<- precedente seguente -> pagina iniziale arretrati indice



Notizie su Israele 372 - 19 dicembre 2006

1. Tornano in Israele i «Figli di Manasse»
2. L'imperativo religioso islamico
3. Chi aiuta i terroristi contro Israele?
4. Intervista a Daniel Pipes
5. Se Israele non esistesse...
6. Quelli che sperano in un nuovo sterminio degli ebrei
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Salmo 105:4-7. Cercate il Signore e la sua forza, cercate sempre il suo volto! Ricordatevi dei prodigi fatti da lui, dei suoi miracoli e dei giudizi della sua bocca, voi, figli d’Abraamo, suo servo, discendenza di Giacobbe, suoi eletti! Egli, il Signore, è il nostro Dio; i suoi giudizi si estendono su tutta la terra.
1. TORNANO IN ISRAELE I «FIGLI DI MANASSE»




La tribù perduta

di Nicole Jansezian

KARMIEL - Nella ben curata cittadina del nord di Israele pochi mesi fa arrivavano i razzi Katiuscia dal sud del Libano, il che costringeva i cittadini a passare diverse settimane nei bunker. Questo però non ha dissuaso 218 ebrei dal venire a stabilirsi nell'idilliaca cittadina, perché Israele è la loro terra promessa.
    «Il nostro sogno è stato sempre di vivere in Israele. Hashem [nome con cui viene indicato Dio] ha promesso questa terra al suo popolo» ha detto Dagan Zohmingtea Zolat. Interrogati da israel heute sulla loro aliah [immigrazione], gli immigranti indiani sono tutti d'accordo: sono venuti qui perché la terra promessa agli ebrei non è l'India, ma Israele. 87 di loro hanno trovato alloggio per un anno in un centro per immigrati in Karmiel, gli altri sono stati distribuiti in altri centri nelle vicinanze di Nazaret.
    L'arrivo di questi ebrei, i Bnei Menashe (figli di Manasse) fa capire quanto sia ancora attuale l'aliah, che le «tribù disperse» non sono soltanto una teoria. Da secoli i Bnei Menashe praticano in India una forma biblica di ebraismo, chiamano Dio con il suo nome ebraico Jah, commemorano l'uscita dall'Egitto, celebrano le
Dagan Zolat con la sua famiglia finalmente in Israele
feste e il sabato, circoncidono i figli e mangiano kosher.
    «L'aliah dei Bnei Menashe è un miracolo di dimensioni bibliche», ci ha detto Michael Freund, presidente dell'organizzazione Shavei Israel, che ha contribuito in modo determinante a portare gli ebrei indiani in Terra Sacra. «Come hanno predetto i profeti, Dio riunisce il suo popolo dai quattro angoli della terra, e noi siamo testimoni di come la profezia si sta adempiendo sotto i nostri occhi.»

Una nuova vita
    Se il festeggiamento dell'arrivo all'aeroporto è stato molto solenne, l'edificio governativo in cui i Bnei Menashe si ritrovano poco dopo per l'accoglienza è molto dimesso. I locali assomigliano a stanze per studenti, i bambini corrono lungo i nudi corridoi.
    La giornata comincia alle 6 con la preghiera. Dopo la colazione, per gli adulti c'è la lezione di ebraico, che si prolunga fino nel pomeriggio. Dei volontari aiutano gli immigrati nelle necessità burocratiche, come l'apertura di un conto o la stipulazione di un'assicurazione sanitaria. Alcuni tra i Bnei Menashe hanno cominciato già in India a studiare l'ebraico e a familiarizzarsi con i costumi israeliani.
    Yitzhak Kolni, immigrato da solo dall'India sei anni fa, adesso aiuta i nuovi immigrati ad inserirsi in Israele. Abita con loro a Karmiel e li considera «molto sionisti e religiosi».
    Rivka Pachuau, arrivata il 28 novembre con marito e tre figli, racconta che i preparativi per l'aliah sono durati diversi anni. «Abbiamo pregato molto per questo!» Adesso sono felici di essere in Israele, dove possono osservare il sabato ed è molto più facile che in Mizoram attenersi alle norme della kasherut.
    I Bnei Menashe vivono in India, in una appartata zona nordorientale del paese, nelle province Manipur e Mizoram. Esternamente assomigliano molto ai loro vicini nel Myanmar [ex Birmania] e nel Tibet.
    Molti hanno lasciato le loro famiglie sul posto, altri hanno raggiunto le loro famiglie che erano immigrate prima. La famiglia di Zolat in India aveva dei timori quando lui è emigrato, con moglie e tre figli, per vivere sul fronte in prima linea. «Noi stiamo alle promesse di Dio. In India o in Israele, Hashem ci proteggerà», ha detto. Zolat spera che i Bnei Menashe possano essere di esempio agli ebrei secolari, per riportarli ad una pura fede biblica.

Il difficile cammino verso il Paese amato
    «Quando, dieci anni fa, sentii parlare per la prima volta dei Bnei Menashe, non credevo una parola di quello che si diceva sulla cosiddetta tribù dispersa», riferisce Michael Freund. Ma adesso so quale battaglia hanno dovuto sostenere per secoli per mantere la loro identità ebraica. Sono convinto che siano davvero i discendenti della tribù perduta.»
    Quando l'ondata di immigrazione dalla Russia cominciò a scemare, dieci anni fa Freund cominciò a interessarsi dei Bnei Menashe. A quel tempo il governo concedeva ogni anno a 100 ebrei indiani di venire in Israele come turisti e a sottoporsi al processo ufficiale di conversione. I Bnei Menashe sono adesso i primi ebrei indiani che fin dal momento della loro immigrazione sono considerati convertiti secondo le leggi religiose. Per questo godono dell'incondizionato status di immigrati, e quindi hanno diritto a godere di privilegi come la riduzione delle tasse.
    Nel 2004 il Ministero degli Interni bloccò l'aliah indiana, fino a che il Rabbino Capo Shlomo Amar inviò una delegazione di periti religiosi nelle Indie del nord per conoscere sul posto gli abitanti delle province Mizoram e Manipur e le loro tradizioni. Dopo aver preso in esame i loro costumi, si arrivò alla conclusione che quegli 8000 indiani dovevano effettivamente essere discendenti di Israele.
    Rabbi Amar emise quindi una disposizione religiosa secondo la quale l'aliah poteva essere ripresa. Il Ministero degli Interni tuttavia si rifiutava di rilasciare i necessari documenti. Anche il Ministero per l'Immigrazione dichiarò che non avrebbe sostenuto i nuovi immigranti. Soltanto quando intervenne personalmente il Primo Ministro Ehud Olmert nel giugno 2006, l'aliah indiana interrotta per tre anni si rimise in moto. Un ulteriore rinvio fu provocato forzatamente dallo scoppio della guerra nel nord di Israele.

Michael Freund
La storia della tribù
    
Nel 721 a.C. le 10 tribù di Israele furono disperse dagli Assiri in tutte le direzioni.
    Circa 90 anni fa alcuni missionari britannici visitarono la regione e scoprirono persone che già vivevano biblicamente. «Erano convinti di aver trovato una delle tribù perdute», dice Freund.
    I missionari cercarono di convertirne la maggior parte al cristianesimo. Il rimanente è costituito dai 7000 ebrei che oggi aspirano ad emigrare in Israele e vogliono seguire i 1000 Bnei Menashe già emigrati. Nel complesso, tutti gli abitanti di Mizoram, sia ebrei che cristiani, credono di essere dei Bnei Menashe.
    Non ogni persona che vive in Mizoram è ebrea, ma tutti sono Bnei Menashe», spiega Zolat. Lui si aspetta che i discendenti cristiani di Manasse ritornino alle loro origini. «Riconosceranno il nome di Dio e del Messia. Un giorno saranno tutti in Israele. Alcuni già lo riconoscono.»
    Nella provincia di Mizoram il 90% sono cristiani, e sono estremamente sionistici. Addirittura vorrebbero cambiare il nome della provincia chiamandola «Secondo Stato d'Israele», e rinominare l'arteria principale chiamandola «Strada Sion».
    Michael Freund si propone di portare in Israele i presunti e praticanti ebrei. E rivolgendosi ai cristiani dice: «Se queste persone sono Bnei Menashe ed è loro destino venire a stare qui in Israele, Dio e il Messia si adopereranno per questo.» [ved. foto sul sito internet]

(israel heute, gennaio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



2. L'IMPERATIVO RELIGIOSO ISLAMICO




L’antisemitismo messianico di Ahmadinejad compatta Hamas e Hezbollah

di Carlo Panella

La coincidenza tra la conferenza negazionista della Shoah di Teheran, il precipitare della crisi tra Hamas e Abu Mazen e il tentativo di golpe da parte di Hezbollah è evidente. E’ palese una regia unica che dirige i tre scenari iraniano, palestinese e libanese. Ma sbaglierebbe chi vi vedesse soltanto un’omogeneità politica, la ricerca di quel ruolo sciita di potenza regionale che tante cancellerie occidentali attribuiscono all’Iran. Se così fosse, vi sarebbe spazio per una trattativa, per cercare e ottenere un riconoscimento di ruolo da parte dell’occidente in cambio di un percorso di pacificazione. Ma non è così, il nazionalismo iraniano, di Hamas e Hezbollah è forte, ma il suo motore è religioso, tanto che nega addirittura le regole della politica. Mahmoud Ahmadinejad ha invitato a Teheran 63 “esperti”, tra cui brilla il rappresentante del Ku Klux Klan, David Duke, per denunciare un “complotto ebraico” planetario, che ha inventato la Shoah e quindi – a riparazione – ha imposto ai musulmani “l’oltraggio” di uno stato ebraico sulla città santa di Gerusalemme. La Conferenza è un passaggio fondamentale per giustificare per via religiosa la necessità che tutti i musulmani si impegnino a distruggere Israele. Il dibattito storico è il pretesto per rendere popolare una lettura del Corano da parte di tanti fondamentalisti che vuole che gli ebrei, in eterno, per subdola vocazione, tradiscano la loro stessa Legge e seminino dissidi tra i musulmani. Ieri Ahmadinejad, durante il comizio all’Università di Teheran, è stato fischiato da alcuni studenti che gli hanno urlato “morte al dittatore!”, e quattro di loro sono subito “scomparsi”. Lui non teme l’impopolarità. Da quando lanciò la parola d’ordine di “distruggere Israele”, accompagnata dalla sfida sul nucleare, il peso suo e della leadership oltranzista iraniana è cresciuto in tutta la umma. Con la sua retorica grossolana, ha fatto del negazionismo della Shoah una proposta politica di enorme presa sui musulmani del mondo. La sua negazione del diritto di Israele a esistere non è infatti soltanto radicata in una questione di “terra”, ma nella riproposizione del tema teologico degli ebrei che sin dai tempi di Maometto complottano contro l’islam, come sostenne già Khomeini: “Fin dall’inizio il movimento islamico venne tormentato dagli ebrei, i quali diedero inizio alla loro attività reattiva, inventando falsità contro l’islam, attaccandolo e calunniandolo”. Ahmadinejad è chiaro: “Non è possibile che un paese islamico permetta a un paese non islamico di crescere nel proprio seno”. E’ la negazione di ogni ipotesi di “pace contro terra”, di “due popoli, due stati”. E’ l’affermazione di un imperativo religioso a sostituire all’entità sionista uno stato islamico “dal Giordano al Mediterraneo”. Questa è anche la piattaforma di Hezbollah e di Hamas, tanto radicata in quel movente religioso da sfidare ogni considerazione di tattica. Le più elementari regole della politica, infatti, avrebbero imposto al premier palestinese, Ismail Haniye, di riconoscere opportunisticamente l’esistenza di Israele. Europa e Stati Uniti lo avrebbero coperto di finanziamenti, Israele sarebbe stata costretta a trattare direttamente con lui, che avrebbe così accresciuto la sua egemonia su una Olp di Abu Mazen in affanno di consensi. Ma Hamas non può tradire la sua più profonda ragione d’essere, basata sul postulato che “la terra di Palestina è un lascito eterno di Allah al popolo dell’islam, sino al Giudizio universale”. Per questo rischia la guerra civile a Gaza, lancia razzi su Sderot e organizza attentati contro esponenti di al Fatah, anche a rischio di massacrare bambini palestinesi, come è avvenuto ieri. Anche Hezbollah – a rigor di politica – avrebbe dovuto sopire per un lungo periodo la sua vocazione alla distruzione di Israele, recuperando forze in quel percorso di trattativa delineato dalla risoluzione dell’Onu, tanto apprezzata da Massimo D’Alema. L’Iran, Hezbollah e Hamas, invece, seguono la logica del jihad, della “conversione attraverso la forza” e a questa subordinano la politica. Con il convegno negazionista, Ahmadinejad non guarda al passato, ma al futuro. Lancia sui media planetari una richiesta di consenso islamico alla guerra asimmetrica che Hamas e Hezbollah sviluppano contro Israele perché ribadisce che gli ebrei di oggi sono identici a quegli ebrei Banu Quraizah che Maometto fece sgozzare nel 627, alla Medina, accusandoli di avere complottato con il “governo idolatrico della Mecca”, esattamente come oggi gli israeliani complottano col “Satana americano”.

(Il Foglio, 12 dicembre 2006)





3. CHI AIUTA I TERRORISTI CONTRO ISRAELE?




Per Hezbollah informazioni dall'intelligence di Siria, Iran e Russia

Secondo Jane's, Damasco ha fornito i dati raccolti da posti di ascolto che gestisce con Teheran e Mosca.

BEIRUT - Durante il recente conflitto con Israele, Hezbollah ha avuto dirette informazioni di intelligence dalla Siria, usufruendo in tal modo dei dati raccolti dai posti di ascolto che Damasco gestisce insieme con i russi. Il Partito di Dio ha anche usufruito delle informazioni raccolte da postazioni costruite dalla parte siriana delle Alture di Golan, gestite insieme da siriani ed iraniani. E' quanto sostiene un articolo di Jane's, la rivista britannica di informazioni strategiche e militari, secondo la quale la Siria ha avuto il ruolo centrale di raccogliere e trasferire le informazioni ad Hezbollah grazie a separati accordi di collaborazione di intelligence che Damasco ha firmato con Mosca e con Teheran.
    La Russia ha indirettamente operato a favore di Hezbollah anche grazie ad un buon numero di moderni razzi anticarro che la Siria si è procurati ed ha girato al movimento sciita. Oltre ai vantaggi economici che ne ha così avuto, la Russia ha avuto il beneficio anche di avere informazioni di prima mano, che ha raccolto grazie alla cooperazione con i servizi siriani.
    Mentre l'accordo per la collaborazione di intelligence tra Russia e Siria è di alcuni anni fa, quello tra Damasco e Teheran è recente e fa parte dei più ampi patti di cooperazione strategica stipulati nel novembre 2005 e confermati in occasione della visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad a Damasco, all'inizio di quest'anno. Per quanto riguarda l'intelligence, tali accordi annettono grande importanza alla sorveglianza elettronica ed includono la costruzione di quattro posti d'ascolto, del costo di alcune dozzine di milioni di dollari, presi dai fondi degli iraniani Guardiani della rivoluzione.
    Secondo Jane's, due di tali stazioni sono state costruite prima dell'inizio del conflitto libanese del luglio di quest'anno. Una è a Baab al-Hawa, vicino al confine siriano con la Turchia e la seconda è nella zona delle Alture di Golan. Le altre due dovrebbero essere pronte per il gennaio 2007.
    L'Iran è preoccupato di potenziali minacce contro il suo territorio in seguito alla controversia che l'oppone alla comunità internazionale a causa del suo programma di arricchimento del combustibile nucleare. Di qui la grande attenzione che i suoi servizi di informazione hanno verso il Medio Oriente e verso quanto accade nell'intera area del Mediterraneo.
    Dai nuovi posti d'ascolto nati dalla cooperazione tra Iran e Siria è esclusa la presenza di ufficiali dei servizi russi, malgrado la lunga collaborazione tra Damasco e Mosca. Anche ora, la Russia è impegnata nell'ampliamento di due porti siriani del Mediterraneo, Latakia e Tartus.

(AsiaNews, 14 dicembre 2006)





4. INTERVISTA A DANIEL PIPES




Stop ai palestinesi.
L’Occidente deve disarmarli tutti


«E’ possibile che i palestinesi siano sull’orlo della guerra civile, e dal punto di vista strategico non mi dispiace». Daniel Pipes è un neocon che ha rotto con l’amministrazione Bush sull’Iraq, e continua a prendere posizioni critiche sull’intero Medio Oriente.

Perché Fatah e Hamas si combattono?
    «Sul piano strategico hanno lo stesso obiettivo: distruggere Israele. Però li separano la radice dei due movimenti, laica nel caso di Fatah e religiosa in quello di Hamas, le personalità dei leader, le tecniche, e anche gli appoggi esterni. La prima organizzazione, infatti, è sostenuta dall’Arabia Saudita, mentre la seconda dall’Iran. Per molti anni sono riuscite a lavorare insieme, e non è detto che non tornino a farlo, perché potrebbero riconoscere che ciò è nel loro interesse comune. Però alcuni fattori, come la morte di Arafat e l’inaspettata vittoria di Hamas alle elezioni di gennaio, hanno aumentato le possibilità di uno scontro frontale. Da una parte, infatti, la scomparsa del leader storico ha indebolito Fatah, lasciando al suo posto la figura meno carismatica di Abbas; dall’altra, il successo alle urne ha galvanizzato il movimento fondamentalista islamico».

Fatah non ha riconosciuto Israele?
    «Questo è l’errore fondamentale commesso dall’Occidente, a partire dagli accordi di Oslo. L’Olp ci ha fatto credere di aver rinunciato alla distruzione dello Stato ebraico, per ottenere soldi, armi e legittimità, ma in realtà non ha cambiato il suo obiettivo strategico finale. Lo dimostrano i fatti, dalla propaganda nei discorsi ai libri di scuola, fino alle cartine che mostrano uno stato palestinese dal Mediterraneo alla Giordania. In pratica l’Olp ha scelto la via del doppio gioco, mentre Hamas è più semplice e diretto nel perseguire l’eliminazione di Israele».

Ragionando in maniera pragmatica, cosa dovrebbe fare l’Occidente davanti agli scontri tra palestinesi?
    «Esistono due scuole di pensiero. Secondo la prima, bisogna soddisfare i palestinesi, dando loro terra, soldi, indipendenza: più li faremo felici, più saranno inclini ad accettare la soluzione dei due stati. Questa è la via di Oslo, che ha chiaramente fallito. La seconda scuola, invece, pensa che più diamo, più i palestinesi acquistano fiducia, e si convincono di poter raggiungere l’obiettivo finale di distruggere Israele. Io condivido questa linea di pensiero, e credo che l’unica via attraverso cui i palestinesi accetteranno di coesistere con lo Stato ebraico è la sconfitta militare. Qualunque mezzo torni utile a raggiungere questo scopo va utilizzato».

Alcuni analisti sostengono che gli scontri di questi giorni sono un’altra prova del fallimento dell’intera politica mediorientale di Bush.
    «Io non appartengo al gruppo di chi rimprovera qualunque guaio mondiale agli Usa, ma sono stati commessi due errori gravi: primo, spingere per le elezioni vinte da Hamas; secondo, considerare Arafat il problema e Abbas la soluzione. Quattro quinti dei palestinesi vogliono distruggere Israele, incluso Abbas: l’unica politica saggia è aiutare il quinto che lo accetta davvero a crescere, senza escludere nessun mezzo».

(La Stampa, 16 dicembre 2006)





5. SE ISRAELE NON ESISTESSE...




Il direttore di Al Jazeera spiega perché Israele deve morire

di Fausto Carioti

Ahmed Sheikh, palestinese nato a Nablus, è il direttore dell'emittente televisiva qatariota Al Jazeera (per inciso: la casa reale del Qatar, wahabita e legata a doppio filo con la corrotta dinastia saudita, finanzia il 75%

prosegue ->
dell'emittente preferita da Bin Laden). Essere a capo di una televisione seguita da 50 milioni di arabi rende automaticamente Sheikh uno degli opinion leader più importanti del mondo islamico. Qui si può leggere la recentissima intervista che gli ha fatto Pierre Heumann, giornalista del settimanale svizzero Die Weltwoche. Merita di essere letta sino in fondo, perché aiuta a fare piazza pulita di molte illusioni che anche in Europa si nutrono sulle avanguardie intellettuali arabe.
    Cito un solo passaggio dei tanti che meriterebbero di essere riportati. Quello in cui il direttore di Al Jazeera sembra finalmente smettere di fare il pesce nel barile e dice tutto quello che non va nei paesi arabi. «Non capisco perché non riusciamo a crescere in modo così veloce e dinamico come il resto del mondo. (...) In molti Stati arabi, il ceto medio sta scomparendo. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Guardiamo le scuole in Giordania, Egitto e Marocco: ci sono sino a 70 alunni ammassati all'interno di una sola classe (...) Anche gli ospedali pubblici si trovano in condizioni disperate». Tutto vero, bravo. L'intervistatore, a questo punto, gli pone la domanda più ovvia: di chi è la colpa? La risposta giusta sarebbe: degli oligarchi che da decenni preferiscono spendere i proventi del petrolio in automobili sportive con la carrozzeria d'oro e prostitute occidentali piuttosto che in scuole, servizi pubblici e ospedali per la popolazione, e che usano la religione islamica per stroncare sul nascere ogni accenno di libera circolazione delle idee, mentre alle donne è impedito partecipare al dibattito e a ogni attività politica e culturale (qui per maggiori informazioni e qualche statistica).
    Ma il direttore di Al Jazeera non dice niente di tutto questo. Alla domanda su chi debba assumersi la colpa del grande sfascio economico e sociale del mondo arabo, risponde: «Il conflitto israelo-palestinese è una delle ragioni principali del perdurare di queste crisi e di questi problemi. Il giorno in cui Israele è stata fondata si sono create le basi per i nostri problemi. L'Occidente deve capirlo. Tutto sarebbe molto più tranquillo se ai Palestinesi fossero riconosciuti i loro diritti». L'intervistatore vuole vederci chiaro. E insiste: «Intende dire che se Israele non esistesse, improvvisamente ci sarebbe democrazia in Egitto, le scuole in Marocco migliorerebbero e le cliniche statali in Giordania funzionerebbero meglio?». Risposta di Ahmed Sheikh: «Penso proprio di sì». E il motivo, il nesso logico qual è? «E' perché noi perdiamo sempre con Israele. Brucia alle genti mediorientali che un Paese piccolo come Israele, con appena 7 milioni di abitanti, possa sconfiggere la nazione araba con i suoi 350 milioni. Questo fa male al nostro ego collettivo. La questione palestinese è nei cromosomi di ogni arabo. Il problema dell'Occidente è che non lo capisce».
    Revisionismo storico a parte (quella di Israele è la storia di una lunga serie di guerre di difesa dalle aggressioni di chi non ne riconosce il diritto all'esistenza), occorre notare come, mentre le elites europee, direttori dei grandi organi d'informazione in prima fila, adorino riempirsi la bocca con i mantra del melting pot, della coesistenza con gli immigrati islamici e del relativismo culturale, i loro colleghi arabi si guardino bene dal fare alcuna concessione al"nemico", e senza pudori (anzi, con la certezza di interpretare un sentimento diffuso nella stragrande maggioranza della popolazione) si augurino pubblicamente la distruzione di Israele, giustificandola con la necessità di lenire il complesso d'inferiorità collettivo degli islamici.

(A Conservative Mind, 18 dicembre 2006)





6. QUELLI CHE SPERANO IN UN NUOVO STERMINIO DEGLI EBREI




La carità che nega l'Olocausto

di Ayaan Hirsi Ali *

Ayaan Hirsi Ali
Un giorno, era il 1994 e vivevo ancora a Ede, piccola cittadina olandese, la mia sorellastra mi venne a trovare. Entrambe avevamo chiesto asilo politico nei Paesi Bassi.
    A me fu concesso, a lei no. Così, io ho avuto la possibilità di studiare. Cosa che lei non ha potuto fare. Per frequentare l'Università che mi piaceva, c'era un esame di ammissione da superare: una prova di lingua, una di educazione civica e una di storia. Fu durante il corso di preparazione all'esame di storia che, per la prima volta, sentii parlare dell'Olocausto. Allora io avevo ventiquattro anni, e la mia sorellastra ventuno. Erano i giorni in cui, alla tv e sui giornali, non si parlava che del genocidio del Ruanda e della pulizia etnica nell'ex Jugoslavia. Il giorno in cui la mia sorellastra venne a farmi visita, ero fuori di me. La storia delle peripezie ai sei milioni di ebrei in Germania, Olanda, Francia e nell'Europa orientale mi aveva profondamente sconvolto.
    Avevo appreso che uomini, donne e bambine innocenti erano stati strappati alle proprie famiglie. La stella di David appuntata al petto, venivano ammassati sui treni che li avrebbero portati ai campi di concentramento, per poi essere gassati, per la sola colpa di essere ebrei.
    Avevo visto foto con ammassi di scheletri e cadaveri, anche di bambini. Sentito storie agghiaccianti da alcuni dei sopravvissuti all'inferno di Auschwitz e Sobibór. Raccontai tutto ciò alla mia sorellastra, e le mostrai le foto riportate dal mio libro di storia. La sua reazione, però, mi fece impallidire più delle istantanee del mio libro.
    Con grande convinzione, prese a sbraitare: «È una menzogna, non farti abbindolare dagli ebrei! Non furono sterminati, né gassati, né trucidati. Ma io prego Allah che cancelli il popolo ebraico dalla faccia della terra».
    La mia sorellastra ventunenne non diceva nulla di nuovo. Il mio impallidire era dovuto in parte alle agghiaccianti testimonianze che avevo appena visto e ascoltato, in parte ai genocidi di cui allora ci veniva data notizia.
    La stigmatizzazione del popolo ebraico, bollato quale incarnazione del male e nemico giurato dell'Islam, di cui sarebbe intento a ordire la distruzione, è stato il topos della mia infanzia in Arabia Saudita. A indottrinarci, le nostre maestre, le nostre madri e i nostri vicini di casa. Nessuno ci ha mai parlato dell'Olocausto.
    E ricordo come, durante l'adolescenza in Kenya, quando i filantropi dell'Arabia Saudita e degli altri Paesi del Golfo arrivarono in Africa, le costruzione delle moschee e le donazioni agli ospedali e agli indigenti si accompagnassero alla maledizione del popolo ebraico. Gli ebrei erano i responsabili della morte di bambini, di epidemie come l'Aids e dei vari conflitti. La loro ostinata ambizione li avrebbe portati a fare qualunque cosa pur di annientare tutti i musulmani. Se volevamo la pace e la serenità, e tenevamo alla nostra sopravvivenza, occorreva distruggerli. E chi non era in grado di imbracciare le armi, avrebbe dovuto solamente unire le mani in preghiera e levare gli occhi al cielo supplicando Allah affinché distruggesse il popolo ebraico.
    Oggi, i leader occidentali che si dicono scioccati dalla conferenza promossa questa settimana dal leader iraniano Ahmadinejad dovrebbero fare i conti con questo dato di fatto. Per la maggior parte dei musulmani nel mondo, l'Olocausto non è un fatto storico che loro ostinatamente negano. Semplicemente, non sappiamo cosa è successo perché nessuno ce lo ha raccontato. E, peggio ancora, la maggior parte dei musulmani, sin da bambini, sono incitati a sperare nello sterminio del popolo ebraico.
    Ricordo bene, in Africa, filantropi occidentali, Ong e istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale presenti sul posto. I loro delegati portavano agli indigenti medicine, preservativi, vaccini e materiale edilizio. Mai una parola, però, sull'Olocausto. A differenza dei filantropi dediti alla causa dell'Islam, i volontari e le associazioni umanitarie cristiane e laiche non arrivavano sotto il vessillo dell'odio. Ma neppure loro si preoccuparono di parlare chiaro e forte contro quest'ultimo. Questa fu la grande occasione mancata per osteggiare il messaggio di incitazione all'odio diffuso dalle organizzazioni provenienti dai Paesi musulmani ricchi di petrolio.
    Oggi, la popolazione mondiale ebraica è stimata in circa 15 milioni di persone. Certo non più di 20 milioni. In termini di tasso di crescita e invecchiamento della popolazione, la popolazione ebraica è paragonabile a quella degli altri Paesi sviluppati.
    La popolazione mondiale musulmana, invece, è stimata tra 1,2 e 1,5 miliardi. E non solo cresce rapidamente, ma è anche molto giovane.
    La cosa che più mi colpisce della conferenza di Ahmadinejad è la (tacita) acquiescenza dei musulmani moderati. E non riesco a smettere di chiedermi: perché nessuno promuove una controconferenza a Riad, Il Cairo, Lahore, Khartoum o Giakarta al fine di condannare Ahmadinejad?
    La risposta potrebbe essere semplice quanto agghiacciante: per generazioni, i leader dei cosiddetti Paesi musulmani hanno indottrinato la popolazione a suon di una propaganda simile a quella propinata in passato ai tedeschi (e ai loro vicini europei). Quella secondo cui gli ebrei sono parassiti e dovrebbero essere trattati di conseguenza. In Europa, la conclusione logica di tutto ciò fu l'Olocausto. Se Ahmadinejad proseguirà su questa china, non avrà difficoltà a trovare Paesi musulmani disposti a mettersi ai suoi servigi.
    Il mondo, invece, avrebbe bisogno di conferenze sull'amore, della promozione della comprensione reciproca comprensione tra culture e di campagne contro l'odio razziale. Ancora più pressante, però, è il bisogno di un'efficace e continua campagna di informazione sull'Olocausto. E questo non solo nell'interesse degli ebrei sopravvissuti allo sterminio e dei loro figli e nipoti, ma dell'umanità in generale.
    Forse, la prima cosa da fare è contrastare il connubio tra filantropia islamica e odio contro il popolo ebraico. Le organizzazioni umanitarie cristiane e occidentali nel Terzo mondo dovrebbero farsi carico di tutto ciò raccontando, a musulmani e non, cosa è stato l'Olocausto.

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2006)

___________________

* Ayaan Hirsi Ali nasce in Somalia nel 1969, figlia di Hirsi Magan, noto leader dell'opposizione contro Mohamed Siad Barre. Nel 1976 il padre è costretto a rifugiarsi all'estero e tutta la famiglia lo segue. A ventidue anni Ayaan Hirsi Ali viene promessa in sposa contro il proprio volere. Non si presenta alla cerimonia e fugge in Germania, e da qui nei Paesi Bassi, dove presenta domanda di asilo. Impara l'olandese e fa l'interprete in alcune cliniche in cui si praticano aborti e in case di accoglienza per donne maltrattate e minacciate. Studia scienze politiche. Dopo la laurea lavora presso l'ufficio studi del partito socialdemocratico. Giornali radio e tv parlano di lei e delle sue aspre critiche alla società islamica, che non risparmiano la sinistra e il suo modo di affrontare la questione. Dopo aver ricevuto una fatwa con la condanna a morte, Ayaan Hirsi Ali è costretta a rifugiarsi all'estero. Scrive la sceneggiatura di Submission, il film del regista Theo van Gogh, ritenuto blasfemo dai fondamentalisti islamici. Oggi Ayaan Hirsi Ali vive protetta, in un luogo sconosciuto.





MUSICA E IMMAGINI




Hanukkah




INDIRIZZI INTERNET




Shavei Israel

Israele/web




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.