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Notizie su Israele 359 - 10 settembre 2006

1. La pachidermica amministrazione palestinese
2. Medio Oriente: Arrivano i nostri!
3. Un film sull'educazione al «martirio» dei bambini
4. Dopo il catto-comunismo arriva l'islamo-comunismo
5. «Meglio dhimmi che morti»
6. Sionisti cristiani negli Stati Uniti
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 17:7-8. Benedetto l'uomo che confida nel SIGNORE, per cui il SIGNORE è la sua fiducia. Egli è come un albero piantato vicino all'acqua, che distende le sue radici lungo il fiume; non si accorge quando viene la calura e il suo fogliame rimane verde; nell'anno della siccità non è in affanno e non cessa di portar frutto».
1. LA PACHIDERMICA AMMINISTRAZIONE PALESTINESE




Hamas al collasso: colpa di Arafat

Editoriale su Il Riformista

Abu Mazen e Ismail Haniye
«In queste condizioni possono resistere pochi mesi: tre, o forse sei, non di più». Nei giomi in cui l'Occidente compatto decise il blocco dei finanziamenti occidentali alla Palestina di Hamas, la scorsa primavera, le cronache riportarono questa confidenziale considerazione "scappata" ad Abu Mazen. Lui che l'Anp l'aveva fatta nascere assieme a Yasser Arafat dopo Oslo, certo sapeva di quel che parlava. Conosce bene, Abu Mazen, la pachidermica struttura di una pubblica amministrazione pletorica, di un sistema di polizie che conta 17 corpi, di una schiera di dipendenti ministeriali da far impallidire anche i più scandalosi clientelismi di casa nostra. Tutta questa "pubblica amministrazione" fu costruita senza uno Stato, e prima che uno Stato fosse realisticamente all'orizzonte. E, cosa ancor più grave, senza realistiche prospettive di un solido sviluppo economico locale, unica via per sostenere la macchina pubblica, e non solo in Palestina. L'unica soluzione possibile di questa situazione sarebbe stata - in altri tempi e magari sulla via che portò a Camp David - un drastico taglio della burocrazia clientelare, da sostenere con un serio progetto di rilancio dell'economia privata. Questa enorme rete di clientele si è retta per oltre un decennio sulle ricche largizioni pubbliche e private che arrivavano da Europa e America, in forma di aiuti istituzionali o di oboli privati. Si è così cristallizzata una situazione in cui, sul piano economico, ad uno sviluppo economico assai ridotto corrispondeva una circolazione monetaria sovradimensionata mentre, sul piano politico-internazionale, la struttura dell'Anp risultava totalmente dipendente dalle decisioni occidentali. In una parola, apertamente "ricattabile".
    L'assoluta assenza di risorse nei Territori, e la sostanziale irrilevanza dell'attore palestinese sul mercato internazionale fa il resto, negando ai palestinesi la possibilità di tirare la corda che invece è e resta garantita, ad esempio, all'Iran di Mahmud Ahmadinejad. Per questo, quella di Abu Mazen era una profezia fin troppo facile: la crisi finanziaria in cui già l'Anp versava già prima della vittoria di Hamas non poteva che diventare drammatica con la chiusura delle borse euroamericane. Fino a deflagrare violentemente, ed è storia di questi mesi e degli ultimi giorni in particolare. Perché i 200 mila palestinesi che non ricevono stipendi da un semestre pieno sono circa il 5 % della popolazione complessiva e, dato l'impressionante tasso di natalità e la bassissima età media, costituiscono una cifra statistica ben più elevata rispetto al complesso della forza lavoro adulta. In altre parole, la vera spina dorsale dell'economia di una società che, in parte importante, vive di circolazione commerciale di beni autoprodotti. La chiusura pressoché totale degli accessi al lavoro transfrontaliero in Israele rende la questione degli stipendi ancor più impellente.
    E, dato il carattere pubblico e governativo del datore insolvente, la crisi ha ricadute politiche immediate e facilmente sfruttabili, in termini di consenso. A tutto discapito di Hamas, proprio la forza che alla denuncia, per quanto retorica, delle corruzioni e delle clientele molto deve della sua vittoria elettorale a inizio 2006. A tutto questo Abu Mazen deve aver pensato già a suo tempo, ai primi di Aprile, quando calcolò in un semestre il termine di "resistenza" di Hamas. Di fatto, proprio lo scorso 2 di settembre si è avuta la più grossa protesta sindacale della breve storia dell'Hamas di governo, e uno dei più imponenti da Oslo in poi. Chiamati a scioperare erano 165mila dipendenti pubblici a Gaza e nel West Bank, e le adesioni sono state altissime: vicine al 100% a Ramallah, ma superiori al 90% anche nella roccaforte di Hamas, la Striscia di Gaza.
    A guidare la protesta, neanche a dirlo, sindacati consolidati o spontanei tutti legati a Fatah che, a questo punto, scommette sul perdurare dell'insolvenza del governo nonché, ovviamente, sulle promesse di un Occidente più "generoso" qualora l'agognato governo di unità nazionale dovesse andare in porto, marginalizzando la posizione di Hamas e rilanciando il ruolo di garante del vecchio Abbas. E mentre le trattative proseguono senza troppo slancio, e le agenzie stampa filogovernative tacciono le notizie riguardanti le proteste, c'è da sperare che il futuro governo palestinese, se sarà, lavori a risolvere la questione "alla radice", con il necessario supporto euroamericano. Un occidente che ha dissipato molti soldi, nell'aiuto ai palestinesi, e che vive con terrore la possibilità che il grande finanziatore diventi l'Iran, avrebbe solo da guadagnarci.

(Il Riformista, 8 settembre 2006)





2. MEDIO ORIENTE: ARRIVANO I NOSTRI!




D'Alema punta all'appeasement. Prodi fa fantapolitica con l'Iran

Intervista di Stefano Magni a Yasha Reibman

La politica estera italiana comprende ancora le ragioni di Israele? È tornato il tradizionale filo-arabismo dei governi democristiani? E soprattutto cosa vuole ottenere il nuovo esecutivo? Ne abbiamo parlato con Yasha Reibman, portavoce della Comunità Ebraica di Milano, che da anni sta tentando di sensibilizzare l'opinione pubblica italiana sui rischi mortali che Israele sta correndo in questi ultimi anni, essendo l'unica democrazia nel Medio Oriente assediata da dittature nemiche e ora anche minacciata direttamente di annientamento nucleare dall'Iran di Ahmadinejad. La nuova politica estera del nostro Paese, per quanto riguarda il Medio Oriente, sembra puntare sul dialogo con il regime dell'Iran. Prodi, a San Pietroburgo, si ripropose di "facilitare" il negoziato con Teheran. Anche dopo lo scadere dell'ultimatum, D'Alema dichiara di voler continuare a negoziare.

Possiamo ottenere qualcosa di positivo da questo dialogo?
    Purtroppo credo che l'opzione dell'uso della forza non possa essere scartata a priori. Non so quanto siano prese in considerazione eventuali opzioni militari, né se siano allo studio dei piani, ma non so nemmeno a cosa possa servire una trattativa continua con un regime, come quello di Ahmadinejad, che sembra proprio voler trattare solo per prendere tempo. E nel momento in cui riuscirà ad avere per le mani un'arma nucleare, sappiamo bene tutti cosa vorrà farne. Se l'Europa, senza minacciare l'uso della forza, sarà capace di ottenere quello che Stati Uniti non sono mai riusciti ad avere, cioè una rinuncia iraniana al programma nucleare… beh, allora complimenti all'Italia e all'Europa! Certo dubito che questo possa avvenire. L'ipotesi più probabile è che questo modo di gestire la crisi serva solo a dare tempo al regime iraniano.

Tuttavia ci sono analisti che suggeriscono addirittura di lasciar completare il programma nucleare all'Iran, perché, sostengono, l'atomica non verrà lanciata, ma sarà usata solo come deterrente…
    Io non mi affiderei né alla buona volontà, né al buon senso del regime di Ahmadinejad. Un Iran dotato di armi nucleari sarebbe un pericolo tremendo. Quanti vogliono tranquillizzare Israele, i Paesi vicini all'Iran e l'Europa, sostenendo che l'arma atomica iraniana non sarà mai utilizzata, credo stiano facendo politica sulla speranza e non sulla realtà. Le possibilità che un'atomica iraniana possa essere utilizzata sono troppo grandi per lasciare che questa venga costruita. L'Iran potrebbe benissimo non usare direttamente l'atomica, ma usarla indirettamente, regalandola o vendendola a gruppi terroristici esterni al Paese, da Hezbollah ad Al Qaeda.

L'Iran è responsabile per lo scoppio della guerra nel Libano, il 12 luglio scorso?
    I missili che lanciava Hezbollah erano firmati Ahmadinejad. Basta una perizia calligrafica per dimostrare la responsabilità diretta iraniana.

Però D'Alema, nel commentare l'invio del contingente italiano ha parlato della guerra in Libano come di un errore israeliano
    D'Alema ha sempre contestato la "sproporzione" dei mezzi impiegati da Israele. Il suo argomento può essere letto come: anche se le ragioni della guerra erano giuste, i mezzi impiegati erano eccessivi. Certo: non ho ancora capito quale sarebbe stata la proporzione giusta. Questo D'Alema non lo ha ancora spiegato. E queste dichiarazioni vanno interpretate alla luce della politica estera italiana: creare un rapporto politico sia con Hezbollah, sia con l'Iran. È tutto da dimostrare se questo sia il modo più efficace per disarmare Hezbollah e per fermare la corsa dell'Iran all'atomica.

