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Notizie su Israele 373 - 28 dicembre 2006 |
1. Vita quotidiana a Sderot
2. Ignoranza colossale e asservimento totale 3. Neppure i morti sono al sicuro 4. L'Iran prepara un secondo olocausto 5. Ahmadinejad, criminale e ignorante 6. Quinta colonna dormiente? 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. VITA QUOTIDIANA A SDEROT
Tre razzi Kassam al giorno di Aviel Schneider
Questi numeri sono stati resi noti in novembre dal Ministro per la Sicurezza Interna e ex capo del Servizio di Sicurezza, Avi Dichter. La città più colpita è Sderot, che si trova quattro chilometri a nord della Striscia di Gaza, e i kibbuz dei dintorni. Lentamente i terroristi riescono a costruire razzi Kassam di portata sempre maggiore. Sempre più spesso viene colpita la città costiera israeliana Ashkelon, posta 10 chilometri a nord della Striscia di Gaza. «Da sei anni soffriamo sotto la piogga dei razzi. Fino ad ora nessun governo è stato in grado di fermarla», ha detto il sindaco di Sderot, Eli Moyal, in un colloquio con israel heute. «Solo promesse, aiuti niente! L'opinione pubblica vede sempre soltanto il lato palestinese e ignora la nostra sofferenza.» Il membro del governo Dichter è scontento del suo governo. «E' tempo che riconosciamo la realtà dei fatti e prendiamo la decisione di far cessare una volta per tutte il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza», ha detto Dichter. «Non possiamo indugiare ancora, perché verrà il giorno che Hamas disporrà di razzi precisi e di maggiore portata!» Più volte Dichter ha sottolineato che Israele deve combattere il fanatico governo di Hamas nella Striscia di Gaza fino a che termini il lancio di razzi. «Solo allora Hamas sarà pronto a trattare sullo scambio tra Gilad Shalit e prigionieri palestinesi», ritiene Dichter, che fino ad ora non ha visto alcun progetto tattico dello Stato Maggiore per far cessare il lancio di razzi nel sud. «Fintanto che il governo esita, i cittadini soffrono», spiega Dichter. Indirettamente, anche i palestinesi soffrono per tutto questo, perché Israele reagisce con massicce operazioni militari. Un'inchiesta dell'Università A-Nashach a Nablus ha rivelato che il 61% della popolazione palestinese ritiene che il lancio di razzi Kassam su Israele nuoccia alla lotta di liberazione palestinese. Secondo il noto commentatore Ron Ben Ishai, il governo israeliano non ha alcun progetto strategico contro il lancio di razzi. Israele cerca piuttosto di evitare errori di operazione come quelli commessi recentemente nella guerra del Libano, con la quale si è resa impopolare presso l'opinione pubblica. Le conseguenze se le devono sorbire quelli del sud. Secondo un'inchiesta di Dahaf, il 66% degli abitanti di Sderot vuole lasciare la città a causa dei violenti lanci di razzi Kassam dalla Striscia di Gaza. Questo sarebbe la fine dell'idea sionistica della terra d'Israele, ha detto uno dei suoi abitanti. Il 21 novembre scorso, mentre come ogni mattina su Sderot piovevano razzi Kassam, si trovava in visita alla città l'incaricata dell'Onu per i diritti civili, Louise Arbour, e ha sperimentato da vicino un lancio di razzi. «Avevamo da poco visitato delle famiglie, quando improvvisamente le sirene cominciarono a ululare e i razzi caddero a soli 200 metri di distanza. I bambini sono subito corsi al muro», ha detto il portavoce dei delegati Onu, Jose Dias. «E' stato spaventoso! Bambini piccoli che correvano da tutte le parti in cerca di protezione. Non è una cosa che si vede tutti i giorni. Possiamo soltanto continuare a dire: il lancio di razzi Kassam su Israele infrange il diritto internazionale! Israele ha tutti i diritti di difendersi da questo!» (israel heute, gennaio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) |
2. IGNORANZA COLOSSALE E ASSERVIMENTO TOTALE
Il Natale dei dhimmi di Giorgio Israel Babbo Natale? Non vi fate ingannare dalle apparenze e guardate bene, sotto il vestito rosso: è un palestinese che porta i regali ai bambini poveri oppressi dai sionisti e dai crociati. Quanto alla Befana, risulta più chiaramente dalle vesti consunte e lacere: è una povera mamma palestinese che cerca di consolare i suoi piccoli con qualche caramella. Non siamo ancora arrivati a questo punto, ma non perché l'idea sia originale o eccessiva. é soltanto perché ancora non è venuta in mente a qualcuno. Ma qualcuno ha pensato a ben di peggio. Il quotidiano inglese Independent ha definito la Vergine Maria come «una rifugiata palestinese di Betlemme» e le donne palestinesi di oggi che aspettano un bambino come «le Marie del ventunesimo secolo» che «partoriscono in condizioni sorprendentemente simili a quelle patite da Maria 2000 anni fa». Naturalmente viene voglia di rispondere in cento modi a queste infami scempiaggini, alle mangiatoie ridotte a checkpoint israeliani e a Maria che da madre ebrea diventa madre palestinese, ecc. ecc. Ma ne vale la pena? Siamo qui di fronte a un'ignoranza talmente colossale ed efferata che non è possibile concepirla senza spiegarla come una manifestazione di malafede. Anche l'ultimo giornale di borgata caccerebbe a pedate un giornalista capace di scrivere simili bestialità. No, non vale la pena di rispondere. Occorre piuttosto constatare e far constatare a quale punto siamo arrivati: fare scempio senza pudore della storia e della religione cristiana pur di rovesciare fango su Israele. Chi può fare questo se non qualcuno che nutre un odio di sé talmente spinto da non nutrire più alcun rispetto non soltanto per la verità ma neppure per il più elementare buon senso? Chi può farlo se non qualcuno che ormai vive in uno stato di asservimento totale, di dhimmitudine, e ragiona come se il presidente della commissione europea si chiamasse Ahmadinejad o Khaled Meshaal? Spetta soprattutto al mondo cristiano d'Europa chiedersi fino a che punto potrà sopportare un simile affronto, una simile strumentalizzazione dei propri simboli a fini bassamente propagandistici. Tutto ciò mentre come ha bene descritto Fiamma Nirenstein sul Giornale del 24 dicembre i Giuseppe e Maria palestinesi rendono la vita impossibile ai cristiani della Terrasanta e li costringono ad andarsene. Converrebbe piuttosto che si capisse che un simile uso spregiudicato dei simboli del Natale nasconde malamente la vera intenzione: far fuori gli ebrei il sabato per poi passare a regolare i conti con i cristiani la domenica. (Informazione Corretta, 27 dicembre 2006) 3. NEPPURE I MORTI SONO AL SICURO La memoria come terreno di scontro di David Meghnagi Spenti i riflettori sulla Conferenza di Teheran, si accendono le luci sui giudici austriaci che hanno sospeso la pena a David Irving. La tragedia della Shoah riguarda non solo il passato, ma anche e soprattutto il futuro che intendiamo consegnare alle generazioni che verranno Le polemiche sulla macabra conferenza di Teheran secondo cui la Shoah non sarebbe mai esistita (sarebbe anzi "stata un'invenzione" dell'Internazionale "plutocratica giudaica e sionista" con l'obiettivo di alimentare il senso di colpa degli europei e far pagare agli arabi "il disegno egemonico di dominio mondiale"), non hanno fatto in tempo a lasciare le prime pagine dei giornali, che un giudice austriaco si è sentito in dovere di rivedere la sentenza in prima istanza di condanna a tre anni di carcere di David Irving. Per chi non lo avesse ancora compreso, dovrebbe essere chiaro. La memoria della tragedia della Shoah è un terreno di scontro che coinvolge non solo il passato, ma anche e soprattutto il futuro. Lo scontro sulla memoria di Auschwitz non riguarda unicamente il passato, ma il futuro che intendiamo darci, il tipo di società che vogliamo consegnare alle generazioni che verranno. Come ammoniva Walter Benjamin in una sua celebre tesi sulla storia, scritta poco prima del suicidio per non cadere in mano ai nazisti, "neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince" e purtroppo "non ha smesso di vincere". La barbarie continua a vincere per il semplice fatto che la realtà della tragedia possa essere messa in discussione, che i testimoni debbano tornare a giustificarsi non solo per il fatto di essere sopravvissuti, come avveniva in passato, ma per "avere inventato di sana pianta", peggio partecipato con le "loro invenzioni" ad un programma di assoggettamento degli altri popoli. Nel libello antisemita della Leggenda dei savi di Sion, da cui ha preso ispirazione il programma nazista, gli ebrei appaiono come cospiratori che hanno un disegno preciso sottomettere i popoli. Nel nuovo antisemitismo la realtà di Sion, l'esistenza appunto di uno Stato ebraico giudicato secondo parametri che non si applicherebbero a nessun altro Stato, assume i contorni deliranti di un nuovo Satana che sarebbe all'origine dello scontro che oppone il mondo occidentale a quello islamico. La trama dei simboli è la stessa, anche i termini, con l'aggravante di un innevamento. Non sempre è facile spiegare tutto questo. Ci vuole la disponibilità a far tacere per un attimo i propri pregiudizi, essere disponibili a guardare con occhi nuovi le proprie rappresentazioni, i codici con cui si analizzano i fatti. Nessuna persona potrebbe oggi proclamarsi antisemita senza perdere del tutto la sua rispettabilità. Eppure l'antisemitismo c'è ancora. Sono semplicemente cambiate le modalità con cui è declinato. La cultura non ha fatto in tempo a sviluppare i suoi anticorpi contro le forme più antiche che già si è trasformato nelle forme dell'argomentazione. L'antisemitismo antico colpiva gli ebrei con argomentazioni di tipo religioso. Gli ebrei erano colpevoli di deicidio, di profanare le ostie, di fare le azzime pasquali con il sangue dei bambini. Nell'antisemitismo razzista l'argomentazione religiosa si combina o è sostituita con quella biologica. Il razzismo biologico ha perduto dopo Auschwitz ogni credibilità e rispettabilità. Ma l'antisemitismo non ha per questo cessato di agire in forme nuove. Le rappresentazioni con cui un tempo si demonizzavano gli ebrei sono state trasferite sullo Stato degli ebrei che diventa per ciò stesso "'ebreo degli Stati". Per questo anche la sentenza viennese appare colpevole, per il messaggio che dà, per il momento in cui è dato, per le sue conseguenze. (Aprile Online, 24 dicembre 2006) 4. L'IRAN PREPARA UN SECONDO OLOCAUSTO L'incubo del giorno del secondo Olocausto di Benny Morris Il secondo Olocausto non sarà come il primo. Certo, anche i nazisti ordirono uno sterminio di massa. Ma, in qualche modo, avevano un contatto diretto con le vittime. Che disumanizzavano, dopo mesi, anni di atroce degradazione fisica e morale, prima dell'uccisione vera e propria. Ma con cui avevano pur sempre stabilito un contatto fisico: vedevano, sentivano, talvolta toccavano le loro vittime. I tedeschi e i loro alleati rastrellavano uomini, donne e bambini, per poi trascinarli e randellarli lungo le strade, freddarli nel bosco più vicino o scaraventarli e stiparli nei vagoni di un treno, da cui iniziava il viaggio verso i campi di sterminio, dove «Il lavoro rende liberi». Separavano gli individui di costituzione robusta da quelli completamente inutili, che adescavano nelle «docce» attraverso cui veniva pompato il gas; estraevano o presiedevano alla rimozione dei corpi e preparavano, infine, le «docce» per il plotone successivo. CRISI - Il secondo Olocausto sarà ben diverso. Un bel giorno, tempo cinque o dieci anni, magari nel pieno di una crisi regionale, o quando meno ce lo aspetteremo, un giorno o un anno o cinque anni dopo che l'Iran si sarà dotato della Bomba, i mullah di Qom convocheranno una seduta segreta, sulla quale campeggerà il ritratto dell'ayatollah Khomeini, con i suoi occhi di ghiaccio, per dare il placet al presidente Ahmadinejad, giunto oramai al secondo o al terzo mandato. Tutti i comandi saranno eseguiti, i missili Shihab-3 e 4 saranno lanciati verso Tel Aviv, Beersheba, Haifa, Gerusalemme e, probabilmente, anche contro alcuni campi militari, comprese le sei basi aeree e missilistiche nucleari (o presunte tali) di Israele. Qualche missile sarà dotato di testata nucleare, in qualche caso addirittura multipla. Altri saranno di tipo standard, muniti solamente di agenti chimici o batteriologici, o stipati di vecchi giornali, per scalzare o spiazzare le batterie anti-missilistiche e le unità dell'esercito israeliano. Per un Paese delle dimensioni e la conformazione di Israele (una striscia di terra oblunga di circa 21 mila chilometri quadrati), quattro o cinque lanci saranno probabilmente sufficienti. E addio Israele. Un milione o più di israeliani, nelle maggiori aree di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, periranno sul colpo. Milioni saranno gravemente irradiati. Israele conta sette milioni di abitanti circa. Nessun iraniano vedrà né toccherà alcun israeliano. Tutto si svolgerà in modo molto impersonale. DANNI COLLATERALI - Ci saranno inevitabilmente anche morti di nazionalità araba. Circa 1,3 milioni di abitanti di Israele sono arabi e altri 3,5 milioni vivono nelle aree ancora in parte occupate della Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Gerusalemme, Tel Aviv, Jaffa e Haifa contano nutrite minoranze arabe. E attorno a Gerusalemme (vedi El Bireh, vicino a Ramallah, Bir Zeit e Betlemme) e Haifa sorgono vaste aree a densa popolazione araba. Anche qui saranno in moltissimi a morire, sul colpo o poco a poco. E' improbabile che un simile massacro possa turbare Ahmadinejad e i mullah. Gli iraniani non amano particolarmente gli arabi, nutrono particolare disprezzo per i palestinesi sunniti che, in fin dei conti, pur essendo inizialmente dieci volte più numerosi degli ebrei, nel corso di un conflitto che si è protratto per anni non sono riusciti a impedire loro di fondare lo Stato ebraico, né di prendere possesso di tutta la Palestina. Di più, i leader iraniani considerano la distruzione di Israele come un supremo comando divino, l'araldo della Seconda Venuta, e la morte collaterale degli islamici come il sacrificio di shuhada (martiri) sull'altare di una causa nobile. In ogni caso, il popolo palestinese, sparso un po' in tutto il mondo, sopravviverà, assieme alla grande nazione araba di cui è parte integrante. E va da sé che, per liberarsi dello Stato ebraico, gli arabi devono essere pronti a qualche sacrificio. E il gioco, considerandolo nel bilancio generale, vale la candela. Ma un'altra questione potrebbe essere sollevata nel corso di queste consulte: e Gerusalemme? La città, infatti, ospita due dei luoghi più sacri dell'Islam (dopo la Mecca e Medina): le moschee di Al Aqsa e di Omar. Con ogni probabilità, però, la suprema guida spirituale Ali Khamenei e Ahmadinejad darebbero a questa domanda la stessa risposta che sfoggerebbero per il più generale problema della distruzione e dell'inquinamento radioattivo dell'intera Palestina: la città e la terra, per grazia di Dio, in venti, cinquanta anni al massimo torneranno come prima. E saranno restituite all'Islam (e agli arabi). Senza la benché minima traccia di contaminazioni radioattive. RISCHIO CALCOLATO - A giudicare dai continui riferimenti, da parte di Ahmadinejad, alla Palestina e all'urgenza di distruggere Israele, e dalla negazione, di cui si è fatto portavoce, del primo Olocausto, si direbbe che l'uomo sia ossessionato. Tratto che condivide con i mullah: entrambi vengono dalla scuola di Khomeini, prolifico antisemita noto per le folgori scagliate contro il «piccolo Satana». E a giudicare dal concorso, da lui promosso, per le vignette sulla Shoah, o dalla Conferenza sull'Olocausto (appena conclusasi), emerge un presidente iraniano arso da un vortice di odio profondo (oltreché, naturalmente, insolente). Ahmadinejad, infatti, è pronto a mettere a repentaglio il futuro dell'Iran, se non addirittura di tutto il Medio Oriente musulmano, in cambio della distruzione di Israele. Non v'è alcun dubbio che egli creda che Allah, in un modo o nell'altro, proteggerà l'Iran da una risposta nucleare israeliana o da un'eventuale controffensiva Usa. E, Allah a parte, è facile che egli creda che i suoi missili polverizzeranno lo Stato ebraico, annienteranno i suoi leader, distruggeranno le basi nucleari terrestri e demoralizzeranno o spiazzeranno i comandanti dei sottomarini nucleari in modo così drastico ed efficace da neutralizzare qualsivoglia reazione. E, con il suo profondo disprezzo per il pavido Occidente, è improbabile che il leader iraniano prenda in seria considerazione la minaccia di una rappresaglia nucleare Usa. Ma può anche darsi che egli sia consapevole del rischio di un contrattacco e si professi tout court e, secondo il nostro modo di pensare, in modo assolutamente irrazionale disposto a pagarne le conseguenze. Come il suo mentore Khomeini ebbe a dire, nel 1980, durante un discorso ufficiale a Qom: «Noi non veneriamo l'Iran, ma Allah... Per questo dico: che questa terra bruci. Che vada in fumo, purché l'Islam ne esca trionfante...». Per tali cultori della morte, persino il sacrificio della propria patria vale bene la cancellazione di Israele. Come il primo, anche il secondo Olocausto sarà preceduto da lustri di indottrinamento dei cuori e delle menti da parte di leader arabi e iraniani, intellettuali occidentali e sfoghi mediatici. Il messaggio è cambiato a seconda del pubblico ma, di fatto, l'obiettivo di fondo è stato sempre lo stesso: la demonizzazione di Israele. Ai musulmani di tutto il mondo è stato insegnato che «i sionisti e gli ebrei incarnano il male» e che «Israele dovrebbe essere distrutto». E agli occidentali, in modo più subdolo, è stato inculcato che «Israele è uno Stato tiranno e razzista» che «nell'età del multiculturalismo, è inutile e anacronistico». COMUNITÀ INTERNAZIONALE - La campagna per il secondo Olocausto (che, tra l'altro, alla fine provocherà all'incirca tanti morti quanti ne fece il primo) si è svolta in una comunità internazionale lacerata e guidata da ambizioni egoistiche e discordanti, con Russia e Cina ossessionate dalle prospettive di mercato nei Paesi musulmani, la Francia dal petrolio arabo e gli Usa portati, dopo la débâcle irachena, a un profondo isolazionismo. L'Iran è stato lasciato libero di proseguire sulla china del nucleare, e la comunità internazionale non è intervenuta nello scontro tra Israele e il regime degli Ayatollah. Ma uno Stato israeliano sostanzialmente isolato come un coniglio improvvisamente abbagliato dai fari di una macchina , non può essere all'altezza della situazione. La scorsa estate, guidato da un mediocre politicante come Primo ministro e da un sindacalista da strapazzo come ministro della Difesa, schierando un esercito addestrato per gestire le inesperte e sguarnite bande palestinesi nei Territori occupati (e troppo intento a fare fronte a eventuali disgrazie o a provocarle), Israele è uscito perdente da un mini-conflitto di appena trentaquattro giorni contro una piccola guerriglia di fondamentalisti libanesi spalleggiata dall'Iran. Quell'episodio ha totalmente demoralizzato la leadership politica e militare israeliana. Da allora, i ministri e i generali israeliani, così come i loro omologhi occidentali, assistendo al graduale approvvigionamento di armi letali a Hezbollah da parte dei fiancheggiatori di quest'ultimo, sono divenuti sempre più sfiduciati e pessimisti. Paradossalmente, è addirittura possibile che i leader israeliani abbiano gradito gli appelli alla moderazione da parte dell'Occidente. E, con ogni probabilità, hanno voluto disperatamente credere alle promesse occidentali che qualcuno l'Onu, il G7 , in un modo o nell'altro, avrebbe cavato la castagna radioattiva dal fuoco. C'è stato addirittura chi ha abboccato alla bislacca promessa di un cambio di regime a Teheran il quale, pilotato dal cosiddetto ceto medio laico, avrebbe progressivamente messo il bastone tra le ruote al fanatismo dei mullah. NUCLEARE - Ma, fatto ancor più rilevante, il programma iraniano ha costituito una sfida infinitamente complessa per un Paese con risorse militari limitate e di tipo convenzionale qual è Israele. Prendendo l'imbeccata dall'operazione con cui l'Aeronautica militare israeliana, nel 1981, riuscì a distruggere il reattore nucleare iracheno di Osiraq, gli iraniani hanno raddoppiato e dislocato i propri impianti, nascondendoli anche molti metri sottoterra (e a ciò va aggiunto il fatto che la distanza tra Israele e gli obiettivi iraniani è doppia rispetto a quella con Bagdad). Per smantellare con le armi convenzionali gli impianti israeliani conosciuti, occorrebbe una capacità aeronautica pari a quella Usa impegnata giorno e notte, e per oltre un mese. Nella migliore delle ipotesi, l'aeronautica, la marina e il commando israeliano potrebbero sperare di fermare solo in parte il progetto iraniano. Il quale, tutto sommato, non subirebbe sostanziali modifiche. Con gli iraniani ancora più determinati (ammesso che ciò sia |
possibile) a sviluppare quanto prima la Bomba. (Altra conseguenza immediata sarebbe senz'altro una nuova campagna terroristica di stampo islamista e su scala globale contro Israele e forse anche contro i suoi alleati occidentali assieme, naturalmente, a un'involuzione pressoché generale. Manipolati da Ahmadinejad, tutti rivendicherebbero che il programma iraniano aveva scopi pacifici). Tutt'al più, un attacco convenzionale da parte di Israele potrebbe procrastinare il progetto iraniano di uno o due anni. OPZIONI - In quattro e quattr'otto, dunque, la sprovveduta leadership di Gerusalemme si troverà davanti a uno scenario apocalittico, sia che lanci un'offensiva convenzionale dagli effetti marginali, sia che opti per un attacco nucleare preventivo contro gli impianti iraniani, alcuni dei quali situati vicino o dentro le principali città. Ne avrebbe il fegato? La sua determinazione a salvare Israele basterebbe a giustificare l'attacco preventivo, con la conseguente morte di milioni di iraniani e, di fatto, la distruzione dell'Iran? Il dilemma è stato rigorosamente chiarito già molto tempo fa da un generale molto saggio: l'arsenale nucleare israeliano a nulla può servire. Può soltanto essere schierato «troppo presto» o «troppo tardi». Il momento «giusto» non arriverà mai. Se schierato «troppo presto», ossia prima che l'Iran si fosse procurato gli ordigni nucleari, Israele sarebbe stato degradato a paria nello scacchiere internazionale, bersaglio della furia della comunità musulmana mondiale, senza più alcun Paese disposto a spalleggiarlo. Schierarlo «troppo tardi», invece, vorrebbe dire colpire ad attacco iraniano già avvenuto. E a che pro? I leader israeliani, quindi, stringeranno i denti sperando che, in qualche modo, le cose si aggiustino da sé. Magari, una volta ottenuta la Bomba, gli iraniani si comporteranno in modo «razionale»? CATASTROFE - Ma questi ultimi sono guidati da una logica superiore. Lanceranno i loro missili. E, come per il primo Olocausto, la comunità internazionale non muoverà un dito. Tutto avverrà, per Israele, in pochi minuti; non come negli anni '40, quando il mondo stette cinque lunghi anni a torcersi le mani senza battere ciglio. Dopo i lanci di Shihab, la comunità internazionale manderà navi di soccorso e assistenza medica per quanti sopravviveranno alle esplosioni. Ma non attaccherà l'Iran. Quale sarebbe il prezzo? E il tornaconto? Optando per una controffensiva nucleare, gli Usa si alienerebbero definitivamente l'intero mondo musulmano, esasperando e generalizzando il già acceso scontro di civiltà. Ovviamente, senza potere riportare in vita Israele. E allora che senso avrebbe? Il secondo Olocausto, però, sarà diverso nel senso che Ahmadinejad non vedrà né toccherà concretamente gli individui di cui sogna tanto la morte. Anzi, non vi saranno scene come quella che sto per raccontarvi, riportata da Daniel Mendelsohn nel suo recente libro The Lost, A Search for Six of Six Million, in cui viene descritta la seconda Aktion dei nazisti a Bolechow, piccolo paesino della Polonia, nel settembre 1942. «La signora Grynberg fu vittima di un episodio terribile. Gli ucraini e i tedeschi, facendo irruzione nella sua casa, la trovarono che stava partorendo. A nulla valsero le lacrime e le suppliche degli astanti: la portarono via, ancora in vestaglia, dalla sua casa, e la trascinarono fino alla piazza davanti al municipio. E lì... fu spinta a forza sopra un cassonetto per l'immondizia nel cortile del municipio, e tra gli scherni e i dileggi della folla di ucraini presenti, insensibili al suo dolore, partorì. Il bambino le fu immediatamente strappato dalle braccia con tutto il cordone ombelicale. Fu scaraventato verso la folla, che prese a schiacciarlo coi piedi. Lei fu lasciata sola, con le ferite e i brandelli di carne sanguinanti, e così rimase per qualche ora, appoggiata a un muro, fino a che non fu portata alla stazione ferroviaria e, assieme agli altri, fatta salire su un vagone verso il campo di sterminio di Belzec». Nel prossimo Olocausto non ci saranno episodi così strazianti. Non vedremo vittime e carnefici coperti di sangue (anche se, a giudicare dalle immagini di Hiroshima e Nagasaki, le conseguenze delle esplosioni nucleari possono essere altrettanto devastanti). Ma sarà comunque un Olocausto. (Corriere della Sera, 20 dicembre 2006 - trad. Enrico Del Sero) 5. AHMADINEJAD, CRIMINALE E IGNORANTE Comunismo e sionismo: da Ahmadinejad un paragone improponibile di Federico Steinhaus Nel suo recente discorso in occasione dell'inaugurazione del convegno sulla Shoah Ahmadinejad ha affermato che Israele, culla del sionismo, dovrà ineviabilmente sparire dalla faccia della terra come già è avvenuto per l'Unione Sovietica, culla del comunismo. Questo paragone è improponibile, ma nell'insieme degli articoli giustamente scandalizzati scritti a dozzine mi pare che nessuno abbia rilevato questa incongruenza. Proviamo dunque, con una sintesi che sarà necessariamente inadeguata sotto il profilo politologico e filosofico, a farlo noi. L'ideologia comunista aveva, nel corso dei trent'anni tra la presa del potere in Russia e la fine della seconda guerra mondiale, creato all'interno un sistema totalitario che si reggeva sul rigido ed inesorabile controllo del potere in ogni sua infinitesimale espressione. Verso l'esterno il comunismo aveva avviato una espansione che aveva dato vita ad un impero, dal centro del quale il Cremlino governava con uguale ossessiva forza ogni aspetto. Intorno a questo impero fortemente centralizzato una serie di partiti faceva da corona, agendo all'interno di sistemi pluralisti in alcune nazioni democratiche, ma obbedendo al verbo che proveniva da Mosca. Nulla di tutto ciò è mai appartenuto al sionismo inteso come ideologia o come progetto politico. Il sionismo è nato e si è sviluppato nell'alveo dei grandi movimenti di rinascita nazionale che hanno modellato l'Europa moderna nella seconda metà dell'Ottocento. Fin dall'inizio esso ha avuto dei sostenitori ed anche degli avversari all'interno del mondo ebraico; semplificando molto si può delineare una discriminante sotto il profilo socio-economico: la ricca borghesia assimilata era antisionista, mentre le masse diseredate, facile preda dei pogrom e delle persecuzioni, erano appassionatamente sioniste. All'inizio, quando doveva affermarsi e trovare i sostegni politici ed economici per trasformarsi in un movimento politico, il sionismo sostenne principalmente che il popolo ebraico avrebbe dovuto rigenerarsi in quella che era la sua naturale ed unica patria storica e spirituale, la terra dell'antico Israele; quando finalmente le Nazioni Unite deliberarono la costituizione dello stato ebraico i suoi dirigenti, ansiosi di rinvigorirlo, sottolinearono che il messaggio centrale del sionismo era che Israele dovesse diventare la patria di tutti gli ebrei dispersi da millenni nel mondo intero; quando,infine, Israele divenne uno stato maturo il sionismo si avviò lungo una china discendente sia da un punto di vista ideologico-filosofico, sia da quello degli entusiasmi che aveva saputo suscitare. Oggi non sono pochi gli ebrei che si chiedono se il sionismo abbia ancora un senso come centro motore del pensiero e della politica che ruotano attorno al suo concetto originario. Ma ciò non significa che il sionismo sia finito, significa solo che è profondamente cambiato. Salvo poche centinaia di persone (peraltro molto chiassose e coccolate dagli antisemiti) nessun ebreo al mondo si sogna di negare la legittimità e l'indispensabilità dello stato d'Israele, nessun ebreo al mondo accetterebbe una sua sparizione, nessun ebreo al mondo (per quanto lo possa criticare) cessa per un istante di amarlo. Essere sionista, forse, non significa più sentirsi in obbligo di andare a vivere in Israele, ma piuttosto coltivare il proprio amore per Israele, mettere a disposizione risorse ed energie per sostenerlo. Il comunismo è collassato quando ha perso la capacità di tenere sotto controllo con crudeltà e rigore assoluti il proprio impero e la propria società. E' crollato per i colpi infertigli dall'interno e dall'esterno del sistema, dai suoi stessi sudditi (che non si possono chiamare cittadini) ma anche dall'evidenza non più mascherabile dei suoi insuccessi e della sua malvagità. Il sionismo non ha mai trovato una sua personificazione nello stato d'Israele ed accetta di mettersi in discussione ogni giorno. Israele non è uno stato autoritario ed imperialista. Israele non ha al proprio interno chi desideri abbatterlo, neppure gli arabi israeliani che eleggono i loro rappresentanti alla Knesset complottano a questo fine. Gli unici nemici di Israele sono alcuni stati autoritari ed oscurantisti; alcuni di essi sono teocrazie che ignorano concetti come libertà di pensiero, parità di diritti, dignità della persona. Forse qualcuno degli storiografi occidentali che fanno corona ad Ahmadinejad e lo osannano dovrebbe spiegargli queste cose. Ma dovrebbe farlo standosene a casa propria, non in Iran, per non mettere a repentaglio la propria vita per aver osato tanto. (Informazione Corretta, 24 dicembre 2006) 6. QUINTA COLONNA DORMIENTE? Il nemico interno di Israele di Daniel Pipes Rimasto in panchina per circa sessant'anni, può darsi che il terzo e ultimo nemico di Israele stia per ingaggiare battaglia. I paesi stranieri costituiscono il nemico numero uno di Israele. Con la dichiarazione dell'indipendenza israeliana del maggio 1948, cinque eserciti stranieri invasero lo Stato ebraico. Le maggiori guerre che ne seguirono 1956, 1967, 1970, 1973 videro gli israeliani combattere contro eserciti, forze aeree e navali di paesi vicini. Oggi, la maggiore minaccia proviene dalle armi di distruzione di massa di Iran e Siria. L'Egitto rappresenta sempre più un pericolo con le sue potenti armi convenzionali. I palestinesi fuggiti nel 1948 costituiscono il nemico numero due. Eclissatisi per vent'anni dopo il 1948, costoro guadagnarono il centro della scena grazie a Yasser Arafat e all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). La guerra del Libano del 1982 e gli accordi di Oslo del 1993 confermarono la loro importanza. Oggi, i palestinesi che vivono al di fuori di Israele continuano ad essere attivi e minacciosi, e lo sono attraverso il terrorismo, il lancio di missili su Sderot e tramite una campagna globale di pubbliche relazioni a favore del negazionismo. I cittadini musulmani di Israele, in genere conosciuti in inglese come arabi israeliani, costituiscono il nemico numero tre. (Ma io mi concentrerò sui musulmani, e non sugli arabi, perché i cristiani di lingua araba e i drusi sono in genere meno ostili.) La storia dei musulmani israeliani iniziò in maniera illogica; nel 1949, essi erano 111.000 e costituivano il 9% della popolazione israeliana. Poi il loro numero si decuplicò fino a rappresentare nel 2005 il 16% della popolazione (1.141.000). Al di là delle cifre, essi hanno tratto pieno profitto dall'aperta e moderna società israeliana passando da una esigua popolazione remissiva e senza guida a una numerosa comunità combattiva tra i cui leader si annoverano il vicesindaco di Tel Aviv, Rifaat Turkun, un ambasciatore (Ali Yahya), parlamentari, accademici e imprenditori. Questa ascesa, insieme ad altri fattori i nemici numero uno e numero due in guerra con Israele, gli accresciuti legami con la Cisgiordania, l'ondata di Islam radicale, la guerra libanese scoppiata a metà del 2006 hanno incoraggiato i musulmani a rifiutare l'identità israeliana e a rivoltarsi contro lo Stato. E lo dimostra la loro manifesta esultanza celebrativa dei peggiori nemici dello Stato ebraico, dal momento che in Israele sono in aumento gli episodi di violenza perpetrati dai musulmani contro gli ebrei. Solo questo mese, i musulmani han no saccheggiato una scuola religiosa ebraica ad Acre ed hanno quasi ucciso un agricoltore della valle di Jezreel. Un ragazzino è stato arrestato perché stava preparando un attacco suicida contro un hotel di Nazareth. Questa ostilità è stata codificata in un documento redatto a regola d'arte e pubblicato agli inizi di dicembre, dal titolo The Future Vision of Palestinian Arabs in Israel (La futura visione degli arabi palestinesi in Israele). Edito dal Mossawa Center di Haifa (che è in parte finanziato da ebrei americani) e approvato da parecchie figure istituzionali, le idee estremistiche in esso contenute potrebbero segnare una svolta decisiva per i musulmani israeliani. Il documento ricusa la natura ebraica di Israele, sostenendo che il paese sia diventato uno Stato bi-nazionale in cui cultura e potere palestinesi godono di assoluta eguaglianza. L'idea di "patria unita" racchiusa nel documento implica che i settori arabo ed ebraico si occupino rispettivamente dei propri affari e che ognuno di essi eserciti il diritto di veto su talune decisioni spettanti all'altro settore. Future Vision pretende che siano apportate delle modifiche alla bandiera e all'inno nazionale, che venga abrogata la legge del 1950 che sancisce il diritto al ritorno e che garantisce automaticamente la cittadinanza ad ogni ebreo, e che infine la lingua araba sia equiparata all'ebraico. Il documento tenta di separare la rappresentanza araba nei forum internazionali. Entrando nei dettagli, lo studio porrebbe fine alla realizzazione sionista di uno Stato ebraico sovrano. Com'era prevedibile, gli ebrei israeliani hanno reagito negativamente. Nelle colonne di Ma'ariv, Dan Margalit ha liquidato gli arabi israeliani come "intollerabili". Nelle pagine di Ha'aretz, Avraham Tal ha interpretato le oltraggiose richieste come un intento di voler deliberatamente dar seguito al conflitto all'interno del paese, anche se i conflitti esterni di Israele venissero risolti. Il vicepremier israeliano, Avigdor Lieberman, ricusa categoricamente in modo assoluto le premesse del documento. "Quale è la logica", egli domanda, quella di creare un paese e mezzo per i palestinesi (un'allusione all'Autorità palestinese che sta diventando un vero e proprio Stato) e "mezzo paese per il popolo ebraico?" Lieberman desidera riservare la cittadinanza israeliana a coloro che sono disposti a siglare una dichiarazione di fedeltà alla bandiera e all'inno israeliani, e ad assolvere il servizio di leva o il suo equivalente. Coloro che si rifiutano di firmare che siano musulmani, di estrema sinistra, Haredi, o altro possono abitare in Israele, come residenti permanenti. con tutti i benefici del diritto di residenza israeliano, potendo perfino esercitare il diritto di voto e candidarsi alle amministrative (un privilegio di cui attualmente non godono gli abitanti arabi di Gerusalemme che non sono in possesso della cittadinanza). Ma essi sarebbero esclusi dall'esercizio del diritto di voto alle elezioni politiche oppure non potrebbero ricoprire cariche parlamentari o governative. Le proposte diametralmente opposte di Future Vision e di Lieberman costituiscono la prima offerta di un lungo processo di negoziazione che focalizza vantaggiosamente l'attenzione su un argomento troppo a lungo trascurato. Gli israeliani si trovano a dover affrontare tre scelte terribilmente semplici: o gli ebrei israeliani rinunceranno al sionismo; oppure i musulmani israeliani accetteranno il sionismo; o ancora i musulmani israeliani non resteranno a lungo israeliani. Tanto prima gli israeliani risolveranno tale questione meglio sarà. (New York Sun, 19 dicembre 2006 - dall'archivio di Daniel Pipes) MUSICA E IMMAGINI Hava Nagilah INDIRIZZI INTERNET Jewish.com Shalom Center Dorrdrecht Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |