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Notizie su Israele 360 - 17 settembre 2006

1. L'antagonismo escatologico dei nemici d'Israele
2. Il nemico è sempre lo stesso
3. Antisionismo ebraico
4. Odore di topo morto
5. Scende la popolazione ebraica d'Israele
6. Lettera aperta a Mahamad Ahamadinejad
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Sofonia 3:14-15. Prorompi in grida di gioia, o figlia di Sion! Alza grida d'esultanza, o Israele! Rallègrati ed esulta con tutto il cuore, o figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato le sue condanne contro di te, ha scacciato il tuo nemico. Il Re d'Israele, il Signore, è in mezzo a te, non dovrai più temere alcun male.
1. L'ANTAGONISMO ESCATOLOGICO DEI NEMICI D'ISRAELE




Una lucida analisi «laica» del conflitto arabo-israeliano.

Israele e la trappola Unifil

di Giorgio Israel

Che la missione Unifil in Libano non raggiunga gli scopi prefissati e produca guasti peggiori della sua assenza è più che probabile, dipende dalla sua stessa natura classicamente onusiana: missione poco più che di osservazione, non sostenuta da alcun giudizio politico ed etico e priva di qualsiasi progetto se non quello di una generica "pacificazione".
    Si fa un gran parlare, di questi tempi, dei nuovi trionfi del multilateralismo e dell'approccio in termini di "appeasement", ma si evita di dire che questi trionfi sono dovuti più alle difficoltà e agli errori dei progetti alternativi che non a meriti propri. La storia delle politiche di "appeasement" sotto conduzione dell'Onu è più che altro una storia di disfatte, con conseguenze drammatiche che fanno impallidire gli eventi dell'ultimo ventennio in medio oriente: valga per tutti il caso del Ruanda. Ed è singolare che ciò venga occultato sotto un fiume di retorica proprio mentre si verifica l'ennesimo drammatico insuccesso dell'Onu in Sudan. Ma si sa: in Africa si può morire come mosche senza che i pacificatori multilateralisti facciano una piega e manifestino un millesimo dell'emozione che li pervade di fronte a un petardo in medio oriente. Le politiche di "appeasement" – anche indipendentemente dalle loro versioni onusiane – hanno dato il peggio di sé quando si sono dovute confrontare con fattori che non sono riducibili attraverso tecniche politico-diplomatiche tradizionali, le quali danno per scontato che esista per qualsiasi soggetto una soglia oltre la quale esso può essere convinto ad accettare delle forme di transazione e di compromesso. Purtroppo la teoria matematica dei giochi strategici non funziona in presenza di conflitti dettati da motivazioni "irriducibili" e di soggetti ispirati a progetti rivoluzionari escatologici.
    Carlo Panella ha spiegato in libri e articoli come la nozione stessa di "pace" non abbia senso di fronte a soggetti rivoluzionari "assoluti", come l'islamismo iraniano e i suoi alleati di Hamas ed Hezbollah; ed abbia senso soltanto la nozione di "tregua", anche lunghissima, in vista però di una inevitabile ripresa della lotta per il conseguimento di un obiettivo finale che non ammette menomazioni. Non è certamente un caso se gli unici casi di pacificazione nel conflitto arabo-israeliano si sono avuti quando quei soggetti integralisti sono stati messi fuori gioco all'interno delle società arabo-musulmane. Pertanto, ha colto perfettamente il punto Gianni Baget Bozzo quando ha osservato su queste pagine che chi non considera il fattore religioso come capace di vera azione storica non ha alcuna speranza di vincere la partita e che "far passare un momento tragico per l'occidente per una vittoria della sua diplomazia è scambiare la realtà con i verbali delle cancellerie".
    Come al solito, il pragmatismo radicale approda al massimo dell'astrattezza, proprio perché non fa i conti con la realtà ma risponde soltanto ai propri "assiomi" ed elude la vera questione: se oggi possa aver successo una politica di "appeasement" con l'integralismo islamico e con il suo multiforme progetto di attacco e disgregazione politico-culturale dell'occidente. Da questo punto di vista, le recenti prese di posizione e il recente discorso del presidente Bush hanno riproposto un'analisi della sfida in gioco che non appare minimamente scalfita dalle critiche dei fautori dell'approccio tradizionale. Il cavallo di battaglia di queste critiche è rappresentato dalla lista degli insuccessi e delle sconfitte della politica dell'Amministrazione Bush. Ma un simile cavallo di battaglia è un ronzino. Chi fa uso di simili argomenti è come chi, nel 1940, addusse la disfatta militare della Francia da parte delle truppe hitleriane e l'Inghilterra quasi in ginocchio sotto i bombardamenti della Luftwaffe come argomento a favore della validità e di un'auspicabile ripresa della politica di Chamberlain e Daladier. Costoro riuscirono soltanto a edificare la Repubblica di Vichy. Per dimostrare di aver ragione gli "appeasers" non debbono addurre come argomenti gli insuccessi o le sconfitte – questi potrebbero anche essere passaggi (o, tragicamente, esiti) inevitabili – bensì mostrare (a) che l'analisi della natura dell'avversario è falsa e (b) che esista un solo caso in cui la politica di "appeasement" nei confronti di simili avversari ha avuto successo. Chamberlain era convinto che dovesse esistere una "soglia" di concessioni raggiunta la quale Hitler si sarebbe fermato e non concepiva che non potesse non essere così in un mondo razionale. Ma questo mondo non esisteva: era soltanto la proiezione della sua idea astratta di razionalità.
    Come lui, gli "appeasers" di oggi trovano irrazionale sostenere che non esista il valore soglia che permetta di spegnere il progetto rivoluzionario dell'integralismo islamico. In tal modo, confondono la realtà con le proprie costruzioni razionali e si esentano dall'analisi della natura della minaccia nonché dalla confutazione delle analisi altrui.
    Prendiamo il caso della via attraverso cui si è costituita la politica unilateralista in Israele – per poi dire qualcosa del modo confuso in cui essa sembra essere stata archiviata, che è poi il tema che più ci preme in questo articolo. Nell'ultimo ventennio, Israele ha esplorato tutte le vie per risolvere il conflitto con i palestinesi. Dopo una fase in cui si è pensato di poter tenere a bada la questione mediante una politica di occupazione e controllo dei territori, è stata esplorata con decisione la via di un regolamento pacifico della questione palestinese sulla linea "territori contro pace". E' stato giocoforza constatare che nessuna delle vie esplorate era praticabile. Si può discettare quanto si vuole sui singoli piani di pace, sulla loro insufficienza e appigliarsi a questo o quel dettaglio. Ma neppure i più accaniti fautori della linea trattativista possono negare che persino il tanto vantato "accordo di Ginevra" è azzoppato sulla questione centrale: il diritto al ritorno entro Israele dei profughi palestinesi e dei loro discendenti, una richiesta che mai è stata affacciata in alcun conflitto storico e che appartiene alla dimensione dell'escatologia. Anche le proposte più "generose", avanzate da coloro che non vogliono distruggere Israele, non vanno oltre questo limite: ritiro "preliminare" di Israele entro i confini del 1967, e "poi" apertura della trattativa sull'assetto definitivo e sulla questione dei profughi. Il che è quanto dire che il diritto di Israele all'esistenza come stato autonomo non è mai accettato e che nessuna concessione appare possibile rispetto all'obbiettivo assoluto del recupero totale della presenza palestinese nei territori tra il mare e il Giordano.
    In breve, l'emergere della politica unilateralista in Israele è legata alla presa d'atto della natura dell'antagonista: un antagonista escatologico (quantomeno nelle sue espressioni politiche maggioritarie), ben diverso dagli interlocutori egiziani e giordani che avevano consentito l'approdo a un trattato di pace.
    Sotto questo profilo, una delle favole più infondate di cui si è nutrita la propaganda antisraeliana è quella che Arafat e la sua dirigenza fossero ispirati da ideali laici e pragmatici, alieni dai miti dell'integralismo islamico. A fronte di un antagonista escatologico, che non accettava alcuna transazione se non come tappa o tregua tattica verso la meta finale, a Israele non restava altra via – a meno di non dichiarare la propria autosoppressione – se non la definizione autonoma della propria realtà territoriale, separandosi dai palestinesi e lasciando loro progressivamente lo spazio per una vita politica autonoma. Il ritiro da Gaza – ritiro "totale" da un territorio che permetteva l'inizio della costituzione di uno stato palestinese – è stato il primo passo in questa direzione. Del resto, che questa fosse ormai l'unica via possibile era apparso evidente dal fatto che la prima mossa unilateralista – il ritiro dal Libano, sanzionato dall'Onu come chiusura dei contenziosi territoriali, salvo la minima questione delle fattorie di Sheba – era venuta proprio dal governo che più si era spinto avanti sul piano della trattativa: il governo del laburista Barak. Naturalmente, una simile linea unilaterale aveva senso a due condizioni: lasciare continuamente aperta la porta a transazioni definitive con un interlocutore che, per dinamiche interne, fosse approdato alla scelta di una trattativa senza secondi fini; la massima fermezza nella risposta ad attacchi esterni, soprattutto se rivolti a territori non contestabili, e ciò anche per non alimentare la confusione paranoica tra un ritiro attuato come libera scelta e una sconfitta. Questa è stata la linea proposta da Sharon e scelta da Israele con la vittoria del nuovo partito Kadima, che ha espresso una fiducia del paese nel proprio futuro e la volontà di riprendere in mano il proprio destino. Purtroppo l'andamento degli eventi ha confermato la natura dell'antagonista che Israele aveva di fronte e quindi ha, casomai, convalidato la giustezza della scelta. La riconsegna di Gaza non ha significato l'aggregarsi di una classe dirigente palestinese vogliosa di dimostrare la propria capacità di creare e gestire uno stato e, su questa base, di pretenderne l'allargamento e il consolidamento. No. Gaza è diventata la base per obbiettivi più "avanzati" di attacco a Israele. Nessuna scelta definitiva è possibile per chi mira all'obbiettivo assoluto.
    Per ora la dirigenza palestinese è stata sempre e soltanto un antagonista escatologico. Non si può che augurarsi che essa abbandoni finalmente questa scelta e che la dichiarata volontà di costituire un governo palestinese di unità nazionale che riconosce l'esistenza di Israele e rinnega il ricorso alla violenza la faccia passare dalla parte del modello egiziano e giordano. Anche se le reiterate smentite e contorsioni (riconoscimento "indiretto", "non riconosceremo mai") non lasciano sperare altro che in una hudna. Se i nostri "appeasers" fossero più attenti e capaci di analisi avrebbero riflettuto alla dichiarazione dello sceicco Nasrallah all'indomani della recente tregua: egli ha osservato che, secondo lui, Israele non avrebbe ripreso le ostilità perché gli sfollati erano tornati nelle città israeliane della Galilea bombardate da Hezbollah ed era iniziata la ricostruzione. Questo è un impressionante spaccato della mentalità di un rivoluzionario integralista: nessun assetto definitivo della popolazione è possibile fintantoché è in gioco la prospettiva della guerra.
