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Notizie su Israele 329 - 16 gennaio 2006 |
1. Una valutazione di Ariel Sharon
2. Dolorose concessioni 3. Il ritorno del Mahdi 4. Intervista a Bernard Lewis 5. Conti in rosso dopo la conquista di Gaza 6. Antisemitismo in Russia 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. UNA VALUTAZIONE DI ARIEL SHARON
Solo i guerrieri portano la pace di Andrea Chiabrando In queste ore il vecchio guerriero, Ariel Sharon, Arik, come lo chiamano tutti, sta combattendo la sua ultima battaglia, ed anche se riuscirà a tenere lontano la morte ancora per un po', non tornerà mai più sulla breccia. Paradossalmente, ma solo in apparenza, quello che è sempre stato uno dei più duri soldati di Israele, si è anche rivelato la più concreta speranza di pace per quella tormentata nazione. Con Sharon scompare la vecchia guardia della Fondazione, una generazione di uomini dotati di un carisma immenso, che hanno passato tutta la vita prendendo decisioni logoranti, decisioni che se si fossero rivelate sbagliate, avrebbero comportato la fine di Israele come nazione. Non sempre furono saggi, non sempre furono moderati, ma sempre, anche quando si scontravano tra di loro su obbiettivi e politiche, servirono il loro paese. L'uomo che guidava di notte piccoli gruppi di commandos oltre le linee arabe nel 1948, che caricava con jeep armate di mitragliatrici nel 1956, che nel 1967 conquistò la striscia di Gaza come zona cuscinetto, che nel 1973 spezzò la schiena alle colonne corazzate egiziane, l'uomo a cui sempre gli israeliani hanno guardato quando la loro sicurezza è stata in pericolo, dalla guerra convenzionale alle bombe umane, si è anche rivelato l'uomo che ha avviato un fragile ma effettivo percorso di pace. Nel 2005, forte del suo prestigio di difensore di Israele, ha fatto quello che a nessun altro sarebbe stato permesso, ha ceduto territori che una parte degli israeliani considerano terra patria ai palestinesi in cambio di una maggiore sicurezza. Sharon ha evacuato forzosamente gli estremisti ed i coloni ortodossi, i propugnatori del Grande Israele, dalla striscia di Gaza, attuando un piano di separazione reale dello stato palestinese da quello israeliano. Non si è mai fidato di Arafat, e la storia probabilmente gli darà ragione, ma non si è mai neppure fidato dei palestinesi, che stanno dimostrando di non essere in grado di decidere del proprio destino, in balia di divisioni e lotte interne, e che soffrono per una mancanza di direzione unitaria e di strategie pagate con quasi sei decadi di esilio. La ragione, come in ogni vicenda umana, non prende dimora presso nessuno in modo stabile, ed i torti si sono sommati da ambo le parti sin dal principio di questa tragedia, rendendo impossibile ormai dipanare una faida che sembra eterna. Sharon non ci ha neppure provato, la sottigliezza non è mai stata una delle caratteristiche che gli hanno attribuito. Il suo compito era chiaro, difendere Israele, ed al suo compito si è mantenuto fedele, ed è questa la chiave di lettura per il suo lascito politico, il nuovo partito Kadima, Avanti in ebraico, che questo si propone appunto di fare, guardare avanti. La strada della cessione territoriale è perfettamente logica per il vecchio guerriero, ed al pari del muro, il tanto contestato muro, serve a difendere Israele, separando lo stato palestinese da quello israeliano, passo indispensabile per poter avviare un processo di cicatrizzazione di una ferita che sanguina dal 1948. Il problema maggiore è che Sharon si è fermato a metà dell'opera, e che quello che sarebbe stato concesso, tra invettive e minacce, ma concesso a lui, non lo sarà ai suoi successori, su cui grava ancora l'incertezza rispetto a chi dovrà indossarne il mantello. Da parte palestinese manca un interlocutore autorevole, lo scontro con Hamas è all'ordine del giorno, ed una vittoria di questa formazione rallenterebbe negoziati che sono già in grave pericolo. Quattro sono i candidati più probabili alla successione, Ehud Olmert, fedele vice ed ora nuovo presidente pro tempore di Kadima, Shimon Peres, nuovo aggiunto al partito di Sharon, e serio competitore per la sua guida, legato però al Partito del Lavoro, e privo dell'autorità di Sharon. Amir Peretz, il nuovo leader del Partito del Lavoro potrebbe cercare di riavviare il processo di pace, ma prima deve rafforzare la sua posizione, e convincere il suo partito a muoversi compatto, prendendo decisioni impopolari. Resta Benjamin Netanyahu, il vecchio falco, capo indiscusso del Likud, e promotore dell'Israel First, prima Israele, le cui quotazioni potrebbero salire vertiginosamente se le violenze ricominciassero su larga scala. Gli israeliani sono stanchi di guerre, ma sulla sicurezza non sono disposti a fare concessioni, non quando nuovi nemici sorgono alle frontiere, come l'Iran di Ahmadinejad, o la Siria di Assad junior, e vecchi nemici come Hamas ne rivendicano la distruzione. Barak potrebbe forse tornare sulla scena politica, e raccogliere il lascito di Sharon, ma solo i prossimi mesi, e le elezioni di gennaio potranno mostrare dove soffierà il vento in Medio Oriente, e se sarà un vento di morte o un vento di speranza. In ogni caso, la risposta che il Saladino una volta diede ad un ospite rimane sempre valida " solo i guerrieri portano la pace " (GiornAl.it, 16 gennaio 2006) 2. DOLOROSE CONCESSIONI E Israele fondò la Palestina di Daniele Bellasio* La storia racconterà che fu un generale israeliano il fondatore dello Stato palestinese. Perché nella terra dei paradossi mediorientali succede anche questo. Accade che il premier israeliano Ariel Sharon metta in atto una strategia ferma, giusta ed efficace di contrasto, per quanto possibile, al terrorismo, creando però attraverso il ritiro unilaterale da Gaza, come primo passo e primo test per un futuro disimpegno pure dalla Cisgiordania anche una prospettiva politica per i palestinesi, che ora si ritrovano con la piena sovranità su un tratto della loro terra e con un confine, il valico di Rafah, sotto il loro diretto controllo. Ma nel fondare, indirettamente, l'embrione del futuro Stato palestinese, Ariel Sharon sta rifondando anche la politica israeliana, con la nascita di un partito "Kadima" (Avanti) che raccoglie leader e militanti e consensi a destra, a sinistra e al centro. Dopo il no arafattiano a Camp David e la seconda Intifada palestinese, da leader del Likud Sharon ha proposto al suo paese un piano chiaro basato su principi netti e azioni concrete: nessuna trattativa sotto le bombe, operazioni militari contro le reti e le basi di Hamas e dintorni, barriera di difesa per fermare le infiltrazioni terroristiche, uccisioni e arresti mirati dei leader dei gruppi armati del jihad, ritiro unilaterale da Gaza. Per ora, con tutti i rischi e i pericoli e i costi in vite umane propri di una zona di guerra a bassa (e a volte alta) intensità, ha funzionato, magari anche grazie al fatto che non arrivano più i lauti assegni di Saddam Hussein per le famiglie dei kamikaze che si immolano per uccidere ragazzi israeliani in un ristorante di Gerusalemme. Ma per far funzionare il suo piano il premier ha dovuto rivoluzionare molte delle idee sue, dell'opinione pubblica israeliana e soprattutto del suo vecchio partito. Il principio non è più dopo il rifiuto della mediazione Clinton da parte di Yasser Arafat non poteva più esserlo "pace in cambio di territori", ma "sicurezza per arrivare alla pace". Ispirandosi a questo criterio, Sharon ha più volte detto che Israele avrebbe dovuto e sta già facendo "dolorose concessioni". Il suo partito fino a un certo punto lo ha seguito, ma poi il rivoluzionario Sharon ha capito che un cambiamento siffatto di prospettiva chiamava anche un nuovo scenario politico in Israele, soprattutto in vista delle elezioni anticipate alla fine di marzo del 2006. Anche perché a sinistra, in gran parte della sinistra, non veniva offerta alcuna alternativa alla nuova strategia sharoniana, anzi si faceva sempre più forte l'idea che il piano del premier fosse l'unico possibile, il piano giusto. La sicurezza, il ritiro, la pace, in quest'ordine e con questa determinazione. Ecco che cosa hanno condiviso con il premier molti degli esponenti del Likud che lo hanno seguito in Kadima. Ecco su che cosa anche il premio Nobel Shimon Peres è stato d'accordo con Sharon, al punto di entrare nel suo partito. Ecco che cosa ha attratto perfino il partito più pacifista e più legato al processo di Oslo, cioè il Meretz di Yossi Beilin, pronto a considerare la scelta di entrare in una futura coalizione con Kadima. Opportunità che dovrà prima o poi vagliare anche il partito laico e nazionalista e liberista Shinui, che si vede un po' in imbarazzo di fronte a una nuova forza politica come quella di Sharon che forse non può essere definita di centro, ma comunque quella zona del campo occupa e occuperà in futuro. Il Likud (quel che ne resta dopo la fuoriuscita di Sharon e dei molti sharoniani) un po' è rimasto legato al sogno della Grande Israele e un po' ha preferito continuare a parlare soltanto di sicurezza, non volendo nemmeno immaginare ulteriori ritiri unilaterali. I laburisti, invece, hanno per ora saputo scegliere soltanto e comunque, visti i loro recenti travagli interni non è poco un nuovo leader, il sindacalista baffuto e robusto di personalità Amir Peretz, ma sono ancora alla spasmodica ricerca di un'idea, di una visione alternativa a quella di Sharon. Così ora i sondaggi (e presto gli elettori) danno ragione a Kadima, mentre Israele sta per avere uno scenario politico completamente rivoluzionato dalle rivoluzioni politiche e strategiche del suo premier. Così ora la stampa internazionale, le diplomazie di tutto il mondo, perfino la sinistra europea sono costrette a rivedere i loro giudizi sul bulldozer Arik. Così ora i paesi arabi hanno sempre meno alibi per disinteressarsi della causa palestinese, addossando tutte le colpe al piccolo Satana israeliano. Così ora i palestinesi sono di fronte alla prova decisiva: hanno la possibilità, intanto a Gaza ma poi anche in Cisgiordania, di dimostrare di saper governare l'embrione del loro Stato, di voler combattere il terrorismo, di desiderare una democrazia che viva in pace a fianco alla democrazia israeliana. Il presidente palestinese Abu Mazen per ora fa poco perché poco può fare, ma il tempo stringe. E' suo interesse, è interesse del suo popolo disarmare Hamas e dintorni, e in questo Israele con le operazioni anti-terrore e le uccisioni mirate del recente passato gli ha dato un oggettivo aiuto. E' suo compito ripulire il proprio partito, al Fatah, dalle corruzioni finanziarie e terroristiche. Il sostegno degli Stati Uniti per ora al rais non manca, ma non è più tempo di rais tentenna. Il Medio Oriente sta cambiando a velocità inimmaginabili, grazie anche alla strategia dell'amministrazione Bush. Israele si trasforma e si sta preparando, politicamente e culturalmente, ad accogliere la nascita del vicino Stato palestinese. Qualche paese arabo, come l'Egitto e la Giordania, inizia a capire che è giunto il momento di far qualcosa per il bene dei suoi fratelli. L'Europa non ha mai fatto venir meno il suo sostegno alla causa palestinese, fino anche a punte eccessive di incrostazioni diplomatiche sulla messa fuori legge (poi decisa) di Hamas e (non ancora decisa) di Hezbollah e di rivoli finanziari finiti chissà dove nelle tasche del jihad. Ci sono le condizioni perché l'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen inizi a fare quei passi che l'Israele di Sharon finora è stato costretto a fare da solo. (Ideazione, gennaio-febbraio 2006) * Daniele Bellasio, vicedirettore de Il Foglio, si occupa di politica estera e Medio Oriente. COMMENTO - Purtroppo tutto fa prevedere che l'effetto delle «dolorose concessioni» sarà soltanto una lunga serie di dolori per Israele. 3. IL RITORNO DEL MAHDI La minaccia mistica di Mahmoud Ahmadinejad di Daniel Pipes
Ciò non sorprende affatto, si tratta di un termine religioso prettamente tecnico. Mahdaviat deriva da mahdi che in arabo sta per "colui che è ben guidato", un'importante figura dell'escatologia islamica. Costui è , come spiega l'Encyclopaedia of Islam, "il restauratore della religione e della giustizia che governerà sino alla fine del mondo". Il concetto ha origine nei primissimi anni dell'Islam e, col passare del tempo, si è identificato in particolar modo con il credo sciita. Se "la figura del mahdi non è mai diventata parte essenziale della dottrina religiosa sunnita", prosegue l'enciclopedia, "la credenza nell'arrivo del Mahdi, appartenente alla Famiglia del Profeta, costituisce un aspetto centrale del credo dello Sciismo radicale", che equipara l'arrivo del Mahdi al ritorno del Dodicesimo Imam. Il termine mahdaviat significa "credere nel Mahdi e preparare il suo arrivo". In un ottimo pezzo di cronaca, Scott Peterson del quotidiano Christian Science Monitor mostra la centralità del concetto del mahdaviat nel modo di pensare di Ahmadinejad ed esplora le implicazioni di ciò nella sua linea politica. Ad esempio, quando Ahmadinejad era ancora sindaco di Teheran nel 2004, egli sembra aver segretamente dato ordine al consiglio comunale di costruire un grande viale per preparare il ritorno del Mahdi. Un anno dopo, da Presidente, egli stanziò 17 milioni di dollari per una moschea piastrellata di blu prettamente associata al mahdaviat che sorge a Jamkaran, a sud della capitale. Ahmadinejad ha incoraggiato la costruzione di una linea ferroviaria diretta che collega Teheran a Jamkaran. Si dice che egli abbia lasciato cadere in un pozzo adiacente alla moschea di Jamkaran un foglio contenente una lista dei membri di Gabinetto da lui proposti per trarre benefici dal suo supposto legame divino. Ahmadinejad solleva di frequente l'argomento e non solo davanti ai musulmani. Parlando davanti alle Nazioni Unite nel settembre scorso, egli sconcertò il suo pubblico costituito dai leader politici mondiali concludendo il suo intervento con una preghiera a favore dell'apparizione di Mahdi: "O Potente Signore, ti prego di sollecitare l'arrivo del tuo massimo depositario, il Promesso, quell'essere umano puro e perfetto, il solo che riempirà questo mondo di giustizia e pace". Una volta tornato in Iran da New York, Ahmadinejad ricordò l'effetto sortito dal discorso davanti alle Nazioni Unite col dire: «Un membro del nostro gruppo mi ha raccontato di avermi visto attorniato da una luce, quando iniziai a dire "nel nome di Allah il potente e misericordioso". Io mi sentii circondato da questa aura. Avvertii che l'atmosfera cambiò di colpo e per quei 27-28 minuti, i leader di tutto il mondo rimasero a bocca aperta ( ) ed erano rapiti. Era come se una mano li trattenesse e avesse spalancato i loro occhi per ricevere il messaggio della Repubblica islamica.» Ciò che Peterson definisce come "l'ossessione presidenziale" per il mahdaviat induce Ahmadinejad a "una certezza che lascia poco spazio al compromesso. Dall'obiettivo di colmare il baratro esistente tra ricchi e poveri in Iran, alla sfida lanciata a Stati Uniti e Israele e al consolidamento della potenza iraniana grazie ai programmi nucleari, ognuna di queste questioni è volta a gettare le basi per il ritorno del Mahdi". |
"Il mahdaviat è un codice per la rivoluzione [islamica dell'Iran] ed è lo spirito della rivoluzione", asserisce il direttore di un istituto che si occupa di studiare e accelerare la comparsa del Mahdi. "Questo tipo di mentalità rende molto forti" osserva Amir Mohebian, redattore politico del quotidiano Resalat. "Se pensassi che il Mahdi arriverà nel giro di due, tre o quattro anni, perché dovrei essere remissivo? È questo il momento di assumere una posizione inflessibile, di essere duro". Come riferisce la PBS, alcuni iraniani "in ansia per il fatto che il loro nuovo Presidente non ha timore del tumulto internazionale, potrebbero pensare che ciò sia un segnale divino". Il mahdaviat ha dirette e infauste conseguenze per il braccio di ferro tra Stati Uniti e Iran, dice Hamidreza Taraghi, membro dell'intransigente Islamic Coalition Society e sostenitore di Ahmadinejad. Esso comporta che Washington viene considerata come la rivale di Teheran e perfino come un falso Mahdi. Per Ahmadinejad, la priorità maggiore consiste nello sfidare l'America e, in particolar modo, nel creare uno straordinario Stato modello basato sulla "democrazia islamica", col quale opporsi ad essa. Taraghi prevede che in seguito saranno guai, se gli americani non cambieranno radicalmente i loro modi. Mi piacerebbe ribaltare quanto asserito. I leader più pericolosi della storia moderna sono coloro (come Hitler) che furono provvisti nella loro stessa missione di un'ideologia totalitaria e di una convinzione mistica. Mahmoud Ahmadinejad soddisfa entrambi questi criteri, come mostrato dai commenti da lui espressi alle Nazioni Unite. E ciò, insieme al suo previsto arsenale nucleare, lo rende un avversario da fermare, e con una certa urgenza. (New York Sun, 10 gennaio 2006 - dall'archivio di Daniel Pipes) 4. INTERVISTA A BERNARD LEWIS «Ahmadinejad vuole la fine del mondo» di Fiamma Nirenstein Quando Bernard Lewis, il grande storico mediorientalista, parla, è il caso di starlo bene a sentire: fu lui a capire per primo, unico ad aver letto gli scritti dell'ayatollah Khomeini, come il nuovo regime iraniano, accolto in genere come una benefica rivoluzione contro lo scià, fosse invece un fenomeno autoritario. Fu lui a capire già nel '98 come l'uomo alto che parlava contro «crociati ed ebrei» rappresentasse un pericolo mondiale: era l'allora sconosciuto Bin Laden. Fu lui a indicare ben prima delle elezioni che gli iracheni perseguivano con coraggio da leone il desiderio di libertà conculcato da Saddam Hussein. Di fronte al Medio Oriente del dopo Sharon e della minaccia nucleare iraniana, guardiamo il futuro insieme allo studioso, che compirà 90 anni a maggio. Professore, ha conosciuto Sharon? «Sì, l'ho incontrato diverse volte. Un uomo piacevole, ricco di umorismo, capace di istaurare una conversazione essenziale in semplicità. La sua scelta di evacuare Gaza testimonia coraggio e integrità. La fuoriuscita è stata compiuta con criteri ponderati, ben diversi dal ritiro dal Libano». Tanti dicono che, al contrario, ha suscitato negli arabi la stessa impressione: quella di una fuga. «Il modo in cui Israele si ritirò fu, anche se era giusto andarsene, disastroso. Sembrò una fuga davanti agli Hezbollah. E se gli Hezbollah ci erano riusciti, perché - pensa Hamas - noi non possiamo fare lo stesso? Eccitare gli animi è molto pericoloso da queste parti. Bin Laden vide nella ritirata russa dall'Afghanistan non il segno della crisi sovietica, ma la vittoria dell'Islam, e quindi la via della conquista globale». Sharon non ha fatto lo stesso? «Il suo sgombero, ben ordinato e compiuto senza abbandonare una dura guerra al terrorismo, ne abbia causato più di prima. Anzi». Forse la sua personalità di soldato è stata deterrente. Ma è una figura di svolta? «Sharon suscitava rispetto come militare; e come statista è paragonabile ad altri grandi personaggi che hanno cambiato la storia. Per esempio, Kemal Ataturk, che aveva la vittoria sui greci già in pugno e invece offrì generose condizioni di pace. Anche Sadat rinunciò alla presenza russa, che gli dava un vantaggio immediato, in favore della pace nell'area». Sharon dal tempo di Sabra e Shatila è stato ritenuto un leader guerrafondaio, sempre sotto accusa. «Il caso di Sabra e Shatila è unico al mondo. Là furono uccise 800 persone, purtroppo; ma a Hama il siriano Assad ne uccise fra le 10 e le 20 mila. Sabra e Shatila divenne un caso internazionale. Per Hama, niente. Sharon non ebbe a che fare con la strage perpetrata dai cristiani maroniti, se non per il fatto di non averla evitata. Ma ancora oggi è ritenuta colpa degli ebrei: è stata giudicata secondo il doppio standard che si applica agli ebrei, nei quali si cerca il male assoluto». Per molti, Sharon ha peggiorato il terrorismo. «Io lo giudico vittorioso: se ne vede molto meno, nonostante tutto». Fra pochi giorni ci saranno le elezioni palestinesi. Hamas può parteciparvi? I gruppi terroristi possono essere assorbiti o vanno tenuti fuori dagli sviluppi iracheni, palestinesi, libanesi? «Io credo che la democrazia sia una medicina molto potente, che può uccidere il malato. Quindi si devono individuare strade che ne mitighino e facilitino la crescita nel senso giusto. Hamas al governo può solo favorire la violenza, e lo stesso penso degli Hezbollah». La democratizzazione appare oggi così difficile. «Ci vuole pazienza. Anche in Iraq le cose vanno un po' meglio. Sarebbe assurdo abbandonare un popolo i cui giovani in fila per arruolarsi nella polizia vengono decimati da un terrorista suicida, e i superstiti si ripresentano all'indomani. Eppure ogni giorno in Europa e anche negli Usa c'è chi chiede di nuovo il ritiro. E' un'invito a considerarci come un insieme di vili e di vinti, un invito al terrorismo a diventare sempre più aggressivo, specie verso l'Europa». La grande novità è la furia di Ahmadinejad e dall'ingresso dell'Iran in una fase ulteriore del suo progetto nucleare. Cosa accadrà? «Niente di buono. Ahmadinejad ha più volte citato come suo compito la mahdaviat, la preparazione dell'arrivo del Mahdi che precede la fine del mondo. E dunque qualsiasi deterrenza di fronte a questo non vale: a lui non importa che Israele o altri potrebbero rispondere a un attacco nucleare contrattaccando Teheran. Non conta quanti morti si fanno per la vittoria finale dell'Islam. E' questo che Ahmadinejad crede con fede totale di star preparando». Cosa resta? La prevenzione armata? Le risoluzioni dell'Onu? «Non credo nella prevenzione armata: le centrali iraniane sono molte e ben nascoste. E non credo certo che l'Onu possa essere risolutiva per alcunchè. Comunque, è da evitare che il popolo si schieri in difesa del potere islamista. Credo invece in una intensiva e decisa solidarietà verso gli iraniani che desiderano tornare nel mondo della civiltà e della democrazia: devono sentire quanto ammiriamo la loro tradizione storica e culturale, e quanto li sosteniamo per il cambio di questo regime medievale e lunatico. Speriamo che l'Europa trovi finalmente la forza di agire». (La Stampa, 14 gennaio 2006) 5. CONTI IN ROSSO DOPO LA CONQUISTA DI GAZA A quattro mesi dal ritiro israeliano da Gaza l'economia dei Territori palestinesi ha deluso le aspettative di rilancio e prosperità che avevano fatto sognare, se pur per un breve peridodo, la popolazione. E' il bilancio stilato da Nigel Roberts, il rappresentante della Banca Mondiale incaricato di prendere in mano la situazione finanziaria palestinese che, disegna un quadro piuttosto nero dell'economia dei Territori. "Le casse dell'Anp sono sull'orlo della bancarotta", dice Roberts spiegando che nella striscia di Gaza quasi i due terzi della popolazione (1,4 milioni) vivono con 2,20 dollari al giorno, sotto la soglia della povertà, e la disoccupazione supera il 20 per cento con punte del 40 per cento nella fascia meridionale. Secondo la Banca mondiale, inoltre, in quella zona il 70 per cento dei giovani tra i 16 e i 25 anni è senza lavoro e quindi diventa facile conquista per le milizie di Hamas e i gruppi estremisti. Da parte della comunità internazionale, aggiunge Roberts, c'è la volontà di contribuire alla rinascita dell'economia palestinese attraverso uno stanziamento di fondi (5 miliardi di dollari in 5 anni) che rappresenta "l'assistenza finanziaria a uno Stato più grande dalla Seconda guerra mondiale". Tuttavia, spiega il responsabile della Banca Mondiale, il governo dell'Anp deve assumersi le sue responsabilità dimostrando di voler concretamente debellare corruzione e terrorismo. Trasparenza, ma anche iniziativa del settore privato. Queste le chiavi per il rilancio dell'economia secondo Salaam Fayyad, ministro delle Finanze dell'Anp che ha da poco rinunciato al suo incarico per partecipare alle elezioni del 25 gennaio. "La prima ragione della mancata crescita economica in Gaza e Cisgiordania è la restrizione alla mobilità di persone e merci. L'economia deve crescere dell'8 per cento l'anno. Un traguardo raggiungibile a condizione che siano eliminate le restrizioni". La tregua all'indomani del ritiro israeliano, ha modificato le strategie della comunità internazionale e le diplomazie europee, sono impegnate in prima linea per ridefinire i negoziati economici e quindi il sistema di restrizioni. Sulla vicenda dell'imminente scadenza elettorale di fine mese, interviene anche il rappresentante dell'Unione europea per la politica estera Javier Solana:"ll programma delle elezioni in Palestina dovrebbe procedere come pianificato, nonostante le gravi condizioni di salute in cui versa Ariel Sharon". (Il Denaro, 13 gennaio 2006) 6. ANTISEMITISMO IN RUSSIA La Russia studia come arginare l'ondata di antisemitismo L'incidente avvenuto qualche giorno fa in una sinagoga di Mosca riporta alla luce il problema della libera circolazione nel paese di materiale estremista e xenofobo, che fomenta i giovani, ma che non lascia illesa nemmeno la classe politica. Già l'anno scorso alcuni sondaggi indicavano nella Russia il paese più antisemita tra quelli cristiani. MOSCA - La Russia studia come arginare l'ondata di razzismo e antisemitismo che circola nel paese, emersa in modo drammatico dopo l'incidente di pochi giorni fa in una sinagoga di Mosca. Il fenomeno è in crescita e non esclude nemmeno la classe dirigente. L'11 gennaio scorso un ventenne ha aggredito e ferito con un coltello 9 fedeli. Il giovane Aleksander Koptsev ha confessato ieri di aver compiuto il gesto mosso da "odio razziale verso gli ebrei, perché vivono meglio". Nel suo interrogatorio l'aggressore ha raccontato che sulla sua decisione "hanno influito libri e siti web che parlavano della questione". Aleksander è un appassionato di giochi al computer. Secondo quanto trapela dall'interrogatorio, il ragazzo aveva giocato mezza giornata a Postal 2 - gioco in cui un tiratore virtuale deve colpire bersagli umani - prima di compiere l'aggressione. La Commissione del parlamento russo per le leggi civili, penali di arbitraggio e procedurali sta studiando sanzioni sulle attività via Internet o tramite giochi elettronici responsabili nel diffondere informazioni estremiste. Pavel Krasheninnikov, capo della Commissione, ha assicurato che i deputati si impegneranno a fare in modo che nessuno possa trovare "grandi quantità di materiale estremista", in particolare in Internet. Secondo il rabbino capo di Russia, Berel Lazar, la colpa dell'incidente "non è dello Stato, ma di tutta la società russa, troppo tollerante verso l'antisemitismo". Lazar ha poi proposto di istituire un gruppo di lavoro, che vigili sulla propaganda xenofoba di gruppi estremisti. Della stessa opinione Yitzhak Kogan, il rabbino della sinagoga attaccata: "Non c'è più un antisemitismo a livello statale, come in epoca sovietica, ma assistiamo a una grande libertà d'azione per i gruppi antisemiti in Russia". Un sondaggio dell'anno scorso condotto dal Pew Research Center for the People and the Press on global attitudes towards Muslims, Jews, and Christians, indicava la Russia come il paese più antisemita tra quelli a maggioranza cristiana: oltre il 51% degli intervistati si era detto contrario agli ebrei. Nel suo rapporto annuale lo Stephen Roth Institute dell'Università di Tel Aviv ha accusato nel maggio scorso Russia, Ucraina e Bielorussia di non fare abbastanza per combattere l'antisemitismo. Secondo lo studio, le autorità di questi paesi tendono a classificare come semplici "hooligans" o "terroristi" i responsabili di aggressioni fisiche o atti vandalici contro ebrei, senza citare l'antisemitismo tra i moventi. A gennaio scorso 19 parlamentari russi, insieme a 500 accademici e intellettuali, avevano firmato una lettera aperta, per chiedere al governo di chiudere tutte le organizzazioni ebree nel paese. Nella lettera si definiva il "giudaismo una religione satanica che chiede ai suoi adepti di sacrificare bambini cristiani e bere il loro sangue". (Asia News, 14 gennaio 2006) MUSICA E IMMAGINI Hevenu Shalom INDIRIZZI INTERNET Beit Orot The Jewish Community of Hebron Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |