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Notizie su Israele 327 - 31 dicembre 2005 |
1. La nuova anarcopoli mediorientale
2. Il torbido quadro interno palestinese 3. I debiti delle chiese di Gerusalemme 4. Le vittime dell'Olocausto continuano a soffrire 5. Nel 2006 l'Iran avrà il materiale per l'atomica 6. Al Qaida contro Hamas? 7. Alla ricerca della biblica Emmaus 8. Musica e immagini 9. Indirizzi internet |
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1. LA NUOVA ANARCOPOLI MEDIORIENTALE
Gaza piomba nel caos, assalto al valico di Rafah di Gian Micalessin Doveva rappresentare l'embrione del nuovo Stato palestinese, invece a quattro mesi dal ritiro israeliano Gaza è già il deserto del diritto. In questa nuova anarcopoli ieri una banda di poliziotti esasperati appoggiati da un gruppuscolo di miliziani di Fatah ha assaltato il valico di Rafah, costringendo alla fuga gli osservatori dell'Unione Europea. Così - mentre i doganieri europei si rifugiavano in una base israeliana - i palestinesi assistevano sconsolati alla chiusura dell'unica via d'uscita dalla Striscia non sottoposta al controllo dello Stato ebraico. La farsa è durata solo qualche ora, ma è un altro segnale del caos dilagante. Ieri sera, in compenso, si è sbloccata la vicenda della 25enne volontaria inglese Kate Burton, rapita tre giorni prima assieme al padre Hugh e alla madre Helen. Mentre cominciava a diffondersi un serio allarme, fonti giornalistiche britanniche, poi confermate da dirigenti della sicurezza palestinese, hanno annunciato l'imminente rilascio dei tre. Consapevole del crescente disordine e del malessere di tutta la popolazione il leader di Fatah Marwan Barghouti, grande favorito delle elezioni del 25 gennaio nonostante la condanna a cinque ergastoli comminatagli da Israele, lancia un appello scusandosi per la corruzione e «gli errori commessi da Fatah in questi anni». Barghouti, rientrato da numero uno nella lista di Fatah dopo averne fatto estromettere la vecchia guardia "arafatiana", ha chiesto ieri ai palestinesi di «concedere a Fatah una nuova opportunità rinnovandole la fiducia per un'ultima volta». La vicenda che ha portato alla temporanea fuga degli osservatori europei e alla chiusura del valico di Rafah inizia giovedì pomeriggio. Ad innescarla è l'arresto di un trafficante di droga legato ad uno dei tanti clan delinquenziali della Striscia. Poche ore dopo un gruppo di uomini armati circonda la stazione di polizia dov'è detenuto il trafficante, ne chiede il rilascio e sottolinea la richiesta aprendo il fuoco sull'edificio. La risposta della polizia scatena una battaglia urbana che dilaga fin sotto la residenza di Gaza del presidente palestinese Mahmoud Abbas e causa l'uccisione di un poliziotto e di uno sfortunato passante. Ieri mattina i colleghi dell'agente ucciso, i suoi familiari e un gruppetto di miliziani di Fatah decidono di far pressione sull'Anp per ottenere l'immediata esecuzione del detenuto. E per aver la sicurezza di venir ascoltati decidono di puntare su Rafah. Quel transito, garanzia per la prima volta in trent'anni di una minima libertà di movimenti, rappresenta l'unico vantaggio concreto conseguito dalla popolazione palestinese dopo il ritiro israeliano. Per il centinaio di poliziotti e simpatizzanti conquistarlo è un gioco da ragazzi. I primi a tagliare la corda sono gli uomini della sicurezza palestinese. Dietro si muovono i disarmati osservatori europei, tra cui il comandante italiano e un gruppetto di carabinieri, costretti a chiedere asilo in una vicina base israeliana. Il ritiro europeo determina l'immediata chiusura di Rafah, che rimane per tre ore nelle mani dei poliziotti in rivolta. La riapertura arriva dopo la rituale trattativa, il ritiro degli agenti e il ritorno ai loro posti delle forze di sicurezza dell'Anp e degli osservatori europei. Non è ancora invece stato chiarito in seguito a quale trattativa sia stato ottenuto il rilascio della volontaria inglese e dei suoi due genitori rapiti mercoledì non distante dal valico di Rafah. Ancora ieri Ala Housni, capo della polizia di Gaza, minacciava di usare la forza. «Sono dei nemici del popolo palestinese - aveva detto Ala Housni parlando dei rapitori -, li prenderemo anche a costo di impiegare la forza». Ma nella stessa conferenza stampa aveva ammesso di non avere alcuna informazione né sui rapitori, né sulle loro intenzioni, né sul possibile luogo di detenzione della famiglia inglese. Poi, in serata, la svolta positiva. (Il Giornale, 31 dicembre 2005) 2. IL TORBIDO QUADRO INTERNO PALESTINESE Il peggiore nemico della Palestina: la Palestina di Giovanni Vagnone Il difficile processo di pacificazione nell'area mediorientale ha diversi nemici e molte complicazioni. Senz'altro, una complicazione di prim'ordine, molto di più della rivalità e dell'odio per Israele, è quella che la Palestina di oggi, di Abu Mazen, si trova a fronteggiare nei rapporti con la Palestina di ieri, ovvero di Yasser Arafat. Farebbe sorridere, se dietro non ci fossero drammi così grossi e umani, stare ad osservare quanti in Occidente si dichiarino filo-palestinesi, interpretando una lotta armata, fatta di terrorismo da un lato e di resistenza attiva dall'altro, come un rapporto tra oppressi ed oppressori: questi signori, questi opinionisti schierati e militanti, vedono in Israele lo spettro della difesa e non lo possono tollerare; lo tacciano di razzismo, e se per farlo devono essere anti-sionisti e anche antisemiti non è poi problema così grosso: se lo stesso faceva il Comunismo storico che tanto ha fatto per le povere genti, altrettanto si può fare ancora oggi per difendere il bambino palestinese immancabilmente fucilato dai soldati ebrei, spietati, brutti e cattivi, che hanno risposto così ad un lancio di ghiaia. E si invertono i ruoli, tra aggrediti ed aggressori, il terrorista che si fa saltare in aria diventa vittima, e così via nel solito giramento di frittata che davvero, al di là della gravità della questione, ci avrebbe già stufato. Ma le cose non sono così semplici, perché nessuno tiene in conto il problema palestinese della Palestina che vuole essere Stato, che vuole convivere con Israele o spazzarlo via (questo non lo si è ancora ben capito, bisogna vedere dalle fonti che si consultano). E tali problemi non sono idee d'intellettuale o di commentatore, sono crisi che stanno spingendo il presidente dell'Anp alle dimissioni, motivate dalla verifica dell'impossibilità di disarmare senza traumi i troppi servizi di sicurezza che Arafat volle. Nel 2003 sempre Abu Mazen disse di non essere disposto a rischiare una guerra civile in Palestina per disarmare le milizie, neanche su richiesta dell'Europa; lo disse ad un Franco Frattini che gli chiedeva di applicare la road map disarmando i gruppi di terroristi palestinesi. Ma la guerra civile c'è già, come viene definita dal Foglio di martedì 27 dicembre, ed è una guerra civile strisciante. Il tessuto sociale e politico palestinese è stato sfigurato e trasformato interamente dall'Intifada delle stragi voluta da Yasser per più di quattro anni; e tanto profondo è stato il mutamento, che oggi Abu Mazen si è ritrovato costretto a porre nel ruolo di leader del partito lo stesso Marwan Barghouti, capo dell'Intifada. Non basta più, insomma, togliere le armi ad una decina di gruppi armati, perché su ogni livello rappresentativo ormai si ragiona con le armi: non solo le elezioni, ma anche le formazioni delle liste elettorali si sviluppano passo dopo passo con occupazioni armate di sedi di partito (è l'esempio di al Fatah), e questo perché non più solo i gruppi, ma anche le correnti interne ai partiti hanno armi e le usano. Come movimento di liberazione nazionale, il quadro interno palestinese si presenta davvero torbido, tra violenza, corruzione, ricatti e prevaricazioni. E di dubbi sulla democraticità delle prossime elezioni politiche, a prescindere dalla partecipazione o meno di Hamas, ne nascono parecchi, per il fatto che nei primi dieci mesi del 2005 i morti palestinesi per mano palestinese sono stati 151 (molti di più di quelli uccisi dagli israeliani nelle più svariate operazioni), un numero in crescita visto che l'anno scorso erano stati 93 e quello prima 65. Considerando tutto questo, ripensiamo ai poveri israeliani, che si trovano a confinare con un Paese che sta cadendo sempre più indietro sul percorso della democrazia, incastonati per di più in una delle aree più pericolose del mondo. Pensiamo sì agli effetti psicologici dei continui attentati che subiscono, ma non solo a quelli: pensiamo a quali soluzioni possano intravedere, quando lo stato che si pone loro innanzi come soggetto è uno stato di questo tipo. E dopo tutto questo chiediamoci: perché la nostra sinistra si ostina, spesso e volentieri, ad essere filo-palestinese? Le risposte che si affacciano alla mente sono poche e semplici: per anti-americanismo, anti-sionismo, anti-semitismo o in un chiaro ed unico concetto per «razzismo all'incontrario». (Ragionpolitica.it, 30 dicembre 2005) 3. I DEBITI DELLE CHIESE DI GERUSALEMME Il Vaticano e una serie di Chiese cristiane a Gerusalemme sono debitori verso la Municipalità per centinaia di milioni di shekel in tasse sulla proprietà non pagate, mentre sono in corso trattative tra lo Stato di Israele e la Santa Sede sul saldo del debito. Secondo la legge israeliana, gli immobili utilizzati come luoghi di preghiera sono esenti dal pagamento della tassa di proprietà. Ma le Chiese, spiegano i funzionari della municipalità, che posseggono vaste proprietà immobiliari nella città di Gerusalemme, sono tenute a pagare le tasse di proprietà su tutti i loro edifici che non vengono usati per il culto, come alberghi e scuole. La somma totale in tasse di proprietà non pagate si aggira sui 300 milioni di shekel (più di 55 milioni di euro), soprattutto a carico del Patriarcato Latino. "I debiti in questione si legge in una nota di Rafi Sham, vice portavoce della municipalità riguardano molte istituzioni ecclesiastiche a Gerusalemme e si riferiscono in primo luogo a enti loro contigui come istituzioni educative, ostelli e pensioni, auditorium ecc. di proprietà delle Chiese. Nel quadro dei negoziati fra Stato di Israele e Vaticano è stato concordato di congelare la riscossione dei debiti delle istituzioni religiose, sia a livello nazionale che a livello locale, fino al termine delle trattative". È previsto un incontro il prossimo mese fra le due parti nello sforzo di arrivare a un accordo, spiegano i funzionari israeliani, ma il Vaticano sembrerebbe disposto a pagare solo una cifra simbolica. L'ambasciata del Vaticano a Gerusalemme ha declinato ogni commento sulla questione del debito verso il fisco israeliano. (Jerusalem Post, 23 dicembre 2005 - da israele.net) 4. LE VITTIME DELL'OLOCAUSTO CONTINUANO A SOFFRIRE In Israele il 40% dei sopravvissuti all'Olocausto vive sotto la soglia di povertà Secondo Zèev Factor, direttore della Fondazione per il benessere dei sopravvissuti all'Olocausto, «vivono con meno di 400 dollari al mese, sono estremamente anziani e molti di loro vivono in precarie condizioni di salute». GERUSALEMME - Il 40 per cento dei sopravvissuti all'Olocausto e residenti in Israele vivono sotto la soglia di povertà. Nel 2005, in Israele, c'erano circa 400.000 sopravvissuti allo sterminio nazista: secondo Zèev Factor, direttore della Fondazione per il benessere dei sopravvissuti all'Olocausto, «negli ultimi 10 anni, ne sono arrivati circa 170.000 provenienti dalle ex-repubbliche sovietiche negli ultimi 10 anni, in gran parte con oltre 65 anni d'età». «Costoro vivono con meno di 400 dollari al mese, sono estremamente anziani e molti di loro vivono in precarie |
condizioni di salute», ha detto ai media israeliani Factor, secondo il quale la sua fondazione non ha fondi sufficienti per aiutare gli indigenti. I sopravvissuti giunti in Israele dopo la seconda Guerra Mondiale ricevono pensioni da diverse istituzioni (i governi tedesco, austriaco, svizzero, lo Stato israeliano, le organizzazioni giudaiche internazionali); quelli invece che sono arrivati dall'Europa dell'est, non ricevono alcuna sovvenzione pubblica. (La Gazzetta del Mezzogiorno, 29 dicembre 2005) 5. NEL 2006 L'IRAN AVRÀ IL MATERIALE PER L'ATOMICA Israele ha paura di Giorgio Raccah GERUSALEMME - Già nei primi mesi del 2006, l'Iran avrà acquisito la piena capacità tecnologica di produrre materiale fissile per la fabbricazione di bombe atomiche. Questo il grido d'allarme lanciato oggi dal capo del Mossad, Meir Dagan, nel fare un consuntivo della situazione politica, militare e strategica di Israele alla commissione esteri e difesa della Knesset. L'avvertimento del Mossad concorda con quello lanciato di recente anche dal capo dell'intelligence militare, generale Aharon Zeevi (Farkas). «Se non interverranno azioni esterne di disturbo - ha detto Dagan - tra alcuni mesi l'Iran sarà tecnologicamente indipendente per quanto