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Notizie su Israele 351 - 3 luglio 2006

1. «Superman è senza dubbio ebreo!»
2. In Israele qualcuno chiede la mano forte
3. Il referendum palestinese
4. Rivolse accuse agli ebrei. Giudice rivede la condanna
5. Commento all'intervista a Ugo Intini
6. Sondaggio nel mondo islamico
6. Cristiani incoraggiano i militari israeliani
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Salmo 105:4-7. Cercate il SIGNORE e la sua forza, cercate sempre il suo volto! Ricordatevi dei prodigi fatti da lui, dei suoi miracoli e dei giudizi della sua bocca, voi, figli d'Abraamo, suo servo, discendenza di Giacobbe, suoi eletti! Egli, il SIGNORE, è il nostro Dio; i suoi giudizi si estendono su tutta la terra.
1. «SUPERMAN È SENZA DUBBIO EBREO!»




Superman? Un eroe figlio di Israele

di Elena Loewenthal

La scena ha, indubbiamente, un'improbabile apparenza. Suona metafisica quasi quanto il volto arcigno della mamma di Woody Allen che gli fa la ramanzina da sopra i cieli di New York. Eppure, viene quasi da credergli, al rabbino Simcha Weinstein. Sarà per merito del suo faccione incorniciato dalla austera barba nera. Sarà per via di quel suo passato da attore che non si prende affatto il disturbo di occultare dietro il tomo di Talmud che compulsa adesso, nell'austera parte assegnatagli ora dalla vita. Fatto sta che lui è un po' che lo bisbiglia.

Ma ora che il ritorno di Superman sbanca i botteghini d'oltre Oceano, il rabbino ha deciso di dirlo sul serio e fieramente ad alta voce. Con tanto di filologiche pezze d'appoggio e inequivocabili echi linguistici. L'ultimo segreto che ci mancava in fatto di supereroi è proprio questo: il nostro beniamino in mantello rosso è, incredibile a dirsi, d'ebraica, atavica stirpe. «Superman è senza dubbio ebreo!», sentenzia allegramente il rabbino Simcha Weinstein. Ma non è solo una battuta di spirito. Con un poco di attenzione e una modesta misura di pazienza, conviene davvero prestargli ascolto. Jerry Siegel e Joe Shuster, i due padri del nostro eroe, erano ebrei.

E, benché per la tradizione d'Israele valga il principio della discendenza matrilineare, anche i padri nel loro piccolo contano. Inoltre la data di nascita di questa creatura fantasmagorica ha un che di significativo, anzi d'inquietante. Lui viene alla luce, infatti, nel 1938. Siamo alla vigilia della guerra e della Shoah e, per restare in Italia, proprio allo scoccare delle leggi razziali. Poi, prosegue Weinstein, in «Kalel», il nome kryptoniano di Superman, non è difficile individuare un'eco della lingua ebraica, dove queste due parole, appena sincopate ÿ kal (kol) el ÿ significano «voce di Dio».

Ma le corrispondenze fra Superman e il popolo d'Israele non si esauriscono in modiche coincidenze cronologico-fonetiche. Che dire di quel mite alter ego che è il bozzolo da cui sorge ogni volta il nostro eroe? Che è una caricatura dell'assimilazione. Di quel desiderio quasi spasmodico di non farsi notare con cui gli ebrei mossero i loro primi passi dentro la modernità. Un Clark Kent qualunque era, per i profughi ebrei approdati a Ellis Island direttamente dai pogrom della Vecchia Europa, la suprema ambizione di invisibilità. L'unica speranza di vivere indisturbati.

Il possente eroe che erompe da quell'ebraicamente agognato guscio di banale normalità, rappresenta invece l'ineludibile diversità. Come Superman, anche gli ebrei si sentono un poco degli extraterresti. Anzi, per meglio dire, per duemila anni e più è stato il mondo circostante a considerarli (quando andava bene), delle creature giunte da un altro mondo. Ma il nostro Superman-Moishele è certamente qualcosa di più di un pupazzo in formato diasporico. E' anche e soprattutto un entusiastico sogno di riscatto. Un eroe che trova la propria forza straordinaria, il proprio sconfinato slancio di bontà, nel fatto stesso d'essere diverso dagli altri.

Una specie di alieno in fattezze di timido fusto, venuto di lontano e destinato ad andare lontano. Ma per intanto qui fra noi, disarmate tribù sperdute ai quattro angoli del mondo. Meno male che ogni tanto c'è un rabbino Wienstein a farci cogliere il lato sorridente di una storia così generosa di malinconie.

(La Stampa, 28 giugno 2006)





2. IN ISRAELE QUALCUNO CHIEDE LA MANO FORTE




La guerra si deve avere il coraggio di vincerla!

Nel momento in cui si scrivono queste parole "l'esercito piu' potente del medio-oriente" sta lanciando vuoti ultimatum mentre i gruppi terroristici diffondono le loro richieste per fornire soltanto notizie sulle condizioni del soldato rapito.
Questa vergogna avviene perche' abbiamo mostrato negli ultimi anni che siamo forti nel lanciare minacce ed ultimatum ma debolissimi nel metterli in pratica.
Tutti noi ci ricordiamo gli avvertimenti dati prima della distruzione del Gush Katif: se oseranno sparare e lanciare razzi contro cittadine israeliane dopo il nostro ritiro totale da Gaza la nostra risposta sara' durissima! E qual e' stata la risposta cosi' tanto dura? Colpire spazi aperti! Il risultato e' stato l'intensificarsi del fuoco terroristico che ha reso infernale la vita a Sderot e negli altri centri del Neghev Occidentale.
  
              TEMPOREGGIARE E' SEGNO DI DEBOLEZZA!
  
Non e' come gli slogans ci vogliono far credere: temporeggiare non e' dar segno di forza ma di debolezza.

Quando il nemico ti dichiara guerra, colpisce i tuoi centri abitati ed offende in ogni modo i tuoi diritti lo devi subito fermare perche' se non lo fai il significato e': o sei un debole od un fifone.
  
Dinanzi ai nostri occhi avviene una delle peggiori ignominie. L'"Esercito di Difesa d'Israele" si trova legato mani e piedi da governi che non agiscono per il reale interesse del Paese ma per quello loro privato e restano quasi inoffensivi dinanzi ai gruppi terroristici scatenatici contro dall'autonomia terroristica. I "commentatori" ci spiegano che non possiamo reagire. Ma ogni persona normale capisce che cio' e' semplicemente assurdo. Lo Stato d'Israele sorse per proteggere gli ebrei mentre si comporta come se fossimo rimasti al periodo mandatario!
  
Siamo sempre impegnati a difenderci. Poliziotti in ogni angolo e controlli in ogni posto pubblico. Costruiamo reticolati e barriere difensive, ma sempre troveranno un posto non protetto. Sempre tenteranno di costruire gallerie per eludere le nostre misure difensive. E' impossibile sconfiggere il terrorismo soltanto con le misure difensive. Si puo' vincere solo con una guerra distruttiva che faccia capire al nemico che il prezzo che paghera' per i suoi crimini terroristici sara' cosi' alto che gli converra' rinunciare a tale metodo.
  
Per nostra stoltezza abbiamo perso l'importantissimo fattore militare della vittoria. Quando un nemico ci attacca bisogna metterlo in ginocchio. Non si vincera' la guerra se non colpiremo il nemico con tutta la nostra forza. Se ci faremo fermare dai media internazionali asserviti ai ricchissimi feudal-capitalisti arabi il nemico non avra' nessuna ragione per interrompere le azioni terroristiche. Soltanto colpendo in maniera forte e doloroso costringeremo il nemico a smetterla ed ad alzare le mani.
  
Si fa di tutto per far dimenticare agli israeliani una tale regola semplice e logica.
In questi ultimi cinque anni di terrore ci furono stragi d'innocenti dopo le quali il mondo' si aspetto' la giusta reazione israeliana per rendere inoffensivo il nemico, ma il governo' preferi' azioni "mirate" che non hanno mai costretto il nemico ad arrivare alla conclusione che il terrore non paga. Il record della follia si ebbe col ritiro unilaterale da Gaza che diede al terrorismo il carburante piu' importante: la sensazione di aver ottenuto la vittoria.
  
A nessuno di noi piace la guerra. Siamo un Popolo pacifico. Siamo il Popolo del Libro e della Liberta'. Ma per vivere in pace ed in liberta' c'e' la dura necessita' di combattere con tutte le nostre forze chi ci vuole morti. Troppa sensibilita' e' dannosa e causando sempre piu' vittime e rendendo la situazione sempre piu' difficile.
  
L'unica soluzione per sconfiggere il terrorismo e' colpirlo con forza tremenda e distruttiva che gli causi perdite dolorose. Tale risposta fara' si' che il nemico ci temi e ci lasci in pace. Solo annullando i danni causati da una politica folle e dannosa si arrestera' il crescere di perdite umane. La Pace non si ottiene tendendo una mano flaccida ma una mano forte che faccia intendere al nemico che se respinta e' in grado di trasformarsi in un pugno in grado di stenderlo.
  
Intanto pero' sembra che per il momento tale semplice ragionamento sia assai lontano dall'attuarsi. Per nostra fortuna non possono impedirci di pregare e recitare salmi e chiedere al Signore di farci tornare la ragione sana, secondo la quale si comporta ogni popolo normale, purtroppo da tempo evanescente nello Stato Ebraico.
  
("MILCAMA' ZARIC LADAHAT LEACRIAH", articolo di fondo di SICAT HASHAVUAH n 1017, p. 1, 30/6/06; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair).





3. IL REFERENDUM PALESTINESE




Documento dei prigionieri: distruggere Israele in più fasi

di Stefano Magni

"Volete distruggere Israele subito, o lo volete distruggere fra qualche anno?" Questi, scherzi a parte, sono i termini del referendum in Palestina, di quell'iniziativa che già viene considerata come un "progresso" nel dibattito pubblico palestinese. Perché nel referendum, chiesto da Abu Mazen e contestato dal governo di Hamas, le posizioni contese sono esattamente queste: favorevoli e contrari al "Documento dei detenuti" redatto e firmato da leader terroristi imprigionati, nazionalisti, islamisti e comunisti (Marwan Barghouti, lo sceicco di Hamas Abd al Khaleq Alnatsha, lo sceicco della Jihad Bassam al Saadi, Abed Alrahim Maluh del FPLP e Mustafah Bedarne del Fronte Democratico), nel quale si chiede la fine immediata della lotta tra fazioni all'interno della Palestina, la costituzione di uno Stato Palestinese nei territori di Gaza e Cisgiordania, in vista di una lotta più efficace contro Israele. I contrari al documento, soprattutto Hamas, ritengono che questa strategia sia già un pericoloso compromesso, proprio perché accetta una fase transitoria in cui uno Stato palestinese coesiste con Israele, mentre loro sarebbero favorevoli a una lotta contro Israele per la sua distruzione senza compromessi né fasi transitorie.

Il Documento non dà adito a equivoci sulla sua natura bellicosa e sul fatto che a esser messi in discussione siano solo i tempi e i modi della distruzione dello Stato di Israele. Si afferma infatti che l'obiettivo principale è il diritto al ritorno e al risarcimento dei profughi palestinesi in Israele, una strategia di lungo periodo che metterebbe in minoranza gli Ebrei nel loro stesso Stato: "Il popolo palestinese, in patria e nella diaspora, si batte per liberare la sua terra e realizzare il suo diritto alla libertà, al ritorno, all'indipendenza, all'autodeterminazione, ivi compreso il diritto di creare uno Stato indipendente con capitale Gerusalemme su tutti i territori occupati nel 1967, di garantire il diritto al rientro dei profughi e di liberare tutti i prigionieri e detenuti, sulla base del diritto storico del nostro popolo sulla terra dei padri e degli antenati e sulla base della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e della legittimità internazionale". L'indipendenza dei territori, come si può leggere chiaramente da questo articolo 1 del Documento, è visto come solo uno dei passaggi accessori al disegno politico complessivo e non come un obiettivo finale. Per realizzare questo disegno, il Documento, contrariamente alle richieste della Road Map, prevede esplicitamente l'uso della forza al punto 3 ("Diritto del popolo palestinese alla resistenza, al mantenimento di questa opzione con ogni mezzo concentrandola nei territori occupati nel 1967") e al punto 10 ("Adoperarsi per la formazione di un fronte unificato della resistenza, sotto il nome di Fronte della Resistenza Palestinese, che guidi e si impegni nella resistenza contro l'occupazione e unifichi e coordini l'azione e la resistenza, e costituisca un referente politico unico per il fronte").

Si tratta, insomma, della versione aggiornata del piano a fasi per la distruzione di Israele del 1974: creazione di uno Stato provvisorio nei territori occupati da Israele nel 1967 e poi distruzione dello Stato di Israele, in accordo con tutti i Paesi arabi "di prima linea" (quelli confinanti con Israele) e in vista di una futura unità nazionale araba. Perché, allora, questo documento fa ben sperare in Israele e in Occidente? Perché si vuole credere che questo sia un segnale di distensione. E perché il Documento vuole affidare tutto il potere alle istituzioni dell'Autorità Palestinese, disarmando le fazioni indipendenti. Ragionando all'interno del paradigma dell'ordine pubblico, gli Occidentali (sia gli Stati Uniti che l'Unione Europea) non chiedono altro che avere un unico vero referente con cui trattare. Ma se questo referente unico mira alla distruzione dello Stato vicino? Uno Stato forte, militarizzato, centralizzato, avente come unico obiettivo quello di distruggere Israele potrebbe essere, per gli Israeliani, una minaccia ancora peggiore rispetto all'attuale anarchia palestinese. Perché, se è vero che manterrebbe l'ordine nel breve periodo, ponendo fine alle violenze di strada e agli attentati di piccolo cabotaggio, in futuro diverrebbe un vero Stato nemico alle porte di Israele.

Ed è inevitabile che diventi così, finché non cambierà l'opinione pubblica palestinese: un sondaggio condotto dall'Università di Bir Zeit, rivela che il 61% dei Palestinesi rifiuta il riconoscimento di Israele. È solo una minoranza (circa il 31%) che accetterebbe la coesistenza con il vicino israeliano. Ed è una minoranza che non ha ancora una sua voce politica, se non per alcuni intellettuali, come Sari Nusseibeh, presidente dell'Università Al Quds, che nel 2002 aveva firmato un documento a favore dell'opzione dei "due popoli in due Stati". Quella, se prendesse corpo, sarebbe un'iniziativa politica veramente in grado di porre fine alla guerra.

(L'Opinione.it, 20 giugno 2006)





4. RIVOLSE ACCUSE AGLI EBREI. GIUDICE RIVEDE LA CONDANNA




Condanna sospesa per ex capo della First Nation

SASKATOON - La Corte di appello del Saskatchewan è stata chiamata a decidere sulla vicenda di David Ahenakew, l'ex numero uno dell'Assemblea della First Nation che nel dicembre 2002 subì una condanna per aver dichiarato al quotidiano Saskatchewan StarPhoenix che gli ebrei erano una «malattia». Ancora non si sa quando Ahenakew tornerà in aula, ma la decisione di rivedere il caso è venuta dopo che la Corte di Queen ha ribaltato la condanna contro l'uomo. Il capo del tribunale Robert Laing ha infatti

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sostenuto che il giudice di livello inferiore che aveva emesso la prima sentenza non aveva considerato alcune attenuanti di cui l'imputato avrebbe dovuto godere. Attenuanti che, se applicate, non gli avrebbero permesso di riconoscere le parole di Ahenakew come espressioni di odio razziale.
L'intento dell'ex capo dell'Assemblea dei nativi, in altri termini, non era quello di istigare alla violenza contro la grande comunità ebraica che risiede in Canada.
Laig, nel suo giudizio sul caso, ha detto inoltre che il suo collega non ha tenuto conto che il commento non sia stato fatto in tono «cattivo», cosa che, stando sempre al rapporto del giudice, sarebbe stata confermata dal giornalista che condusse l'intervista.
Durante il processo, il 72enne Ahenakew disse di non essersi reso conto che il giornalista aveva con sé un registratore portatile. Il reporter James Parker, dal canto suo, disse in aula che il registratore era stato piazzato proprio di fronte al viso dell'uomo. E, appena prima dell'intervista, Ahenakew aveva tenuto un lungo discorso all'Assemblea della First Nation, accusando gli ebrei di essere colpevoli dello Scoppio della seconda Guerra Mondiale.
«È per questo che Hitler ne ha uccisi sei milioni, perché altrimenti sarebbero diventati padroni del mondo - aveva detto l'uomo - e guardate cosa stanno facendo adesso: stanno uccidendo persone nei Paesi arabi». Ahenakew era stato radiato dall'Ordine del Canada.

(Corriere Canadese Online, 20 giugno 2006)





5. COMMENTO ALL'INTERVISTA A UGO INTINI




Dite quel che volete ma lasciate perdere questa farsa dell'"equivicinanza"

di Giorgio Israel

Quando si iniziò a parlare di "kamikaze", Luciano Tas scrisse una lettera al Corriere della Sera per dissuadere dall'uso di questo termine improprio. I kamikaze giapponesi erano militari, che si suicidavano contro obbiettivi strettamente militari. Nulla a che fare con gli "shahid" del terrorismo islamico e palestinese. Niente da fare. Tornava comodo dire "kamikaze" e l'uso della parola si è malauguratamente affermato.
    Qualcosa di analogo sta per succedere con il termine "equivicinanza" coniato – se ben ricordiamo – da Giulio Andreotti, e che rischia, nelle circostanze presenti, di suonare come una via di mezzo tra una beffa e una pomposa insulsaggine. Difatti, quel che si dimentica sistematicamente di precisare è che, se è concepibile essere "equivicini" al popolo palestinese e al popolo israeliano, essere "equivicini" a un governo democratico e a un'associazione di terroristi – poco importa se eletta: anche Hitler fu eletto – implica una sordità morale la cui inevitabile conseguenza è di schierarsi al fianco della seconda. Casomai non fosse ancora chiaro, proviamo a cimentarci con questa domanda: si può essere "equivicini" a un membro delle Brigate Rosse e ad una sua vittima?
    Ma il presente governo è costellato di soloni che, per sostenere la teoria dell'equivicinanza, avanzano ogni sorta di argomenti; e quanto più sono inconsistenti tanto più è reboante la retorica con cui li propongono.
    Dichiara Ugo Intini sul Corriere della Sera che Israele non può essere sicuro senza uno Stato palestinese… Tenuto conto di questi chiari di luna e dei figuri che compongono il governo palestinese, un povero di spirito penserà che si tratta di una battuta spiritosa. Ma no. Perché Intini ci spiega che questo lo ha già dimostrato la Storia (con la S maiuscola): si disse per anni che Arafat era il capo dei terroristi e poi ci furono gli accordi di Oslo. Peccato che gli accordi di Oslo siano falliti, che Arafat abbia scatenato la seconda intifada, che abbia esaltato gli assassini di massa degli "shahid" innumerevoli volte (per chi voleva sentire), peccato che era proprio lui il "capo dei terroristi".
    Poi Intini scomoda ancora la Storia (con la S maiuscola) che – ahimé – non insegna mai nulla e invece dovrebbe convincere Hamas a riconoscere lo Stato di Israele "come ha fatto l'Olp di Arafat". Peccato che l'Olp di Arafat Israele non l'abbia riconosciuto mai, come ancora può constatarsi leggendo la sua carta in rete, e che Israele sia stato così ingenuo da accontentarsi di quattro bofonchiamenti verbali del Rais.
    Se ci affidiamo a gente con questa memoria Storica, stiamo freschi. Se per loro "riconoscere" uno Stato significa questo, come stupirsi che accolgano con ammirato fervore il "documento dei prigionieri" che riconoscerebbe "implicitamente" Israele? Dopo più di mezzo secolo, uno stato sovrano che siede all'ONU deve baciare per terra perché un gruppo di terroristi lo riconosce "implicitamente"… E lo riconosce con un documento che serve soltanto a ricomporre le loro fratture interne e ripropone senza varianti il programma di Hamas: una "hudna" lunga in cambio del ritiro sui confini del 1967 e del rientro di 5 milioni di profughi… Poi dopo la hudna, si riprende il discorso sulle briciole restanti…
    Questi sono gli "equivicini". Gli "equivicini" sono persone che dicono che il Muro d'Israele è peggio di quello di Berlino "perché quello era costruito al confine tra i due Stati e questo invece è costruito dentro il territorio altrui". Salvo il piccolo dettaglio che il muro di Berlino divideva in due lo stesso popolo (tedesco) e la sua capitale, mentre questo divide due popoli diversi. Salvo il piccolo dettaglio che, anche quando il muro passa esattamente sui confini del 1967, c'è chi spara al di sopra di esso missili sulle città israeliane, o vi passa sotto per uccidere e rapire.
    Ognuno ha diritto di dire quel che vuole, ma poi si adonti se, autodefinendosi "equivicino", suscita il riso.

(Informazione Corretta, 29 giugno 2006)





6. SONDAGGIO NEL MONDO ISLAMICO




Come la pensano i musulmani di tutto il mondo?

di Daniel Pipes

Per saperlo, la scorsa primavera il Pew Research Center for the People & the Press ha condotto un sondaggio su vasta scala dal titolo "The Great Divide: How Westerners and Muslims View Each Other" ("La Grande Divisione: Come si vedono gli Occidentali e i Musulmani"). Sono stati intervistati i musulmani appartenenti a due gruppi di paesi: sei dei quali a maggioranza musulmana da lunga data (Egitto, Indonesia, Giordania, Nigeria, Pakistan e Turchia) e quattro a minoranza musulmana (Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna).

Il sondaggio, che prende altresì in considerazione il punto di vista dell'Occidente in merito ai musulmani, ha evidenziato dei risultati sconcertanti, ma non del tutto sorprendenti. Le tematiche possono essere raggruppate in tre sezioni.

Una tendenza alle teorie cospirative. La maggioranza degli intervistati musulmani non crede che gli attacchi dell'11 settembre contro gli Stati Uniti siano di matrice araba. Le percentuali vanno da un mero 15% di coloro che in Pakistan attribuiscono la responsabilità agli arabi al 48% dei musulmani francesi. A conferma dei recenti trend negativi della Turchia, il numero dei turchi che puntano il dito contro gli arabi è diminuito, oscillando dal 46% nel 2002 al 16% odierno. In altre parole, in ognuna di queste dieci comunità musulmane, la maggioranza considera gli attacchi dell'11 settembre come una beffa perpetrata dal governo americano, da Israele o da qualcun altro.

Inoltre, i musulmani sono largamente prevenuti nei confronti degli ebrei, andando dal 28% dei musulmani francesi al 98% della Giordania (che malgrado la moderazione della monarchia ha una popolazione a maggioranza palestinese). In più, i musulmani di certi paesi (specie dell'Egitto e della Giordania) vedono gli ebrei sotto un'ottica cospirativa, come i responsabili dei pessimi rapporti tra musulmani e occidentali.

Le teorie cospirative si riferiscono ad argomenti più vasti. Alla domanda "Chi è maggiormente responsabile della mancanza di benessere delle nazioni musulmane?" tra il 14% (in Pakistan) e il 43% degli intervistati (in Giordania) accusa le linee politiche americane e di altri Stati europei, piuttosto che attribuire la colpa ai problemi interni come la mancanza di democrazia o di istruzione, oppure alla corruzione insita nell'Islam radicale.

Questo cospirazionismo denota una diffusa riluttanza in seno all'umma ad affrontare la realtà, preferendo i più sicuri luoghi comuni dei complotti, delle trame e degli intrighi. Ciò denota altresì dei grossi problemi a conformarsi alla modernità.

Appoggio al terrorismo. Tutte le popolazioni musulmane intervistate si sono decisamente schierate a favore di Osama bin Laden. Alla domanda se esse avessero fiducia in lui, la risposta è stata positiva andando dall'8% (in Turchia) al 72% (in Nigeria). Anche il terrorismo suicida ha riscosso approvazione. Le percentuali dei musulmani ad esso favorevoli vanno dal 13% (in Germania) al 69% (in Nigeria). Queste incredibili cifre denotano che il terrorismo musulmano ha delle radici profonde e rimarrà un pericolo per gli anni a venire.

I musulmani britannici e nigeriani sono i più disaffezionati. Il Regno Unito si distingue per essere un paese paradossale. I non-musulmani ivi residenti sono maggiormente favorevoli all'Islam e ai musulmani di quanto lo siano i non-musulmani di altri paesi occidentali. Ad esempio, solo il 32% del campione britannico considera i musulmani violenti, una percentuale significativamente inferiore se si guarda al 41% della Francia, al 52% della Germania o al 60% della Spagna. Nella disputa delle vignette satiriche su Maometto, i britannici mostrarono una maggior simpatia per l'ottica musulmana rispetto agli altri europei. Più in generale, gli inglesi attribuiscono meno colpe ai musulmani per il pessimo stato dei rapporti tra l'Occidente e il mondo musulmano.

Ma i musulmani britannici contraccambiano il favore con i più dannosi comportamenti anti-occidentali rilevati in Europa. La maggior parte di loro considera gli occidentali violenti, avidi, immorali più di quanto lo pensino le loro controparti in Francia, Germania e Spagna. Inoltre, essi manifestano delle posizioni di gran lunga maggiormente estremistiche in merito agli ebrei, all'attribuzione di responsabilità per l'11 settembre o alla posizione delle donne in seno alle società occidentali.

La situazione presente in Gran Bretagna rispecchia il fenomeno del "Londonistan", in cui i britannici piegano anticipatamente la schiena e i musulmani reagiscono a questa debolezza ricorrendo a comportamenti aggressivi.

I musulmani nigeriani nutrono in genere dei punti di vista molto belligeranti su argomenti del tipo lo stato dei rapporti tra musulmani e occidentali, la presunta immoralità e arroganza degli occidentali nonché l'appoggio a bin Laden e al terrorismo suicida. Non vi è dubbio che questa forma di estremismo sia una conseguenza dei violenti rapporti che intercorrono in Nigeria tra cristiani e musulmani.

Ironia della sorte, in quei paesi in cui i musulmani si sono più o meno adattati è stata rilevata la più alta percentuale di disaffezione musulmana, il che sta a indicare che una via di mezzo sia la migliore: laddove i musulmani non ottengono speciali privilegi, come in Gran Bretagna, né nutrono una forte ostilità, come in Nigeria.

Nel complesso, il sondaggio condotto dal Pew invia un indiscutibile segnale di crisi da un capo all'altro del mondo musulmano.


(New York Sun, 27 giugno 2006 - dall'archivio di Daniel Pipes)





7. CRISTIANI INCORAGGIANO I MILITARI ISRAELIANI




GAZA - Giovedì scorso [29 giugno] un gruppo cristiano si è posizionato vicino alla frontiera con la striscia di Gaza per dare sostegno morale ai soldati israeliani. Sono cristiani provenienti da diversi paesi che cantano, pregano e sventolano la bandiera israeliana.
Con chitarre e tamburi i visitatori hanno manifestato il loro sostegno all'esercito israeliano e al suo attuale impegno nella striscia di Gaza. Sono circa 25 persone provenienti da USA, Germania, Svizzera, Singapore, Australia, Nuova Zelanda, Svezia, Finlandia e Francia.
Alcuni indossavano T-Shirt con la scritta "Il vostro Dio è il mio Dio". Sventolavano bandiere israeliane e cantavano inni cristiani, riferisce l'agenzia di stampa "Associated Press".
Carri armati e altri veicoli militari sono posizionati lungo la linea di frontiera con i territori dell'Autonomia nel sud del paese. Il gruppo aveva progettato di visitare Israele già molto tempo prima delle operazioni militari. E quando l'operazione è partita, il gruppo ha deciso di segnalare il suo sostegno all'esercito. «Siamo qui per sostenere Israele, e lo vogliamo mostrare. Preghiamo per voi e vogliamo benedire Israele», ha detto la finlandese Leena Eronen.

(Israelnetz Nachrichten, 30 giugno 2006)





MUSICA E IMMAGINI




Tradition




INDIRIZZI INTERNET




Biblical Holidays Jewish Feasts

Americans For a Safe Israel




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