    La dirigenza palestinese non ha chiuso i campi profughi né ha mirato a migliorare le condizioni della popolazione: i campi profughi e la provvisorietà sono ineliminabili fintantoché non è raggiunto il risultato "assoluto", anche se dovesse essere necessario un secolo. Nell'anno trascorso si è consolidato un fronte tra Hamas e Hezbollah dietro cui vi era la regia iraniana. Esso ha manifestato la sua unità di intenti nelle azioni coordinate di rapimento e uccisione di soldati israeliani: un'unità di intenti aggregata attorno all'obbiettivo esplicito della distruzione di Israele. Questa era la vera sfida in gioco, qualcosa di ben più grave del fatto specifico dei rapimenti, qualcosa che rivelava un disegno complessivo e che mostra il carattere puerile delle polemiche sulla "sproporzione" della reazione israeliana. Ci guardiamo bene dall'entrare nello specifico della guerra e della sua conduzione, sul quale hanno diritto di intervenire a malapena gli esperti aventi accesso al massimo possibile di informazione. Non diremo quindi nulla di nuovo rispetto a quanto è possibile leggere sulla stampa israeliana e su molta parte della stampa statunitense (soprattutto su quella simpatizzante con Israele) osservando che, di fronte a quel che è accaduto agli inizi di luglio, la linea politica costitutiva di Kadima apriva la strada o a una risposta puramente diplomatica, limitata a una richiesta energica di intervento della comunità internazionale sulla questione dei rapimenti, oppure a una risposta militare radicale. Quel che ha sconcertato molti osservatori è che si sia invece prodotta una miscela alternata delle due opzioni, e per giunta con un andamento del tipo "stop and go". La logica conseguenza di questa scelta è stata una guerra non conclusa e una soluzione onusiana a mezza strada, una missione di interposizione né forte né debole, con regole d'ingaggio puramente autodifensive e senza alcun obbiettivo chiaro. Si è trattato, di fatto, della morte del progetto di Kadima e della sua stessa ragion d'essere.
    L'aspetto più sconcertante è che questa dissoluzione, per quanto evidente, non viene dichiarata e lascia nella più completa incertezza circa la via che si sta imboccando. E' stato annunciato che il piano di disimpegno nella West Bank è uscito dall'agenda. E' una conseguenza comprensibile ma non necessaria dell'esito della guerra. Ma allora la domanda è: che si fa? Qual è la nuova via che viene imboccata? Ritornare a un puro e semplice controllo dei territori? E in quale prospettiva? La politica del governo israeliano appare oscillante tra l'apertura di spiragli di trattativa con la Siria, prontamente richiusi per la loro impraticabilità oggettiva, e un ritorno alla Road Map che pareva definitivamente seppellita. In questo stato di smarrimento di prospettiva, il governo israeliano sembra ruotare a un unico punto fisso: la missione Unifil in Libano. Ma può Israele appendere il suo futuro a un simile gancio? Qui parla l'evidenza dei fatti. Non una delle richieste di Israele è stata soddisfatta, né lo sarà, come da esplicite dichiarazioni. La missione non si occupa di recuperare i soldati rapiti. Non si occupa di disarmare Hezbollah. Non si occupa di pattugliare la frontiera tra Siria e Libano per bloccare il rifornimento di armi (il presidente Prodi ha annunciato un accordo per la presenza di osservatori disarmati e senza alcun potere d'intervento, ma l'agenzia di stato siriana lo ha prontamente smentito). Non si occupa di pattugliare le coste (al massimo verrà segnalato al governo libanese l'arrivo di navi sospette, il che consentirà una più rapida "consegna" delle merci). Non sorveglia lo spazio aereo da cui già arriva di tutto. Secondo la logica ordinaria una simile raccolta di risultati rappresenta per Israele una disfatta totale, che annulla persino i probabili vantaggi ottenuti sul piano militare. Non stupisce quindi che un padre della nazione come Shimon Peres – uomo di pace e di trattative ma politico lucido – abbia avvertito ruvidamente che "bisogna negoziare con il governo libanese, non con Hezbollah che è il governo dentro il governo". Il rischio evidente non è soltanto il riarmo di Hezbollah in Libano, ma l'esportazione di quel modello militare a Gaza e oltre, nella prospettiva dell'apertura di un nuovo fronte e del costituirsi progressivo di una situazione libanese che finisca con l'accerchiare Israele. Peraltro, è tristemente noto come le interposizioni onusiane svaniscano come neve al sole quando uno dei contendenti decide che è giunto il momento di regolare i conti.
    Purtroppo, vi sono tre aspetti della logica di una missione come questa che lasciano poche speranze. In primo luogo, l'idea che anziché disarmare Hezbollah si debba incorporarlo pacificamente nel governo e nello stato libanese: ignorando le finalità di Hezbollah si pongono così le premesse non per dissolverlo, ma per farne il vero protagonista e trasformare il Libano in uno stato canaglia, in una base terrorista manovrata dall'Iran. Il secondo aspetto è conseguenza dell'ideologia malamente denominata "equivicinanza": essere equidistanti tra uno stato democratico e un'organizzazione terroristica e che ha un progetto violento e criminale, significa inevitabilmente schierarsi più vicino alla seconda che al primo. Il terzo aspetto consiste nell'idea che il "vero" problema non sia Hezbollah, l'Iran, la Siria o quant'altro, ma la "madre" di tutti i problemi, la questione palestinese. L'idea portante di questa missione – quantomeno nella visione della "nuova" politica estera italiana, che ha in essa un ruolo predominante – è che essa debba servire da modello alla soluzione dei conflitti a Gaza e nel West Bank, in vista della costituzione di uno stato palestinese, con il che tutti i problemi che affliggono il rapporto tra occidente e mondo islamico dovrebbero dissolversi per incanto. Non staremo a spendere una sola parola circa l'assurdità di una simile visione, ampiamente e ripetutamente confutata. Ci limitiamo a osservare che essa è inaccettabile, e persino letale, per Israele. Difatti, essa va esattamente nella stessa direzione del programma e dei proclami del presidente iraniano Ahmadinejad: Israele è la radice infetta di tutti i mali del mondo, e le male piante si estirpano. Si potrà dire quanto si vuole che l'intento è divergente – non estirpare bensì pacificare – e non intendiamo minimamente mettere in discussione la buona fede e le intenzioni. Ma qui torniamo al nodo iniziale: accettare l'idea che Israele sia l'unico problema mondiale, radice di tutti i mali, e che le dichiarazioni d'intenti di distruzione siano "chiacchiere" irrilevanti, è non vedere la natura della sfida che è di fronte. Israele ha già accettato una volta l'idea che fosse secondaria rispetto ai fatti "concreti" l'eliminazione dalla Costituzione palestinese dell'intento di sradicamento dell'"entità sionista"; ha chiuso un occhio sul fatto che, mentre avanzava il "processo di pace", le strutture scolastiche palestinesi educavano all'odio; ha accettato l'idea di considerare secondarie le "chiacchiere" rispetto ai "fatti". Si è visto a cosa abbia condotto tale generosità: a trovarsi di fronte una generazione ispirata all'odio più radicale, la generazione degli "shahid". Un simile errore non può essere commesso una seconda volta. Quel che dicono di voler fare Ahmadinejad, Hezbollah e Hamas non è il vociare insignificante di un bambino, di fronte a cui sorridere per passare alle "cose che contano". Le cose che contano sono proprio queste. L'Europa che ispira a una simile visione il suo intervento in medio oriente è la stessa che considera irrilevante la predicazione fondamentalista nelle moschee del continente e si gira dall'altra parte di fronte al costituirsi di aree islamiste che mirano a conquistarsi spazi di autonomia completa e a terrorizzare chiunque si opponga a tale espansione.
    Israele e l'Europa: un rapporto cruciale. Israele si è abituato a confidare sul solo rapporto con gli Stati Uniti, dimenticando in parte il cordone ombelicale che lo lega con l'Europa, più ancora per il sionismo che per la Shoah. Ma anche Israele è essenziale all'Europa. L'Europa che, come ha detto Vittorio Dan Segre, è morta ad Auschwitz e non ha ancora trovato la via della propria rinascita morale, rischia di morire definitivamente se abbandona Israele. E se c'è un Europa che sa che Israele è una parte delle proprie radici e della propria identità, che non è possibile rinnegare senza conseguenze, ce n'è un'altra – purtroppo al momento maggioritaria – che non ne vuol sapere, scrolla le spalle con supponenza, e vede Israele come un problema e non come parte della soluzione. Non è questa l'Europa su cui Israele può far conto, tantomeno cui può consegnare il proprio destino. Qui pullula di gente che tifa Hezbollah e Ahmadinejad. Lo ha scritto Pietro Citati: "Che l'esercito israeliano non avanzasse con la velocità consueta, che cento soldati israeliani morissero, e soprattutto che i lucidi ed elegantissimi missili di Hezbollah colpissero Haifa, suscitava nelle prose dei nostri giornalisti un buon umore inconsueto. […] Anche coloro che non sono apertamente antisemiti considerano Israele una grandissima seccatura, che turba la tranquillità dei loro sonni. Se una notte, possibilmente di sabato, una misteriosa bomba atomica facesse scomparire Israele, fino ai bambini di due giorni, sarebbe per loro una liberazione piacevolissima". Sappiamo bene che da tempo in certi salotti e a certi tavoli di ristorante questa insofferenza veniva espressa discretamente. Ma oggi essa viene sempre più in superficie e senza ritegno. Non stupisce certo che Gianni Vattimo dica che "il danno più grave che ci ha fatto lo sterminio nazista degli ebrei è stato la nascita dello stato di Israele" (con il solito trucco di attribuire l'affermazione a un ebreo, George Steiner, che ha espresso tutte le perplessità del mondo ma nel quadro della convinzione che "Israele è un vero miracolo, un sogno dall'inferno realizzatosi per magia, l'unico sicuro rifugio per l'ebreo qualora da qualche parte di nuova la storia ricominci. E sicuramente ricomincerà!").
    Quel che stupisce è che roba simile esca senza problemi sulle pagine di uno dei quotidiani italiani più rispettabili. E' l'Europa da cui parte in tournée per il Libano il noto comico francese ferocemente antisemita Dieudonné. In delegazione con l'antiamericano di sinistra Thierry Meissan – autore del best seller sulla "spaventosa impostura" degli attentati dell'11 settembre – Dieudonné è stato ricevuto come un capo di stato dai generali Lahoud e Aoun, dal presidente del gruppo parlamentare di Hezbollah, dal direttore della televisione al Manar e dal viceministro degli Esteri siriano. Occorre forse addebitare questa fenomenologia ai leader politici europei che contano? Noi non dubitiamo della loro buona fede. Ma è forse responsabile scrollare le spalle con supponenza di fronte alle "esagerazioni" alla Citati, o derubricare a folklore certe dichiarazioni o certe visite? E' responsabile considerare marginale il fatto che un tema che sembrava fortunatamente risolto e archiviato – il diritto di Israele all'esistenza – sia tornato prepotentemente nell'agenda e sia argomento di discussione?
    Una seconda osservazione. Nella guerra recente sono morti 159 cittadini israeliani e 4.262 civili sono stati feriti, quasi mezzo milione di cittadini si sono trasferiti per sfuggire ai 4.000 missili lanciati dagli Hezbollah e più di un milione ha vissuto per un mese nei rifugi, 6.000 case sono state danneggiate, e si calcola che ci vogliano almeno 50 anni per restaurare i boschi bruciati. Anche questa è una catastrofe umanitaria. Che non si sia levata una sola voce in Europa in merito la dice lunga. E' da immaginare che si pensi che Israele sia affare esclusivo della finanza ebraica mondiale mentre il Libano sia affare di tutti eccetto che dei ricchi produttori di petrolio arabi e islamici. Tuttavia, la constatazione più amara riguarda le notizie circa il rifiuto da parte di tutte le nazioni europee – fatta parziale eccezione, a quanto pare, della Gran Bretagna – di consentire, durante i giorni della guerra, lo scalo di aerei che rifornivano Israele di armi. Tutto ciò mentre un flusso imponente di armi riforniva gli arsenali di Hezbollah e nessuno si preoccupava di denunciarlo e ostacolarlo. In altri termini, per le cancellerie europee Israele doveva combattere con una mano legata dietro la schiena. Se domani si dovesse verificare un altro conflitto, e se tale conflitto dovesse porre a rischio seriamente Israele – il che è tutt'altro che un'ipotesi irrealistica – sappiamo bene quale aiuto esso potrà attendersi dall'Europa: più o meno quello di chi bastona il cane che affoga.
    Perciò, se il rapporto tra Israele e l'Europa è un nodo ineludibile, esso va gestito a occhi aperti e non affidando in minima parte il proprio destino ad amici di dubbie intenzioni e il cui cuore batte altrove. Ha osservato Benny Morris che "forse l'autentico significato di questa guerra è avere svegliato Israele". Per ora, si ha l'impressione che il governo israeliano sia come smarrito sulla via da prendere. Israele svegliati.