Anche il sottosegretario Ugo Intini (Rosa nel Pugno), replicando a Emma Bonino, ha definito la reazione militare israeliana come "la migliore propaganda possibile per Hezbollah e Hamas" ed ha attribuito la crescita dell'integralismo islamico all'intransigenza israeliana…
    Mi sembra che Intini non tenga conto della realtà di questi ultimi anni. Israele è un Paese che ha dato molto. Si è ritirato dal Libano, in modo unilaterale e senza chiedere niente in cambio. Dal 2000 ad oggi, Hezbollah, che doveva essere disarmato (e per questo c'è anche la risoluzione Onu 1559 del 2004), ha continuato ad armarsi. E il risultato è che, dopo il ritiro, come tutta risposta, per sei anni Israele ha continuato a beccarsi i missili Hezbollah. È successo l'esatto contrario di quel che sostiene Intini. Semmai si dovrebbe dimostrare a Israele che se si fanno concessioni, poi le risoluzioni Onu vengono rispettate. È questo che va dimostrato con la missione italiana, adesso. Se l'Italia si adopererà per il disarmo di Hezbollah, allora aumenteranno le possibilità per un futuro di pace nel Medio Oriente. Altrimenti se rimaniamo a guardare passivamente, sarà inevitabile che Hezbollah riarmi e noi ci troveremo nel tiro incrociato di una nuova guerra.

C'è chi dice che l'arrivo dei Caschi Blu non sarà efficace contro eventuali nuove aggressioni di Hezbollah contro Israele (a causa delle regole di ingaggio), ma efficacissimo per bloccare ogni eventuale risposta militare israeliana…
    Israele ha già calcolato questa possibilità ed è proprio il governo di Olmert ad aver voluto la presenza dei Caschi Blu. Evidentemente perché ha ricevuto sufficienti garanzie in questo senso. Mi auguro che i Caschi Blu facciano quel che c'è scritto sulla risoluzione 1701 dell'Onu: aiutare l'esercito libanese a disarmare Hezbollah. Dopo che, per anni, si è richiesto un intervento internazionale, se oggi si dovesse fallire, si dimostrerebbe l'incapacità totale dell'Onu.

Il fatto che D'Alema si sia fatto fotografare assieme ad uno dei leader politici di Hezbollah, può essere una strategia per salvare le vite dei nostri soldati? O il gesto può avere un significato politico?
    Ho visto foto più belle nella mia vita. Se questo sarà servito a ottenere il disarmo di Hezbollah e a garantire l'incolumità dei nostri soldati, complimenti: perché è imbarazzante farsi fotografare accanto a persone come quelle. Se è stato semplicemente un tentativo di appeasement o uno scambio (la vita dei nostri soldati, in cambio della nostra passività), allora… ma D'Alema vuole veramente questo? Spero di no. Certo, se l'Onu non riuscisse a disarmare Hezbollah, allora lasciamolo fare agli Israeliani. E senza disturbare il loro lavoro.

(L'Opinione, 8 settembre 2006)





3. UN FILM SULL'EDUCAZIONE AL «MARTIRIO» DEI BAMBINI




I bambini soldato, armi nella guerra contro l'Occidente

di Giulio Meotti

ROMA - Rischia di fare la fine di Submission di Ayaan Hirsi Ali e Theo van Gogh. Cioè scomparirà nel nulla. Il film si intitola Obsession - La guerra dell'Islam radicale contro l'Occidente, è diretto da Waine Kopping, che lo ha montato su immagini raccolte dalle tv arabe sui discorsi dell'odio, ed è stato presentato a Frascati nell'ambito di un'iniziativa di Magna Charta. È una pellicola sulla propaganda jihadista e l'uso dei bambini nella guerra santa contro l'Occidente. In questi giorni abbiamo letto la seguente notizia: "Milizie di bambini reclutate da Hezbollah". Si tratta di un servizio pubblicato sul numero del 18 agosto 2006 del settimanale egiziano Roz Al-Yusuf e reso noto dall'organizzazione di informazione dal mondo arabo Memri. L'articolo rivela che Hezbollah ha reclutato più di duemila ragazzini fra i 10 e i 15 anni d'età perché servano nelle sue milizie armate, e che il movimento giovanile Mahdi Scouts, affiliato a Hezbollah, li addestra per trasformarli in potenziali "martiri". "Hezbollah – si legge nel servizio del settimanale egiziano – ha reclutato più di duemila bambini fra i 10 e i 15 anni per formare milizie armate".
    Prima del recente conflitto con Israele, questi bambini comparivano solo nelle celebrazioni della Giornata annuale su Gerusalemme e venivano indicati come le Unità 14 Dicembre. Oggi invece vengono chiamati istishhadiyun (martiri). Tradizionalmente – continua il giornale – Hezbollah ha sempre reclutato ragazzi e bambini, addestrandoli a combattere sin dalla più tenera età. Spesso sono bambini che hanno a mala pena dieci anni, vestiti con uniformi mimetiche, coi visi coperti di pitture mimetiche, che vengono fatti giurare solennemente di combattere la jihad, unendosi al Mahdi Scout. I bambini vengono selezionati dagli uffici di reclutamento Hezbollah sulla base di un unico criterio: la loro disponibilità a trasformarsi in martiri.
    Fin da tenera età questi bambini vengono istruiti per diventare giovani martiri, come i loro padri, e questo addestramento viene effettuato dai Mahdi Scout, che insegnano ai bambini i principi fondamentali dell'ideologia sciita e dell'ideologia Hezbollah. La prima lezione impartita ai bambini da Hezbollah, incentrata sulla 'scomparsa di Israele', rimane per tutto il tempo la parte più importante del programma di indottrinamento".

Il movimento Mahdi venne fondato in Libano il 5 maggio 1985. Dalla fine del 2004 sono 1.491 gli scout che sono stati sottoposti al programma di addestramento, e sono 449 i gruppi scout entrati a far parte del movimento per un totale di 41.960 membri. Secondo il servizio del settimanale egiziano, Na'im Qasim, braccio destro del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, in un'intervista a Radio Canada ha dichiarato: "Una nazione con bambini martiri sarà vittoriosa, indipendentemente da quante difficoltà incontrerà sul suo cammino. Israele non può conquistarci né violare i nostri territori perché noi abbiamo figli martiri che purificheranno la terra dalla sozzura sionista. Ciò sarà fatto grazie al sangue dei martiri, finché alla fine conseguiremo i nostri obiettivi". Il Mahdi insegna ai bambini come essere dei buoni martiri e a preparare il mondo alla venuta del "dodicesimo imam", di nome Maometto. Alcuni lo chiamano Mahdi ("colui che è guidato da Dio"), ma per altri è l'imam Zaman (da sahib-e zaman, "il guardiano del tempo"). Nato nell'anno 869, fu l'unico figlio dell'undicesimo imam. Nell'874 scomparve senza lasciare traccia, ponendo termine alla discendenza di Maometto. Secondo la mitologia, il dodicesimo imam sopravvisse. Gli sciiti credono che si sia ritirato dal mondo all'età di cinque anni, e che presto o tardi emergerà dal suo "nascondiglio" per liberare il mondo dal male.
    Il presidente iraniano Ahmadinejad nel settembre 2005 concluse il suo primo discorso all'Onu implorando Dio per il ritorno del dodicesimo imam. Finanzia un istituto di ricerca a Teheran il cui unico scopo è studiare e, se possibile, accelerare, la venuta dell'imam. A una conferenza di teologia nel novembre 2005 ha detto: "Il compito più importante della nostra Rivoluzione è preparare la via del ritorno del dodicesimo imam". È l'ultimo esempio di come nell'islamismo i bambini siano diventati parte della geografia dell'orrore e del terrore.
    "Trasforma al plurale: un martire è onorato da Allah; due martiri… da Allah". Si tratta di uno degli esercizi di grammatica del libro di testo adottato (con finanziamento dell'Unione europea) dall'Autorità Nazionale Palestinese e che molti considerano non soltanto esempio di "islam moderato", ma addirittura di "islam laico". Sotto la gestione di Yasser Arafat, la televisione dell'Anp ha trasmesso un talk show in cui si può vedere un conduttore chiedere a una quattordicenne: "Wala, cosa è meglio, il martirio o la pace e i pieni diritti del popolo palestinese?" Wala risponde con foga convinta: "Il martirio! Otterrò i miei diritti dopo essere diventata martire! Noi vogliamo restare ragazzi per sempre!" La stessa Autorità Palestinese che avrebbe conferito la cittadinanza onoraria al terrorista libanese Samir Quntar, che sta scontando l'ergastolo in un carcere israeliano. Ha scritto sul Washington Post Smadar Haran, moglie e madre delle vittime di Quntar: "Fu un assassinio di crudeltà inimmaginabile. I terroristi portarono (mio marito) Danny e (mia figlia) Einat sulla spiaggia. Uno di loro sparò a Danny davanti agli occhi di Einat. Poi ruppe la testa della mia bambina contro una roccia con il calcio del fucile. Quel terrorista era Samir Quntar".

Il ministero della cultura dell'Autorità Palestinese ha pubblicato una raccolta di poesie in onore della terrorista suicida Hanadi Jaradat, definita "Rosa della Palestina, Iris del Carmelo, Martire di Allah". La sera di sabato 4 ottobre 2003 la Jaradat si fece esplodere nel ristorante Maxim di Haifa uccidendo ventuno persone e anche quattro bambini. La poesia biasima la nazione araba perché ignora la jihad:

"Dov'è la nazione araba?
Gli eserciti si sono nascosti
non rimane nulla sul campo…
non il suono della jihad
tutti loro, nell'ora della decisione
si sono arresi, obbediscono al nemico… O Hanadi! O Hanadi!
La vendetta chiama!…
La bandiera della nazione non sventola sui campi della jihad". La poesia si conclude quando la terrorista prende l'iniziativa: "Oh, Hanadi! O Hanadi!
Fa' tremare la terra sotto i piedi del nemico!
Fallo esplodere!
Hanadi disse: Sono le mie nozze,
sono le nozze di Hanadi
il giorno in cui la morte come martire per Allah diviene la meta più alta
che libera la mia terra".

C'è un'altra poesia che una ragazzina ha recitato nella Giornata dei bambini palestinese: "Anche se tutti gli ebrei arrivassero in Israele a cercare rifugio fra le scimmie, noi non accetteremo mai indennizzi per la nostra terra. Nulla può sostituire Gerusalemme. La nostra morte è come vita, la mia terra patria è la tomba degli invasori. Camminerò per mille chilometri anche se muoio in essa come una martire". Fra i compiaciuti ascoltatori c'era anche il presidente dell'Anp Mahmoud Abbas. La reazione? Un caloroso applauso.

Obsession centra l'obiettivo su come la vita dei bambini sia stata svilita in molti paesi in strumento di guerra. Tutto inizia con la rivoluzione iraniana

prosegue ->
del 1979. Nel 1982 l'ayatollah Khomeini emana una legge che stabilisce che tutti i bambini sopra i dodici anni d'età possono arruolarsi senza il permesso del padre. Khomeini vìola la stessa prescrizione coranica sull'età della responsabilità e la anticipa all'infanzia per una ragione semplice: fare dei bambini carne da cannone. Per anni, sui campi minati lungo la frontiera dell'Iraq, mentre un attore su un cavallo bianco li incita con una spada, migliaia di bimbi vanno a farsi abbattere sui campi minati e contro le mitragliere degli iracheni. Dall'Iran, si passa all'Algeria, dove migliaia di bimbi vengono sgozzati.
    La tattica palestinese assume subito la tattica khomeinista. Nelle scuole dell'Anp si organizzano corsi per bambini martiri, emulando Ayyat al Akras, la prima ragazzina palestinese a farsi saltare per aria e che uccise una ragazzina ebrea di 17 anni, Rachel Lewy. Il colonnello israeliano Pinas Zuaaretz ha accusato i palestinesi di Gaza di usare ragazzini anche per deporre bombe sui percorsi seguiti dalle pattuglie israeliane. Una canzone recita:

"I bambini sono la mia redenzione
I bambini, i bambini, per la patria
sono nelle squadre dei martiri.
Quando la bomba esplode
mentre grido Allah è grande
allora sto davvero tornando a casa
all'amata terra di Gerusalemme".

Khomeini aveva detto: "Morire non significa annullarsi, significa vivere". Durante la guerra fra Iran e Irak, Khomeini importò 500 mila chiavette di plastica da Taiwan. Dopo l'invasione dell'Iraq nel settembre 1980, i bambini di Khomeini furono spediti a marciare attraverso i campi minati. A ciascuno era consegnata una chiavetta taiwanese da appendere al collo: sarebbe servita a spalancargli le porte del paradiso. Prima di addentrarsi in un campo minato, i bambini venivano avvolti in coperte, in modo che le loro membra non si disperdessero dopo la deflagrazione delle mine e si potesse dare loro sepoltura. Questi bambini che rotolavano verso la loro morte facevano parte dei Basiji, il movimento di massa creato da Khomeini nel 1979 e militarizzato dopo lo scoppio della guerra al fine di integrare le fila del suo esercito assediato. "I giovani sminavano i campi con i loro stessi corpi – raccontava nel 2002 un veterano della guerra fra Iran e Iraq al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine –. Talvolta, sembrava quasi una corsa. Anche senza aver ricevuto ordini dal comandante, tutti volevano arrivare primi".

Nel 1999 e 2003 i Basiji furono utilizzati per reprimere le proteste studentesche e sono stati lo zoccolo duro della base politica che portò alla presidenza Mahmoud Ahmadinejad, che, si dice, ha fatto da istruttore ai giovani Basiji durante il conflitto. In Iran tutti conoscono il nome di Hossein Fahmideh, il tredicenne che durante la guerra contro l'Iraq si è fatto esplodere davanti a un carro armato iracheno. La sua immagine è impressa sui francobolli come sulle banconote. La sua storia è diventata un film e anche un episodio televisivo nella serie Bambini del Paradiso. I Basiji, in occasione di cerimonie pubbliche, indossano sopra le loro uniformi veli funebri bianchi. Lo scrittore Amir Taheri ricorda così le scene di martirio: "Decine di migliaia di adolescenti, con una fascia rossa sulla fronte, si riversano nella zona di guerra. Alcuni bonificano i campi minati andando in avanscoperta e spesso saltano in aria. Altri agiscono come attentatori suicidi e attaccano i carri armati iracheni come kamikaze. Vengono inviati al fronte scribi per annotare le loro ultime volontà, che molto spesso sono in forma di lettera a Khomeini e parlano della luce che egli ha portato nella loro vita e della gioia di combattere a fianco degli amici sulla via del Paradiso".

(Il Velino, 8 settembre 2006)





4. DOPO IL CATTO-COMUNISMO ARRIVA L'ISLAMO-COMUNISMO




Hezbollah sbarca in Sud America, con la complicità di Chavez

di Stefano Magni

Gli Hezbollah sbarcano nell'America Latina? Sì, è tutto vero: l'Iran sta esportando la sua ideologia rivoluzionaria anche nel nuovo continente, grazie alla complicità del regime di Chavez e della sua ideologia terzomondista. La saldatura tra la rivoluzione latina e quella islamista era stata più volte al centro della propaganda del presidente/dittatore latino-americano, ma adesso sta prendendo forma concretamente. La filiale venezuelana del Partito di Dio, che nega ufficialmente ogni legame diretto con Ahmadinejad, nel suo sito Internet invita l'America Latina a combattere la jihad contro l'Occidente usando toni vittimisti e anti-imperialisti: "Gli Stati Uniti e le loro nazioni alleate stanno lanciando una crociata contro l'Islam e i musulmani per farli scomparire dalla faccia della Terra. Il popolo musulmano dell'America Latina ha assistito in silenzio e passivamente a tutta questa ondata di orrendi crimini contro i nostri fratelli e contro la nostra fede". E quindi: "È finito il tempo della neutralità della passività e dell'indifferenza". Nel caso di un attacco americano all'Iran, l'obiettivo indicato dagli Hezbollah venezuelani è quello di "colpire gli interessi statunitensi e israeliani in America Latina (…) Hezbollah chiama alla Jihad nell'America Latina contro gli Stati Uniti e i loro alleati". La nuova organizzazione già annuncia un attentato, in Argentina contro "un'azienda americano-giudaica", come risposta alla guerra in Libano, anche se specifica che "L'esplosivo sarà poco potente e non arrecherà danni agli uomini o alle proprietà, ma servirà a diffondere le idee degli Hezbollah dell'America Latina contro l'occupazione e contro l'imperialismo statunitense.
    In questo modo Hezbollah si presenterà all'opinione pubblica nazionale e internazionale come un movimento rivoluzionario islamico, che lavorerà per stabilirsi in tutti i Paesi dell'America Latina e da questi Paesi aprire un nuovo fronte della resistenza islamica internazionale". I toni ricordano quelli dei primi anni dell'espansione ideologica comunista nell'America Latina. Come è possibile una saldatura ideologica tra le due rivoluzioni, quella terzomondista di matrice marxista e quella islamista? Hezbollah afferma che "una religione che non combatte contro l'oppressione è una religione incompleta". Gli slogan ricordano da vicino quelli della saldatura ideologica cattolico-comunista, quando la Teologia della Liberazione identificò la lotta di classe contro il capitalismo con il messaggio del Vangelo. Si assiste, insomma, alla nascita di un soggetto ideologico nuovo, destinato a far presa non solo fra gli otto milioni di musulmani che già vivono nell'America del Sud, ma anche fra molti rivoluzionari rimasti orfani del comunismo e privi di un'identità ideologica forte e dotata di prospettive strategiche. L'annuncio (mai confermato) di una conversione all'Islam del subcomandante Marcos e l'ondata recente di conversioni nel Chiapas avevano preannunciato, negli anni scorsi, una tendenza di questo tipo. I rischi per il futuro sono tanti: se l'Iran riuscisse a costituire basi anche nel continente americano, la jihad (che già coinvolge direttamente il Medio Oriente, l'Asia, l'Africa e l'Europa) diverrebbe veramente globale.

(L'Opinione, 4 settembre 2006)





5. «MEGLIO DHIMMI CHE MORTI»




Se l'ambiguità dei cristiani aiuta Hezbollah

di Massimo Introvigne

Per anni lo slogan «meglio rossi che morti» ha cercato di convincerci che, se il rischio era morire ammazzati, meglio piegarsi ai regimi comunisti. Anche nelle Chiese cristiane dei paesi comunisti, accanto a tanti martiri, c'era chi cantava le lodi dei regimi al potere. La legge islamica, la sharia, prevede per i cristiani e gli ebrei lo stato di dhimmi, «protetti». Non possono svolgere attività missionaria, né accedere alle cariche pubbliche più importanti, e devono pagare tasse più alte: insomma, sono cittadini di serie B, ma almeno salvano la pelle.
    È sempre difficile criticare chi la pelle la rischia ogni giorno, e oggi è tentato da un «meglio dhimmi che morti». Tuttavia, quando questo disagio è sfruttato all'estero, non è giusto neppure tacere. In Palestina e in Libano non sono solo politici e militari cristiani - che danno l'impressione di cercare vendetta per non essere stati a suo tempo sostenuti dall'Occidente, come il generale Aoun - a mettersi al servizio degli Hezbollah, accettando di fatto la posizione di dhimmi ideologici oggi nella prospettiva di diventare dhimmi a pieno titolo domani.
    Anche alcune autorità religiose cristiane parlano apparentemente di teologia ma lo fanno in un modo così ambiguo da favorire oggettivamente la propaganda degli Hezbollah e di Hamas. La settimana scorsa quattro vescovi della Palestina - quello latino-cattolico, Michel Sabbah, quello siro-ortodosso, un luterano e un anglicano - hanno pubblicato un documento contro il «sionismo cristiano», una teologia diffusa nella corrente cosiddetta evangelicale, cioè conservatrice, maggioritaria nel protestantesimo degli Stati Uniti, che si inquadra in una complessa visione della imminente fine del mondo all'interno della quale lo Stato di Israele ha un ruolo preparatorio voluto da Dio. Se si vuole dire che questa forma di millenarismo non è condivisa da cattolici e ortodossi (e neppure da anglicani e luterani), si afferma l'ovvio. Ma il momento scelto è sospetto, e si coglie l'occasione per scrivere che «i governi di Israele e Stati Uniti, attualmente stanno imponendo la loro dominazione sulla Palestina» e sono colpevoli di «colonizzazione, apartheid e imperialismo», frasi che non stonerebbero in un documento di Hamas o degli Hezbollah. Anche il gesuita nato in Egitto, ma che è vissuto a lungo in Libano, padre Samir Khalil Samir, stimato dal Papa - e anche da chi scrive - per la sua conoscenza enciclopedica dell'islam, ha proposto un programma di pace in dieci punti (alcuni dei quali ragionevoli) in cui però sostiene che l'unica e sola radice del problema medio-orientale non è il terrorismo ma la stessa creazione dopo l'Olocausto dello Stato di Israele nel 1948, «una ingiustizia contro la popolazione palestinese». Tra le sue proposte c'è il famoso «diritto al ritorno», almeno parziale, dei palestinesi che hanno lasciato Israele negli anni 1940 e 1950, condizione che distruggerebbe lo Stato ebraico trasformandolo in uno Stato islamico (con i cristiani, anche qui, nella condizione di dhimmi) e che nessun governante israeliano potrà mai accettare neppure di discutere.
    Tutto questo non è tanto una critica dei dirigenti cristiani medio-orientali, che rischiano ogni giorno di essere accoltellati o peggio. È più colpevole chi sfrutta cinicamente le loro dichiarazioni in Occidente, per giustificare politiche «equivicine» a Israele e ai terroristi o per ripetere cantilene antisemite dove, di qualunque cosa succeda in Medio Oriente, i colpevoli sono sempre e solo gli ebrei.

(Il Giornale, 5 settembre 2006)





6. SIONISTI CRISTIANI NEGLI STATI UNITI




Cristiani d'America: i migliori amici d'Israele

di Giulio Meotti

ROMA - Nel marzo scorso due accademici americani avevano riaperto la polemica sulla "lobby ebraica" che avrebbe sequestrato la politica degli Stati Uniti. Un articolo pubblicato dalla London Review of Books di due esperti di strategia internazionale, John Mearsheimer (Università di Chicago) e Stephen Walt (Harvard), parlava di "un'alleanza di uomini e organizzazioni che lavorano dal 1967, dai tempi della Guerra dei Sei Giorni, per dirottare la politica estera di Washington". Ma se si guarda soprattutto a quanto accade in un hotel di Washington, si direbbe che negli Stati Uniti i più accesi sostenitori dello Stato d'Israele siano i cosiddetti "cristiano-evangelici", la cui influenza all'interno del Partito repubblicano è ritenuta decisiva per le elezioni congressuali e presidenziali. Il loro appoggio ad Israele più che da ragioni politiche deriva da un'interpretazione letterale della Bibbia, in particolare dal Levitico e dal Deuteronomio. Appoggiano lo Stato d'Israele perché credono che la terra è stata donata agli ebrei da Dio stesso. Se la materia è trattata dal New Yorker diventa al massimo folklore fanatico. Cinque anni fa il settimanale chic della sinistra americana scrisse che 500 mucche gravide erano partite dal Mississipi per Israele in seguito a un accordo fra sionisti cristiani ed ebrei ortodossi. Si voleva far nascere nella Cisgiordania la "vacca dell'apocalisse". Dove siano finite quelle mucche nessuno lo ha mai capito. La verità è che c'è un impressionante sostegno popolare, culturale e politico che lo stato ebraico incassa dagli evangelici americani. L'allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu fondò nel 1996 l'Israel Christian Advocacy Council e nel 1997 invitò diciassette leader evangelici per un soggiorno in Israele. Nel dicembre 2000 Ariel Sharon prese la parola davanti a 1.500 cristiani sionisti che erano arrivati in Israele, e disse loro: "Vi consideriamo tra i nostri migliori amici al mondo".
    Quando nel 1981 Israele inviò aerei da guerra in Iraq per bombardare un reattore nucleare, il televangelista del Texas John Hagee spedì lettere ad altri 150 predicatori per esortarli a dare il proprio appoggio allo stato ebraico. Erano gli anni in cui il ministero del Turismo israeliano organizzava viaggi della "familiarizzazione" negli Stati Uniti per stabilire rapporti con gli evangelici. Uno dei primi gruppi cristiani a favore di Israele è stata la National Leadership Conference for Israel, fondata dal predicatore pentecostale David Lewis. Poi ampia eco sulla stampa ottenne il Christians for Israel, che aiutava gli ebrei russi a fuggire dal regime sovietico. Il suo programma di "esodo" ne portava 1.200 al mese a Gerusalemme. Ma forse la lobby più influente è costituita dalla National Unity Coalition for Israel. Il rabbino Yehiel Eckstein ha contribuito a rafforzare le relazioni fra gli evangelici e lo stato d'Israele attraverso un "Fondo di amicizia" che ogni anno devolve aiuti economici ad israeliani in stato di indigenza per cifre complessive di decine di milioni di dollari. In particolare Eckstein è riuscito a convincere i bisognosi ebrei che gli evangelici non praticano in Israele alcuna attività missionaria. Un paio di settimane fa, mentre le forze armate israeliane entravano in Libano, Hagee ha presieduto a quello che lui stesso ha definito un "miracolo di Dio": la riunione di 3.500 cristiani evangelici in un hotel di Washington per acclamare Israele. Parlando da un palco decorato da un'enorme bandiera israeliana, Hagee ha ringraziato Israele per compiere l'opera di Dio in una "guerra tra il bene e il male". Il presidente Bush ha inviato un messaggio nel quale ha elogiato Hagee e i suoi seguaci per il loro contributo nel "diffondere la speranza nell'amore di Dio e nel dono universale della libertà".
    Anche il primo ministro israeliano ha inviato un messaggio di ringraziamento. In America il sionismo cristiano esiste da molti anni, ma sta ottenendo maggiore eco ora che può contare sul fascino di Hagee, il quale a San Antonio dirige una mega-chiesa (con 19 mila membri) ed è capo di una compagnia televisiva e possiede notevoli agganci con i più importanti esponenti del Partito repubblicano. "Lasciate che Israele faccia quel che deve fare", ha detto Hagee ai suoi sostenitori la scorsa settimana. Figlio di un predicatore fondamentalista, Hagee ha visitato per la prima volta Israele nel 1978. Dice di esserci andato "come turista e di essere tornato come sionista". Hagee è stato al muro del pianto di Gerusalemme, a proposito del quale dice di non aver mai provato una "vicinanza a Dio così intensa in nessun altro luogo della terra". Ricorda ancora Hagee, "il Signore mi ha ordinato di fare tutto quanto potevo per unire insieme cristiani ed ebrei". Quando il premier israeliano Menachem Begin ordinò alle forze aeree israeliane di bombardare il reattore nucleare di Osirak, fatto costruire da Saddam Hussein, Hagee rimase inorridito dalle diffuse critiche che furono rivolte a Israele. Dopo aver letto su un giornale di San Antonio un articolo nel quale si definiva l'attacco israeliano come un atto di "diplomazia dei cannoni", Hagee decise di organizzare un raduno a favore di Israele. Nel marzo 2003 Hagee e altri leader evangelici hanno spedito una lettera al presidente Bush nella quale applaudivano l'invasione dell'Iraq ma criticavano il piano di pace per il conflitto israelo-palestinese, e affermavano che sarebbe stato "moralmente sbagliato" se gli Stati Uniti si fossero mostrati "imparziali" tra Israele e "l'infrastruttura governativa palestinese infestata da terroristi". "God's Country" è il titolo di un saggio-copertina della rivista Foreign Affaire che analizza l'influenza degli evangelici nella politica estera americana.
    Dalla fine della guerra civile in Sudan agli sforzi economici e missionari contro l'Aids, dall'International religious freedom act del 1998 al sostegno indefesso a Israele, dalla campagna contro il totalitarismo della Corea del nord alla lotta contro il traffico di esseri umani del 2000, dalla politica a favore dell'immigrazione messicana, sono solo alcuni dei risultati della pressione e della cultura evangelica sull'amministrazione americana. Insieme ad Hagee, Jerry Falwell resta senza dubbio il predicatore e leader della destra cristiana più vicino a Israele. Nel 1981 Israele ha dato a Falwell il premio prestigioso intitolato a Vladimir Jabotinsky. Durante il bombardamento del reattore iracheno nel 1981, Ronald Reagan chiese a Falwell di "spiegare al pubblico cristiano i motivi del bombardamento". Nel marzo del 1985, mentre parlava all'assemblea rabbinica conservatrice a Miami, Falwell si è impegnato a "mobilitare 70 milioni di cristiani per Israele e contro l'antisemitismo". Anche Ronald Reagan si definiva un sionista cristiano. Durante il Natale del 1974, quando era ancora forte la paura della guerra del Kippur, il televangelista Pat Robertson, che in questi giorni era in visita in Israele, ebbe il privilegio di intervistare Yitzhak Rabin per il suo programma televisivo "700 Club". Robertson chiese a Rabin cosa sperava che facessero gli Stati Uniti per Israele. Rabin rispose: "Siate forti, siate forti". Hagee sta preparando la prossima convention di sostegno a Israele. In un'intervista ha appena detto che "c'è un nuovo Hitler in Medio oriente che sta parlando di uccidere gli ebrei. Il presidente dell'Iran vuole un olocausto nucleare e l'unico modo per fermarlo è un attacco preventivo".

(Il Velino, 4 settembre 2006)





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