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Notizie su Israele 354 - 2 agosto 2006

1. L'influenza dell'Iran sul gruppo terroristico libanese
2. La caccia gratuita all'ebreo e' finita
3. Un conflitto a lungo termine
4. Il coraggio di Israele
5. Antisemitismi convergenti
6. Israele, la mia realta'
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Osea 14:1-2. O Israele, torna al SIGNORE, al tuo Dio, poiché tu sei caduto per la tua iniquità. Preparatevi delle parole e tornate al SIGNORE! Ditegli: «Perdona tutta l'iniquità e accetta questo bene; noi ti offriremo, invece di tori, l'offerta di lode delle nostre labbra.»
1. L'INFLUENZA DELL'IRAN SUL GRUPPO TERRORISTICO LIBANESE




Hezbollah, il ruolo di Teheran

di Antonello Sacchetti

Si parla molto dell'influenza dell'Iran nell'attuale crisi israelo-libanese attraverso l'influenza che da sempre Teheran esercita sull'Hezbollah, il "partito di Dio" artefice dei recenti attacchi contro l'esercito di Tel Aviv. Ma quali sono i rapporti tra sciiti iraniani e libanesi? Lo abbiamo chiesto a Siavush Randjbar Daemi, giornalista iraniano.

Nasrallah e Ahmadinejad

    Il rapporto è molto stretto. Buona parte degli sciiti libanesi è di origine iraniana. È il frutto di varie ondate migratorie degli ultimi 3-4 secoli. Purtroppo non esistono statistiche ufficiali. Il Libano è un Paese da sempre restio a fornire dati sulla propria composizione etnico-religiosa, proprio per non alterare un equilibrio da sempre precario. Basti pensare che l'ultimo censimento risale agli anni Venti del XX secolo. Molti degli sciiti libanesi hanno sangue iraniano. Per quanto riguarda l'Hezbollah, va ricordato che la figura di riferimento principale è l'Imam Mousa Sadr, membro di un'importantissima famiglia sciita a cui appartengono il ribelle iracheno Moqtada Al Sadr e la moglie dell'ex presidente iraniano Mohammad Khatami.

Molto brevemente, qual è l'origine del partito di Hezbollah?
Hezbollah nasce come risposta del regime islamico iraniano alla scomparsa di Mousa Sadr, avvenuta nel 1978 in Libia. L'Imam scomparve nel vero senso della parola, in circostanze misteriose. Moti credono che sia stato lo stesso Gheddafi a deciderne l'eliminazione, sebbene il colonnello abbia sempre negato ogni responsabilità. Amal, il partito fondato da Mousa Sadr, dopo l'uscita di scena del suo creatore, ebbe una deriva laicista. Teheran intervenne colmando un vuoto organizzativo tra i movimenti islamisti più radicali della scena libanese. Inizialmente l'Iran inviò pasdaran per combattere nella guerra civile libanese. Successivamente il sostegno è stato soprattutto finanziario. Teheran ha dato centinaia di milioni di dollari per costruire ospedali, scuole e infrastrutture nel Libano meridionale, la zona a maggioranza sciita devastata dalla guerra civile e dall'invasione israeliana. Grazie a questo apporto Hezbollah divenne un movimento genuinamente popolare. Cosa che non è mai risucita in pieno ad Hamas. Hezbollah è davvero uno "Stato nello Stato", mentre Hamas ambisce soltanto a questo ruolo.

Ma è corretto affermare che attraverso Hezbollah l'Iran sia intervenuto nel conflitto con Israele?
Questo si saprà quando Israele deciderà di attaccare la Siria. Perché a quel punto l'Iran non potrebbe rimanere inerte, di fronte all'aggressione di un suo alleato e dovrebbe intervenire in prima persona. Hezbollah e Israele si punzecchiano da decenni, quanto accaduto recentemente non è una novità. Fino al 2000 – anno del ritiro dal Sud del Libano – Tel Aviv compiva raid come quelli di questi giorni. Il presidente iraniano Ahmadinejd ha lanciato un monito a Israele. Credo che se Hezbollah dovesse correre seriamente il pericolo di essere annientato, l'Iran potrebbe entrare in campo, addirittura con l'invio di pasdaran. Non è nemmeno da escludere che la Siria opti per una soluzione simile, per difendere quello che ha sempre considerato un suo protettorato. La crisi rischia davvero di dare il via a un'escalation gravissima. Va comunque detto che anche ora ogni singolo razzo lanciato da Hezbollah implica un coinvolgimento dell'Iran: quanto meno da Teheran c'è una sorta di "silenzio assenso". Se Teheran dicesse di smettere, Hezbollah obbedirebbe di sicuro. E questo finora non è avvenuto.

(Il Cassetto, 16 luglio 2006)





2. LA CACCIA GRATUITA ALL'EBREO E' FINITA




L'escalation della follia

di R.A. Segre

«Vinceremo perché l'Occidente cerca la vita, noi la morte». Con questa fede gli hezbollah hanno iniziato una guerra che fa stragi come quella di Cana. Strage atroce perché ha colpito dei deboli indifesi, usati come scudi umani. Strage ingiusta perché oppone la ferrea legge della guerra alla tenue legge della solidarietà. Strage vile perché sfruttata per coprire una mostruosa verità: il disastro che gli hezbollah hanno attirato su di sé, sul mondo arabo-islamico con questa guerra follemente iniziata. Credendo una volta di più alle proprie parole - come il segretario della Lega araba nel 1948, come Nasser nel 1967 - di aver distrutto «l'invincibile esercito sionista»; credendo di avere di fronte un Paese impaurito, diviso, incapace di sostenere perdite fra i suoi soldati, che sopravvive solo grazie alle infusioni di capitale americano; credendo come i nazisti di essere demandati dal Padreterno alla missione di liberare l'umanità dal «bacillo» ebraico corruttore dell'umanità, non hanno capito il significato del movimento nazionale ebraico, il messaggio del sionismo: e cioè che con la nascita di Israele la caccia gratuita all'ebreo era finita. In questa guerra Israele si è sentito profondamente ferito. Nel suo fisico, dal momento che nessun hezbollah si è preso la briga di informare i suoi cittadini (come ha fatto l'aviazione israeliana a Cana con i libanesi a cui ha chiesto di allontanarsi da una zona di guerra da cui sono già partiti 1.300 missili). Al contrario ne ha promessi di più micidiali. Se ci sono stati «solo» 330mila sfollati in Israele, «solo» 56 morti, «solo» 500 feriti, la colpa dovrebbe forse ricadere su Israele che ha provveduto, contrariamente al Libano, a fornire alla sua popolazione adeguati rifugi e protezione aerea contro i bombardamenti islamici?
    Ma Israele in questa guerra si sente ferito ancora più nella sua dignità, in quanto solo membro della comunità internazionale ad essere minacciato di morte; in quanto come il solo Stato ad essere denunciato come privo del diritto alla propria sovranità nazionale. Israele si sente ferito infine nella sua atavica fede nella pace. Ferito da una opinione internazionale - non solo araba - che interpreta ogni sua concessione territoriale come provocata dalla paura; ogni sua proposta di negoziato come segno di debolezza politica e invita azioni terroriste per impedire ogni avvicinamento di posizioni con l'avversario, ogni tentativo di creare un'atmosfera di coesistenza pacifica con i palestinesi.
    È col dolore di queste ferite che Israele oggi combatte. Lo fa con più moderazione di qualunque Paese. Pensiamo cosa succederebbe se i terroristi baschi lanciassero missili contro la Francia per ottenere il distacco della Navarra dalla Repubblica francese. Oppure se una banda di terroristi mascherati da combattenti per la libertà che per conto di uno Stato terzo bombardasse le sue città e inviasse i suoi uomini-bomba nelle sue strade, nei suoi ristoranti, contro le sue scuole. La tragedia di Cana sta anche in questo: nel fatto che Israele ha raggiunto il livello della esasperazione senza aver ancora toccato quello della disperazione. Potrebbe però arrivarci e con effetti spaventosi per i suoi avversari. È forse per questo che gli hezbollah, Hamas,la Siria e l'Iran chiedono a chiunque è disposto ad ascoltarli una tregua che Israele non intende più dare.

(Il Giornale, 31 luglio 2006)





3. UN CONFLITTO A LUNGO TERMINE




Israele ha una guerra da vincere

di Daniel Pipes

Qualche anno fa un filosofo israeliano di spicco disse che i suoi concittadini erano "esausti, confusi e privi di direzione". Prima di diventare premier, Ehud Olmert pronunciò pubblicamente queste incredibili parole: "Siamo stanchi di combattere, stanchi di essere coraggiosi, stanchi di vincere, stanchi di sconfiggere i nostri nemici". Così demoralizzato, lo Stato di Israele si ritirò per ben due volte nell'arco di cinque anni sotto il fuoco nemico dal Libano e da Gaza – e adesso, a seguito di ciò, sta combattendo delle guerre esattamente in quei luoghi.

Membri del Congresso si sono accorti del problema; io suggerisco che l'organo esecutivo prenda Olmert in parola e incoraggi questo alleato affaticato, ma straordinariamente stretto. Anche se Israele è perfettamente in grado di difendersi (come i recenti eventi confermano), esso manca della volontà di concentrare gli sforzi nello sconfiggere i suoi nemici. E i nemici di Israele – Hamas, Hezbollah, Iran – sono altresì i nemici dell'America.

E basandomi su questo assunto, suggerisco all'amministrazione di avanzare le seguenti richieste a Tel Aviv, al fine di tutelare gli interessi americani. In modo specifico essa deve chiedere di:
    • Non cedere alle richieste di scambio avanzate dai gruppi terroristici, come quando nel 2004 in cambio di un civile israeliano, catturato mentre era probabilmente impegnato in ambigue trattative di affari, e delle salme di tre soldati, Israele ha rilasciato 429 terroristi e criminali. Ciò rimetterebbe in riga i terroristi se incoraggiassero ulteriori rapimenti.
    • Non permettere a Hezbollah di procurarsi migliaia di razzi Katyusha dall'Iran e piazzarli in Libano meridionale. Si stima che l'attuale arsenale consti di circa 12.000 razzi Katyusha ed esso non solo costituisce una minaccia per tutta la parte settentrionale di Israele, come si è visto negli ultimi giorni, ma esso fornisce all'Iran una strategica minaccia con implicazioni per l'intera regione.
    • Non permettere il rifornimento di armi all'organizzazione terroristica Fatah, come è avvenuto di recente. Secondo il Jerusalem Post, 3.000 fucili americani e un milione di munizioni sono stati consegnati all'organizzazione a prescindere dall'incauta ambizione di contribuire a far sì che le fazioni palestinesi si battano a vicenda.
    • Non consegnare la Cisgiordania ai terroristi di Hamas. Ciò metterebbe a repentaglio gli interessi americani in molteplici modi, in particolar modo ciò minaccerebbe gli Hashemiti in Giordania.

Israele ha un ruolo significativo nella guerra condotta dagli Stati Uniti contro il terrorismo, esso è perfettamente in grado di difendersi e di aiutare il suo alleato americano non aspirando a siglare accordi con dei nemici inflessibili, ma convincendoli del fatto che lo Stato ebraico esiste ed è imbattibile. Questo obiettivo non richiede un episodico ricorso alla violenza, ma degli sforzi sistematici e sostenuti, volti a cambiare la mentalità della regione. Perciò, i decisori politici statunitensi potrebbero suggerire a Olmert di considerare il combattimento in corso non come un temporaneo strappo alla regola alla diplomazia, ma come parte di un conflitto a lungo termine.

Con l'emergere di un Iran aggressivo e che probabilmente sarà presto in possesso del nucleare, la mappa strategica del Medio Oriente sta subendo un importante cambiamento. Questa sovrastante minaccia dovrebbe servire da sfondo per ogni decisione israeliana da portare avanti – se riconquistare Gaza, cosa prendere come bersaglio in Libano e se lanciare azioni militari contro la Siria.

Paradossalmente, gli sviluppi delle ultime settimane, offrono delle buone notizie: parecchi mediorientali, non solo israeliani, temono le ambizioni iraniane. Preoccupazioni riguardo l'Iran hanno indotto il Regno Saudita a prendere l'iniziativa nel condannare gli attacchi sferrati da Hamas e Hezbollah contro Israele, definendoli "imprese avventate". Come documentato sul Jerusalem Post da Khaled Abu Toameh, i contrattacchi israeliani hanno provocato una "coalizione anti-Hezbollah". Una sensata linea politica israeliana influenzerà enormemente l'evoluzione di questa forza nascente.

Dal momento che gli arabi temono molto più gli islamisti iraniani dei sionisti israeliani, ecco che si presenta un'opportunità. Occorre un'accurata azione di coordinamento tra Washington e Gerusalemme, inclusi dei tempestivi mementi agli israeliani che hanno una guerra da vincere.

(Los Angeles Times, 20 luglio 2006 - dall'archivio di Daniel Pipes)





4. IL CORAGGIO DI ISRAELE




Israele e gli altri

di Anna Bono

Guardando la carta del mondo, il coraggio di Israele lascia senza parole: un minuscolo frammento di libertà e valore umano incastonato in un'immensa estensione di terre e popoli afflitti da condizioni materiali e morali di vita indegne, e che ignoranza e paura consegnano al fondamentalismo e al terrorismo islamici. La lezione di decenni di cooperazione allo sviluppo e di tentativi di esportare la democrazia nel mondo è che nessun progresso reale è possibile dove non si verifica la rivoluzione antropologica che fa della persona il valore supremo e che ha permesso l'elaborazione della Carta universale dei diritti umani. Ciò che rende speciale Israele è la sua adesione sostanziale a quei diritti - e quindi l'adozione di istituzioni democratiche - che invece manca o stenta ad affermarsi nei Paesi circostanti.
    Così i segni incoraggianti di cambiamento vanno cercati nell'istituzionalizzazione di comportamenti che rispettano e tutelano la persona umana, che rispecchiano un mutato atteggiamento nei suoi confronti e la volontà di renderlo universale. Negli Emirati Arabi Uniti, ad esempio, il governo ha appena approvato un disegno di legge che proibisce e sanziona con pene fino all'ergastolo la riduzione in schiavitù e il traffico di esseri umani, inclusa ogni forma di sfruttamento sessuale, servitù imposta e altre simili pratiche. Il disegno di legge prevede punizioni severissime anche per i crimini contro donne, bambini e disabili e nel caso di violenze commesse dai tutori delle vittime. Per apprezzare appieno l'iniziativa bisogna sapere che lo sport più amato dai beduini degli Emirati è la corsa dei cammelli, che è

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all'origine di un commercio di minori d'ora in poi illecito. Migliaia di adolescenti e persino di bambini, anche di quattro-cinque anni soltanto, provenienti dalle regioni più povere di Asia e Africa, sono infatti impiegati come fantini. I ragazzini, rapiti o venduti dalle loro famiglie, sono tenuti in condizioni di prigionia e costretti in stato di denutrizione per renderli leggeri, in modo che il cammello possa correre più veloce. Inoltre negli Emirati, come nel resto dei Paesi dell'area produttori di petrolio, le attività lavorative manuali - produttive e domestiche - vengono in gran parte affidate a immigrati, molti dei quali vivono in condizioni di sfruttamento simili alla schiavitù.
    Ma le buone notizie come queste sono rare. L'Iran degli ayatollah vanta piuttosto come suo traguardo esemplare l'efficienza dei propri Police Guidance Patrols - polizia religiosa - che in poche settimane, pur disponendo a Teheran soltanto di 20 posti di controllo, hanno già ammonito ed «educato» a un abbigliamento islamico ortodosso ben 32.000 donne e 64 uomini e hanno ispezionato 7.000 negozi imponendo 190 multe per vendita non consentita di vestiti e altri beni non islamici.
    Anche in Afghanistan c'è preoccupazione per la purezza e l'onore dei cittadini. È del 15 luglio la notizia che il Consiglio degli Ulema ha chiesto al presidente Hamid Karzai di reintrodurre la polizia religiosa che fu istituita dal precedente regime talebano con il nome di Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio. Allora pattugliava le strade alla ricerca di donne indecentemente vestite e di uomini con la barba in disordine, bruciava i libri e dava la caccia ai bambini che giocavano con gli aquiloni. Il presidente si è impegnato a presentare al più presto la richiesta degli Ulema in Parlamento.
    Infine, in Somalia, nelle provincie conquistate dall'Unione delle Corti Islamiche è entrata in vigore la shari'a, la legge coranica, e già si annunciano lapidazioni e altre pene fisiche. All'inaugurazione di un tribunale islamico in un quartiere della periferia di Mogadiscio, Cheikh Abdalla Ali, uno dei fondatori del Consiglio Supremo Islamico Somalo, costituito dall'Unione nelle scorse settimane, ha spiegato che chi non reciterà le cinque preghiere quotidiane prescritte sarà considerato un infedele e punito come tale: ma non una parola contro mutilazioni genitali femminili, schiavitù, matrimoni forzati, ripudio, segregazione domestica e omicidi d'onore.

(Ragion Politica, 27 luglio 2006)





5. ANTISEMITISMI CONVERGENTI




Si sta preparando da tempo l'ideologia che fornirà le argomentazioni "dotte" che, come nel passato, serviranno a giustificare il tentativo di sbarazzarsi della presenza ebraica, oggi espressa dall'esistenza dello Stato d'Israele. L'articolo che segue è comparso sulla rivista di sinistra "Rinascita" e non a caso è stato ripreso e divulgato dal sito italiano "alJazira". Neoislamismo e neomarxismo stanno trovando un punto d'incontro nell'ostilità a tutto ciò che è collegato con la realtà ebraica.

La nuova questione ebraica  
 
di Daniele Scalea
 
"Questione ebraica" era un'espressione molto in voga alla fine del XIX secolo e nella prima metà dello scorso. Con essa, s'esprimeva la preoccupazione per il fenomeno del sempre più spiccato identitarismo della popolazione ebraica europea. Di "questione ebraica" parlavano tanto i nazionalisti giudaici ("sionisti") quanto i più accaniti antisemiti. Non si trattava cioè d'un giudizio di merito, ma della considerazione d'un fatto oggettivo creatosi in quegli anni. Questo fatto si potrebbe riassumere come segue: la diaspora ebraica in Europa, rimasta sempre segregata (per via di reciproche incomprensioni, diffidenze e ostilità) rispetto alle genti autoctone, subendo l'influsso dei tempi s'era progressivamente laicizzata senza però perdere la propria identità, bensì rafforzandola in un'ideologia ch'è il corrispondente giudaico del nazionalismo europeo, cioè il sionismo. Come tutti i nazionalismi moderni, anche il sionismo poggiava sull'idea che il popolo di riferimento (quello ebraico, in questo caso) costituisse un'entità etnica, linguistica e culturale ben definibile atemporalmente (potremmo dire: "metastorica"), una "nazione" in qualche modo "speciale" e "superiore". Tali arroganti pretese, lo ripetiamo, furono caratteristiche di ogni nazionalismo: ma quello ebraico non trovò difficoltà ad inculcarle nei suoi accoliti, giacché proprio l'elezione divina era stato (ed è, in versione religiosa-tradizionale o laico-moderna) l'elemento cardinale della civiltà giudaica. Tale sentimento di "estraneità" del nucleo ebraico nei confronti dello Stato ospite era acuito proprio dal montante nazionalismo delle popolazioni europee che, nella sua pretesa d'omogeneità etnica e culturale del popolo, non poteva che ravvisare nei giudei un corpo estraneo da eliminare; d'altro canto, proprio il sionismo supportava questa necessità. Da qui la "questione ebraica": estrarre l'elemento "perturbatore" ebraico dagli Stati-nazione europei, con la necessità, però, di trovargli una nuova sistemazione. Tutto il resto è storia nota, eccetto forse due particolari che, perciò, espliciteremo. Il primo è che la "questione ebraica", per quanto fosse sollevata con particolare vigore (e spesso violenza) da Hitler e, in subordine, Mussolini, era un problema dibattuto in tutta Europa ed anche (seppur con sfumature diverse, più religiose) negli USA: dopo il 1945 s'è cercato di cancellare questa verità, ormai considerata imbarazzante. Il secondo elemento da sottolineare è che gran parte degli Ebrei d'Europa rimasero estranei al sionismo fino all'inizio delle persecuzioni razziali da parte dei nazisti: solo il trauma dell'internamento e dei lavori forzati spinse molti ad abbandonare l'Europa ed a sviluppare una propria identità nazionale ebraica. Ciò nonostante, l'adesione al progetto sionista denominato "Israele" è stato, ancora nei decenni successivi, complessivamente molto limitato: basti pensare che vi sono più ebrei nello Stato di New York che in Israele, e che pure la relativamente piccola popolazione di questa entità colonialista è stata alimentata per lo più dall'emigrazione degli ebrei dell'Europa Orientale (i quali, detto per inciso, spesso non possono vantare nessuna minima ascendenza dal popolo biblico, giacché la maggioranza discende dai Chazari, una gente turanica stabilitasi sul Mar Nero intorno all'anno 650, e colà convertitasi in massa al giudaismo). Prova ne sia anche il fatto che, ancora negli anni '70, la maggior parte degli Ebrei in Europa (e soprattutto in Italia) s'identificava con una sinistra comunista decisamente filo-araba e anti-sionista.
    Da allora, però, le cose sono cambiate. Al pari di tutti gli altri Europei, dopo la caduta del Muro di Berlino anche gli ebrei comunisti hanno seguito la transumanza verso il liberalismo, con tutti i suoi corollari - in primis l'imperialismo, che qui ci sta più a cuore. Tale conversione ha fatto venir meno qualsiasi residuo motivo antisionista e, di fatto, ha segnato una vera e propria adesione in massa degli Ebrei europei al sionismo. Ormai da anni la comunità ebraica italiana (che, nonostante l'esiguità numerica - circa 50.000 componenti - conta su un'enorme potenza mediatica) agisce da procuratore degl'interessi d'Israele nel nostro paese: attacca politici, cittadini e gruppi che s'oppongono al colonialismo sionista, impartisce direttive di politica estera ai governanti italiani, diffonde notizie false o tendenziose circa gli eventi palestinesi. Addirittura, recentemente è arrivata ad imbastire "spedizioni punitive" contro i cittadini italiani che si permettono d'esternare legittimamente il proprio dissenso alle azioni criminali dell'entità sionista. In tale azione di lobbying è stata sostenuta anche dall'ambasciatore israeliano in Italia, tale Ehud Gol, unico diplomatico nel nostro paese che ha il diritto di mettere il becco in qualsiasi cosa accada nel "Belpaese", dalla politica interna alla cronaca alla cultura. La comunità ebraica italiana può contare, inoltre, su un numero molto alto (sproporzionato, rispetto al suo peso numerico entro la popolazione del Paese) di giornalisti nelle maggiori testate nazionali (Gad Lerner, Fiamma Nirenstein, Stefano Jesurum, Renato Mannheimer, ecc.) - oltre a decine e decine di "gentili" sostenitori esterni del sionismo. La posizione dei giornalisti ebrei in Italia è diventata palesemente partigiana, totalmente schierata con Israele spesso in modo anche isterico e violento. Sono loro che, più di tutti, hanno promosso l'equiparazione antisionismo=antisemitismo, con il chiaro intento di criminalizzare (per ora moralmente, in futuro sperano anche penalmente) qualsiasi opposizione al regime razzista ed espansionista di Tel Aviv. Poche decine di migliaia d'italiani - che però riescono a farsi sentire, da soli, più di tutti gli altri 56 milioni - che tra l'altro antepongono alla propria italianità la fedeltà ad uno Stato estero, Israele, stanno cercando di manipolare la popolazione e la classe dirigente italiana affinché si metta a totale disposizione del sionismo. Ora dobbiamo chiederci: è ciò legittimo?
    Senz'altro, se ci trovassimo in una società analoga a quella nazionalista descritta all'inizio di quest'articolo, allora dovremmo dire che la comunità ebraica è un intruso intollerabile, un dente cariato da strappare: ma oggi le cose sono cambiate. Solitamente, si descrive l'attuale società come "pluralista", ed io sarei dell'opinione d'accettare questo termine, pur con una doverosa e importante precisazione. Ogni società si giustifica attraverso un'ideologia, per cui s'autoesalta e descrive in modo diverso da com'è in realtà. Così come la società nazionalista non era un blocco monolitico, concorde e tutto teso verso un solo obiettivo, ma sappiamo ch'essa in realtà era lacerata da contrasti sociali e politici; allo stesso modo la società pluralista non è il regno della libertà, dove ognuno pensa e fa ciò che vuole. Invero, essa è un tipo di società dove agiscono una pluralità d'individui, gruppi e interessi, laddove i più forti vanno a comporre una composita "classe dirigente", che da tale posizione di forza si confronta col resto della popolazione, prediligendo quando possibile la manipolazione (l'inganno) sulla repressione (la forza). E' proprio questa classe dirigente a fissare i limiti entro i quali è effettivamente esercitabile la libertà di pensiero ed espressione, cioè il "politicamente corretto". Ora, in tale tipo di società pluralista, è legittimo che un gruppo di persone adotti una propria identità specifica, anche collegabile ad uno Stato estero, ed agisca per questo in qualità di quinta colonna. Certo, obbietterebbe qualcuno, ciò ch'è concesso agli Ebrei, in Italia e in Europa, non è neppure ipotizzabile per altri gruppi etnici, religiosi o politici: proviamo solo a pensare cosa succederebbe se le comunità musulmane o arabe inneggiassero alla resistenza contro l'imperialismo e il colonialismo! Rispondiamo però che quest'addebito non andrebbe avanzato agli Ebrei, bensì a quei media e a quelle istituzioni che, mentre danno pieno appoggio all'estremismo sionista, bollano (e puniscono) come "terrorista" qualsiasi ambizione patriottica o dignità particolare ravvisata in altri settori della società, siano essi immigrati, musulmani, o esponenti delle correnti politiche cosiddette "estreme".
    Proviamo però a formulare diversamente la domanda: è giusto che gli Ebrei - laddove esercitano il proprio diritto all'adozione d'una identità particolaristica, all'azione da quinta colonna d'uno Stato straniero, ed alla pressione lobbystica sulle istituzioni italiane - considerino legittima esclusivamente la propria posizione, mentre criminalizzano quelle loro antagoniste e ne invocano la repressione manu militari? La risposta è senza dubbio negativa. Questa è la nuova "questione ebraica" dei giorni nostri.
 
("Rinascita", 29 luglio 2006 - ripreso da alJazira.it)





6. ISRAELE, LA MIA REALTA'




Anche Israele soffre

Credetemi che Israele non vuole altro che il diritto di esistere e vivere in pace. Ognuno di noi qui vorrebbe solo vivere una vita tranquilla in armonia con tutti. Se avessimo la pace con i vicini potremmo andare a villeggiare in Libano come facciamo in Egitto e in Giordania ma invece subiamo attentati senza fine ed anche dentro casa ci guardiamo intorno e viviamo nell' angoscia. Perche' non posso portare mia figlia al centro commerciale senza temere che qualcosa di brutto possa succedere? E ci vado al centro commerciale, e vado al concerto di Sting, vivo la mia vita e la vivo felice fino a che vengo in Italia e non mi sembra normale che non ci sia la sicurezza all'entrata dei grandi magazzini e del supermercato e del ristorante, per controllarmi la borsa. E poi mi dico no...e' da noi che non e' normale. Per vivere sicura nel mio Paese il mio governo deve ripulire la zona dalle armi. Purtroppo il mondo vede noi colpevoli di Cana ed e' vero che noi abbiamo lanciato quelle bombe, ma e' anche vero che non pensavamo ci fossero ancora civili in quelle case e non sarei stupita se venisse fuori che non e' stato concesso loro di fuggire.L'unico colpevole e' Nasralla che usa il suo popolo come scudo e si nasconde dietro I civili. Purtroppo non abbiamo un esercito ufficiale contro il quale combattere ma dobbiamo difenderci da coloro che ci odiano ed alimentano l' odio nel mondo verso di noi. Il rapimento dei soldati e' stata solo la goccia che ha fatto trabboccare il vaso. Ci dispiace per tutti gli innocenti che muoiono, ma perche' I media mostrano soltanto le perdite del Libano? Spesso guardo Canale 5 e mi viene da piangere perche' parlano del Libano ma non dicono nulla dei nostri morti e delle centinaia di feriti. Nulla di Omer un bimbo che restera' per sempre un bimbo di 7 anni perche e' morto tra le braccia di sua nonna colpito da un missile. Ne' di Gheula che si e' svegliata una mattina' si e' fatta un caffe' ed e' andata a berlo sul balcone ma non lo ha finito perche' e' stata colpita in pieno da un'altro missile. Ci sono centinaia di migliaia di persone al Nord che vivono da tre settimane sottoterra, nei rifugi e non possono uscire se non per comprare da mangiare. I nostri bambini usciranno da questa guerra psicologicamente devastati.Le famiglie che hanno lasciato le case girovagano per il Paese di casa in casa. Come vi sentireste se Roma fosse improvvisamente invasa da tre quarti della popolazione milanese in fuga per paura dei missili? Da tre settimane a questa parte cadono in media 120 missili al giorno sulle citta' israeliane del Nord (non sugli insediamenti, Afula non e' un insediamento come vi dice il Tg in Italia). Prima di questa guerra ne cadevano uno ogni tanto di missili, la gente moriva e nessuno ve lo raccontava al telegiornale e a me questo fa rabbia. La nostra non e' vendetta, noi non vogliamo spargere altro sangue come loro, noi vogliamo solo che tutto cio' finisca.
(E a proposito mi chiamo Sharon, Naty e' mio marito.)

(La Stampa Web, 1 agosto 2006)





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