sabra e Chatila, un inasprimento senza sfumature del giudizio negativo su Israele, che comporta la solidarietà incondizionata con la causa palestinese, dilaga all'interno di tutte le sinistre europee; la firma del trattato di pace tra Israele e l'Egitto, di pochi anni antecedente, non influisce su questo giudizio, ed il fatto che ora Israele sia governato dalla destra fornisce un ulteriore alibi a questa intransigente contrapposizione.

4) Gli accordi che sono noti come la pace di Oslo a decorrere dal 1992-93 modificano il giudizio della sinistra su Israele, ora di nuovo governato dal partito laburista, ma non quello sulla causa palestinese, che trova sempre un sostegno tanto acritico quanto totale; il loro fallimento viene addebitato unicamente ad Israele, e l'assoluzione a priori per Arafat è un paradigma indipendente da qualsiasi riscontro oggettivo. Con la seconda intifada si scatena ovunque una nuova campagna d'odio che talora supera i limiti della critica politica per trasformarsi in delegittimazione di Israele, di negazione del suo diritto ad esistere come stato ebraico, ed infine in aperto antisemitismo.

La seconda intifada, tra il 2000 ed il 2005, ha avuto una esposizione mediatica superiore a qualunque altro conflitto, eccezion fatta per il Vietnam. Ed è un dato di fatto che la manipolazione dell'informazione è stata continua, diffusa, capillare ed omogenea. Nessun giornalista ha potuto trasmettere notizie dai territori palestinesi senza una preventiva censura politica, né ha potuto muoversi in libertà; le guide e gli interpreti, gli assistenti tecnici, gli operatori di cui la stampa era costretta a servirsi avevano funzioni di controllo e di segnalazione nei confronti dei loro clienti. In Israele tutto ciò non avveniva, ed era pertanto inevitabile che le informazioni, le fotografie, i filmati fossero a senso unico.
La cosa sorprendente è però che tutto ciò sia avvenuto con il tacito e consapevole consenso dei media occidentali, e che nessun organo di stampa abbia sentito la necessità di segnalare questa coercizione, o di fornire ai suoi lettori una informazione aggiuntiva od alternativa che li mettesse in guardia.
Si è pertanto sviluppata lungo tutto l'arco dei 5 anni, dal 2000 al 2005, una simbiosi fra l'informazione e l'opinione politica che non ha concesso scampo.

In questo arco di tempo i contenuti di fotografie, filmati, vignette satiriche e titoli di giornali si sono sommati oppure fusi con un uso spregiudicato del lessico. Messaggi contenenti il richiamo all'accusa di decidio ed a quella di omicidio rituale, ma anche l'esplicita negazione della Shoah e quella teoria del complotto che trova la sua eco ammiccante nei cenni frequenti allo strapotere degli ebrei nei media, nella finanza e chissà dove ancora hanno cancellato il dovere di obiettività che il giornalismo dovrebbe accettare come un dovere etico.
Tutto ciò ha trovato il suo elemento catalizzante in un odio per Israele che ha reso queste accuse interscambiabili fra loro, in un costante e monocorde riferimento alla Palestina. Il deicidio e l'omicidio rituale si sono ritrovati appaiati sia nella sinistra – e non solo quella estrema, si badi bene – sia nella destra estrema senza che vi fosse imbarazzo nell'uso di accuse veterocristiane in un contesto ideologico laico; il negazionismo e l'accusa di essere i nuovi nazisti sono stati usati indistintamente da tutti non meno della teoria del complotto. Questo trasferimento di simbologie è stato mascherato da un uso preordinato dello strumento linguistico per far apparire asettiche queste accuse in quanto rivolte allo stato d'Israele ed ai sionisti, non agli ebrei.

Ritengo a questo punto di dover portare qualche citazione ad illustrare e documentare la mia analisi, che altrimenti potrebbe forse apparire viziata dalla enfatizzazione di atteggiamenti in realtà marginali. Con alcuni rapidi cenni su questo ultimo periodo vorrei avviare questa analisi alla sua conclusione.

Molti dei presenti ricorderanno, credo, il corteo sindacale che a Roma manifestò a favore dell'OLP nel 1982, e di come questo corteo si fermò dinanzi al tempio maggiore per deporvi una bara.
Ma non è solo dal passato (anche se tutt'altro che remoto) che voglio attingere qualche esempio di quanto ho affermato.

Invito a guardare con attenzione l'immagine dell'ebreo–israeliano che compare in ognuna delle migliaia di vignette che abbondano nel mondo islamico, ed in quelle occidentali: è lo stereotipo dell'ebreo col nasone adunco, la bava alla bocca, lo sguardo torvo che troviamo nell'iconografia nazifascista e prima ancora in quella dell'antigiudaismo teologico. Forse vale la pena di ricordare che in luglio alla festa di Rifondazione Comunista, a Milano, un muro era stato letteralmente tappezzato di vignette di questo tipo prese dalla stampa araba; quando la Comunità Ebraica di Milano protestò con energia accusando gli organizzatori di propaganda antisemita, la sconcertante risposta fu : "Non ce n'eravamo resi conto".

Le televisioni egiziana, siriana, palestinese, giordana, saudita, iraniana divulgano un antisemitismo preso di peso dal medioevo e dal nazismo; in Palestina i media e le università, le associazioni sportive, i testi scolastici ed i videoclip della televisione si sono piegati tutti a questa campagna d'odio. Eppure, schieramenti politici e media occidentali hanno fatto da grancassa a qualsiasi cosa provenisse da quel mondo, salvo poi tacere sul veleno antisemita che da questo insieme di avvenimenti si sprigionava.