riguarda l'arricchimento dell'uranio; da quel momento sarà solo questione di tempo prima che disponga di materiale fissile in quantità sufficiente fabbricare la bomba (atomica)». Il governo di Teheran, ha aggiunto, è deciso a produrre armi nucleari. Le preoccupazioni di Israele, ha detto, sono condivise dai paesi arabi che non vogliono un Iran in possesso di armi atomiche. Teheran afferma invece di essere interessato a sviluppare le sue capacità nucleari a fini pacifici. Ha fatto eco a Dagan il presidente della commissione, Yuval Steinitz (Likud). Se l'Iran riuscirà a disporre di armi nucleari e dei mezzi per usarle, ha detto, «ci troveremo davanti a un nuovo Medio Oriente, più minaccioso, pericoloso e nero». Steinitz ha aggiunto di stimare, in base alle informazioni in suo possesso, che l'Iran disporrà di materiale fissile per fabbricare la bomba entro un anno o due. «É dovere del mondo intero, con la guida degli Stati Uniti - ha continuato - sventare i progetti nucleari iraniani poiché per Israele si tratta di una minaccia esistenziale. Non spetta solo a noi risolvere questo problema». Un Iran sotto un regime islamico militante, con ambizioni egemoniche regionali e dotato di armi non convenzionali, è una minaccia, secondo Israele, anche per gli stati arabi della regione e in prospettiva anche per l'Europa, una volta che l'Iran sarà riuscito a montare testate nucleari sui missili di cui già dispone e su quelli a più lungo raggio che sta sviluppando. Ovvio però che in questo momento è Israele a sentirsi in prima linea, specialmente dopo le ripetute dichiarazioni del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad che ha apertamente auspicato l'eliminazione dello stato ebraico dalle carte geografiche della regione, definendolo "un tumore", e ha apertamente messo in dubbio l'Olocausto. Finora Israele ha detto di considerarsi parte di una coalizione internazionale contro i progetti nucleari iraniani e di privilegiare gli sforzi diplomatici che vengono esercitati su Teheran. Al tempo stesso ha anche più volte dichiarato che non permetterà all'Iran il possesso di armi di distruzione di massa, lasciando così trapelare la possibilità di una sua azione militare. Ma questa appare oggettivamente molto difficile in considerazione del fatto che l'Iran ha disperso in tutto il paese i suoi impianti nucleari, molti dei quali sono situati sottoterra a grande profondità o sono stati camuffati nel cuore di località densamente abitate. (Il Cittadino, 28 dicembre 2005) 6. AL QAIDA CONTRO HAMAS? Dopo l'Afganistan Al Qaida decide di sbarcare a Gaza di Massimo Introvigne Al Qaida ha reclutato terroristi nelle moschee radicali del mondo arabo e dell'Europa prima per addestrarli in Afganistan, poi - chiusi i campi afgani nel 2001 - per farli combattere in Irak. Un documento di cinquecento parole - La terra di confine - annuncia ora l'avvio di una terza fase: completato il ritiro di Israele da Gaza, è per concentrarsi in quella striscia, nucleo del futuro Stato palestinese, che Al Qaida intende continuare il reclutamento. Il documento è un'implicita ammissione del fatto che le possibilità operative per Al Qaida potrebbero diminuire in Irak dopo le elezioni. Ma dalla guerra afgana in poi, Al Qaida ha sempre avuto bisogno di un luogo dove i suoi militanti potessero non solo addestrarsi ma combattere: solo chi ha combattuto una guerra - in Afganistan, in Bosnia, in Irak - è considerato adatto a dirigere successivamente le cellule che preparano attentati in Occidente. Secondo il documento, a Gaza è già in atto una guerra fra i «politici che obbediscono a decisioni e ordini americani» e i «guerrieri» di Hamas, del Jihad Islamico e (sembra) anche delle Brigate dei Martiri Al Aqsa, che Al Qaida non considera completamente controllabili dal governo laico-nazionalista di Abu Mazen. Al Qaida invita volontari, specie della diaspora in Europa, a concentrarsi a Gaza a mano a mano che questo diventa tecnicamente possibile. Gaza dovrà diventare anzitutto la base per attentati terroristici contro località turistiche frequentate da europei sulla scia di quelli compiuti a Taba nel 2004 e a Sharm el-Sheikh nel 2005, esplicitamente rivendicati. Ma a Gaza Al Qaida prevede la guerra civile: una guerra che legge con gli occhiali che applica all'Irak, dove vede un governo «servo degli americani» lottare contro «insorti» che sono in parte milizie internazionali inviate dalla stessa cupola di Al Qaida, in parte nazionalisti laici nostalgici di Saddam e non disposti a deporre le armi, con cui ci sono state alleanze tattiche nonostante le divergenze dottrinali. In Palestina al governo di Abu Mazen «servo degli americani» l'analisi di Al Qaida contrappone le milizie islamiche (Hamas e Jihad Islamico) e quei «nostalgici di Arafat» che non vogliono rinunciare alla lotta armata, che certamente non la pensano come Bin Laden ma con cui ritiene possibile collaborare. L'afflusso di volontari internazionali di Al Qaida servirebbe a dare la spallata decisiva ad Abu Mazen e fare di Gaza una base da cui riprendere in grande stile gli attentati suicidi contro Israele. Il problema per Al Qaida in Palestina si chiama Hamas. Mentre il Jihad Islamico e anche gli elementi più radicali e ostili ad Abu Mazen delle Brigate al-Aqsa non sono insensibili alle sirene di Bin Laden, Hamas da anni diffida di Al Qaida quando non la attacca apertamente. Hamas, come mostrano i risultati delle amministrative con le vittorie di Nablus e Jenin, pensa di poter vincere le elezioni politiche palestinesi o comunque uscirne così rafforzata da potere condizionare qualunque governo senza bisogno della pericolosa e scomoda tutela di Al Qaida. In Israele sono i falchi del Likud che rimproverano a Sharon di avere aperto ad Al Qaida le porte della Palestina con il ritiro da Gaza. Paradossalmente, Sharon conta sul fatto che le milizie armate che potrebbero impedire a Bin Laden di insediarsi a Gaza sono proprio quelle di Hamas. In ogni caso, Israele vigila e se l'afflusso di volontari stranieri di Al Qaida verso Gaza dovesse assumere proporzioni significative, non esclude affatto interventi diretti. (Il Giornale, 23 dicembre 2005) 7. ALLA RICERCA DELLA BIBLICA EMMAUS BASEL/MOZA - Continuano gli scavi archeologici della "Theologische Hochscule Basel" (STH) per la localizzazione della neotestamentaria Emmaus. L'archeologo Lutz, di Schönaich vicino a Stuttgart, proseguirà il progetto di scavo dopo la morte del suo predecessore. Carsten Peter Thiede, professore di Scienza dell'ambiente e Storia del Nuovo Testamento alla STH, è morto nel 2004. Le ricerche si svolgono a Moza, su un territorio statale che si trova ad ovest di Gerusalemme. Questo ha comunicato recentemente la STH. Il progetto porta il titolo di "Emmaus 2006" e sarà portato avanti per diversi anni. Nel 2001 l'Autorità Israeliana per l'Antichità ha concesso alla STH di Basilea un permesso di scavo. I ricercatori vogliono scoprire dove si trova esattamente la località Emmaus che viene nominata nel vangelo di Luca al capitolo 24, versetti 13-35. L'evangelista Luca riferisce di due discepoli che camminano da Gerusalemme verso Emmaus e per strada incontrano il Cristo risuscitato. Quasi tutti i luoghi citati nel Nuovo Testamento sono stati individuati, ma la localizzazione di Emmaus continua ad essere in discussione. Negli scavi di agosto 2006 sembra che siano stati individuati degli strati del periodo del secondo tempio erodiano. Stando alle scoperte del professor Thiede, Emmaus si trovava probabilmente nelle vicinanze dell'attuale Moza, ad ovest di Gerusalemme. Il luogo si trova ad una distanza di circa 11 chilometri da Gerusalemme, proprio come afferma Luca. Anche lo storico ebreo Giuseppe Flavio ha nominato la località Emmaus. I lavori di ricerca effettuati fino ad ora nelle vicinanze di Moza hanno evidenziato che la zona è stata sempre abitata, dai tempi dell'Antico Testamento fino al periodo delle crociate del XII secolo. Dopo il progetto di scavo "Emmaus 2006" avrà luogo un'esposizione e una serie di conferenze. E' già stato pubblicato un libro del professor Thiede sulla situazione degli scavi fino a questo momento. Il titolo è: "The Emmaus Mystery: Discovering Evidence of the Risen Christ". E' uscito in aprile in lingua inglese. Studenti e laici interessati possono prendere parte al progetto di scavo. Per i partecipanti sono previste anche conferenze, escursioni e incontri. (Israelnetz Nachrichten, 22 dicembre 2005) MUSICA E IMMAGINI Sivivon INDIRIZZI INTERNET Jerusalem Italian Jews Association Noi Vogliamo Mashìach Adesso! Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |