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Notizie su Israele 350 - 13 giugno 2006

1. Un serio dilemma per gli ebrei religiosi
2. Diminuisce l'amore degli ebrei per Sion?
3. Gli uomini di cultura non sono superiori agli altri
4. Qualcuno vuole completare il lavoro di Hitler
5. Il diritto al ritorno contro il diritto ad esistere
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Isaia 44:21-22. «Ricòrdati di queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo; io ti ho formato, tu sei il mio servo, Israele, tu non sarai da me dimenticato. Io ho fatto sparire le tue trasgressioni come una densa nube, e i tuoi peccati, come una nuvola; torna a me, perché io ti ho riscattato.
1. UN SERIO DILEMMA PER GLI EBREI RELIGIOSI




Che cosa è più importante, lo Stato o la Terra?

"Benedici lo Stato d'Israele, l'inizio della nostra prossima redenzione", così pregano tutti gli ebrei ogni anno nelle sinagoghe nel giorno dell'indipendenza israeliano. Ma nel giorno dell'indipendenza di quest'anno la tradizionale preghiera di pace per lo Stato d'Israele in molte sinagoghe è stata modificata con l'aggiunta delle parole "che deve diventare". "Benedici lo Stato d'Israele che deve diventare l'inizio della nostra prossima redenzione". Per la prima volta, nei 58 anni di storia dello Stato, la corrente ebrea dei sionisti nazionalreligiosi dubita che lo Stato ebraico d'Israele sia lo stadio iniziale della redenzione messianica.

Una «colona» viene trascinata via da una casa in Hebron

    «Se un governo israeliano di sua propria iniziativa sradica da Eretz Israel degli insediamenti ebrei, vuol dire che qualcosa di essenziale è cambiato in Israele", ha detto uno dei più eminenti rabbini nazionalreligiosi, Rabbi She'ar Yashuv, che, nonostante il suo atteggiamento fedele alla Bibbia, durante l'evacuazione dalla striscia di Gaza si è dichiarato contrario al rifiuto di ubbidienza. "Non è lo Stato che è sacro, ma lo Stato come strumento è sacro. E' uno strumento al servizio del precetto, e non un precetto in sé stesso!"
    Un altro Rabbino di nome Solovizcik ha detto, rispondendo a israel heute: "Se nei confronti dei suoi cittadini lo Stato si comporta come un qualsiasi altro Stato e non come uno Stato ebraico, immediatamente qualcosa cambia nel mio rapporto con lui. Certamente io rispetto ogni governo, ma forse non è più l'automatico inizio della nostra redenzione".
    Nel primo giorno dell'indipendenza dopo l'evacuazione dei coloni ebrei dalla striscia di Gaza e da Samaria un profondo dilemma nei confronti dello Stato è venuto alla luce all'interno del movimento nazionalreligioso dei coloni. A chi si deve lealtà prima di tutto: allo Stato d'Israele o alla Terra d'Israele? Chi è il mezzo e chi il fine? E come si fa a mettere in equilibrio i due termini? A causa di questi interrogativi aperti, che per i coloni ebrei sono ferite aperte, molti di loro hanno perso la gioia dell'annuale giorno dell'indipendenza. Secondo una recente inchiesta all'interno del movimento religioso dei coloni, il 52% dei coloni intervistati di 120 insediamenti si sentono come israeliani di seconda classe. L'inchiesta è stata condotta dai loro avversari, i liberali di sinistra del movimento "Peace now". Il movimento israeliano nazionalreligioso si sente malvoluto nel suo popolo. "Lo Stato d'Israele si vuole liberare di noi come ci si scuote di dosso un cane che morde", ha detto a israel heute Tidhar Hirschfeld da Samaria.
    Ma nel movimento dei coloni ci sono anche rabbini che non vogliono cambiare la tradizionale preghiera di pace per Israele. "Anche se lo Stato e il suo governo dissacrano il sacro Shabbat, io continuo tuttavia a pregare per la pace del mio Stato. E se lo Stato dissacra la Terra Santa, io continuo tuttavia a pregare per il mio Stato", ci ha detto uno dei più eminenti rabbini di Samaria, Rabbi Shlomo Aviner. "Questo è il mio Stato. Non ho nessun altro Paese, e io lo amo così com'è, anche se mi fa soffrire. E in questo è compreso il governo!"
    Il movimento nazionalreligioso dei coloni si trova in un momento di svolta spirituale perché gli sembra di avvertire che l'inizio della prossima redenzione, la venuta del Messia, si protrae. "Ma comunque non siamo noi a determinare il momento giusto, ma Dio!"

(israel heute, giugno 2006 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. DIMINUISCE L'AMORE DEGLI EBREI PER SION?




Sionismo musulmano 

di Daniel Pipes

    Il sionismo musulmano potrebbe essere più forte di quello ebraico?
    Anche se la questione può sembrare assurda, in realtà, non lo è.
    Il sionismo ebraico si è sviluppato a prescindere da uno sviscerato amore per Gerusalemme che dura da tremila anni, nonostante una dispersione che indusse gli ebrei a stabilirsi lontano dalla loro città santa. Questo amore per Sion ispirò il più straordinario movimento nazionalista del XX secolo, che spinse una larga fetta della popolazione a trasferirsi nell'antico paese d'origine, a far rivivere una lingua morta e alla creazione di un nuovo Stato – incontrando una forte opposizione.
    Di contro, il sionismo musulmano ha una storia condizionata e frammentaria, basata su una visione strumentale della città. A partire dal VII secolo, ogni volta che Gerusalemme risultò essere al centro dell'interesse religioso e politico musulmano ciò è avvenuto in virtù di specifici bisogni utilitaristici. Quando Gerusalemme serviva a scopi teologici o politici musulmani, la città si guadagnava la stima e l'affetto dei musulmani. Una volta che quei bisogni venivano meno, l'interesse musulmano svaniva puntualmente. Questo schema ciclico si è ripetuto per ben sei volte in quattordici secoli.
    Un primo esempio è rappresentato da quanto detto nel Corano e cioè che nel 622 Allah dette istruzioni a Maometto di pregare in direzione di Gerusalemme e diciassette mesi più tardi cambiò la direzione delle preghiere verso la Mecca. Le fonti della letteratura araba concordano nel ritenere che l'interludio di Gerusalemme costituì un fallito tentativo di convertire gli ebrei alla nuova religione islamica.
    Lo stesso schema utilitaristico è seguito in epoca moderna. Nel XIX secolo, il disinteresse ottomano nei confronti di Gerusalemme indusse il romanziere francese Gustave Flaubert a descrivere in tal modo la città "Ruderi ovunque, e ovunque odore di morte (…) La Città Santa delle tre religioni sta andando in rovina per noia, abbandono e disinteresse". I palestinesi riscoprirono Gerusalemme solo dopo che le truppe britanniche conquistarono la città nel 1917 e se ne servirono per fomentare gli animi musulmani contro il dominio imperiale. Ma nel 1948, in seguito alla presa della città da parte delle truppe giordane, l'interesse svanì nuovamente.
    Esso si riaccese solo nel 1967, quando l'intera città finì sotto il controllo israeliano. La passione musulmana nei confronti di Gerusalemme è cresciuta rapidamente nel corso degli ultimi quaranta anni al punto che il sionismo musulmano ricalca moltissimo quello ebraico. Da notare due similitudini:
    
    Significato emotivo. Ehud Olmert, oggi premier di Israele, nel 1997 disse che Gerusalemme rappresenta "l'espressione più pura di tutto ciò per cui gli ebrei hanno pregato, di tutti i loro sogni, di tutto ciò per cui hanno pianto e per cui sono morti, nell'arco di duemila anni a partire dalla distruzione del Secondo Tempio". Nel 2000, Yasser Arafat dell'Autorità palestinese fece eco alle sue parole, dichiarando che Gerusalemme "è nel profondo del nostro cuore, del cuore del nostro popolo e di quello di tutti gli arabi, musulmani e cristiani".
    
    Capitale eterna. Il presidente israeliano Ezer Weizman ricordò a Papa Giovanni Paolo II in occasione del suo viaggio a Gerusalemme, nel marzo del 2000, che Gerusalemme rimane la capitale "eterna" di Israele. Il giorno dopo, Arafat dette il benvenuto al Pontefice in "Palestina e a Gerusalemme, la sua capitale eterna". Anche i leader religiosi ebrei e musulmani che incontrarono il Papa, nel parlare di Gerusalemme ravvisarono in essa la loro capitale eterna.

    Generalizzando, nel 1999 l'analista Khalid Durán osservò che "esiste un tentativo di islamizzare il sionismo (…) nel senso che l'importanza che Gerusalemme riveste per gli ebrei e l'attaccamento di questi ultimi verso di essa sono stati adesso usurpati dai musulmani palestinesi". (È interessante notare che ciò si conforma a uno schema più ampio di nazionalismo palestinese a imitazione di quello ebraico.)
    Questo sforzo funziona, al punto che, visto il crescente numero degli israeliani secolari indifferenti a Gerusalemme, il sionismo musulmano è maggiormente fervido a livello emotivo e politico rispetto all'originale ebraico. Da notare l'esempio dei Jerusalem Days, indetti da parte musulmana.
    Il Jerusalem Day israeliano commemora l'unificazione della città, finita nel 1967 sotto il controllo dello Stato ebraico. Ma come scrive Israel Harel nel quotidiano Ha'aretz questo tributo è stato ridimensionato passando da una festività nazionale a una mera "festività delle comunità religiose". Al contrario, la versione musulmana del Jerusalem Day – istituito 11 anni dopo dall'Ayatollah Khomeini nel 1979 – attira nella lontana Teheran ben 300.000 persone, funge da piattaforma per arringhe incendiarie e ottiene il fermo sostegno da parte del mondo musulmano.
    Un sondaggio condotto nel 2001 rilevò che il 60% degli israeliani era disposto a dividere Gerusalemme; il mese scorso il governo Olmert ha annunciato i suoi piani per la divisione della città, destando poco clamore.
    Perciò io concludo col dire che l'uso musulmano di Sion rappresenta oggigiorno una forza più potente rispetto all'amore nutrito dagli ebrei per Sion.

(New York Sun, 6 giugno 2006 - dall'archivio di Daniel Pipes)





3. GLI UOMINI DI CULTURA NON SONO SUPERIORI AGLI ALTRI




L'antisemitismo di sinistra degli intellettuali inglesi

di Angelo Panebianco

Un potente sindacato di docenti universitari britannici vuole imporre il boicottaggio delle università israeliane, vuole in particolare che si boicottino tutti i professori israeliani che non condannino esplicitamente la politica del governo del loro Paese. E poiché nulla ha più successo delle infamie non c'è dubbio che l'iniziativa troverà presto imitatori anche in altri Paesi europei. A cominciare dall'Italia dove, peraltro, un tentativo dello stesso genere abortì alcuni anni or sono a causa delle proteste. Si potrebbe osservare che è davvero singolare che dei professori universitari, per bocca del loro sindacato, si scatenino contro Israele, ovvero contro l'unica democrazia del Medio Oriente, anziché prendersela con i tanti truci regimi, quelli sì infami, che popolano quella regione. Ignoranza ? Certo, anche. Ma c'è molto di più. C'è in primo luogo un fenomeno che è già stato segnalato più volte: la crescita, in tutta Europa, di un aggressivo "antisemitismo di sinistra" che usa la questione palestinese per rinfocolare una mai sopita avversione per gli ebrei. C'è in secondo luogo, la paura dell'islam. Gli islamici fondamentalisti sono percepiti in Europa come una minaccia. E lo sono massimamente in Gran Bretagna, già duramente colpita dal terrorismo. Cosa c'è di meglio, di più utile, che blandire i fondamentalisti islamici di casa propria trattando Israele da "Stato paria"? E che importa se, per ottenere il risultato, si calpestano i principi stessi su cui si fonda la vita universitaria, a cominciare da quello per cui la ricerca scientifica deve essere libera da condizionamenti politici? I professori universitari (anche se, in verità, non tutti) sono uomini di cultura. Usando una brutta parola, sono "intellettuali". Gli intellettuali spesso si danno arie di superiorità. Avendo letto qualche libro in più della media (in realtà non è un merito, è solo una questione di mestiere) si spacciano per migliori, più saggi, più illuminati degli altri esseri umani. Ma, naturalmente, non è vero. Essi sono fatti con lo stesso impasto di virtù e vizi di tutti gli altri. E sono ugualmente capaci di indulgere al conformismo, alla vigliaccheria, all'opportunismo. In una sola cosa gli uomini di cultura sono effettivamente molto più bravi degli altri: nell'arte della dissimulazione, nella capacità di travestire da nobili ragioni i più bassi impulsi.

(Corriere della Sera, 9 giugno 2006)

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4. QUALCUNO VUOLE COMPLETARE IL LAVORO DI HITLER




Torna l'incubo soluzione finale

di Fiamma Nirenstein

Piano di rientro dalla Cisgiordania da parte degli israeliani, tentativi di Abu Mazen di riconquistare la Road map con un referendum: tutto questo è politica del giorno dopo giorno. Ma in realtà c'è sottotraccia, ma anche nei media e nel dibattito pubblico, una ben più drammatica discussione: come combattere la minaccia di un nuovo sterminio degli ebrei, stavolta dentro il loro stato. Non si scherza, non ci si distrae: Israele, si dice, sta organizzando un comitato per fiancheggiare il primo ministro contro la minaccia di sterminio atomica dell'Iran. Sarà costituito dai primi ministri passati d'Israele, non importa di quale colore. Sì dice che Benjamin Netanyahu sia pronto a formare un gruppo di studi con Ehud Barak e viceversa, tanto è grande il rischio.
    L'ex capo dell'Intelligence militare Aharon Ze'evi, detto Farkash, ha annunciato il 16 maggio uno tsunami di guerra terroristica islamica. Charles Krauthammer, premio Pulitzer americano, ha scritto sul Washington Post. «Gli ebrei, decimati qui, un tempo potevano sopravvivere là; potevano essere perseguitati in Spagna e trovare rifugio a Costantinopoli... Hitler ha dimostrato che il modemo antisemitismo può avere un'efficienza industriale e concentrare gli ebrei per I'annichilimento completo». E se la fondazione di Israele ha creato un esercito ebraico per la prima volta dopo 2 mila anni, tuttavia nei suoi confini vivono 6 milioni di ebrei tutti insieme: «Molto attraente per quelli che vogliono completare il lavoro di Hitler». L'Iran ha già spiegato che basterebbe una sola bomba, mentre per distruggere I'Iran ce ne vorrebbero parecchie; intanto utilizza varie organizzazioni per attacchi terroristi continui; ha arruolato un bel gruppo di studenti terroristi suicidi: in più di 10 mila sono pronti a partire per Israele. II presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad appare credibile, è convinto che il caos aiuti la venuta del Mahdi, la figura profetica che per gli sciiti porta la redenzione, e che la perdita di vite umane sia un fatto minore.
    Le forze antisemite si sono riunite a Beirut con il ministro degli Esteri iraniano Manocher Mottaki: Hezbollah, Hamas, Jihad islamica e altri. Una settimana dopo gli hezbollah lanciarono un grosso attacco sul nord israeliano. Nel frattempo A1 Qaeda aveva cominciato a infiltrarsi in Israele e Osama Bin Laden e Abu Musab al-Zarqawi lanciavano nuovi messaggi; quasi in contemporanea con gli hezbollah, ha portato un attacco dal sud del Libano, e si infiltra anche a Gaza. Un accerchiamento sia ideologico, sunnita e sciita, sia geografico. II 19 gennaio a Damasco si tenne un altro summit e poi altri attacchi, in parallelo con le dichiarazione di volontà di sterminio. Yuval Steinitz, nel precedente governo israeliano a capo della commissione Esteri della Knesset, dice che l'idea della distruzione di Israele adesso ha ripreso vigore anche in ambiti tradizionalmente considerati moderati. Spiega che l'indottrinamento egiziano antisemita non differisce da quello palestinese o iraniano e pure che l'esercito egiziano è una forza gigantesca, tutta volta sulle linee di Israele. Israele, che ai tempi della guerra dei Sei giorni poteva considerare sufficienti i 30 chilometri per usare utilmente l'aviazione, adesso dovrebbe averne 60.
    Distruggere Israele, negare la Shoah come prova della diabolicità ebraica, è un'arma sempre attraente in Medio Oriente. Per questo Saddam Husseìn ai tempi della prima guerra del Golfo lanciò i suoi missili: per richiamo antisemita. Ormai la delegittimazíone dell'esistenza stessa di Israele può contare su intellettuali occidentali che scrivono e ripetono che Israele è un errore e un orrore, che è all'origine del conflitto di civiltà, che è razzista e crudele e quindi indegno di vivere, che è sostenuto da una lobby intrusiva, come hanno scritto i professori John Mearsheimer e Stephen Walt dell'Università di Chicago. Uno stato criminale che costringe gli Usa a guerre inutili per aiutarlo: le loro opinioni, dice il celebre avvocato americano Alain Dershowìtz, finiscono sui siti neonazisti. Tutte bagatelle per lo sterminio mentre, altrove, si assemblano le
    
    
(Panorama, 12 giugno 2006)





5. IL DIRITTO AL RITORNO CONTRO IL DIRITTO AD ESISTERE




Un vero referendum fra i palestinesi

da un articolo di Saul Singer

L'idea del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di indire un referendum sul "documento dei detenuti" viene considerata una mossa audace e astuta nella lotta di potere fra lui e Hamas. E probabilmente è entrambe le cose. Ma è anche un'occasione mancata.
    Il documento, elaborato da eminenti terroristi di Fatah e Hamas detenuti in un carcere israeliano, viene descritto come ilo strumento con cui Abu Mazen può forzare Hamas a riconoscere Israele. Ma chiunque ne legga il testo può vedere da sé che esso non esaudisce nessuna delle condizioni poste a Hamas dal Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu): riconoscimento di Israele, conferma degli accordi precedenti, ripudio del terrorismo.
    Il documento dei detenuti parla della creazione di uno stato palestinese su tutti i restanti territori finiti sotto controllo israeliano nel 1967, ma non dice nulla sul riconoscimento del diritto di esistere di Israele, né accetta gli Accordi di Oslo. Anzi, ribadisce ripetutamente il cosiddetto "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi, che è in totale contraddizione con la soluzione due-stati. Infine, lungi dal ripudiare il terrorismo, il documento prevede la creazione di un nuovo organismo che coordini la "resistenza" contro gli israeliani che si trovano al di là le linee del '67.
    Dunque, in che senso un voto su questo testo dovrebbe forzare Hamas ad accettare Israele? Non lo farebbe. Tutto ciò che farebbe sarebbe portare Hamas sulle posizioni dell'Olp del 1974, quando venne adottato il famigerato "piano a fasi" per la distruzione di Israele, secondo il quale i palestinesi avrebbe creato uno stato in Cisgiordania e striscia di Gaza come base da cui continuare la "lotta" contro Israele.
    La triste verità è che, in termini palestinesi, questo è considerato un progresso. Ma il "progresso" può essere un passo indietro se si blocca in uno stallo. Se i palestinesi vogliono davvero distogliere Israele dalla sua tendenza attuale verso decisioni unilaterali, il solo modo per farlo è imitare l'incredibile trasformazione che gli israeliani hanno elaborato nel loro atteggiamento rispetto alla soluzione "due popoli-due stati".
    La gente tende a dimenticare dove stavano gli israeliani nel 1993, appena prima che entrassero in scena gli Accordi di Oslo. L'opinione generale era che la creazione di uno stato palestinese coincidesse con una sorta di suicidio nazionale per Israele. Da allora l'opinione generale israeliana si è ribaltata. L'opposizione allo stato palestinese si è ridotta a una frazione minoritaria nella Knesset e nell'opinione pubblica. L'ex falco della destra Ariel Sharon e il suo successore Ehud Olmert non solo hanno fatto propria la prospettiva di uno stato palestinese, ma hanno adottato il concetto della sinistra secondo cui creare uno stato palestinese è necessario per preservare il carattere ebraico e democratico di Israele. "Disimpegno" e "convergenza" sono essenzialmente dei modi per forzare la creazione di uno stato palestinese nonostante l'opposizione dei palestinesi.
    L'offensiva terroristica in corso, iniziata nel settembre 2000, venne lanciata per consacrare il rifiuto di Yasser Arafat dello Stato indipendente che gli era stato offerto da Israele quell'estate al summit di Camp David. Quel rifiuto non si basava sul territorio, dal momento che Israele aveva offerto di ritirarsi quasi completamente e avrebbe accettato anche di cedere proprie terre per compensare i blocchi di insediamenti che avrebbe annesso. I palestinesi non hanno lanciato una guerra terroristica su una disputa territoriale del 5%. Hanno lanciato la guerra terroristica perché non volevano cedere sul "diritto al ritorno", accettando davvero e definitivamente il diritto di Israele ad esistere.
    Israele non solo accetta, ma vuole uno stato palestinese. L'unico vero ostacolo alla creazione di uno stato palestinese è l'idea dei palestinesi di distruggere Israele demograficamente attraverso il "diritto al ritorno".
    Sin dall'inizio, la soluzione due-stati richiedeva due elementi essenziali e paralleli: l'accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese, e l'abbandono da parte palestinese di un presunto "diritto al ritorno" dentro Israele (oltre che all'interno di quello che diventerà o stato palestinese).
    Dal 1993 gli israeliani hanno adempiuto alla loro parte dell'intesa in modo quasi incredibile. Nel corso del contorto processo Yitzhak Rabin ci ha rimesso la vita e il sistema politico israeliano è stato sconvolto. Nello stesso periodo i leader palestinesi non hanno nemmeno iniziato a preparare la loro gente alle "dolorose concessioni", tant'è che il "documento dei detenuti" continua imperterrito a invocare emotivamente il "diritto al ritorno", e lo ribadisce una mezza dozzina di volte.
    Se Abu Mazen voleva rompere questo circolo vizioso, doveva indire un referendum su un documento assai diverso: la dichiarazione di principi elaborata dall'ex capo dello Shin Bet Ami Ayalon e dal presidente dell'Università Al Quds Sari Nusseibeh (originale in inglese: http://www.mifkad.org.il/en/index.asp; traduzione in italiano: http://www.hakeillah.com/4_03_14.htm). Questa dichiarazione, fino ad oggi firmata da 254.000 israeliani e 161.000 palestinesi, afferma, fra l'altro: "I profughi palestinesi torneranno solo nello Stato di Palestina, gli ebrei torneranno solo nello Stato di Israele".
    Si immagini se Abu Mazen trovasse il coraggio di sottoporre questo documento a referendum, lanciando così un vero dibattito fra palestinesi se accettare uno stato e fare la pace con Israele: sarebbe un dibattito amaro, forse anche violento, ma credo che Abu Mazen ne uscirebbe vincente. In quel caso l'unilateralismo israeliano perderebbe ragion d'essere e i colloqui sulla composizione finale del conflitto potrebbero riavviarsi rapidamente.
    Ammettiamo pure che un tale scenario sia irrealistico perché comporterebbe l'abbandono improvviso di decenni di indottrinamento sulla sacralità del "diritto al ritorno". Anche in questo caso, comunque, non vi sono scuse perché Abu Mazen, per non dire di Hamas, si rifiuti anche solo di iniziare a dire ai palestinesi che non potranno avere la pace senza abbandonare una pretesa che è in contraddizione col diritto di Israele ad esistere.
    E le cose non sono rese più facili dalla comunità internazionale. Mentre il mutamento di posizione di Israele è arrivato accompagnato da massicce pressioni internazionali perché gli israeliani accettassero uno stato palestinese, l'Europa e persino gli Stati Uniti non premono apertamente sui palestinesi affinché abbandonino il concetto di "diritto al ritorno" in Israele. Anche la lettera di George Bush a Sharon prima del disimpegno da Gaza, che indicava sostegno per le posizioni di Israele, vi alludeva solo nel contesto dei colloqui sullo status finale. Perché Abu Mazen dovrebbe fare concessioni sul "diritto al ritorno" prima dello status finale, se persino gli Stati Uniti non affermano a chiare lettere che questa loro richiesta è in contraddizione con il diritto di Israele ad esistere, con la soluzione due-stati e dunque con la pace?
    Le speranze di pace sorgeranno quando cesserà l'indottrinamento dei palestinesi e i suoi effetti saranno completamente ribaltati. La cosa migliore che la comunità internazionale potrebbe fare per far avanzare la pace sarebbe incoraggiare questo processo critico fra i palestinesi, esprimendo apertamene l'aspettativa che i loro leader vi partecipino.

(Jerusalem Post, 8 giugno 2006 - da israele.net)





MUSICA E IMMAGINI




If I Were a Rich Man




INDIRIZZI INTERNET




The Jewish View on the Messiah

The Watchman's Post




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