Proviamo a ricordare un libro che ha suscitato scandalo? Asor Rosa, osannato maitre à penser della sinistra colta, ha scritto nel 2002 che "gli ebrei, da razza… perseguitata… è diventata una razza guerriera, persecutrice… Gli ebrei hanno rinunciato ai valori della propria tradizione e alla memoria delle proprie sofferenze… hanno perso il carattere di vittime che li ha contraddistinti nella storia".

In diverse prestigiose sedi universitarie italiane gruppi di studenti della sinistra hanno di recente negato con la violenza il diritto di parlare a rappresentanti dello stato d'Israele ed a docenti di cui si sospettava che fossero filo-israeliani, mentre in Gran Bretagna e poi anche in Italia una allarmante quantità di docenti e ricercatori firmava proclami in cui si pretendeva il boicottaggio di qualsiasi istituzione scientifica o culturale d'Israele.
Sandro Viola su Repubblica ha scritto durante il ritiro israeliano da Gaza che gli ebrei, che sono estremisti fanatici, si contrapponevano agli israeliani, amanti della pace. Egli intendeva classificare come estremisti fanatici i gruppi di ebrei ultraortodossi che protestavano civilmente contro il ritiro, ma di fatto ha ripetutamente scritto "ebrei" senza altre aggettivazioni.

Infine, nel giorno della morte di Simon Wiesenthal Sir Iqbal Sacranie (sottolineo quel sir), segretario generale del Consiglio Musulmano della Gran Bretagna, ha chiesto sul prestigioso Guardian che venga abolita la Giornata di ricordo dell'Olocausto, in quanto sarebbe offensiva per i musulmani. Ed alla recentissima Buchmesse di Francoforte nello stand iraniano erano esposte numerose pubblicazioni statali in lingua inglese, che riportavano il testo integrale dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion ed in base ad esso denunciavano le immense colpe degli ebrei in tutte le tragedie della storia.
Come se vi fosse ulteriore bisogno di documentare questa analisi, il presidente iraniano ed una parte qualificata della nostra sinistra hanno provveduto non più di dieci giorni fa: l'appello a cancellare dal mondo "il sionismo" equivale difatti ad una richiesta di eliminare "i sionisti", il che corrisponde senza che si debbano forzare i concetti ad una incitazione al genocidio. Un quotidiano cosiddetto moderato, ma certamente non di destra, ha organizzato una fiaccolata di protesta davanti all'Ambasciata iraniana. Molti, nella sinistra, vi hanno aderito, ma alcuni dei soliti noti hanno rifiutato adducendo a pretesto che certamente Israele ha diritto ad esistere, ma non si può pensare di proclamare questo diritto senza contestualmente chiedere uno stato per il popolo palestinese. Come a dire che anche il diritto di Israele ad esistere, per questi individui ed i loro partiti, è condizionato alle scelte politiche del suo governo.

Rimane da fare un cenno al mostro inafferrabile, Internet. Qui troviamo, senza possibilità di intervenire, tutto quel che di peggio si può immaginare; ma la cosa sorprendente è che l'antisemitismo viscerale vi si collega quasi sempre ai proclami di amicizia per i palestinesi ed alla negazione del diritto all'esistenza per lo stato d'Israele. Trasversalmente, siti di estrema destra, della sinistra tradizionale e di quella no-global usano la medesima terminologia terzomondialista e veterocristiana per affermare concetti interscambiabili.
Il negazionismo, l'accusa di deicidio e quella di omicidio rituale, la teoria del complotto giudaico non sono più solamente di destra, non sono più soltanto cristiane, e trovano con analogie di concetti e di linguaggio il loro elemento catalizzante nell'odio per Israele.

Proviamo a sintetizzare una conclusione.
La simpatia iniziale delle sinistre europee per Israele si era stemperata, anche prima del 1967, nella diffidenza per uno stato che era visto come avamposto del capitalismo e dell'avidità occidentale in un mondo povero ed arretrato.
Quando, dopo il 1967, l'Unione Sovietica spostò il proprio asse di interesse geopolitico verso il mondo arabo, il suo universo ideologico compatto e monocorde trasferì su Israele il disprezzo classista e riversò nel nuovo concetto di antisionismo il vetusto vocabolario dell'antisemitismo.
Risale a quella origine il pregiudizio anti-israeliano di cui ancora oggi soffre la sinistra. Là vanno ricercate le cause di una costante ostilità che spazia dall'incapacità di comprendere le ragioni di Israele all'accusa di essere uno stato teocratico, dalla solidarietà classista nei confronti della causa palestinese alla delegittimazione di Israele, dall'antisionismo ideologizzato al vero e proprio antisemitismo.
Dopo Auschwitz, l'antisemitismo ha bisogno di pretesti per legittimarsi, e l'odio per Israele trova in esso un ottimo divulgatore: questa è l'abietta alleanza che si è saldata nei tempi recenti fra due mondi in sé inconciliabili. Quando la sinistra ne sarà pienamente consapevole potrà combattere a viso aperto le collusioni che oggi purtroppo sottovaluta.

(Informazione Corretta, 16 novembre 2005)





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8. INDIRIZZI INTERNET




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