(Il Foglio, 12 settembre 2006)





2. IL NEMICO E' SEMPRE LO STESSO




Un'interessante visione «religiosa» del medesimo conflitto.

Qualche riflessione sull'«ultima guerra»

di Rav Shlomo Aviner

Questa ultima guerra si inscrive nel contesto generale della Guerra (con la G maiuscola), per riprendere un insegnamento del Rav Tzvi Yehuda. Perfino l'Olocausto - spiegava - con tutte le sue atrocità, ne faceva parte. A me piace dire che essa è cominciata con la Guerra d'Indipendenza, la guerra per la nostra risurrezione, per la nostra liberazione e per quella dell'umanità tutta intera, per quella dell'Immanenza Divina (quando Israele è in esilio - per così dire - è in esilio anche lei).
    Questa Guerra cambia continuamente forma, ma il nemico è sempre lo stesso, implacabile, crudele, che con ostinazione cerca di mettere in pratica i suoi malvagi progetti. In realtà, la Guerra non è cominciata con la creazione dello Stato, ma molto prima, con Faraone, Amalek, Sisra, Babilonia, la Grecia, Roma e, nella nostra epoca, Hitler, il più maledetto degli uomini.
    Nella «Igueret Téman» Maimonide spiega che le guerre contro il nostro popolo in realtà sono dirette contro l'Eterno, fuori dalla Sua portata, e Lui «si

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fa beffe di loro» (Salmo 2:4). Se la prendono dunque con quelli che diffondono la Sua Parola nel mondo, la morale, la rettitudine, la verità, la giustizia, la santità e la purezza.
Maimonide
    Ma, a causa dell'esilio, per millenni non abbiamo potuto lottare, ma unicamente incassare i colpi cercando di resistere in qualche modo. Ma adesso, per la Misericordia Divina, possiamo di nuovo difenderci e il comandamento di «fare la guerra» ridiventa applicabile, espressione - come spiegano i nostri Saggi - dell'«inizio della Liberazioine» (Trattato «Méguila» 17 b).
    La «Guerra» in questione è cominciata prima della nostra apparizione nella storia come popolo, con le guerre condotte dal nostro antenato Abraamo contro «i quattro re» (cf. Genesi 14) e contro Nimrod (nome che contiene l'idea di rivoltarsi contro Dio), che incarnava gli antivalori d'Israele.
    Quindi, non culliamoci nell'illusione che svendendo una parte del nostro paese ci attireremo le buone grazie dei nostri nemici. Illustriamo queste considerazioni con l'aiuto di un insegnamento del «Maharal» di Praga. A proposito del passaggio della «hagada» di Pessach: «Labano voleva estirpare tutto (tutta la famiglia di Giacobbe), fino alla radice», il grande esegeta spiega che i nostri nemici non si oppongono a noi per una qualche ragione particolare, in modo che se la ragione cessasse di essere anche l'ostilità sparirebbe. In realtà, si tratta di una opposizione di principio al popolo d'Israele e ai valori trascendenti che incarna.
    Queste considerazioni valgono anche per tutti quelli che, in un modo o nell'altro, cercano di interrompere il processo della nostra rinascita nazionale, gli Inglesi, che volevano impedirci di creare il nostro Stato, gli Arabi, che cercano di sterminarci, e altri, come spiegava il Rav Tzvi Yehuda dopo il «Sabato Nero» (cf. «Lintivot Israël»):
    Alcuni dei nostri avversari non sono coscienti di questo fatto; altri lo sono perfettamente e l'erigono a ideologia militante. Come abbiamo più volte menzionato in questi articoli, bisogna riflettere sulle conseguenze tragiche del pacifismo di Chamberlain. Al contrario, dobbiamo avere capacità di resistenza e continuare ostinatamente questo combattimento in uno spirito di sacrificio, fino a che non avremo estirpato tutto il male. Nel frattempo rallegriamoci del fatto che, adesso, possiamo difenderci e non siamo più «come pecore da macello» (Salmo 44:22).
    Alla Festa dell'Indipendenza un ebreo pregava in una sinagoga ultra ortodossa. Quando l'officiante cominciò a recitare «Ta'hanun» (preghiera di cordoglio, nel contesto espressione di riprovazione nei riguardi dello Stato d'Israele), l'uomo si avvicinò a una colonna, cominciò a picchiarla con forza e a gridare: «Sono uno scampato dall'Olocausto. Non mi si venga a raccontare storie sullo Stato d'Israele! Recitiamo lo Hallel (in onore di una festa o d'un miracolo compiuto in Eretz Israel per l'insieme della comunità), con la sua benedizione (per dare un accentuato carattere di obbligazione all'atto)!»
    In questa «Guerra» la vittoria dipende dalla potenza dell'esercito, dai suoi dirigenti, dalla «techuva» (disposizione a fare la Volontà di Dio), se non altro per ciò che riguarda la nostra relazione con la «Terra Promessa», patrimonio perpetuo e indivisibile. Questa «Guerra» necessita l'uso di tutti i mezzi: spirituali, nazionali e militari. Essi vanno insieme, perché l'eroismo dello spirito implica l'eroismo nazionale e militare.
    Questa «Guerra» dobbiamo combatterla, anche dopo i propositi del Presidente del Consiglio relativamente alla distruzione di una parte del nostro paese, abiezione che porta il nome di «ritiro». Noi non ci battiamo per lui, ma per l'Eterno che ci ha prescritto il comandamento di fare questa Guerra detta «obbligatoria» (che emana direttamente dalla Torah e non dai Saggi), un triplice comandamento: difendere il nostro popolo, la nostra Terra e santificare il Nome di Dio nella sua forma parossistica [originale: paroxysmale].
    
(Oz-lé Israël, 15 settembre 2006)





3. ANTISIONISMO EBRAICO




Lo strano mondo dei rabbini che odiano lo stato di Israele

di Anna Momigliano

Rabbini antisionisti, chi sono costoro? Questa è una domanda che si saranno posti in molti, ieri [12 settembre], seguendo la querelle sul «Convegno anti-Israele (nelle parole del Corriere della sera), organizzato a Montecitorio dall'Islamic Anti Defamation League in occasione dell'11 settembre. Tra i relatori, che vantavano tutti un rispettabile pedigree antisionista, spiccava la figura del rabbino Moishe Aryeh Friedman, il quale, oltre ad avere ribadito il distinguo tra giudaismo e Stato d'Israele, stando a quanto riportato dai partecipanti sarebbe stato il più duro nei confronti della «strategia sionista (parole sue), colpevole di avere «trasformato tutto il territorio palestinese in un grande campo di concentramento».
  In realtà posizioni antisioniste sono sempre state presenti nell'ebraismo ultra ortodosso. E dove la Lega islamica abbia trovato un rabbino non solo antisionista, ma anche disposto ad accennare en passant al controverso assioma sionismo-nazismo, non è affatto un mistero. Aryeh Friedman che, a differenza di quanto riportato sui giornali, non è il leader della comunita ebraica ortodossa di Vienna è a capo di una piccola congregazione (un centinaio di fedeli, secondo il rabbino, ancora meno secondo altri) che a sua volta mantiene stretti rapporti, sebbene non sia direttamente affiliata, con i Neturei Karta: gli «ebrei anti sionisti par excellence. Si tratta di una congregazione relativamente piccola (2-5 mila fedeli) che ha fatto della lotta contro l'«entità sionista la propria ragion d'essere. Con risultati per altro pittoreschi: gli incontri tra rappresentanti dell'Olp e leader Naturei Karta non si contano; nel 2004 una delegazione volò a Parigi per partecipare alla veglia in onore del morente Yasser Arafat; poco più tardi la stampa israeliana li accusò di essere al libro paga di Fatah. Uno dei loro leader, Yisroel Dovid Weiss, visitò Teheran a marzo: fu accolto in pompa magna dalle autorità iraniane (incluso il vice presidente Reza Aref), e non lesinò elogi ad Ahmadinejad. «Entrambi spiegò Weiss, «aspiriamo alla disintegrazione di Israele». Ironia della sorte, il quartier generale dei Neturei Karta è a Bet Shemesh, a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme. Più recentemente, una loro delegazione ha preso parte alla manifestazione organizzata a Londra da Palestine Solidarity contro la campagna israeliana in Libano: i fotografi di mezzo mondo immortalarono le immagini di due rabbini ultra ortodossi (con tanto di palandrana nera) insieme alle bandiere gialle di Hezbollah. Nel giugno del 2005 lo stesso Aryeh Friedman era stato ospite di John Gudenus, leader della Fpo, fondazione austriaca di destra criticata per posizioni più o meno apologetiche nei confronti del nazismo.
  Vista la predilezione per azioni e dichiarazioni eclatanti, non stupisce che la setta dei Neturei Karta riceva tante attenzioni, in particolare nel mondo arabo: chi tra gli estremisti di destra o i radicali islamici cerca un «alibi ebreo», spiegava il direttore del Centro di documentazione della resistenza austriaca Wolfgang Neugebauer, può sempre contare sulla presenza di un Neturei Karta. Eppure, il mondo degli «ebrei ortodossi antisionisti» va molto al di là di personaggi come Friedman. E' un universo più ampio di quanto comunemente non si pensi, e ricco di sfumature, che fa leva sul valore religioso della diaspora.
  In base a questa interpretazione, dopo la distruzione del Tempio il popolo ebraico sarebbe condannato a vivere senza una Terra; sarà solamente con la venuta del Messia, che essi potranno tornare a governare su Israele: il sionismo non è altro che un'eresia, un peccato di alterigia perchè propone la ricostruzione dello Stato ebraico indipendentemente dal Messia. Questa tesi è stata a lungo popolare tra le comunità ortodosse d'Europa, specialmente agli albori del sionismo, quando la laicità e le simpatie socialiste di Theodor Herzel infastidivano gli ambienti religiosi della Mittel Europa. L'incontro tra ortodossia e sionismo risale a molto più tardi, quando il rabbino Avraham Isaac Kook, negli anni Trenta, giustificò la costruzione di uno Stato ebraico come mezzo di "emancipazione". In realtà, pero, il cosiddetto "sionismo religioso" prenderà piede in maniera sensibile negli anni Sessanta e Settanta, quando le conquiste dei Territori (1967) suscitarono un'ondata di fervore per il recupero della Terra promessa e la prima vittoria politica della destra (1977) segnò l'entrata dei religiosi come partner di governo. Tutt'ora i "religiosi sionisti" si distinguono facilmente dagli altri "ultra ortodossi". E tuttora la maggior parte degli ultra ortodossi di origine europea mantiene un certo scetticismo nei confronti dello Stato ebraico, mantenendosi ai margini, pur accettandone l'esistenza. Molti, si diceva, ma non tutti: per esempio, gli ortodossi Satmar si sono rifiutati di riconoscere lo Stato ebraico tout court. Si tratta di una corrente molto antica (traccia le sue radici intorno al 1750) che predica l'isolamento totale dal mondo laico, Israele incluso, rifacendosi,come molti altri, alla tradizione mistica del leggendario rabbino polacco Bel Eliezer. A differenza della loro controparte "mediatica", la corrente Satmar conta un'ampia base di fedeli più di 120 mila, distribuiti tra Gerusalemme e New York, in genere più dediti alla preghiera che all'attivismo politico. Quanto allo Stato di Israele, gli ebrei Satmar hanno deciso che la cosa migliore è ignorarlo: senza bisogno di invocarne la distruzione, stringere la mano al numero due di Ahmadinejad o sventolare le bandiere di Hezbollah. Forse è per questo che nessuno presta loro attenzione.

(Il Riformista, 13 settembre 2006)





4. ODORE DI TOPO MORTO




I primi frutti dell'antisemitismo europeo

di Fausto Carioti

Piccoli segnali. Appena percettibili, facili da ignorare. E' sempre così che inizia. Anche la grande pestilenza raccontata da Albert Camus inizia con un topo morto in mezzo al pianerottolo. Che il portiere del palazzo si rifiuta di vedere («Il dottore ebbe un bel dirgli che ce n'era uno sul pianerottolo, del primo piano, e probabilmente morto: la persuasione di Michel restava intatta. Non vi erano sorci in casa; doveva quindi, quello là, essere stato portato da fuori. In breve, si trattava di uno scherzo»).
    Tre anni fa il filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut lanciava l'allarme nel suo libro "Nel nome dell'Altro": «Quello che si credeva fosse ormai un dato acquisito, oggi, retrospettivamente, ci appare solo come una semplice interruzione. Ed è in Francia, il Paese europeo con il più alto numero d'ebrei, che la parentesi, e nella maniera più brutale, viene chiusa. S'incendiano le sinagoghe, molti rabbini vengono molestati, dei cimiteri profanati, alcune istituzioni comunitarie ma anche delle università devono far ripulire, durante il giorno, i loro muri imbrattati, nella notte, da scritte oscene. Ci vuole del coraggio per indossare una kippa nella metropolitana parigina e in quei luoghi feroci che chiamano cités sensibles; il sionismo è criminalizzato da un numero sempre più ampio d'intellettuali, l'insegnamento della Shoah si rivela impossibile proprio nel momento in cui diventa obbligatorio, la scoperta dell'Antichità lascia gli ebrei in balia dei lazzi infantili, l'ingiuria "sporco ebreo" ha fatto la sua riapparizione in modo mascherato nelle scuole. Gli ebrei hanno il cuore pesante e, per la prima volta dopo la guerra, hanno paura».
    Jerusalem Post, oggi [14 settembre 2006]. La notizia è che gli ebrei francesi stanno lasciando la Francia. Non è un esodo di massa: fosse così, lo avremmo già letto da qualche parte, persino in Italia. E' invece un processo lento ma costante, i cui numeri si fanno ogni anno più importanti. La grande maggioranza di quelli che se ne vanno, ovviamente, sceglie di fare aliya, ovvero di andare a vivere in Israele. Tra il 2000 e il 2005 se ne sono andati in 11.148. Il record si è avuto proprio nel 2005, con 3.300 ebrei immigrati in Israele dalla Francia: il numero più alto degli ultimi 35 anni. Nel 2006, probabilmente, nonostante la guerra con il Libano, saranno ancora di più. Il 25 luglio sono arrivati in Israele dalla Francia 650 immigrati ebrei, il più alto numero che si sia registrato in un solo giorno dal 1971. Il tutto su una popolazione ebrea francese stimata in circa 600mila individui.
    I motivi sono diversi, certo. Non tutto si spiega con l'antisemitismo francese. Il richiamo verso la terra promessa sarebbe forte comunque. E il governo di Tel Aviv le sta inventando tutte per convincere gli ebrei francesi a trasferirsi in Israele. Ma è un dato di fatto che questa ondata migratoria è cresciuta con l'aumentare degli attentati contro gli ebrei francesi. «Anche se i motivi per fare aliya variano da una famiglia all'altra», scrive il Jerusalem Post, «nessuno mette in discussione il fatto che essere ebreo in Francia si sia fatto più difficile negli ultimi sei anni. (...) Gli intellettuali francesi sono imperturbabilmente anti-israeliani, e il governo francese ha mostrato spesso pregiudizi pro-arabi e pro-palestinesi, sin dal clamoroso successo di Israele nella guerra dei sei giorni del 1967. Con l'inizio della seconda intifada nel settembre del 2000, gli ebrei francesi hanno iniziato ad assistere a un rapido incremento dell'anti-semitismo, con incidenti e attacchi violenti quali non si vedevano dagli anni Quaranta. Molti di questi incidenti sono stati provocati da immigrati musulmani». Simon Kohana, presidente del Forum francese dei cittadini ebrei, la spiega così: «Abbiamo iniziato a chiederci se possiamo continuare a stare in Francia. Siamo davvero cittadini francesi? Abbiamo la sensazione di essere una popolazione a parte».
    Piccoli segnali, appunto. E un odore di topo morto che sale dal primo piano del condominio Europa e si fa sempre più forte.

(Il Legno Storto, 14 settembre 2006)





5. SCENDE LA POPOLAZIONE EBRAICA DI GERUSALEMME




GERUSALEMME - Negli ultimi 25 anni, molti più ebrei hanno lasciato Gerusalemme, di quanto ne siano arrivati: 313.000 contro 105.000. Lo rivela un rapporto del 'Jerusalem Institut for Israel studies' - citato da 'Haaretz' - secondo il quale ad oggi il 66% dei residenti in città sono ebrei contro il 34% di arabi. Nel 2020 il rapporto stima che la forbice si contrarrà ancora: la popolazione ebraica scenderà al 60% mentre quella araba salirà al 40%.
I motivi che spingono a lasciare la città sono essenzialmente la mancanza di lavoro e di case: solo nel 2005 sono stati in 16.200 a lasciare Gerusalemme (la metà di questi tra i 20 e i 34 anni), contro i 10.300 che sono arrivati. L"esodo crescente da Gerusalemme riguarda anche gli ebrei ultraortodossi, che hanno nel quartiere di Mea Shearim la loro maggiore presenza in città.

(swisspolitics.org, 15 settembre 2006)





6. LETTERA APERTA A MAHAMUD AHMADINEJAD




Il 12 settembre scorso la Anti-Defamation League ha pubblicato a pagamento sull'International Herald Tribune una lettera aperta di Francois Leotard a Ahmadinejad. La lettera, che era già apparsa sulla Tribune Juive in agosto, è stata presentata in versione italiana da "Informazione Corretta".
Francois Leotard è un ex deputato francese che ha ricoperto le cariche di Ministro degli Interni, della Cultura e degli Affari Esteri in precedenti governi francesi.

Lettera aperta a Mahamud Ahmadinejad da Francois Leotard.

Signor Presidente,

a dire il vero non intendevo rivolgermi a lei con questo appellativo, perché è un appellativo che implica rispetto. Ciò nonostante lo uso, perché lei parla in nome del popolo iraniano.
    Nelle fotografie lei appare circondato dalla folla, in un mare di volti e di braccia tese. Questo fa presupporre un certo qual entusiasmo, o per lo meno un certo sostegno.
    Abbiamo avuto anche noi folle così in Europa. Fu in un periodo nero della nostra storia, un periodo tragico che ricordiamo ancora con vergogna e con orrore.
    Uno dei popoli più civili del mondo, che eccelleva nei campi della filosofia, della musica, della poesia e della scienza, che stupiva i popoli vicini per l'ingegno scintillante, sprofondò nell'odio, nelle tensioni razziali e nell'ignominia. Il risultato fu che decine di milioni di persone soffrirono nella propria carne, nella propria cultura e nelle propria dignità l'orrenda barbarie che voleva essere 'l'ordine nuovo'. Le prime vittime furono i cittadini del paese stesso – la Germania - poi gradualmente anche gli altri ne vennero devastati.
    Questa follia prese il nome di 'guerra mondiale'. Ma fu prima di tutto una guerra contro tutto ciò che di umano ci circondava. I libri furono dati alle fiamme, i bambini vennero deportati e uccisi, le menti distrutte. Tutto ciò che aveva reso grande l'umanità venne calpestato. E poi…
    Poi - ecco che ritorno a ciò che la riguardi: una parte dell'umanità (una piccola parte, è vero), il popolo degli Ebrei, fu condannato a patire l'inferno. Non era un popolo fra i più numerosi, né fra i più ricchi, né fra i più influenti. Erano donne e uomini che avevano attraversato il tempo e lo spazio mantenendo la propria fede, le proprie domande sul mondo, su Dio, sulla necessità di vivere o di soffrire, sulla gioia dell'amore. Per lo più amavano i libri. Pensavano molto. Non capivano perchè fossero disprezzati, chiamati sub-umani, Untermensch, considerati alla stregua di insetti. Vennero inseguiti per tutta Europa, impiccati, uccisi, inceneriti.
    Lei queste cose le sa benissimo, ma gliele rammento per almeno tre motivi:
    - Il primo motivo è che noi (questo 'noi' è un plurale retorico) non possiamo permettere che questo accada di nuovo. Io non sono ebreo, ma gli Ebrei sono i miei fratelli, come lo sono i Persiani.
    - Il secondo motivo è che gli Ebrei hanno diritto alla propria patria esattamente come me e come lei. Che quella patria si chiami Francia o Israele non fa differenza.
    - Il terzo motivo non le piacerà. Ma diciamo la verità: gli Ebrei portano nel mondo (e questo è probabilmente il motivo per cui lei li vuole 'cancellare dalla faccia della terra') un concetto dell'uomo e del suo destino che ha arricchito molti secoli di civiltà, ed è testimonianza di merito per il popolo ebraico e per lo Stato di Israele.
    Signor Presidente, lei ha il diritto di essere nazionalista. Ha il diritto di essere orgoglioso della storia del popolo persiano. Ha il diritto di praticare la propria fede religiosa e di pregare un Dio che è 'clemente e misericordioso', come afferma l'apertura di ogni sura del Corano.
    Lei crede di avere il diritto di imporre il velo alle donne, di torturare i suoi oppositori, di imprigionare i giornalisti che la contraddicono, di condannare a morte minorenni e di perseguitare le minoranze interne.
    Ma lei non ha il diritto di guardare Israele con lo sguardo inquietante, imbecille e torvo che accompagna le sue parole. Mi pare che quello che lei odia in questo Stato è la libertà di parola, la varietà dei partiti, il ruolo dell'opposizione, l'indipendenza della magistratura, la ricerca universitaria e - sicuramente – anche il coraggio. In breve, tutto ciò che giustamente noi ammiriamo.
    Gli uomini che organizzarono la Conferenza di Wannsee che decretò lo sterminio degli Ebrei d'Europa sono tutti morti oggi. Un giorno lei, come tutti noi, avrà la stessa sorte.
    Spero per il suo bene e per il bene del popolo persiano, per il bene dei bambini persiani e israeliani che vivranno dopo la sua morte, che nessuno senta il bisogno di sputare sulla sua tomba.
    
Francois Leotard

(Informazione Corretta, 15 settembre 2006)





MUSICA E IMMAGINI




Waltz




INDIRIZZI INTERNET




The Israel Project

Congregation B'nei HaMelech




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