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Notizie su Israele 377 - 4 febbraio 2007

1. Il doppio gioco delle forze di sicurezza palestinesi
2. Un documento di ebrei di sinistra
3. Gli ebrei in Libia durante la seconda guerra mondiale
4. Un progetto di reinserimento per giovani israeliani
5. Nei laboratori di ricerca israeliani
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Isaia 49:7. Così parla il Signore, il Salvatore, il Santo d'Israele, a colui che è disprezzato dagli uomini, detestato dalla nazione, schiavo dei potenti: «Dei re lo vedranno e si alzeranno; dei prìncipi pure e si prostreranno, a causa del Signore che è fedele, del Santo d'Israele che ti ha scelto».
1. IL DOPPIO GIOCO DELLE FORZE DI SICUREZZA PALESTINESI




A colloquio con il portavoce della "resistenza" palestinese

«Fra poco faremo vedere agli israeliani come useremo contro Israele i fucili mitragliatori che abbiamo ricevuto dall'Egitto, con il permesso di Israele, per la guardia palestinese del Presidente e per le forze di sicurezza», ha detto il portavoce del Comitato palestinese di resistenza, Mohammed Abed el A'al, in un colloquio telefonico con "israel heute". Si riferiva alle 2000 armi che l'Egitto ha fornito ai palestinesi della Striscia di Gaza pochi giorni dopo l'incontro al vertice avvenuto in Gerusalemme tra Olmert e Abbas.

Un terzo delle truppe delle forze di sicurezza palestinesi appartiene in segreto a una organizzazione di resistenza armata

«Almeno un terzo dell'apparato delle forze di sicurezza palestinesi appartiene ai diversi gruppi di resistenza palestinesi», ha ammesso Abed el A'Al, che appartiene al governo di Hamas. «Israele rimarrà sorpreso: i nuovi fucili mitragliatori naturalmente non li useremo contro i nostri uomini. Le armi prenderanno invece la strada dei vari gruppi di resistenza e saranno dirette contro i nemici sionisti.» Il portavoce della resistenza dunque non ha fatto mistero su come verranno usate le armi nelle mani dei suoi uomini.

israel heute: In quali organizzazioni di sicurezza militano i cosiddetti combattenti della resistenza?
Abed el A'Alab: Abbiamo nostri membri in tutte le forze di sicurezza palestinesi, incluse quelle dalla guarda del presidente Mahmud Abbas. Tutti sono fedelmente sottoposti a Hamas o ad altri gruppi di resistenza. Noi veniamo continuamente informati su questioni di sicurezza segrete. Le armi ci vengono rilasciate gratuitamente o ci vengono vendute da ufficiali della sicurezza. Inoltre, i nostri membri sono tutto il giorno al servizio delle truppe di sicurezza palestinesi, e quindi tutte le volte che ne abbiamo bisogno, loro sono lì.

israel heute: Quanto è grande, secondo lei, il numero dei membri della resistenza nelle truppe palestinesi dell'Autonomia, a cui appartiene anche la polizia?
Abed el A'Alab: Almeno un terzo degli appartenenti agli organi di sicurezza palestinesi è membro della resistenza palestinese. In una di queste truppe si arriva perfino a più della metà. In quale truppa, non glielo dirò!

israel heute: Mantiene contatti personali con ufficiali di alto rango negli apparati di sicurezza che dovrebbero operare per mantenere ordine e sicurezza?
Abed el A'Alab: Un ufficiale delle guardia palestinese del Presidente è venuto da me e mi ha detto chiaramente che lui e i suoi uomini non vogliono avere niente a che fare con scontri sanguiosi con membri di Hamas. Al contrario, anche lui è contrario a una guerra civile, nonostante che sia membro di Fatah. Recentemente ci è arrivata l'informazione che Abbas avrebbe intenzione di eliminare dalla sua guardia presidenziale tutti i membri di Hamas. Noi siamo in grado di vanificare per tempo questa intenzione. Abbiamo convinto i nostri uomini nella guardia a mentire su questa faccenda, nel caso Mahmud Abbas dovesse richiedere un giuramento di fedeltà. L'importante è che restino nelle file.

israel heute: Il fine dunque giustifica i mezzi? Se si inganna Israele, si possono ingannare anche i membri del proprio popolo.
Abed el A'Alab: Sì! I nemici dei palestinesi non riusciranno a spingerci in una guerra civile, anche se potrebbe sembrare così. Siamo nella stessa barca e abbiamo un comune nemico: i sionisti! E qui vorrei ringraziare Israele che continua a concederci delle armi che alla fine noi useremo contro Israele. Come si può pensare che i fucili mitragliatori vengano usati per mantenere ordine e sicurezza a beneficio di Israele! Che sciocchezza! Noi combatteremo fino a che tutta la Palestina sarà liberata dai sionisti e Gerusalemme diventerà la capitale della Palestina.

(israel heute, febbraio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. UN DOCUMENTO DI EBREI DI SINISTRA




Gli ebrei di sinistra nel campo della pace

Fonte: Il Manifesto

Il pensiero critico rappresenta un cardine della tradizione e di tutta la storia ebraica, compresa la nascita dello stato di Israele. Ma negli ultimi anni, a causa di eventi tragici, si è andato affievolendo sino a un vero e proprio ripiegamento del mondo ebraico su se stesso, che - comprensibile dal punto di vista emotivo - ha però portato a un'involuzione identitaria in cui sono saltate le distinzioni stesse tra ebrei, ad esempio tra ebrei di sinistra e di destra. Si sono riaffacciate paure di annientamento - la «distruzione di Israele» - che non valutano lucidamente il rapporto effettivo tra minacce gravissime, come quelle del presidente iraniano Ahmadinejad, e le possibilità reali della loro implementazione nel quadro geopolitico attuale. Il terrorismo islamista, pericolo più immediato, si alimenta peraltro dal proseguimento dell'occupazione dei territori palestinesi da parte israeliana che rappresenta la vera fonte di immani disgrazie non solo per i palestinesi ma anche per Israele.
Nella sinistra ebraica si è persa, a nostro avviso, quella capacità di progettare un diverso presente e futuro rispetto a quello prospettato dalla destra ebraica, allineata alla destra mondiale neo- e teo-con.
Nell'ebraismo il pluralismo è una condizione esistenziale e pensiamo che questo pluralismo, oggi, abbia bisogno di essere riconfermato anche rispetto alla differenza tra «ebreo» e «israeliano». Perché se è ovvio, per noi, un legame tra la propria identità diasporica e Israele, tale legame non deve diventare un'appartenenza sostanziale, che genera confusione in noi e negli altri e rischia di portare acqua al mulino di chi non vuole distinguere tra ebreo e israeliano. Noi vogliamo coltivare il nostro legame con Israele alla maniera lucida, non sentimentalistica né viscerale o acritica, con cui lo coltivò Primo Levi, che di fronte alla prima «avventura in Libano» dell'esercito israeliano levò la sua voce insieme a quella di molti altri ebrei diasporici e israeliani contro la logica aggressiva e non più solo difensiva dell'esercito israeliano. Intendiamo perciò riferirci alla sua testimonianza perché ispiri la nostra azione per la costruzione della pace e della convivenza tra i popoli.
Dopo una riflessione collettiva tra ebrei di sinistra con diverse esperienze, abbiamo deciso di prendere una posizione pubblica che, anche dopo le polemiche tra il ministro D'Alema e molta parte dell'espressione istituzionale di destra ma anche di sinistra delle Comunità ebraiche, evidenziasse una voce diversa in cui la propria appartenenza ebraica non oscuri il carattere universale che pertiene al proprio essere di sinistra.
Riconosciamo alle parole di David Grossman, durante la commemorazione di Rabin a Tel Aviv il 4 novembre, quel carattere che serve oggi a noi ebrei di sinistra in Italia, in Israele e nel mondo, per riprendere l'iniziativa in un panorama in cui si addensano le nubi del cosiddetto «scontro di civiltà». In questo quadro il conflitto israelo-palestinese è ancora, purtroppo, un centro di irradiamento dell'odio globale tra culture e religioni oltre che luogo dove si continua a perpetrare un'ingiustizia costante nei rapporti tra i popoli.
E' nostra intenzione contribuire a ricostituire il «Campo della Pace Ebraico»in Italia e a questo scopo chiediamo a quanti nel variegato mondo ebraico sentono la stessa esigenza di confrontarsi con noi per iniziare un percorso comune (campodellapace@yahoo.it)

Paolo Amati, Marina Astrologo, Andrea Billau, Beppe Damascelli, Lucio Damascelli, Marina Del Monte, Ester Fano, Dino Levi, Stefano Levi Della Torre, Tamara Levi, Patrizia Mancini, Marina Morpurgo, Moni Ovadia, Renata Sarfati, Sergio Sinigaglia, Stefania Sinigaglia, Susanna Sinigaglia, Jardena Tedeschi, Claudio Treves

(PeaceLink, 27 gennaio 2007)





3. GLI EBREI IN LIBIA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE




Giado, sud di Tripoli

di Eric Salerno

Nella valle delle Comunità scomparse, un angolo appartato del memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme, una gelida parete di cemento bianco ricorda le comunità ebraiche africane nel loro insieme, i nomi dei paesi che le ospitavano fino a qualche anno fa, elencati in ordine alfabetico. E' un'addizione relativamente recente al complesso dedicato alle vittime dell'Olocausto. Non ci può essere paragone tra quello che accadde alle comunità ebraiche in Nord Africa - Marocco, Algeria, Tunisia e Libia – e lo scempio compiuto in Europa. I nazisti non ebbero tempo sufficiente per completare la loro opera di distruzione, per allargarla come avrebbero voluto, ma dall'analisi dei documenti emersi dopo la guerra da decine di archivi e dalle testimonianze orali dei sopravvissuti risulta chiaramente la loro volontà di andare avanti, non soltanto in Europa ma anche altrove. Nel 1979 pubblicai "Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell'avventura coloniale italiana (1911-1931)", frutto di una ricerca negli archivi italiani e sul campo, in Libia. E' emerso un quadro nero della storia italiana: esecuzioni sommarie, bombardamenti con gas (le nostre "armi di distruzione di massa") della popolazione civile in Cirenaica, campi di concentramento dalle quali uscì viva una percentuale spaventosamente bassa degli internati. Negli ultimi anni, durante la mia lunga permanenza in Israele come corrispondente, nel corso di altri viaggi in Libia e parlando in Italia con molti esuli, sono riuscito a ricostruire un altro episodio della storia coloniale e fascista italiana. Questi sono alcuni dei documenti rintracciati, testimonianze raccolte e pagine di appunti di viaggio. Faranno parte di un altro volume sulle atrocità italiane che cominciarono con l'introduzione delle leggi razziali anche in Libia.

* * *

Il 12 maggio 1942, il console tedesco a Tripoli, Walter, scriveva all'ambasciata tedesca a Roma per raccontare in poche parole gli sviluppi della situazione in Libia dove infuriava la guerra e il fronte sulle rive del Mediterraneo, dalla Sirte all'Egitto con Bengasi al centro, andava avanti e indietro. Un tormento sanguinoso, quel fronte che si spostava agitandosi come un ventaglio, lasciando a ogni passaggio invece di un soffio d'aria fresca, morti e feriti e prigionieri. Gli inglesi erano riusciti ad arrivare a Bengasi e una parte della popolazione rimasta nella città in riva al Mediterraneo nonostante le bombe e la paura aveva gioito. Non tanto i musulmani, abituati a vedere eserciti stranieri andare e venire, e non certo gli italiani bloccati nella capitale della Cirenaica, ma una parte degli ebrei libici. Alcuni avevano saputo da viaggiatori venuti dall'Europa, dalle poche lettere recapitate con difficoltà, quello che stava accadendo nel vecchio continente. E, poi, con i britannici combatteva la brigata ebraica, le truppe della Palestina, ebrei come loro, sionisti come molti di loro erano o stavano diventando. La loro felicità, però, durò poco. Il 3 aprile 1941, Bengasi venne rioccupata dagli italiani. Il pendolo si era bruscamente spostato. E quattro mesi dopo, sbarcò l'Afrika Korps al comando di Rommel, "volpe del deserto", lo chiamavano, ma i suoi panzer, la sua brillante tecnica poco ortodossa non fu sufficiente per bloccare l'operazione Crusader, la nuova spinta degli Alleati, e a capodanno la linea del confronto era tornato ancora una volta a el Agheila. Si sarebbe spostata ancora.

Quella del console, era una nota informativa come tante altre, che conferma la collaborazione tra nazisti e fascisti non soltanto in campo strettamente militare.

«Dopo la ritirata degli inglesi abbiamo affrontato per la prima volta il problema ebraico, anzitutto in Cirenaica. Come è stato riferito nel precedente resoconto, è stato deciso dopo la ritirata degli inglesi dalla Cirenaica, che in seno all'accordo sui nativi, bisognerebbe concentrare tutti gli ebrei residenti della Cirenaica in un campo di concentramento in Tripolitania. Questa decisione è stata presa dopo l'annullamento del piano di trasferimento di questi ebrei in Italia.»

Pochi giorni più tardi, il 19 maggio, con un'altra nota il console volle precisare gli intenti suoi, del suo governo e del regime fascista:

«La soluzione per gli ebrei in Tripolitania è assai più difficile. Anzitutto sono più numerosi; in secondo luogo il loro potere economico è notevolmente maggiore. La concentrazione di questi ebrei potrebbe provocare una crisi economica creando una situazione intollerabile. Perciò abbiamo deciso per il momento d'evitare l'esecuzione del piano di trasferimento degli ebrei tripolitani in Italia…Comunque, non vi è dubbio che al momento giusto il problema degli ebrei verrà regolato anche in Tripolitania

* * *

Ottobre 2004. Giado, sull'altipiano a sud di Tripoli. Il filo spinato che circondava il perimetro del campo è scomparso da tempo, un bulldozer giallo, incrostato di sabbia, stava demolendo gli ultimi edifici, mattoni e pareti rossi come la terra. Restavano ricordi e fantasmi, mi assicurava l'anziano libico che mi guidava nella mia prima visita. Khalifa Massoud Eidoudi, passo svelto, stretta di mano forte, voce sicura come la memoria, anno di nascita 1914, raccontava:

All'inizio li portarono dalla Cirenaica, li accusavano di tradimento, di complottare con gli inglesi contro gli italiani e i tedeschi, poi arrivarono anche altri arabi yehudi.

Arabi ebrei, li chiama.

Non toccarono gli ebrei di qua, non quelli dei villaggi sul Gebel. Gente come noi. Vestiti come noi. Parlavano come noi. Vivevano come noi. Molti ebrei della Cirenaica, però, furono mandati proprio nei villaggi dei dintorni, nelle caserme vicine alle altre comunità ebraiche, perché il campo di Giado non bastava a contenerli tutti. E forse c'erano anche altri motivi. Forse la gente, pagando qualcosa ai fascisti o a qualche capo degli ebrei, riusciva a evitare il campo e a farsi mandare presso altri ebrei. Non sono sicuro. Non ero qui, in quei mesi. Combattevo con gli italiani. Mio fratello fu ucciso a Sidi Barani. Io fui fatto prigioniero e rimasi quattro anni in un campo degli inglesi al Cairo. Quando sono tornato a casa, qui a Giado, gli ebrei non c'erano più. Le loro tracce erano rimaste giusto nel camposanto. Tombe fresche, la terra spostata la si riconosce dal colore, tante.

Dovevano essere stati terribili quei lunghi mesi nel campo e non soltanto dal punto di vista materiale, delle condizioni di vita, delle malattie, delle angherie che comunque poco avevano a confronto con quello che negli stessi anni e negli stessi mesi stava succedendo nei campi allestiti dai nazisti in Europa. L'impatto psicologico per i più colti e abbienti degli ebrei trascinati fuori dalle loro case in Cirenaica e trasportati come bestiame sul Gebel doveva essere stato, invece, altrettanto pesante. Questi ebrei libici, che avevano guardato all'Italia come loro seconda, poi prima patria, che avevano imparato e insegnato l'italiano ai loro figli, che avevano tanto contribuito all'impresa coloniale, sposandola, che avevano in gran parte aderito al fascismo con lo stesso impegno di una parte della comunità ebraica italiana, si sentirono improvvisamente traditi. Quando Mussolini, il Duce, visitò Bengasi e una parte dell'hara, il ghetto, di Tripoli e anche Barce, fu accolto con ghirlande di fiori, con metri e metri di tappeti e stoffe pregiate distese nelle vie, con bambini e bambine inneggianti e plaudenti. Dalla Comunità di Tripoli, il leader dell'Italia fascista ebbe in dono una chanukkia d'oro massiccio. "A Benito Mussolini gli ebrei di Tripoli con profonda riconoscenza e devozione", era scritto sul tradizionale candelabro.

Ho trovato negli archivi della comunità ebraica francese, una lettera mandata a Parigi da quella tripolina per descrivere, con toni trionfalistici la visita di Mussolini e la sua accoglienza. Ma è sufficiente leggere quanto pubblicato su "Israel", giornale della comunità, per capire quanto il rapporto con il Duce era considerato importante.

«E' opinione anche di personalità dello stesso seguito del Duce che l'accoglienza fatta dagli ebrei di Tripoli sia una fra le più importanti tributategli in questo trionfale viaggio nell'Africa italiana, il cui ricordo rimarrà vivo nella memoria della nostra popolazione. Tutti hanno avuto la sensazione che non solo una nuova era ma una nuova storia incomincia per queste terre e per tutti i suoi abitanti, senza distinzione di razza e di religione. Alla nuova epoca di lavoro, di pace e di valorizzazione verrà impresso un ritmo ancora più celere e più intenso e gli ebrei della Libia contribuiranno con il loro ingegno e la loro attività a tale opera di civiltà e di progresso ed all'affermazione dell'Impero d'Italia nel Mediterraneo e nel mondo

* * *

Moshe Saban è nato a Bengasi nel 1930. Aveva dodici anni quando fu portato a Giado con i genitori dalla capitale della Cirenaica. Molte delle sue parole assomigliano a quelle di altri intervistati. Il viaggio da Bengasi, il tormento di quelle lunghe giornate di viaggio. Ricordi di allora ma anche memorie ricostruite negli anni successivi quando, come è normale, ci si scambia le esperienze con gli altri coetanei sopravvissuti e si cerca di dare un senso ciò che affiora dal passato.

Come vi tenevate puliti nel campo?
Era terribile. E' così che ci siamo ammalati, tutte quelle infezioni e il tifo. Ricordo di essermi tolta la maglietta e di aver visto le cimici, grandi la metà di una zanzara, che strisciavano sul mio corpo. La sera, verso le 19 quando cominciava a scendere il buio, eravamo costretti ad addormentarci. L'ufficiale entrava con una frusta e guai a chi continuava a parlare o faceva altri rumori. "Asini", "cani", gridava, sbraitava, in italiano. Bestemmiava. Andava da una baracca all'altra per controllare chi aveva la febbre e portava i malati in ospedale. Chi lasciava la famiglia e andava in ospedale sapeva che non sarebbe mai più tornato.

Perché? Cosa succedeva?
Non venivano curati. Le loro vite erano finite.

Hai visto i morti, i corpi trascinati via dall'ospedale?
Certo.

Cosa facevano con i corpi?
C'era una montagna dove dicevano che una volta, tanti anni prima, c'era un cimitero ebraico. Qualcuno ha spaccato e spostato le pietre. Ha trovato il cadavere di un ebreo con la barba e i tallit (è l'indumento indossato per la preghiera, nda), e così cominciarono a seppellire i morti, nuovi, i nostri, nella stessa zona. Li seppellivano praticamente nella roccia, la terra non era sabbiosa, eravamo sulla montagna e la montagna era rocciosa, sassosa. Non era facile scavare le fosse. La gente lavorava un giorno intero e alla fine riusciva a seppellire dieci corpi. Dieci in un solo giorno, e la storia andava avanti così, giorno dopo giorno.

Chi lo faceva, chi scavava, chi seppelliva i morti?
Volontari.

Dal campo?
Certo, lo facevamo noi. Lo faceva chiunque fosse in grado di fare. Chi non era malato, chi era ancora in forze.

E Ofek, altro testimone, spiega con toni più drammatici. Quei momenti gli sono rimasti nella memoria, ogni particolare, e non nasconde la sua rabbia:

Una ventina di giorni prima della vittoria britannica, assistemmo a una giornata nera. Io ero in piedi in cima alla collina dell'ospedale nel campo e vidi molti

ebrei raccolti intorno alla bandiera. Chiesi al comandante cosa stava succedendo e, con un tono tranquillo, come se fosse una sciocchezza, mi disse che sarebbe stata una brutta giornata per noi. Aveva ricevuto l'ordine di ucciderci tutti. Gli chiesi dei 480 malati in ospedale, tanti c'erano in quel momento, e disse che tutti sarebbero stati fatti scendere nello scantinato e bruciati. Cominciai a tremare. Sparati, bruciati! Abbiamo detto le nostre preghiere.
Lasciai la collina e vidi un poliziotto tirare rav Yosef Gezen. Il poliziotto aveva trascinato il rabbino Yosef, che era avvolto nel suo talit, . E lo stava trascinando verso il centro del campo. Gridava: 'Questo è il momento per uccidere. Non per pregare'.
Masse di ebrei stavano lì a piangere. Gli agenti di polizia, i soldati, stavano sui tetti con sguardi satanici sui loro volti. Erano pronti a ucciderci tutti, uomini, donne e bambini. Pregavano, si aspettavano di morire da un momento all'altro.
E' difficile per me discutere di questi momenti.
Dalle otto alle undici siamo rimasti sotto il cielo, affamati, assetati e aspettavamo la morte…. aspettavamo la telefonata di conferma dal comandante militare. Alle undici in punto il telefonò squillò. Eravamo salvi. Ordinò a tutti i soldati e guardiani di lasciare il campo immediatamente, di lasciarci stare, di non ucciderci. Ma non se ne andarono subito. Gli ufficiali del campo erano molto frustrati per come stavano andando le cose e ci ordinarono di spazzare il campo. Rav Gezin, uno dei rabbini, fu costretto a spazzare per terra con la sua barba. Credetemi, pulimmo per terra e ci guardavamo negli occhi per convincerci che eravamo ancora vivi
.

Quello che restava del campo di Giado (dopo la guerra, le baracche sono state utilizzate per una scuola per insegnanti) è stato completamente demolito. Al suo posto, di fronte a una vecchia fortezza turca e poi italiana, si è allargato il mercato e il posteggio delle auto, nell'attesa, forse, di costruire qualcosa di moderno. L'unico ricordo di quanto accadde sul Gebel in quegli anni di guerra, è il cimitero, un vallone anonimo dove le tombe sono coperte da pietre e sterpi e, dopo la stagione invernale delle piogge, fiori gialli e viola. Duemilaseicento ebrei, più o meno, furono internati a Giado e di questi quasi seicento morirono per maltrattamenti, malattie, tifo e febbre tifoidea, fame. Uomini, donne e tanti bambini di cui, però, non esiste un elenco dei nomi.
Non erano le uniche vittime dell'Olocausto in terra libica. Cinquecento, ebrei libici, gente con passaporto anche britannico venuta nei secoli precedenti da Gibilterra e, dunque, considerati nemici dal regime fascista e "merce di scambio" dai suoi alleati nazisti, furono deportati in altri campi in Italia (Civitella del Tronto e Bagno) e in seguito a Bergen-Belsen e Biberach in Germania e un campo a Innsbruck in Austria. Non tutti tornarono. Herzl Regginino, per nominarne uno soltanto, aveva otto anni all'epoca. Fu tra gli ebrei libici con passaporto britannico spediti a Bergen-Belsen. Ricorda il giorno in cui fu ucciso suo fratello. Era inverno, la temperatura sottozero.

Per troppi anni queste storie sono rimaste sepolte negli archivi e nella memoria di chi, per pudore o perché scoraggiato, le aveva accantonate. All'epoca del processo Eichman, una richiesta di inserire nell'atto d'accusa anche le sofferenze degli ebrei nordafricani fu respinta e soltanto negli ultimi anni, i figli dei sopravvissuti hanno cominciato a parlare.


(Lettera 22, 3 febbraio 2007)






4. UN PROGETTO DI REINSERIMENTO PER GIOVANI ISRAELIANI




Vengono da S.Giovanni D'Acri, da Jaffa e da Addis Abeba. Ragazzi provenienti da case rovinate e da un ambiente che li ha delusi, stanno ora correndo verso la cima. Settanta protégés, teen-agers a rischio, fanno parte del Progetto Sportivo Hadassa Neurim. Quest'anno hanno già vinto 93 medaglie, e gli scaffali dei loro alloggi trabboccano di trofei. Non hanno intenzione di lasciar perdere adesso, almeno non prima delle Olimpiadi.

da "Maariv" 12 gennaio 2007

Hadassa Neurim è uno dei quattro Villaggi della Gioventù dell'Agenzia Ebraica, sostenuto dal Keren Hayesod

I campioni di Hadassa Neurim sono alti, forti ed agili – ed ascoltano attentamente il preside. Non vogliono perdersi una parola di quello che dice. Vestiti nelle tute sportive tutte uguali, donate proprio questa settimana da una grande azienda di attrezzatura sportiva, sembrano un gruppo di soldati disciplinati pronti per la battaglia. Nessuno di loro batte un ciglio, quando il preside Nachum Katz mi dice che solo i ragazzi definiti "Teen-agers a rischio" sono ammessi al programma sportivo. In questo modo, senza far ricorso a tutta la falsa politica degli adulti, getta loro in faccia la verità. Sa che questo è il modo per renderli forti, per alzare la loro bassa opinione di sé, che si sono portati da S.Giovanni D'Acri, da Jaffa, da Kiriyat Shmona o da qualche altro quartiere povero del paese.
 
"I teen-agers a rischio sono ragazzi che non sognano"

Sono arrivati con brutti voti, con grave mancanza di affetto e di stima di sé, con la sensazione permanente di essere denutriti e con l'assenza di una mano che li guidasse. Se non avessero trovato la loro strada fino a qui, probabilmente avrebbero preso a girare per le strade. Stanno ad ascoltare Katz, mentre mi spiega cosa sono i teen-agers a rischio, aggiungendo che, se lo Stato non avesse fatto niente per aiutarli "Sarebbero potuti diventare un pericolo per se stessi o per la società". Un ragazzo fa cenno di sì, quando Katz aggiunge che "I teen-agers a rischio sono ragazzi che non sognano", mentre un altro sorride quando lui mi manda alle loro camere a "Vedere le fotografie dei campioni, appese al muro. Questi ragazzi sono concentrati. Sanno quanti centimetri devono saltare al prossimo tentativo, per essere come i loro campioni".
Ognuno di loro partecipa da dieci a quindici campionati nazionali ogni anno. Le competizioni richiedono immensa concentrazione e straordinaria forza mentale, capacità che i bambini generalmente acquisiscono dai genitori, o da qualche altro adulto prossimo e responsabile. Ma nel loro caso è molto raro trovare genitori od altri membri della famiglia, per la semplice ragione che essi hanno difficoltà ad arrivare fino a qui. Il viaggio è costoso, fa perdere loro un giorno di lavoro, e sembra loro quasi una cosa insormontabile, alla luce dei loro duri stenti quotidiani.
 
"Per la prima volta in vita mia ho avuto la sensazione di valere qualcosa"

Gadi Ochayon, studente all'ultima classe delle superiori, campione della squadra cadetti israeliana nei 100 metri piani e nel salto in lungo e componente della staffetta 4x100 giovanile, ha già partecipato ad innumerevoli competizioni in tutto il mondo. Spera di raggiungere i requisiti per partecipare al Campionato Europeo Giovanile, che si terrà quest'anno in Olanda. Ochayon è cresciuto a S. Giovanni D'Acri, con quattro fratelli e genitori che lavorano dalla mattina alla sera, per dar loro da mangiare. Sua madre lavora come donna delle pulizie in una fabbrica locale e suo padre lavora per la Chevra Kadisha [agenzia di pompe funebri]. "Ero un bravo ragazzo, ma non ho studiato come avrei dovuto", dice con un sorriso. I suoi muscoli entrano in azione appena arriva in pista, ma fuori dello stadio è un ragazzo dolce e calmo.  
"Il mio quartiere è pieno di criminali. Non è facile cavarsela da soli. Da bambino sapevo che i miei genitori non avevano una vita facile, perciò ho provato a chiedere il meno  possibile". Anche quando volle aggregarsi al programma sportivo della scuola locale, non osò chiedere ai suoi genitori i 150 NIS (37 dollari). Quando l'allenatore si rese conto del problema, avvicinò il padre di Gadi e lo esonerò dal pagamento. "Sapevo di avere un doppio dovere, perché mi avevano fatto un favore. Ho trascurato il lavoro scolastico, ma non ho osato trascurare il mio dovere nel programma sportivo. Ero sempre lì in orario e non sono mai mancato ad un allenamento". 
Ochayon ha portato la sua scuola di S. Giovanni D'Acri alla vittoria del campionato nazionale di atletica e, durante la competizione, ha partecipato ad ogni gara possibile: 100 metri piani, staffetta, salto in lungo e salto in alto. "C'erano tutti a congratularsi con me, il preside, gli insegnanti e gli alunni. Per la prima volta in vita mia ho avuto la sensazione di valere qualcosa". Durante la competizione uno degli allenatori ha avvicinato Ochayon e gli ha proposto di trasferirsi alla scuola di Hadassah Neurim. "All'inizio è stato duro", si ricorda, "Avevo nostalgia di casa e non capivo cosa ci stessi a fare là. Me ne sono quasi andato via per tornare a S. Giovanni D'Acri".
Una gran parte dello stanziamento del Villaggio della Gioventù, proveniente dall'Agenzia Ebraica e dalla Hadassah Israel è impegnato nel programma sportivo. Circa 207 ragazzi e ragazze degli ultimi quattro anni delle superiori, vivono negli alloggi per studenti, insieme ad altri trecento alunni non residenti. Circa la metà degli alunni del collegio prende parte al progetto sportivo. Condotto da Arkadi Skaliar (60), lui stesso ex campione russo di corsa. Il progetto va avanti da dieci anni e mira a tirare su e ad allenare atleti isareliani, attualmente definiti teen-agers a rischio. 
Due anni fa Skaliar ha fatto un viaggio in Etiopia insieme a Mukat, un Etiope immigrato, già alunno di Hadassah Neurim, diventato istruttore. Come rappresentanti dell'Associazione di Atletica, sono andati ad Addis Abeba, dove hanno incontrato decine di ragazzi. Uno di loro era Ilak Blai, di 18 anni. "I nostri vicini cristiani, ad Addis Abeba, avevano la televisione. A volte ci permettevano di venire a guardare qualche programma. Una sera ho visto la maratona di Pechino. Fu la prima volta che ho visto un rappresentante dell'Etiopia, Kenenisa Bekele. Correva i 5.000 ed i 10.000 ed ha battuto un record. Ha vinto una medaglia d'oro e, quando l'ho visto, ho saputo cosa volevo realizzare".
            La famiglia di Ilak , insieme ad un'altra, è arrivata in Israele alla fine del 2005. "é molto dura", dice Ilak. Ha ancora difficoltà a parlare Ebraico e chiede che un amico sieda accanto a lui durante l'intervista. Eppure ha già scritto un componimento al computer su Kenenisa Bekele. Dice con tristezza di come è stato deluso di essere arrivato solo al settimo posto  ai 5.000 metri nel campionato israeliano delle scuole. Da allora ha vinto la medaglia di bronzo nel campionato israeliano giovanile di corsa campestre. Non smette di sognare  Kenenisa Bekele.

Tutto in Famiglia

Non è dato nulla per scontato in questo habitat che, quest'anno soltanto, ha vinto 93 medaglie nazionali: 30 d'oro, 38 d'argento ed il resto di bronzo. Senza contare i vari titoli di campione delle scuole superiori. Non c'è più posto per altri trofei. Essi riempiono tutti gli scaffali all'ingresso di ogni unità familiare – il sistema di abitazione inaugurato da Nachum Katz, che ha sostituito quello di coabitazione tra coetanei, in vige nella maggior parte degli alloggi per studenti. Katz ha accettato l'incarico, quando gliene è stata offerta l'opportunità da chi era stato il suo comandante nell'Esercito Israeliano, il Generale di divisione (in ritiro) Yoram Yair, che funge volontariamente da presidente del comitato esecutivo del Villaggio.
Hadassah Neurim è stato chiamato "La nave ammiraglia dell'Aliyat Hanoar [immigrazione giovanile]", e vanta di un magnifico passato: il villaggio e la scuola hanno vinto due volte il Premio ufficiale dell'Educazione .
A Marzo del 2003, circa sei settimane dopo aver assunto le sue funzioni, Katz decise di adottare un nuovo sistema di abitazione – quello delle unità familiari. Ogni unità familiare consiste in un gruppo di dieci-quindici ragazzi, che vivono insieme ad una famiglia a cui sono affidati, genitori e loro figli, che hanno funzioni di consiglieri. Ragazzi e ragazze di età differente vivono nella stessa casa, insieme ad una famiglia, che vive in una parte della casa separata da una porta che si apre nel salotto, una sala da pranzo comune e le camere da letto degli alunni.

L'Appetito di Quindici Teen-agers

Questa mattina fanno le frittelle nella grande cucina. Gli alunni fanno colazione e pranzo insieme ai consiglieri nelle loro unità familiari. I prodotti alimentari provengono dalla cucina centrale, ed il grande frigorifero non rimane chiuso a lungo, proprio come in tutte le case dove ci sono quindici teen-agers che fanno dello sport...
Katz spiega che l'immacolata pulizia delle unità d'abitazione è il risultato del lavoro di gruppo. "Mi sono appassionato all'idea dell'unità familiare, perché era esattamante quello che mancava ad Hadassh Neurim - un'educazione in alloggi per studenti che sia divisa in gruppi intimi e che dia ai ragazzi amore e calore, quiete e tranquillità, limiti chiari, ma personali e, soprattutto, il tocco personale della famiglia.
"Il fine principale è stato quello di conservare la sensazione di famiglia negli anni, e di creare un ambiente il più possibile stabile. Il nucleo familiare resta lo stesso. L'unico cambiamento è che chi finisce le scuole lascia l'unità e si arruola nell'esercito, mentre nuovi alunni si aggregao all'inizio dell'anno scolastico. Gli alunni più grandi hanno un ruolo attivo nell'aiutare i più giovani di loro a trovare il loro posto nelle loro nuove famiglie. Questo processo conferisce anche ai ragazzi più grandi il senso di disciplina e di responsabilità".
Secondo Katz, l'uso della droga è stato spazzato via. "I ragazzi sanno che non devono fare i furbi. Firmano un accordo che ci consente di far loro delle analisi, se ne sentiamo il bisogno. Un alunno che rifiuti di collaborare è immediatamente espulso dagli alloggi. Abbiamo adottato una politica di "Tolleranza Zero", e la cosa si è dimostrata giusta".
Quando un alunno si comporta male, lo obblighiamo a chiedere scusa di fronte a tutti gli altri alunni dell'alloggio. "C'è stato un alunno che ha rubato un capo di vestiario da un negozio vicino. é stato condannato a prestare Servizio di Comunità in seno al Villaggio, e dopo ha dovuto lavorare insieme all'addetto alla sicurezza del negozio. I ragazzi sanno che noi li amiamo e che agiamo per il loro meglio. Questa è la ragione per cui collaborano ed amano stare qui. L'ultimo giorno di scuola si vestono come principi e principesse e porgono dei mazzi di fiori agli insegnanti".
Anatoly Meinenko  ha finito le scuole l'anno scorso. Attualmente fa il servizio militare, come atleta di rilievo. é il campione giovanile israeliano nel salto in lungo ed è arrivato al terzo posto nel campionato per gli adulti. Ogni giorno torna a casa, nella sua camera dell'alloggio. Continua ad essere pienamente sostenuto nelle sue attività sportive e non si scorda un solo momento da dove è venuto e che sin dalla tenera infanzia ha conosciuto soltanto privazioni. La sua alta statura e la sua faccia sicura di sé non fanno trapelare gli stenti che ha sofferto da bambino, girando per le strade e mettendosi nei guai con la legge. Poi gli capitò di unirsi ad un programma sportivo pomeridiano della sua scuola ad Afula. Non aveva mai osato sognare, ma, dal momento che ha cominciato, ha adottato i costumi più nobili: "Volevo essere come Carl Lewis. Oggi  posso dirlo a voce alta, perchè so che c'è qualcuno che crede in me e che mi aiuterà a raggiungere le mie mete più ambite".

Il programma di Hadassa Neurim alleva giovani atleti israeliani

Il Programma di Hadassah Neurim per atleti di rilievo è cominciato nel 1997, quando il preside di allora invitò Arkadi Skaliar, ex campione di corsa, per vedere il potenziale di questi ragazzi. Arkadi non potè resistere e sviluppò un programma per esercitare ed allenare i ragazzi che avevano talento in varie discipline sportive. Skaliar e Nachum Katz unirono le loro forze e, negli ultimi sei anni, sono stati la forza motrice dietro il programma.
Il progetto è sostenuto dall'Agenzia Ebraica, dall'Organizzazione Donne Sioniste Hadassh e dalla Huston Federation. L'Agenzia Ebraica e la Federazione danno i fondi per le spese correnti del programma, mentre un nuovo stadio, del costo di 750.000 dollari è in costruzione, grazie ai fondi dell'Organizzazione Donne Sioniste Hadassah. Lo stadio possiede una delle migliori piste di atletica d'Israele e strutture ed attrezzature per l'allenamento e le gare nazionali.  
Hadassah Neurim è stato fondato nel 1948 come base delle retrovie per il Villaggio della Gioventù di Ben Shemen che, (in accordo al Piano di Spartizione) sarebbe dovuto essere al di là del confine. Quando gli Inglesi se ne andarono, l'Agenzia Ebraica e l'Organizzazione Donne Sioniste Hadassah si insediarono nella precedente zona britannica e, nei suoi primi anni, il Villaggio fu chiamato Ben Shemen B. Le due organizzazioni trasformarono Hadassah Neurim in un'organizzazione filantropica, usata all'inizio come rifugio per i giovani sopravvissuti all'olocausto, arrivati in Israele senza famiglia. Col tempo è stato usato come casa per bambini immigrati e, più tardi, lo Stato ha cambiato la sua destinazione a centro educativo e terapeutico per teen-agers a rischio.
 
(Keren Hayesod, 2 febbraio 2007)





5. NEI LABORATORI DI RICERCA ISRAELIANI




Rimboschimento veloce contro il disboscamento

Ogni anno nel mondo viene distrutta parte del patrimonio arboreo. Dal momento che gli alberi crescono lentamente, il rimboschimento ha tempi molto lunghi.

Ogni anno vengono tagliate parti del patrimonio arboreo per una superficie pari a quella del Portogallo. Inoltre, soprattutto nell'Asia sudorientale, molte superfici boschive vengono dissodate e bruciate per ricavare superfici coltivabili. Il disboscamento in tutto il mondo non solo comporta la distruzione dei «polmoni verdi», del nostro pianeta, ma contribuisce anche all'aumento dell'effetto serra, per mezzo del quale si ingrandisce il buco dell'ozono e comincia a farsi sentire un crescente aumento globale delle temperature.
A livello mondiale, gli scienziati concordano che si debbano prendere dei provvedimenti in fretta per non arrivare ad una catastrofe ecologica. Ricercatori israeliani cercano ora di trovare delle contromisure, accelerando la crescita degli alberi. In questo modo, nonostante ulteriori dissodamenti, può essere garantito un rimboschimento più veloce.
La tecnologia della ditta israeliana «CBD-Tech», che ha sede a Rehovoth, si basa su un gene chiamato «Cellulose Binding Domain». Il gene è stato scoperto dal professor Oded Shoseyov della Facoltà di Agraria dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Inizialmente, l'impresa si occupava della separazione biologica di molecole per l'industria farmaceutica. Alcuni anni fa c'è stato un cambiamento nel fulcro della ricerca e da allora la ditta si concentra sulla modificazione della crescita di piante in generale e di alberi in particolare. I suoi studi mostrano che il suddetto gene accelera fortemente la crescita degli alberi.
Il gene CBD viene impiantato in piante giovani. Del processo di introduzione si fanno carico dei batteri nei quali questo gene non penetra, così che restano indietro soltanto cellule con CBD. Queste cellule producono nuove proteine, che aumentano la crescita di parecchie centinaia di punti percentuali. Il dottor Stanley Hirsch, direttore generale della ditta, ha spiegato che i tentativi hanno dato risultati promettenti. Da due anni la ditta osserva pioppi nei quali è stato immesso il gene. Durante il tempo di osservazione, gli alberi trattati sono cresciuti quattro volte più in fretta dei pioppi non trattati. I primi risultati dei test fanno inoltre pensare ad un decisivo miglioramento della qualità del legno. Solo recentemente, la ditta ha firmato un contratto con un fabbricante di carta brasiliano che dispone di un patrimonio boschivo di 3000 chilometri quadrati. Il partner contrattuale metterà a disposizione della ditta «CBD-Tech» giovani piante che saranno trattate con il gene. Questi primi tentativi in grande stile vengono eseguiti con alberi di eucalipto. Il dottor Hirsch ha affermato che questo genere di alberi vive in media sette anni e deve raggiungere un'altezza di 20 metri per essere utilizzabile per la produzione di carta. Gli alberi trattati con il gene CBD potrebbero essere tagliati già dopo tre anni. ZL

(Notizie da Israele, dicembre 2006 - http://www.cdmitalia.org/)





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