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Notizie su Israele 381 - 7 marzo 2007 |
1. Inaccettabile il riconoscimento implicito di Israele
2. L'informazione su Israele in Italia 3. Un quotidiano tedesco fa il «test kippà» 4. Desiderio di pace di un ebreo laico 5. Radiografia della comunità ebraica francese 6. Il Sinedrio progetta un sacrificio per Pasqua 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. INACCETTABILE IL RICONOSCIMENTO IMPLICITO DI ISRAELE
Non si possono trovare scorciatoie, secondo Israele, alle tre condizioni poste dal Quartetto (Usa, Russia,Onu e Ue) al nuovo Governo di Unita' palestinese nato dall'accordo della Mecca: stop alla violenza, riconoscimento pieno di Israele e accettazione di tutti gli accordi gia' firmati a livello internazionale. 'Israele - ha detto l'Ambasciatore - e' l'unico stato al mondo la cui esistenza e' minacciata da Iran, Hezbollah e Fatah'.'Il passo compiuto tra Hamas e Fatah per fermare lo spargimento di sangue non e' abbastanza perche' non hanno parlato di smettere di uccidere gli ebrei, ma solamente di smettere di uccidere loro stessi', ha osservato ancora l'ambasciatore Meir. 'Questo Governo palestinese - ha aggiunto - non riconoscera' lo Stato di Israele e, di conseguenza, sara' impossibile instaurare la pace perche' noi non ci siederemo al tavolo dei negoziati con chi invoca la nostra distruzione'. 'Dopo l'accordo - ha proseguito il diplomatico - Hamas e Fatah hanno dichiarato che vogliono abolire lo Stato di Israele; non vogliono la soluzione dei due Stati, vogliono la soluzione di uno Stato'. 'Se veramente si vuole la pace nella regione - e' la linea di Israele - dovremmo incoraggiare i moderati e non gli estremisti. Perche' Hamas e' uno dei gruppi piu' estremisti che esistono al mondo. Andare in qualsiasi direzione che cambi le tre condizioni poste dal Quartetto di fatto - ha insistito l'ambasciatore Meir - vuol dire sostenere gli estremisti piuttosto che i moderati'. 'Ogni volta che c'e' una difficolta' con la posizione della comunita' internazionale, ogni volta che c'e' una difficolta' da parte palestinese di ottemperare alle richieste avanzate immediatamente si levano voci dalla comunita' internazionale che mettono l'onere su Israele', ha osservato infine l'ambasciatore. (Articolo 21, 6 marzo 2007) 2. L'INFORMAZIONE SU ISRAELE IN ITALIA "Due pesi due misure, l'informazione su Israele in Italia" dI Federico Steinhaus Nei giorni dal 2 al 4 marzo si è svolto a Roma un convegno organizzato dalla Federazione delle Associazioni Italia-Israele e da Informazione Corretta per mettere a fuoco le modalità con le quali i nostri media deformano le notizie su Israele. Sono stati tre giorni molto intensi, nei quali si sono susseguiti interventi di esperti e di addetti ai lavori di chiara fama e grande competenza. Ognuno dei relatori ha messo a fuoco un argomento specifico ed alla fine l'impressione è stata che per tre giorni si sia sempre parlato della stessa cosa la disinformazione, l'ignoranza, la malafede ma esaminandola da diverse angolazioni e collocandola in diversi contesti culturali e politici. Quel che mi è parso particolarmente stimolante è che si sia trattato di un convegno che con un neologismo preso a prestito dall'informatica si può definire interattivo, in cui cioè dal pubblico spesso qualcuno interrompeva il relatore nel bel mezzo della sua analisi per contestare un punto, fare un commento, aggiungere un'informazione. Il limite di un convegno che ha le caratteristiche del seminario di approfondimento sta nel fatto che alla fine esso si risolve in un dialogo fra persone che già a priori hanno opinioni e convincimenti simili; in questo caso, analizzando quanto circola in Italia ed in occidente su Israele, i relatori ed il pubblico hanno scoperto di condividere la medesima angoscia. Già, perché proprio di angoscia si è parlato più di una volta per definire lo stato d'animo di quanti analizzano giorno dopo giorno i nostri media e le esternazioni dei nostri politici in riferimento ad Israele ed al Medio Oriente. Che si tratti dei responsabili delle Associazioni Italia-Israele , dei giornalisti, dei semplici lettori di giornali o dei dirigenti di istituzioni ebraiche, tutti hanno mostrato di condividere una preoccupazione ed una frustrazione che sfociano in un sentimento di impotenza dinanzi al dilagare delle imbecillità e delle cattiverie che si leggono e sentono a proposito di Israele e dei suoi rapporti col mondo arabo-islamico. Il quadro internazionale, visto dall'Italia, è tale da giustificare profondo pessimismo e talora anche disgusto quando si analizza l'atteggiamento di una parte della nostra classe dirigente e dei nostri media verso quella che è una realtà certamente molto complessa. Molti dei presenti hanno sottolineato anche che il quadro politico della regione è tale da lasciare poche alternative a quelle che sono scelte di campo nelle quali si contrappongono visioni dettate o dal rigore etico che pone al primo posto libertà e giustizia o al contrario dai piccoli e grandi interessi mercenari che si configurano nel denaro e nel potere politico. Non è manicheismo voler indicare una forbice così netta e drastica, senza quasi soluzioni intermedie se non a livello di palliativi e rinvii. Magdi Allam , che con ammirevole coraggio ha da tempo fatto una scelta di campo fondata solamente sull'imperativo etico, ha ribadito che si tratta di scegliere fra la cultura della vita e quella della morte. Carlo Panella è stato ancor più pessimista nella sua analisi che non lascia filtrare neppure uno spiraglio di luce e di speranza. Tutti, chi più marcatamente chi con maggiori sfumature, hanno però detto o fatto capire la stessa cosa: la politica occidentale deve fare delle scelte dolorose e difficili e deve farle con la piena consapevolezza che esse saranno determinanti. Israele è solo il simbolo, il capro espiatorio quasi, di una ben diversa posta in gioco; chi pensa di sacrificare Israele sull'altare della pace universale, quale prezzo per conseguirla senza dover cedere su altro, commette un errore grave ed irreparabile. Si è parlato molto di politica ma ancor più di pregiudizio e di ignoranza. I media hanno abdicato al loro dovere istituzionale e morale di fornire elementi di conoscenza e di giudizio quanto più possibile rispondenti alla verità per cedere alle simpatie ed antipatie personali dei giornalisti e, come ha sottolineato Angelo Pezzana, agli interessi dei loro editori che non sono mai editori puri ma finanzieri, partiti politici, industriali. Così facendo essi hanno innescato ed alimentano ogni giorno non solo la disinformazione e la faziosità ma anche il pregiudizio e l'ostilità preconcetta nei confronti di uno stato che invece è lo ha evidenziato efficacemente Maurizio Molinari - una democrazia parlamentare di stampo anglosassone, uno stato di diritto nel senso più autentico del termine, una realtà culturale e sociale ricca e complessa. Con questo convegno che costituisce la prima "uscita allo scoperto" di Informazione Corretta si è avuta la prova del potere reale che questo sito di monitoraggio dell'informazione può esercitare realmente o potenzialmente su chi fa informazione per mestiere. Che ne voglia tener conto o meno, il giornalista sa che scrivendo su Israele il giorno dopo vi sarà chi lo controlla ed eventualmente confuta. In realtà diverse dalla nostra, in cui la stampa è realmente libera da condizionamenti, come ad esempio negli Stati Uniti, un sito di monitoraggio ha la capacità reale di modificare il modo di fare informazione e riesce a costringere perfino testate illustri ed agenzie di primaria importanza come la Reuters a presentare le proprie scuse ammettendo le loro malefatte. Qui no. Ma forse la prossima volta Informazione Corretta riuscirà ad organizzare un convegno come questo in cui il pubblico sarà composto da addetti ai lavori pronti a guardarsi allo specchio e non solo da amici che la pensano come noi. (Informazione Corretta, 6 marzo 2007) * * *
Articolo di Angelo Pezzana Che l'informazione su Israele in Italia sia pesantemente soggetta ad un doppio standard di valutazione non è una novità, perchè è diretta conseguenza della politica estera dei governi che si sono avvicendati dal dopoguerra ad oggi, con la sola eccezione del quinquennio berlusconiano. E la maggior parte dei nostri giornali, sia quelli di ispirazione governativa che di opposizione, si sono sempre rivelati d'accordo nella scelta filo araba. L'ha confermato il convegno romano della scorsa settimana, che non a caso era intitolato "Due pesi due misure", organizzato dalla Federazione delle Associazioni Italia-Israele, nel quale è stata di fatto messa sotto osservazione la disinformazione che contraddistingue gran parte dei nostri media. Perché l'Europa, e quindi non solo il nostro paese, non riesce a capire che la difesa delle ragioni di Israele è vitale per la sua stessa sopravvivenza? Perché invece di preoccuparci delle minacce dell'Iran, non solo verso Israele, ma contro l'intero mondo libero e democratico, ne sottovalutiamo la pericolosità? Abbiamo dovuto aspettare quarant'anni perché il vero Arafat venisse descritto per quello che era, un gran ladrone oltre a tutto il resto, sommersi da articoli in lode di Mister Palestina inaccettabili da una informazione degna di questo nome, che esaltavano un uomo che ci veniva con ossessione presentato come il Garibaldi dei palestinesi, dedito solo alla ricerca della pace e sottacendone la reale immagine di terrorista. Un'abitudine che continua oggi, con l'analisi sempre benevola delle presunte ragioni di tutte le sigle legate al fondamentalismo islamico, Hamas e Hezbollah in testa. Israele viene sempre presentato in negativo, come quando l'Unione europea, sotto la presidenza Prodi, chiese in un sondaggio qual era il paese che metteva maggiormente in pericolo la pace mondiale, indicando una rosa di nomi fra i quali Israele. Era ovvio, con la domanda posta in quel modo, che l'indicazione andasse automaticamente su Israele, un paese che è vero che da sessant'anni è in guerra, ma per difendere la propria sopravvivenza, e non per aggredire altri Stati. Ma questo particolare è assente nelle analisi della maggior parte dei nostri giornali, interessati soprattutto a mettere lo Stato ebraico sul banco degli accusati. E' stato poi rilevato come il basso profilo, ritenuto finora una virtù, sia del tutto controproducente nella guerra contro chi ti vuole distruggere. Occorre invece chiamare le cose con il loro nome, non come è stato fino ad oggi, quando la parola antisemitismo veniva pronunciata abbassando il tono della voce, temendo quasi che il suo uso fosse non approppriato. C'è voluto Giorgio Napolitano, un ex comunista!, a ricordare quello che noi, con pochi altri, avevamo sempre sostenuto. "Dobbiamo combattere ogni rigurgito di antisemitismo, anche quando si traveste da antisionismo, perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita ieri, della sua sicurezza oggi" ha detto il presidente della Repubblica mentre commemorava il ricordo della Shoah, sdoganando finalmente una parola che d'ora in poi potrà dovrà essere usata senza più alcun timore. Chi è antisionista è antisemita, perché delegittima lo Stato degli ebrei e aiuta, di fatto, chi ne vuole la distruzione. "Ich bin ein berliner", sono un berlinese, aveva detto John F. Kennedy davanti al muro che divideva in due l'Europa, quella libera e democratica da quella comunista. "Anì Israelì", io sono un isrealiano, dobbiamo dire noi oggi, perché è nella salvezza della democrazia israeliana che il mondo occidentale salverà se stesso. (Libero, 6 marzo 2007) 3. UN QUOTIDIANO TEDESCO FA IL «TEST KIPPA'» Passeggiando per Berlino con paura Il presidente della comunità ebraica di Berlino ha invitato i non ebrei a fare il "test kippà". Un redattore del quotidiano "Die Tageszeitung" è andato in giro per Neukölln e Lichtenberg, due quartieri di Berlino, indossando il copricapo ebraico. "Tu ebreo!" Due parole che fanno paura. Quando vengono pronunciate in quel modo, come è avvenuto ieri a mezzogiorno nella Sonnenallee, a Neukölln. Due giovani arabi mi passano vicino sul marciapiede, si girano e uno dei due grida in tono aggressivo: "Tu ebreo!" E poi continuano. Non sono solo - un collega di alta statura e un fotografo mi accompagnano. Non sono ebreo, ma porto in capo una kippà - il copricapo religioso degli ebrei. Un esperimento di non poco conto. Ieri mattina nella riunione della redazione Si discute la proposta del presidente della comunità ebraica di Berlino, Gideon Joffe. Dopo l'attentato incendiario in una scuola materna ebraica in Charlottenburg, ha invitato i non ebrei berlinesi ha indossare per una volta il copricapo ebraico o la stella di Davide, per verificare il livello di antisemitismo. Decidiamo di fare il test, a Neukölln e a Lichtenberg. A Neukölln supponiamo che ci sia antisemitismo arabo-musulmano, a Lichtenberg quello estremista di destra. Condizioni per l'esperimento: un collega mi segue ad una certa distanza per intervenire in caso di necessità e chiamare la polizia. Chissà se ogni ebreo berlinese ha una scorta di protezione quotidiana? A Neukölln la scorta in un primo momento non sembra necessaria. Cominciamo il nostro giro - che prevede un'ora sulla Sonnenallee e un'ora sulla Weitlingstraße di Lichtenberg - partendo dal grande magazzino sulla Hermannplatz. Nessuno fa caso a me e alla mia kippà, che ho preso in prestito da un collega. Sguardi meravigliati Ad una fermata di autobus sulla Sonnenallee qualcosa cambia. A dire il vero, la maggior parte dei passanti non fa nessun caso a me. Ma continuamente mi arrivano sguardi meravigliati - da donne con il velo o uomini arabo-turchi. Proprio amichevoli non sono. Tutto diverso davanti a un bar vicino all'ingresso della moschea. Un uomo mi offre del caffè e mi chiede cortesemente se sono israeliano. "No", rispondo. "Non tutti gli ebrei sono israeliani e non tutti gli israeliani sono ebrei." Racconta di essere stato già diverse volte in pellegrinaggio alla Mecca, e poi rientra nel suo negozio. Poi arrivano i giovani. Passano vicino a me, poi uno si ferma e grida: "Tu ebreo!" Mi piglio un bello spavento, ma presto mi riprendo, perché i due se ne vanno. Solo dopo cinque minuti mi attento a riprendere il mio cammino lungo la strada. In un negozio di frutta e verdura turco compro delle banane; il ragazzo alla cassa contraccambia il mio sorriso, ma la madre, velo in testa, mi lancia uno sguardo sinistro. Mi viene fame. Mi fermo in piedi davanti a un negozio di falafel e guardo attraverso la finestra lo spiedo di carne. Dentro, un giovane barbuto si dà da fare intorno allo spiedo con un lungo coltello. Mi guarda storto. Mi viene paura - e me ne vado subito via. Tiro un respiro di sollievo davanti al supermercato Rudis Reste Rampe. Decido che è meglio tornare da Mc Donald sulla Hermannplatz, perché lì c'è più movimento. Ma gli ebrei di Neukölln dovranno sempre mangiare degli hamburger? Alla stazione Lichtenberg nessuno si interessa a me e alla mia kippà. Anche i tedeschi ubriachi nella taverna della stazione non mi degnano di uno sguardo. Fuori, sulla Weitlingstraße, pur sempre una roccaforte dello scenario di destra, stessa situazione: quasi nessun passante mi nota. Poi però vengono verso di me due giovani con capelli tagliati corti. "Adesso succederà qualcosa", borbotto dentro di me. Infatti, mi guardano sorpresi - e mi passano accanto senza una parola. Cinque metri più avanti uno si volta e dice al suo amico, in modo per me appena percettibile: "Guarda un po', 'n ebreo." Servizio pronto Mi viene sete e mi fermo in piedi davanti a una taverna. Sulla vetrina c'è la pubblicità per un "Germanparty". Lì dentro, non mi fido ad entrare. L'oste mi serve prontamente una coca-cola. Cammino ancora una mezz'ora per Lichtenberg: due volte incontro dei tipi di destra che si voltano a guardarmi, ma non dicono niente. Per il resto, nient'altro. Conclusione dell'esperimento A Neukölln ogni tanto mi sono sentito insicuro, a Lichtenberg mi sono sentito a disagio. In tutte e due le zone, di sera o in strade secondarie, con una kippà in testa io non mi fiderei a girare. (Die Tageszeitung, 4 marzo 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) 4. DESIDERIO DI PACE DI UN EBREO LAICO Se Israele potesse pensare il futuro di David Grossman Testo del discorso tenuto ai diplomatici accreditati in Israele in occasione della Giornata Europea della Memoria durante la cerimonia svoltasi all´istituto "Massuah" di Nethanya, uno dei maggiori centri israeliani di ricerca sulla Shoah. Faccio parte della generazione del primo decennio dopo la Shoah (uso il termine ebraico, piuttosto che quello di Olocausto). Sono nato nel 1954; e come i miei compagni, ho conosciuto i superstiti. Li abbiamo visti, i sopravvissuti della Shoah, li abbiamo sentiti a volte urlare di notte nei loro incubi. Quando trovavamo il coraggio di chiedere ai nostri genitori di raccontarci quelle esperienze, spesso rifiutavano di parlarne. Siamo cresciuti in questo silenzio. Una ventina d´anni dopo, il mio primogenito, che aveva appena tre anni, è tornato dall´asilo sconvolto e mi ha chiesto cos´era la Shoah, chi erano i nazisti, cosa ci avevano fatto e perché lo avevano fatto. E ho scoperto all´improvviso la mia riluttanza a parlarne a mio figlio. Perché mi rendevo conto che una volta esposto alla nozione di quelle atrocità, al paesaggio della crudeltà del genere umano, quel bambino ancora così candido e ingenuo sarebbe stato in qualche modo contaminato, cambiato. Non sarebbe stato mai più lo stesso. E pensavo che mentre altrove, in altre culture, i genitori sono imbarazzati quando devono esporre ai loro figli i fatti della vita, noi qui dobbiamo incominciare dai fatti della morte, così strettamente intrecciati con la nostra vita qui. Farò una brevissima «visita guidata» in quest´area sconvolta da una catastrofe, dove i fatti della vita e i fatti della morte sono legati a doppio filo nella nostra psiche, nel nostro essere ebrei e israeliani. Ricorderò un episodio che mi è stato raccontato una volta da due fratelli nati a Vilnius, in Lituania. Erano bambini durante la Seconda guerra mondiale, e un pomeriggio stavano giocando a calcio con alcuni amici nel cortile della loro scuola, quando improvvisamente ci fu una retata in città, e vennero catturati. Un´ora dopo erano già rinchiusi nel treno che li portava al campo di sterminio. E guardando fuori, attraverso le fessure del vagone videro i loro amici che continuavano a giocare a pallone nel cortile della scuola. Per loro fu l´esperienza cruciale, della quale vollero dare testimonianza, dopo i lunghi anni di sofferenze della Shoah: quest´insulto profondo, e la nozione di quanto fosse facile strapparli al tessuto della vita, alla loro realtà quotidiana. Per me questa storia ha un´eco più vasta. È quasi una parabola della facilità con cui tuttora gli ebrei possono essere sradicati dalle società, dai paesi, dagli Stati in cui sono vissuti, a volte per generazioni. In quei paesi e in quelle società, anche quando riescono ad assimilarsi, in un certo senso rimarranno sempre stranieri, si muoveranno come se fossero perennemente circondati da una linea punteggiata. Per me, la mancanza di fiducia esistenziale è uno dei sintomi tipici della condizione ebraica, da generazioni e forse da millenni; il fatto che noi ebrei non ci sentiamo a casa nostra nel mondo - una sensazione giunta alla sua manifestazione più orrenda al tempo della Shoah. A cinquantanove anni dalla nascita dello Stato di Israele ci rendiamo conto di aver portato anche qui questo senso di incertezza. Benché viviamo da quasi sei decenni nel nostro Stato sovrano, la terra continua a muoversi sotto i nostri piedi. La nostra esistenza non ci è garantita. Lo Stato di Israele è stato fondato per dare una casa e un rifugio al popolo ebraico, ma chiaramente questo non è il miglior rifugio per gli ebrei, non è un luogo ove possano stare al sicuro. Al contrario, spesso vediamo che gli ebrei sono il bersaglio di una violenza incessante, e la nostra esistenza qui è in gioco, forse più che in molti altri luoghi del mondo. Sfortunatamente, Israele non è ancora per noi ciò che avremmo voluto, il luogo in cui ogni ebreo possa sentirsi assolutamente a casa sua, come si sente ciascuno di voi nel proprio paese. Agli israeliani manca tuttora questo senso di tranquillità e di fiducia che dovrebbe poter avere chiunque si trovi veramente a casa propria. Ma prima di parlare di questa casa vorrei soffermarmi sui suoi muri, sui confini del nostro paese. Come sapete, in questi ultimi sessant´anni, dal giorno della nascita dello Stato di Israele, non è mai trascorso un decennio senza che i suoi confini mutassero. Non passerò in rassegna tutte le turbolenze, le guerre e i cambiamenti delle linee di confine tra noi e i nostri vicini; basti dire che questi cambiamenti sono stati incessanti, ovviamente a nord e ad est, dove le frontiere sono più ambigue, ma anche a sud, tra noi e i nostri vicini egiziani. Nella mente degli israeliani, il solo confine stabile è quello occidentale: il mare. E mi colpisce il fatto che per noi, intuitivamente, proprio l´elemento più fluido, più labile e mutevole del paesaggio rappresenti la linea di confine più solida e stabile. Gli israeliani non hanno una nozione inerente, chiara e reale dei loro confini. Vivere così è un po´ come stare in una casa dalle pareti mobili, che vengono spostate continuamente; e non sapere mai di preciso dove finisca il proprio spazio e dove incominci quello altrui. Se uno vive in uno stato d´animo del genere, gli altri hanno sempre la tentazione di invaderlo, e per istinto tenderà all´eccesso di difesa, cioè alle reazioni aggressive. I suoi comportamenti saranno sempre caratterizzati da qualcosa di estremo, di virulento. E sarà incapace di rispondere a una situazione in maniera articolata, di percepirne le sfumature. In un certo senso, Israele sta riproducendo, ricostruendo qui una delle più tenaci anomalie che hanno caratterizzato il popolo ebraico nella diaspora, e la tragedia della sua esistenza negli ultimi duemila anni. L´anomalia di un popolo che vive presso altri popoli, il più delle volte ostili e sospettosi. Le |
linee di demarcazione tra gli ebrei e gli altri popoli sono state il più delle volte problematiche o non del tutto chiare; e ogni contatto rischiava sempre di essere percepito dagli uni e dagli altri come una minaccia, un pericolo di penetrazione in aree di identità sensibili e potenzialmente esplosive. Io sogno il giorno in cui lo Stato di Israele avrà finalmente frontiere stabili, fisse e difendibili, riconosciute dalle Nazioni Unite e dal mondo intero, compresi i paesi arabi, gli Stati Uniti e ovviamente l´Europa. Frontiere fissate con un processo non unilaterale, attraverso negoziati con gli ex nemici e accordi reciproci, e non come sta facendo oggi Israele, con l´imposizione del muro di cui si sta circondando. Il senso di questa nuova frontiera concordata sarà quello della sicurezza e dell´identità, che consentirà al popolo di Israele di sentirsi per la prima volta a casa propria. E di poter dirimere infine interiormente, per la prima volta, il dilemma che ha segnato tutta la sua esistenza. Decidere se siamo popolo dello spazio o del tempo. Siamo il popolo dell´eternità, am leolam, come diciamo in ebraico? Seimila anni di coscienza - dice il filosofo George Steiner - sono una patria. Dunque, siamo un popolo sei volte millenario, un popolo dell´eternità, con la nostalgia per questo luogo - Eretz Israel - ma senza fretta di stabilirci qui, anche se ci si offre questa possibilità, perché possiamo esistere anche nella sfera più universale, più astratta della religione e della cultura, della pura e semplice nostalgia. Oppure oggi siamo maturi, preparati a dare inizio a una nuova fase - una fase che sarà quella della realizzazione piena del processo iniziato nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele. Ho parlato di spazio, ma vorrei parlare un po´ anche del tempo. A sessant´anni dalla creazione dello Stato di Israele, molti israeliani non hanno certezze sul suo futuro, e si chiedono se nei prossimi cinquanta o sessant´anni questo Stato potrà continuare a sussistere. Ovviamente ognuno di noi lo vuole fortemente, è talmente importante per il nostro stesso essere. Ma c´è sempre una certa paura che trema nei cuori. Gli israeliani non possono essere certi di avere un futuro in Israele come può esserlo, credo, ognuno di voi nel proprio paese. Penso che probabilmente un dubbio di questo genere non sia mai venuto in mente a un cittadino egiziano, cinese, italiano, tedesco o americano. Mentre per noi è un´ombra perenne sopra le nostre teste. E´ del tutto naturale ad esempio che un giornale americano pubblichi le proiezioni sui raccolti di grano previsti negli Usa nel 2025. Ma nessun israeliano sano di mente farà mai previsioni per un futuro così lontano. E´ forse proprio per questo che spesso la politica di piano del nostro governo lascia molto a desiderare. Quanto a me, posso testimoniare che quando penso a Israele nel 2025 sento immediatamente nel mio intimo una specie di click - come se avessi violato un tabù concedendomi una dose troppo abbondante di futuro. Il mio auspicio, la mia speranza è che se si arriverà a fissare linee di confine stabili e a risolvere i problemi tra Israele e i suoi vicini, si potrà anche incominciare a curare alcuni mali, a superare quel senso di non accettazione degli israeliani e degli ebrei. E a riconquistare una normalità politica universale che nei secoli passati è stata preclusa a noi ebrei - anche se da ormai cinquantanove anni abbiamo uno Stato. Perché questa è forse la più grande tragedia del popolo ebraico: il fatto che nel corso della storia gli altri popoli, le altre religioni, e in particolare la cristianità e l´islam, abbiano visto gli ebrei come simbolo o metafora di qualcosa d´altro - come una parabola, una lezione religiosa su un qualche peccato originale. Non lo hanno considerato mai per quello che è in sé: un popolo tra gli altri popoli - esseri umani tra gli altri esseri umani. Sto parlando di qualcosa di molto sottile, di un senso di estraneità profonda rispetto al resto del mondo. Questo senso di alienazione esistenziale del popolo ebraico nei rapporti con gli altri popoli può forse essere veramente compreso solo dagli stessi ebrei. Sto parlando di quell´aura di mistero, di enigma che ha avvolto il popolo ebraico nel corso delle generazioni. Un enigma che sempre di nuovo ha spinto altri popoli a cercarne la soluzione in tanti modi, attribuendo agli ebrei definizioni biologiche e razziste, o rinchiudendoli nei ghetti, dietro a steccati, confinando la loro esistenza in determinate aree, in professioni specifiche, fino all´ultimo, orrendo tentativo di dare all´enigma ebraico una «soluzione finale». Per duemila anni gli ebrei sono stati espulsi ed esiliati in tanti modi diversi, aperti o sapientemente mascherati, dalla realtà politica, dalla normalità, dalla realtà pratica di quella che viene chiamata la famiglia dei popoli, la famiglia umana. Sono stati spogliati della loro umanità, con misure a volte molto sofisticate e sapienti di demonizzazione, e a volte anche di idealizzazione. Ma demonizzare e idealizzare di fatto vuol dire la stessa cosa: sono le due facce di una stessa medaglia, la disumanizzazione. L´ebreo è stato trattato come un´entità eccezionale, misteriosa, metafisica, metaforica, dotata di un sistema di regolazione interno, di una costituzione diversa dal comune, con poteri soprannaturali o anche di natura inferiore - come nella definizione di Untermensch coniata dai nazisti. Giuda, il deicida, l´Anticristo, l´ebreo errante, l´eterno ebreo, l´ebreo avvelenatore di pozzi e generatore di piaghe, e naturalmente i Savi di Sion che cospirano per prendere il dominio del mondo, e tante altre figure sataniche e grottesche come quella di Shylock o altre consimili, che costellano il folklore, la religione, la cultura e persino la scienza. Forse per questo gli ebrei hanno trovato un certo conforto nell´auto-idealizzazione, nel considerarsi come il popolo eletto - una percezione che a mio parere è pure molto problematica. Anche oggi il presidente di uno Stato membro delle Nazioni Unite, l´Iran, può dichiarare apertamente che Israele deve essere sradicato perché è la causa dei mali del mondo. Ai suoi occhi Israele è qualcosa come un male, una piaga esistenziale. E il suo appello trova un´accoglienza entusiastica presso molti nel mondo, provenienti da diverse religioni e culture. Se guardiamo a un passato molto recente - gli anni 1993-1994, all´inizio del processo di Oslo - possiamo ricordare un cambiamento straordinario della percezione che gli israeliani avevano del mondo e di se stessi. In quel breve periodo gli israeliani incominciarono a conoscere il gusto inebriante di far parte di un mondo nuovo e moderno, di essere accettati in un´universalità più progressista, civile, liberale e laica, in una sorta di normalità: quella di un popolo tra i popoli. Si era delineata una nuova opportunità di creare tra Israele e il resto del mondo un sistema di relazioni diverso, meno convulso, più egualitario e basato sulla reciprocità. Ma fu un momento breve, troppo breve. Chiaramente, in questi ultimi anni, dopo che i rapporti con i palestinesi sono finiti in un vicolo cieco, si sono perse le speranze e ha prevalso la percezione della minaccia, anche per l´animosità crescente del mondo nei confronti di quanto accade in Israele e a volte della sua stessa esistenza. Con il rafforzamento dell´antisemitismo, la demonizzazione di Israele, gli appelli a cancellare lo Stato ebraico. Tutto questo ha risucchiato di nuovo gli israeliani nella tragica ferita ebraica, ravvivando le cicatrici più dolorose, le memorie più paralizzanti. Tanto che anche gli israeliani da sempre più aperti alle opportunità, alle speranze, alla possibilità di rigenerarsi, quella parte di Israele che per noi è stata una sorta di permanente promessa, in questi ultimi anni, si va riducendo sempre più, viene spazzata via, ricacciata nei vecchi canali traumatici e dolorosi della storia e della memoria del popolo ebraico. L´ansia ebraica, l´esperienza della persecuzione, il passato di vittime, il senso di isolamento e di solitudine nel mondo sono profondamente incisi in noi, nella nostra psiche collettiva. Perché per noi la paura esiste tuttora. A volte è deprimente constatare fino a che punto è sempre presente. Quando mi trovo all´estero, soprattutto in Europa, mi capita spesso di notare che quando si parla della Shoah si fa riferimento a ciò che accadde allora, in un tempo passato - mentre quando ne parliamo noi, in ebraico o in qualunque altra lingua, ci riferiamo in cui quei fatti sono accaduti là: c´è una differenza enorme, gigantesca, tra il concetto del «quando» e quello del «dove». Chi parla degli eventi collocandoli nel tempo si riferisce a un passato che non si ripeterà mai. Chiuso. Mentre se li riferiamo a un luogo, ciò significa che nell´ambito delle potenzialità dei comportamenti umani, da qualche altra parte, in parallelo con la nostra esistenza qui, quel pericolo può sempre ripresentarsi. A questo gli israeliani non sfuggono. Come se fossero condannati a questo modo di percepire la realtà dall´intensità e dall´unicità del trauma subito, ma anche dalla reiterazione delle minacce che incombono su Israele. Ancora una volta dobbiamo constatare che anche l´ultima generazione di israeliani - i «nuovi ebrei», che pure credevamo ormai liberati dalle ansie dei loro genitori - si è confrontata ogni giorno con la memoria della Shoah, quasi condannata a tornare continuamente su quel passato, a tutti i livelli della vita, nelle associazioni, nei codici di comportamento, nella visione del mondo, nelle decisioni etiche e politiche, e fin nelle più piccole cose, nei problemi minuti della vita quotidiana. Sempre di nuovo ci rendiamo conto che anche se non lo vogliamo, siamo sempre sotto la greve ombra di quanto è accaduto là, in quel paese. Siamo sempre i piccioni viaggiatori della Shoah. Sarà molto difficile per gli israeliani liberarsi dalle loro ansie, dalle distorsioni causate dal loro passato, dalla guerra, dalla violenza che sperimentano ogni giorno, così come è difficile a volte per una persona liberarsi da un difetto, da una tara fisica o mentale attorno alla quale si è costruita tutta la sua personalità. A volte mi sembra che la nostra tragica storia, insieme alla tragica situazione che viviamo qui in Medio Oriente, ci ricada addosso proprio come una tara, personale e nazionale. Molti di noi si sono ormai assuefatti alla distorsione della nostra situazione, tanto che rifiutano di credere alla possibilità di alternative. C´è chi si costruisce tutta un´ideologia politica e religiosa per garantire la continuità di questa deformazione. Sono questi i pericoli reali che Israele deve superare al più presto. Questo paese ha bisogno di vivere l´esperienza della pace, e non solo perché la pace è fondamentale per la sua sicurezza, la sua economia eccetera, ma anche per essere in grado, in un certo senso, di conoscere se stesso, prendendo coscienza di quanto è ancora incapsulato, come in letargo nel suo essere. Per scoprire i percorsi della sua identità e del suo carattere, le opzioni esistenziali che sono state volontariamente sospese in attesa che la guerra finisca, in attesa che sia consentito e legittimo vivere pienamente la vita, esplorarne tutte le dimensioni, e non soltanto quella ristretta della sopravvivenza ad ogni costo. E´ questa la capziosa trappola che per generazioni si è chiusa su noi ebrei e israeliani. Siamo un popolo che in tutta la sua storia è sopravvissuto per vivere la sua vita; ma ora viviamo solo per sopravvivere. E questo è nulla. La vita è molto più della mera sopravvivenza - soprattutto quando si può disporre di una potenza militare capace di garantire, o di sostenere nella realtà, qualche passo più coraggioso e razionale. A volte, quando sento gli israeliani - a volte anche giovanissimi - parlare di se stessi, delle loro ansie, del fatto che non osano neppure aspirare a un futuro migliore, quando mi si rivela, in me stesso o in chi mi è vicino, l´intensità dell´ansia esistenziale, il peso della memoria storica, misuro tutta la profondità di questo danno, della cicatrice che la storia ha inciso su di noi. In un clima di pace durevole e stabile potremo forse guarire da queste tare, da queste ansie. Se Israele sarà in pace coi suoi vicini, potrà avere l´opportunità di esplorare e di esprimere tutti i suoi talenti, la sua unicità, e di sperimentare in condizioni normali quanto è capace di realizzare in quanto popolo, in quanto società. Si vedrà se nello Stato di Israele si saprà creare una realtà a un tempo spirituale e pratica, piena di vita e di ispirazione e di spirito di solidarietà; se noi, cittadini israeliani, sapremo liberarci da quella metafora distruttiva che altre nazioni hanno proiettato su di noi, vedendo in noi gli eterni stranieri, gli scomunicati, in perenne nomadismo tra altri popoli, se sapremo tornare ad essere un popolo di carne e di sangue, e non solo un simbolo, non solo un´idea astratta o una favola o uno stereotipo. Né idealizzati né demoni, ma un popolo sulla sua propria terra, un popolo il cui paese sia circondato da confini internazionalmente e pacificamente convenuti e difendibili. Un popolo che possa godere non solo di un senso di continuità e di sicurezza, ma anche di una rara esperienza di realtà, di concretezza, di essere infine parte della vita e non di una storia più grande della vita, come nel nostro passato. Forse allora gli israeliani saranno capaci di sperimentare e di gustare qualcosa che dopo sei decenni di indipendenza ancora non conoscono realmente: un profondo senso di sicurezza, di sicurezza esistenziale, qualcosa che vorrei chiamare una solidità dell´esistenza, così come la esprimiamo in maniera commovente nella nostra preghiera del sabato sera, la preghiera di Mussaf: «Che tu possa piantarci entro i nostri confini». Voi delegati, che risiedete qui in rappresentanza dei vostri rispettivi paesi, avete un ruolo importantissimo da svolgere per venire incontro a queste speranze e aspirazioni. Per molti versi, Israele non è uno Stato come gli altri coi quali intrattenete le vostre relazioni. Se volete svolgere un ruolo positivo in quest´area, aiutando Israele a risolvere i conflitti con i suoi vicini e i suoi nemici, dovrete essere attenti non solo come diplomatici ma come esseri umani, non solo nel vostro ruolo formale di rappresentanti di uno Stato estero, ma quasi come psicologi, per poter cogliere tutte le sfumature, tutti i moti, anche i più sottili, che attraversano l´anima, la psiche degli israeliani. Essere attenti alle loro ansie, alla loro esperienza di vita, che è veramente unica. E aiutarli a distinguere tra le paure immaginarie, risultanti dai traumi passati, dagli echi della loro storia, e i pericoli reali e concreti che devono affrontare nella loro vita d´ogni giorno. La vostra responsabilità, il vostro impegno per il bene di Israele e la sua stessa esistenza nasce anche dal fatto che una parte non piccola delle infermità e delle debolezze di questo paese è il risultato, la conseguenza di quello che è stato l´atteggiamento dell´Europa, l´atteggiamento del mondo intero verso gli ebrei. Certo, Israele non è al disopra di ogni critica. Credo sia vostro dovere criticare Israele quando lo merita, ma al tempo stesso aiutare questo paese a non ricadere sempre di nuovo nelle trappole che gli sono tese dalle sue stesse debolezze. E far sentire agli israeliani ciò che nel loro intimo ancora non riescono a credere: che possono avere un posto sicuro e legittimo nel mondo. Che il mondo può essere la casa, la patria degli ebrei. Dovete ricordare loro che esistono alternative a una vita di violenza, di odio e di paura. E fare di tutto per rendere possibile un clima che dia a Israele la possibilità di comunicare coi suoi vicini, per poter essere in grado di realizzare lo straordinario potenziale umano che abbiamo qui. Potete fare molto più di quanto state facendo oggi. Non lasciate nelle sole mani degli americani tutta la responsabilità di quest´opera di mediazione per arrivare alla pace tra Israele e i suoi vicini. Perché gli americani - sono spiacente di dirlo - in questi ultimi anni non stanno facendo quasi nulla, e a volte fanno anzi di tutto per precludere ogni possibilità di dialogo tra Israele e i suoi vicini. Come stanno facendo proprio in questi giorni, con riguardo ai negoziati, possibili e auspicabili, con la Siria. Non esitate. E tenete presente che in periodi come quello attuale, quando si è in presenza di un vuoto d´azione, un vuoto di visione, di leadership a livello mondiale, è assai più facile agire per il cambiamento. La storia non vi perdonerà se continuerete a rimanere in disparte, permettendo a Israele e ai suoi vicini di lasciar passare invano gli ultimi margini di tempo utili, quando è ancora possibile risolvere questo conflitto. (Traduzione di Elisabetta Horvat) (la Repubblica, 2 marzo 2007 - da Informazione Corretta) COMMENTO - L'autore ha perso un figlio nella guerra del Libano e per questo merita rispetto. Il suo desiderio di pace è autentico e certamente è condiviso da molti ebrei israeliani. Ma l'analisi dei fatti e i desideri espressi sono realistici? M.C. 5. RADIOGRAFIA DELLA COMUNITÀ EBRAICA FRANCESE Francesi ebrei o ebrei francesi? di Masha Teitelbaum "Nonostante una importante secolarizzazione nella comunità ebraica francese c'è un ritorno verso la pratica religiosa", dichiara la sociologa Régine Azria al quotidiano parigino Le Figaro che poche settimane fa ha pubblicato un'inchiesta sull'ebraismo d'Oltralpe. Tuttavia, questo ritorno alla fede non costituisce un fenomeno di massa. Anzi, secondo alcuni dati, difficili da accertare, solo 100 mila tra i circa 700 mila ebrei di Francia sarebbero praticanti. Anche su questo punto le cose non sono molto chiare. Di quale "pratica" si tratta? Di coloro che vivono quotidianamente nel rispetto delle regole religiose o di chi frequenta la sinagoga una o due volte l'anno? L'ebraismo francese, come quello del resto del mondo, è composto di un mosaico di movimenti e pratiche talvolta lontani uno dall'altro. Dietro l'espressione "comunità ebraica" si nasconde una grande diversità di posizioni politiche, ideologiche o religiose. La prima linea di spartizione non riguarda però le diverse correnti all'interno della religione, bensì la questione essenziale dell'identità ebraica, tra chi la rivendica pubblicamente e chi, al contrario, ha scelto la via della completa integrazione nella società francese. Il politologo Jean-Yves Camus, collaboratore della rivista Actualité juive conferma questa divisione: "Ci troviamo davanti a una vera bi-polarizzazione: da una parte ci sono gli ebrei che affermano, come mai prima, la loro identità, dall'altra ci sono coloro che si assimilano e scompaiono". È difficile misurare questa realtà perché da noi le cifre costituiscono un tabù: "Sia la Torà sia la Repubblica francese vietano i censimenti degli ebrei", dice Jean-Yves Camus. Ciò nonostante, alcune cifre ci permettono di capire la composizione della comunità e i cambiamenti che vi sono intervenuti. Più del 60 per cento sono sefarditi che si sono stabiliti in Francia a partire dagli anni Sessanta. Circa il 48 per cento dichiara di avere un solo contatto all'anno con la comunità e il 45 per cento dice di mangiare kasher. Le sinagoghe - circa 200 - e i rabbini, anch'essi duecento, sono sparsi in tutta la Francia, da Marsiglia a Strasburgo, ma la metà degli ebrei francesi abita l'Ile-de France (Parigi e i dintorni). Qui si è fortemente sviluppato negli ultimi sessanta anni. Nel 1945 c'erano quattro scuole ebraiche e nel 1976 ottantotto con 16 mila allievi. Nel 2002 ben 28 mila bambini e ragazzi frequentavano le scuole ebraiche. Da duecento anni, la comunità ebraica francese è organizzata intorno al Concistoro (Consistoire), nato l'11 dicembre 1808 per volere di Napoleone. Il Concistoro assicura tra l'altro l'insegnamento religioso, s'occupa della formazione dei rabbini, tutela lo sviluppo delle associazioni che vi aderiscono, garantisce la permanenza della funzione del Gran Rabbino. A parere di molti, però, questa vecchia istituzione è lontana dalla realtà sociologica in cui vivono gli ebrei francesi. "L'organizzazione centralizzata e piramidale del culto ha lasciato la Francia al di fuori dei movimenti di diversificazione che hanno attraversato l'ebraismo nel XIX secolo in Europa e negli Stati Uniti", ha spiegato recentemente la storica Rita Hermon-Belot al quotidiano Le Figaro. Di fatto, la linea ortodossa del Concistoro non è condivisa da una buona parte degli ebrei praticanti. "Il Concistoro non ha più una posizione d'arbitro né di rappresentatività" ha dichiarato il rabbino Daniel Farhi confermando l'analisi della storica. Molti ebrei vanno a cercare una risposta proprio nel movimento liberale che in Francia conta anche una donna rabbino e che è diviso in tre tendenze. All'opposto dei liberali ci sono gli ultraortodossi e in primo luogo la comunità dei Lubavitch che ha circa 25 mila membri di cui 15 mila a Parigi. E anche il movimento Massorati, i conservatori, è presente Oltralpe. I rappresentanti del Concistoro sottolineano che l'istituzione rimane aperta a tutte le correnti, a tutti i tipi di ebrei. Lontano da costituire una comunità monolitica, gli ebrei francesi - almeno coloro che s'identificano in un modo o in un altro con le sue istituzioni - rappresentano un puzzle di idee e di pratiche religiose pluraliste ed estremamente varie. (Mosaico - Comunità ebraica di Milano) 6. IL SINEDRIO PROGETTA UN SACRIFICIO PER PASQUA GERUSALEMME - Il Sinedrio vuole sacrificare una pecora per la festa di Pasqua, se la situazione sul monte del Tempio dovesse permetterla. Un gruppo di Rabbini israeliani ha richiamato in vita l'antico Alto Consiglio degli ebrei nell'ottobre 2004. La sera precedente la festa, che quest'anno comincia il 2 aprile, i Rabbini vogliono sacrificare la pecora sul luogo dell'antico Tempio in Gerusalemme. Questo ha deciso il nuovo Sinedrio martedì 27 febbraio. Secondo quanto ha riferito al quotidiano "Ha´aretz" il membro del Consiglio Hillel Weiss, si tratterebbe di un atto puramente simbolico. Dovrebbe servire a far sapere chiaramente a tutti che l'attesa di riprendere di nuovo i rituali del Tempio è reale, e non soltanto una chiacchiera. Qualche anno fa alcuni appartenenti a diversi movimenti per il Tempio tennero una simbolica cerimonia di sacrificio sulla collina Hanania, che si trova nel quartiere Abu Tur e ha la vista sul monte del Tempio. I partecipanti portarono una giovane capra e costruirono, in accordo con la legge ebraica (Halacha), un braciere alto due metri. In antico, secondo fonti rabbiniche, spettava al Sinedrio il compito di decidere su guerra e pace. Inoltre nominava tribunali, re e sommi sacerdoti. Tra i suoi compiti rientravano anche i giudizi su idolatria, falsi profeti o sommi sacerdoti peccatori. Il Nuovo Testamento riferisce negli Evangeli che Gesù fu condannato a morte dal Sinedrio. Nel Talmud babilonese e in quello di Gerusalemme il trattato "Sinedrio" è dedicato all'Alto Consiglio. L'Alto Consiglio degli ebrei si riunì per l'ultima volta nell'anno 425 a Tiberiade. Come nell'antichità, il Sinedrio fondato nel 2004 ha 71 membri. Vogliono trattare "temi scottanti" e avere influenza sulla politica israeliana. Dicono di fare questo per contribuire alla redenzione di Israele. (Israelnetz Nachrichten, 28 febbraio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) MUSICA E IMMAGINI Jessica INDIRIZZI INTERNET Palestinian Media Watch Ariel Ministries Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |