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Notizie su Israele 382 - 15 marzo 2007

1. Ieri sinagoghe, oggi rampe di lancio dei Qassam
2. I genovesi e gli stranieri
3. Il pogrom e l'esodo dei quarantamila ebrei libici
4. Da Casablanca al battaglione Karakal
5. Lo Shass vuole punire più duramente i missionari
6. Non tutti odiano Israele
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 25:9. In quel giorno, si dirà: «Ecco, questo è il nostro Dio; in lui abbiamo sperato, ed egli ci ha salvati. Questo è il Signore in cui abbiamo sperato; esultiamo, rallegriamoci per la sua salvezza!»
1. IERI SINAGOGHE, OGGI RAMPE DI LANCIO DEI QASSAM




Resti di una sinagoga di Gush Katif
Le rovine di due grandi sinagoghe a Gush Katif, gruppo di villaggi israeliani sgomberati dalla striscia di Gaza, sono state trasformate in basi paramilitari usate da gruppi palestinesi per lanciare missili verso le città israeliane e addestrarsi ad attacchi contro Israele. Lo afferma un alto esponente di un gruppo terrorista con base a Gaza.
    Quando Israele ritirò civili e militari dalla striscia di Gaza nell'agosto 2005, si lasciò alle spalle venti sinagoghe intatte dei villaggi di Gush Katif, in seguito a una decisione del governo contraria alla loro demolizione. Immediatamente dopo lo sgombero israeliano, davanti alle telecamere di tutto il mondo folle di palestinesi assaltarono e distrussero la maggior parte delle sinagoghe della striscia di Gaza, comprese le due maggiori che sorgevano al centro di Neve Dekalim, il villaggio più grande di Gush Katif. Poi issarono bandiere palestinesi e di Hamas sul tetto delle sinagoghe devastate, prima di darle alle fiamme.
    Abu Abir, portavoce dei Comitati di Resistenza Popolare, spiega a WorldNetDaily che oggi le aree dove un tempo sorgevano le sinagoghe vengono usate per lanciare razzi contro Israele. "Siamo fieri – dice Abu Abir – d'aver trasformato queste terre, soprattutto quelle delle sinagoghe che per lungo tempo hanno simboleggiato occupazione e ingiustizia, in basi militari e sorgente di fuoco contro i sionisti e l'entità sionista. Le terre liberate dall'orrendo insediamento nazista – continua l'esponente palestinese – sono di nostra proprietà e abbiamo il diritto di farne ciò che riteniamo più utile per la lotta contro l'occupazione e per gli interessi generali del popolo palestinese".
    I Comitati di Resistenza Popolare costituiscono una coalizione di gruppi terroristici operativi nella striscia di Gaza e in Cisgiordania responsabili del lancio di centinaia di razzi e missili da Gaza contro le vicine cittadine israeliane. Sono ritenuti responsabili, tra l'altro, di un attentato contro un convoglio diplomatico americano nel 2003 che causò la morte di tre cittadini statunitensi.
    Naturalmente Abu Abir getta su Israele la colpa della profanazione e devastazione delle sinagoghe di Gaza, sostenendo che la decisione di lasciarle integre al momento del ritiro faceva parte di un complotto. "I sionisti hanno lasciato intatte le cosiddette sinagoghe – dice – per far sì che un giorno mezzi d'informazione come WorldNetDaily potessero imbastire una campagna patetica e insultante su quello che abbiamo fatto ai luoghi santi dei poveri sionisti. Israele ha lasciato apposta le sinagoghe intere perché tutto il mondo vedesse i palestinesi che le distruggevano". Secondo Abu Abir, la folla che distrusse le sinagoghe non era organizzata, e si trattò piuttosto di una "spontanea esplosione di felicità".
    Alla vigilia del ritiro da Gaza la Corte Suprema israeliana aveva decretato che le sinagoghe venissero abbattute dai bulldozer dell'esercito, citando il precedente di altre distruzioni palestinesi di luoghi santi ebraici (dal quartiere ebraico di Gerusalemme Vecchia nel 1948, alla sinagoga Shalom al Yisrael di Gerico e la Tomba di Giuseppe a Nablus nell'ottobre 2000). Ma l'allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, che era contrario, sottopose la questione al voto del governo e il voto fu sfavorevole alla demolizione. Il Rabbinato d'Israele aveva fatto appello alla Corte Suprema perché fermasse la demolizione delle sinagoghe dicendo che contravveniva alla legge ebraica.
    Informato della situazione attuale, Dror Venunu, ex residente di Gush Katif e attuale coordinatore di una delle maggiori organizzazioni di beneficenza per gli israeliani sgomberati da Gaza, ha detto: "E' un dolore che ferisce al cuore. In qualunque altra parte del mondo una cosa del genere sarebbe considerata intollerabile. Ma dove sono i mass-media internazionali? Dov'è la protesta internazionale, dov'è la condanna da parte del resto del mondo per l'uso di luoghi di culto come base terroristica?".

(YnetNews, 27 febbraio 2007 - da israele.net)





2. I GENOVESI E GLI STRANIERI




Tolleranza tra affaristi

Li obbligavano ad andare in chiesa a sentire i sermoni. Quando uscivano, spintonati da mercenari tedeschi il popolo li ingiuriava, bersagliandoli «con torsi di cavoli, pomodori, uova marce e, non di rado, pietre». Così se la passavano trecentotrent'anni fa gli ebrei a Genova. Male, ma non malissimo: perché, per esempio, a Roma, durante le feste, li obbligavano «a far corse nei sacchi a suon di bastonate» e a Tolosa, per Pasqua, li facevano schiaffeggiare dai preti affinché non dimenticassero cosa avevano fatto a Gesù.
    Nei giorni della guerra, delle torture e degli attentati un sondaggio di questo giornale rivela che i genovesi sono forse più tolleranti di quanto credono. Al progetto di costruire una moschea a Cornigliano, nel ponente cittadino, il 47 per cento dice sì, il 39 no e il 14 di non avere un'opinione. Siamo sempre stati così aperti?
    Internet - una ricognizione sommaria giacché cercando "ebrei a genova" si ottengono 19.800 risultati - in qualche modo conferma. E mette in luce una venatura di pragmatismo che ben si addice alla Superba.
    Gli anni in cui il sermone era un obbligo per gli ebrei - loro rispondevano mettendo tappi di cera nelle orecchie - erano quelli della recessione di fine '600 portata dalla peste. Ai genovesi - come racconta lo storico Alberto Rosselli - seccava che, mentre le cose andavano male, gli ebrei, i sefarditi cacciati dalla Spagna l'anno in cui Colombo scoprì l'America, prosperassero. Così, quando nel 1674 il ghetto fu trasferito in piazza dei Tessitori, la comunità ebrea scese ad appena 174 persone. Centottant'anni prima, quando era stato loro concesso d'insediarsi in un quartiere tra vico del Campo, vico Untoria e piazzetta Fregoso, gli israeliti erano quasi il doppio.
    La convivenza oscillò sempre tra il pregiudizio - non era bello fare affari con discendenti di deicidi - e il pragmatismo economico, essendo i sefarditi ricchi e abili commercianti. Alla fine li si isolò in quello che, dopo la peste, divenne il ghetto, con alti cancelli e massari a controllare le due uscite chiuse «da un'ora di notte fin al far del giorno» onde evitare contatto commerciale e sessuale tra ebrei e cristiani. Ma la Repubblica concesse loro di costruire la sinagoga come già era avvenuto quattro secoli prima con gli israeliti che vivevano in città fin dai tempi dell'età imperiale. Allora gli ebrei, che erano commercianti di grano, sale, indaco, spezie e schiavi (come molti cristiani, d'altronde) per risiedere a Genova pagavano una specie di tassa di soggiorno (tre soldi l'anno) destinata all'olio dell'altare di San Lorenzo. Ma non era una vessazione - pagavano tutti gli stranieri - e, anzi, i rapporti non erano cattivi. Nelle colonie genovesi gli ebrei lavoravano e facevano buoni affari, in Turchia, specialmente, anche con gli arabi.
    Il fatto è che i genovesi, in genere, non avevano pregiudizi per gli stranieri. La Superba era una delle rare città in cui ci si integrava facilmente: bastava rispettare le regole. Come scrive Roberto Lopez, autore di un libro sulle colonie genovesi già nel 1404, pur in depressione, Genova concedeva la cittadinanza a chi ne accettava i doveri. Altrimenti occorrevano tre anni per la naturalizzazione. Le associazioni artigiane, poi, erano aperte, stranieri compresi, a chiunque superasse gli esami d'ammissione. Più cosmopoliti che multietnici, i genovesi offrivano un patto laico ed efficace: adattatevi, date il meglio e sarà un affare per tutti.

(Il Secolo XIX, 8 marzo 2007)






3. IL POGROM E L'ESODO DEI QUARANTAMILA EBREI LIBICI




Furono 40 mila gli ebrei libici espulsi nel 1970, assieme agli italiani. Come gli ebrei di Djerba, di fronte alla città tunisina di Gabès, dove una comunità ebraica fu creata nel 586 a.C. da profughi di Gerusalemme in fuga dopo la distruzione del primo Tempio da parte del babilonese Nabucodonosor. Come gli ebrei della bellissima Casablanca, dove c'è la seconda sinagoga più grande del mondo e dove al Qaeda ha colpito tre anni fa. Come gli ebrei d'Algeria, che erano 200 mila ebrei nel 1962 e si sono ridotti a un centinaio scarso. Come gli ebrei di Siria, che dai 45 mila del 1948 sono passati ai 5.000 del 1987 e ai 63 del 2001. Come gli ebrei dell'Iraq, discendenti dai deportati di Babilonia, 125 mila nel 1948 e ridotti a 300 nel 1987 e a 34 alla vigilia della caduta di Saddam. Come gli ebrei di Giordania, senza possibilità di cittadinanza, per legge, come nel 1935 a Berlino. Come gli ebrei dell'Arabia Saudita, a cui per principio è negato addirittura l'ingresso, e dell'Iran. Quarant'anni fa arrivarono a Roma 5.000 ebrei profughi dalla Libia. Quella storia di fuga e persecuzione è stata raccontata il 6 marzo in una festa di musica e cultura organizzata dalla Comunità ebraica romana, l'associazione "Bnei Sheva" e il museo "Or Shalom" di Bat Yam. La tragedia degli ebrei libici iniziò una domenica di novembre del 1945, quando si scatenò il primo pogrom contro la storica comunità sefardita.

"Entravano in casa e massacravano famiglie intere, bruciavano le case, saccheggiavano i negozi, persone aggredite per la strada, sgozzate" ricorda un sopravvissuto al massacro. Il bilancio del pogrom fu gravissimo: 140 ebrei morti, uccisi nelle maniere più atroci, trucidati, sgozzati, arsi vivi; i negozi devastati dalla furia araba e le sinagoghe della città vecchia profanate e date alle fiamme. Un mese dopo la nascita dello Stato di Israele riesplose l'odio. I morti furono 14, i feriti 130. Il 1° gennaio del 1952 avvenne il passaggio di potere dall'amministrazione inglese a quella libica. La Libia divenne indipendente. Dei 36 mila ebrei presenti sul territorio fino a solo quattro anni prima, molti erano fuggiti in Israele, ne rimasero poco meno di 6 mila, tutti concentrati a Tripoli. Gli ebrei rappresentavano una "minoranza nativa", con diritti politici diversi rispetto a italiani, greci e maltesi che erano una "minoranza residente", allo stesso tempo cittadini di altri stati. In questo clima di relativa calma e prosperità, si giunse fino al giugno del 1967, alla vigilia della Guerra dei Sei Giorni. Ma già verso l'inizio del mese erano iniziati gli incitamenti, alla radio e nelle moschee, alla guerra santa contro Israele e contro gli ebrei. Incendi e devastazioni dei negozi e delle abitazioni degli ebrei, uccisione di ebrei che incautamente uscivano dai loro rifugi in cerca di cibo. Verso la metà del mese di giugno, su iniziativa del presidente della comunità ebraica, fu inviato un appello al primo ministro in cui si chiedeva per gli ebrei il permesso di partire. Il re Idris appoggiò subito la decisione.

E fu così che iniziò l'esodo dell'antichissima comunità ebraica tripolitana. Quel che resta della comunità ebraica libica è ora divisa tra Israele, l'Italia e in misura minore gli Stati Uniti. Una storia iniziata molto prima di re Idris e Gheddafi, il 30 marzo 1492, con la diaspora degli ebrei sefarditi, con la cacciata dalla Spagna decretata dai sovrani Isabella e Ferdinando. Da allora la sorte degli ebrei sefarditi è stata amara, levantinizzati nella più grande famiglia mediorientale o romanticizzati per aver difeso la propria autonomia culturale nei canti e nella lingua, la celebre "haketia". La Shoah distrusse definitivamente la presenza ebraico-spagnola nei Balcani e cancellò per sempre Salonicco, la "Gerusalemme dei Balcani". Più di centomila sefarditi provenienti da Bulgaria e Grecia, Turchia e Iugoslavia, perseguitati anche nei paesi arabi, troveranno rifugio in Israele tra il 1923 e il 1949 e l'area culturale sefardita verrà trapiantata a Gerusalemme.

(Il Velino, 7 marzo 2007)





4. DA CASABLANCA AL BATTAGLIONE KARAKAL




Quando camminava per le strade di Casablanca controllava sempre quello che succedeva intorno a lui. La comunità ebraica marocchina è in graduale, ma costante diminuzione e gli echi degli scontri israelo-palestinesi sono arrivati ai locali, che a loro volta minacciano la minoranza ebraica. Dopo essere stato coinvolto in casi di guerriglia urbana e aver deciso di studiare arti marziali, ha capito che il passo successivo sarebbe stato un biglietto di sola andata per Israele. La storia del soldato semplice Michael, che è emigrato dal Marocco e che era deciso a diventare un soldato da combattimento nonostante il basso profilo fisico.

Gili Bartura - BaMahane – Tsahal Magazine

È passato circa un mese da quando a Teheran si è svolta la conferenza sulla negazione dell'Olocausto. Milioni di ebrei in tutto il mondo hanno guardato a bocca aperta le scene in televisione, scioccati dalle parole del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. Anche il soldato semplice Michael, un soldato solitario proveniente dal Marocco, che presta servizio nel battaglione Karakal, ha sentito il discorso. Quella stessa settimana aveva celebrato il primo anniversario da quando l'Agenzia Ebraica gli ha consegnato i documenti per l'immigrazione. L'alto numero di partecipanti e le pesanti dichiartazioni antisemite rilasciate dai delegati non lo hanno sorpreso. Essendo cresciuto in Marocco, ha  spesso sperimentato l'antisemitismo sulla sua pelle.
    "Cammini per la strada e il più delle volte succede che qualcuno ti apostrofi dandoti dello sporco ebreo". In Marocco Michael non ha mai indossato la sua kipà, uno dei simboli più caratterizzanti dell'essere ebrei. "È piuttosto pericoloso", commenta. "La verità è che si può capire se uno è ebreo anche se non indossa la kipà. Se in Marocco vedi un arabo, lo sai che è arabo – dai suoi vestiti, dal suo accento. Quando vivi in una regione che è prevalentemente araba, impari a riconoscere la differenza. Come io so chi è arabo e chi è ebreo, così lo sanno anche loro".
    Nella maggior parte dei casi questi incidenti si esauriscono con qualche maledizione e bestemmia, ma la probabilità che si trasformino in scontro aperto è abbastanza alta. Michael spiega che "non succede regolarmente. Si inizia con una bestemmia o due. Lui ti insulta, tu fai altrettanto, l'atmosfera si surriscalda e si finisce a cazzotti. Di solito il tutto finisce abbastanza in fretta. Quindi spariscono tutti e ciascuno se ne va via per la propria strada".

Non esiste un quartiere ebraico
    Casablanca, dove Michael è cresciuto, è la città più grande del Marocco. Con una popolazione di più di 4 milioni di persone, è considerata il cuore economico del Paese. Più del 70% dei 3.000 ebrei che ancora vivono in Marocco abita a Casablanca. "Gli ebrei vivono in tutta la città. Non esiste un quartiere ebraico", spiega Michael. La sua famiglia era una delle due sole famiglie ebree che abitavano nella sua zona. Negli ultimi anni entrambi i suo fratelli hanno lasciato il Marocco e sono immigrati in Israele, lasciandosi alle spalle i genitori e uno zio. Perché mantenesse un legame con il suo retaggio, i genitori di Michael lo hanno iscritto a una scuola religiosa ebraica. "Eravamo sei in classe, tutti maschi, e solo in sedici nelle classi dalla decima alla dodicesima. Le ragazze frequentavano un'altra scuola. Ogni giorno studiavamo fino alle sei di sera e quindi andavamo a giocare a bigliardo nel club accanto alla scuola, oppure ce ne tornavamo semplicemente a casa. Oltre a studiare la Torah, ciascuno di noi doveva scegliere un indirizzo, proprio come in Israele. Io ho scelto fisica e matematica. In realtà volevo studiare economia. Non volevo separarmi dai miei amici, ma quando ho finito il liceo hanno chiuso la scuola perché non c'erano abbastanza studenti".
    La chiusura della scuola è un riflesso della graduale diminuzione del numero degli ebrei di Casablanca; solo nell'ultimo anno cento famiglie sono immigrate in Israele. Con la partenza di ciascuna famiglia, la vita di coloro che hanno scelto di rimanere diventa sempre più difficile, in particolare per quanto concerne la vita religiosa. Per esempio, a Casablanca ci sono 36 sinagoghe", dice Michael. "Molto spesso non ci sono abbastanza uomini per avere un minyan [quorum di 10 uomini richiesto per la preghiera] e alcune sinagoghe aprono solo al sabato. Durante la settimana parecchie sinagoghe si riuniscono per le preghiere. Non si può fare altrimenti".
    Michael spiega che la tendenza emigratoria influenza direttamente le relazioni arabo-ebraiche in città. "Negli anni Quaranta e Cinquanta c'erano molti ebrei a Casablanca e i rapporti con i vicini arabi erano buoni. Si collaborava; ebrei e arabi vivevano negli stessi palazzi. I ragazzini crescevano insieme. Gli arabi conoscevano gli ebrei, parlavano con loro ed erano tutti amici. Oggi le generazioni più giovani difficilmente conoscono gli ebrei, perché ne sono rimasti pochi in giro. Vedono  le notizie alla televisione e sanno cosa succede in Israele. Pensano che anche gli ebrei in Marocco vogliano fare loro del male. Quando per la strada incontrano qualcuno che sembra ebreo, anche se non hanno mai visto un ebreo in vita loro, lo ricoprono di insulti. Comincia sempre così".
    Michael ammette che alcuni dei suoi migliori amici in Marocco sono arabi. Stavano bene insieme, ma nonostante fossero molto legati, non hanno mai discusso le relazioni arabo-ebraiche in città. "Era uno di quegli argomenti di cui non si parlava. Sapevamo che se avessimo iniziato a parlare di politica sarebbe andata a finire male".

Il re è responsabile per la sicurezza
    Michael trascorreva la maggior parte del suo tempo libero in un corso di

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arti marziali – Fabb Contact, probabilmente a causa dei pericoli che doveva affrontare per le strade, o semplicemente perché lo sport gli piaceva. "Ci andavo da solo, senza gli amici. Sapevo che era importante imparare a difendersi nel caso succedesse qualcosa per la strada. Dovevo sapermi difendere".
    Il sabato sera Michael lo passava fuori con gli amici. Sceglievano i posti dove andare con molta cautela, evitando di entrare in luoghi sconosciuti. "Andavamo in discoteca, al pub e in altri posti frequentati da ebrei e ci sentivamo a nostro agio. Ci parlavamo l'un l'altro di questi posti. Facevamo progetti per andarci insieme e incontrarci là. Anch'io incontravo i miei amici e sedevo con loro nel cortile della scuola, proprio come i ragazzi israeliani fanno nel locale centro commerciale. Ci incontravamo là ogni venerdì".
    Michael esaurisce subito ogni possibile discussione sulla sicurezza. "La sicurezza non manca. C'è sempre un servizio di sicurezza attorno ai luoghi frequentati dagli ebrei", rivela. Come in Israele, ci sono guardie giurate all'ingresso di ogni centro culturale ebraico, scuola o sinagoga. Sono gli ordini del re, il quale ha un occhio di riguardo per gli ebrei".
    Il padre di Michael è testimone del buon trattamento che gli ebrei ricevono dal re del Marocco. Egli presta servizio come sarto della comunità ebraica alla corte del re e sa bene quello che succede al suo interno. "Il re si assicura che il popolo si prenda cura delle famiglie ebree bisognose. Dopo lo scoppio dell'Intifada ha scritto a tutte le sinagoghe per assicurarsi che da allora in poi tutti i centri ebraici fossero dotati di un servizio di sicurezza. Si preoccupa per gli ebrei".
    Con lo scoppio della seconda intifada il livello dell'antisemitismo in Marocco è cresciuto ulteriormente. Gli eventi israeliani influenzano direttamente quelli marocchini. Ogni volta che i media locali riportano notizie di scontri in Israele, gli ebrei marocchini ne risentono immediatamente.
    "Eravamo soliti guardare le notizie alla televisione almeno due volte al giorno, per tenerci aggiornati sulla situazione in Israele. Ogni volta che là accadeva qualcosa di insolito, noi lo sentivamo immediatamente – occhiate, bestemmie e, qualche volta attacchi fisici".
    Anche i forti legami tra Stati Uniti e Israele hanno giocato a sfavore degli ebrei di Casablanca. Uno dei fatti più terribili che Michael ricorda è stato l'omocidio di un ebreo del posto più di tre anni fa. "Era l'11 settembre. Molti arabi lo considerano un giorno di festa e rompono le scatole agli ebrei", dice Michael. "In Marocco, diversamente da qui, le persone lavorano ogni giorno fino a mezzogiorno. Quindi chiudono l'ufficio per pranzo e ritornano più tardi per rimanere fino alle otto, nove di sera. Un giorno, all'ora di pranzo, due arabi hanno ucciso un ebreo che era seduto a mangiare fuori dal suo negozio. È stato orribile, soprattutto perché gli ebrei si conoscono tutti. Io avevo studiato con le figlie di quest'uomo alle elementari. Lo conoscevano tutti a Casablanca".

L'attacco terroristico al centro ebraico
    Un altro evento che ha avuto ripercussioni gravi sulla vita della comunità ebraica marocchina è stata la serie di attacchi terroristici che hanno sconvolto Casablanca nel 2003. Sono scoppiate quattro bombe, di cui una ha colpito il Circle D'Alliance, una il cimitero ebraico e le altre due il club spagnolo Kaza da Espana e il consolato belga. Sono morte quarantun persone, di cui nessuna appartenente alla comunità ebraica. "I centri ebraici erano chiusi perché era sabato. Fortunatamente nessun ebreo è rimasto ferito".

Quali ripercussioni hanno avuto questi attacchi terroristici sulla popolazioone araba di Casablanca?
    "Improvvisamente tutte quelle immagini che avevano visto in televìsione erano diventate una realtà tangibile. Hanno visto che gli attacchi non avevano come obiettivo solo gli ebrei, ma anche gli arabi e i cristiani. Questo ha cambiato il loro atteggiamento nei nostri confronti. Improvvisamente hanno capito che cos'è in realtà un attacco terroristico".
    Gli eventi più recenti hanno cancellato gli ultimi dubbi della giovane generazione. Il Marocco non era il luogo dove avrebbero voluto trascorrere il resto della loro vita. "In Marocco non è rimasto quasi nessuno. Quasi tutti gli ebrei della mia età finiscono la scuola e vanno a studiare all'estero. Alcuni vanno in Francia o in altri Paesi europei. Dei miei amici, gli unici che non hanno ancora lasciato il Marocco sono quelli che non hanno ancora finito le superiori. Ma non appena avranno conseguito il diploma partiranno anche loro".

Non avevi paura di lasciarti tutto alle spalle per andare incontro all'ignoto?
    "Ciò che vedevo in televisione su Israele non faceva altro che accrescere il mio desiderio di venire. Vedevo che il mio Paese stava attraversando un momento difficile e volevo essere d'aiuto. So di non poter fare tutto da solo, ma se tutti la pensassero come me e venissero in Israele a dare il loro contributo, questo potrebbe fare la differenza. Inoltre, entrambi i miei fratelli erano venuti in Israele e avevano prestato servizio nell'esercito, per cui sapevo cosa mi aspettava".

Non è semplice lasciare i genitori, gli amici e tutta la propria vita?
    "Vero. Mi ci sono voluti due mesi per prendere la decisione di immigrare in Israele. Sono in contatto con i miei amici attraverso l'internet. Il problema sono i miei genitori. Sono da soli e questo è difficile".
    I genitori di Michael hanno avuto più di un motivo di preoccuparsi da quando lui e i suoi fratelli sono arrivati in Israele. Il fratello maggiore presta servizio nel 50° battaglione della Brigata Nachal e il fratello più giovane è un ufficiale di fanteria. "Sono preoccupati perché siamo nell'esercito. Pensano che sia pericoloso. Non sanno se ho mangiato abbastanza, se ho bevuto qualcosa, dove trascorrerò lo Shabbat; temono che io non abbia un posto dove andare quando sono in licenza dall'esercito. Penso che alla fine non avranno altra scelta che venire anche loro in Israele".

Voler diventare un soldato da combattimento
    Michael ha trascorso i primi mesi in Israele in un centro di accoglienza, dove ha iniziato il processo per arruolarsi nell'esercito. "Il mio sogno era di immigrare in Israele e di diventare un soldato da combattimento. Quando sono arrivato qui, mi hanno detto che il mio profilo fisico arrivava solo a 72 punti su 100 perché soffro d'asma. Ho deciso di entrare in un'unità da combattimento, nonostante il mio basso profilo. Mio fratello mi ha aiutato ed è stato grazie a lui che ho saputo del battaglione Karakal. Mi piace l'idea di ragazzi e ragazze che si addestrano e combattono fianco a fianco".
    Prima di entrare nell'esercito ha fatto il corso base di addestramento preparatorio presso il centro educativo di addestramento Alon. "Era una preparazione per le unità da campo. Correvamo tutto il giorno. Non mi aspettavo questo". Michael racconta che nonostante avesse chiesto ai fratelli che cosa avrebbe dovuto aspettarsi, c'erano ancora molte sorprese che lo aspettavano lungo il percorso. "Era come se non avessi la più pallida idea di ciò a cui stavo andando incontro. Imparare l'ebraico non era affatto facile e io non conoscevo nessuno. Col tempo mi sono fatto degli amici e loro mi hanno aiutato a superare i momenti difficili. Sono molto diversi dai miei amici in Marocco, ma mi piace stare con loro".
    Michael è riuscito a mantenere uno stile di vita religioso nonostante sia l'unico soldato osservante della sua compagnia. "Prego tre volte al giorno, ogni giorno. Il problema principale è che a volte manca il minyan", aggiunge. I suoi camerati lo descrivono come un tipo tranquillo e riservato. "Non possono dire che sono una testa calda come, scherzando, gli israeliani di solito definiscono i marocchini. Così preferiscono ridere del mio accento francese".

Non è strano trasferirsi da un Paese con pochi ebrei a un Paese come Israele?
    "È molto strano. Per esempio, qui le feste ebraiche vengono celebrate ovunque, non solo dentro casa. In Marocco ci mascheravamo per Purim, ma non avevamo il coraggio di camminare per le strade vestiti così. È strano anche nell'esercito".
    Michael ha completato l'addestramento di base tre settimane fa e ha ricevuto un premio come soldato di eccezionale valore. "C'erano altri che avrebbero meritato questo premio", dice timidamente, "ma sono felicissimo di essere stato scelto. Mi ha riempito d'orgoglio. Senza dubbio, il berretto verde valeva la fatica".

(Keren Hayesod, 9 marzo 2007)





5. LO SHASS VUOLE PUNIRE PIU' DURAMENTE I MISSIONARI




Stando alla proposta di legge del presidente dello Shass [partito israeliano] Yakov Margi, membro della Knesset, la legge israeliana contro il proselitismo dovrebbe essere notevolmente inasprita. Con la benedizione del direttore spirituale dello Shass, Rabbi Ovadia Josef, Margi ha proposto di elevare a un anno di prigione la pena per chi venga sorpreso nel tentativo di convertire un ebreo. Con questo ha dichiarato guerra ai missionari, riferiscono i quotidiani israeliani. Margi ha motivato la presentazione della sua proposta di legge con queste parole: «Sia che si tratti di cristiani che vengono da fuori, o di ebrei convertiti che lavorano in Israele, hanno tutti la stessa intenzione: distruggere ogni traccia e ogni memoria nel popolo d'Israele, e intendono fare questo convertendo ebrei. Questi individui lavorano preferibilmente all'interno della popolazione ebraica che si trova in uno stato di sofferenza fisica, sociale o morale." Fino ad ora i missionari non sono perseguiti perché la legge israeliana su questo soggetto non ha una regola. Costituiscono eccezioni il tentativo di convertire un minorenne, punito con la prigione fino a sei mesi, o il tentativo di indurre alla conversione un ebreo con denaro o beni materiali, cosa che viene punita con la prigione fino a cinque anni o con una pena pecuniaria.

(israel heute, 14 marzo 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





6. NON TUTTI ODIANO ISRAELE




Cristiani e sionisti

di Laurent Levy

Negli Stati Uniti, le chiese protestanti che appartengono al movimento evangelico contano più di 50 milioni di fedeli. L'interpretazione della Bibbia che si fa in un gran numero di queste chiese conduce i loro adepti a onorare il popolo ebraico e lo Stato d'Israele.
    Come ricorda il politologo Frédéric Encel, molto prima dell'emergere di questa corrente, dei cristiani europei (e in misura minore nord-americani), cattolici, anglicani o protestanti, avevano già sostenuto nei loro discorsi e nei loro scritti il sionismo politico e, in seguito, lo Stato ebraico moderno: «Questi incoraggiamenti non restarono a livello soltanto discorsivo e teorico: nella Palestina del Mandato Britannico, nel corso degli anni 1930-'40, ci furono cristiani che si batterono, come tali e armi alla mano, a fianco dei combattenti sionisti.» (in Encel Frédéric, "Le sionisme chrétien: paroles de romantiques, épées de combattants, influence d'évangélistes", in Hérodote, n°119, 2005, vol. 4).
    La relazione forte che esiste tra la Chiesa evangelica e lo Stato d'Israele risale dunque a prima della creazione dello Stato ebraico nel 1948. Per gli evangelisti [l'autore usa un termine molto usato al di fuori dell'ambiente, al posto del corretto "evangelici", n.d.t.] di tutto il mondo il ritorno degli ebrei sulla loro terra sembra realizzare una profezia di Ezechiele che aveva annunciato nell'Antico Testamento il ritorno degli ebrei dopo un esodo di 2000 anni. La riconquista della città santa di Gerusalemme da parte degli israeliani nella guerra dei sei giorni del 1967 soddisfaceva un'altra condizione.
    Secondo la dottrina degli evangelisti, molti altri avvenimenti devono ancora realizzarsi affinché la profezia si adempia. Ed è la vittoria del Bene contro il Male, e dunque il compimento della pace, che permetterebbe secondo gli evangelisti il ritorno del Messia sulla terra.
    Gli evangelisti inoltre sostengono Israele sul piano economico e finanziario. Il rabbino Yechiel Eckstein dirige una delle principali agenzie di raccolta fondi per Israele presso evangelisti americani. Yechiel Eckstein, fondatore dell'«International Fellowship of Christians and Jews», ha reclutato Ralph Reed, ex presidente della Coalizione cristiana, per incoraggiare 250.000 cristiani che hanno così inviato a Israele più di 60 milioni di dollari. Nello stesso modo, l'organizzazione «Christians for Israel» ha finanziato l'immigrazione di 65.000 ebrei, al fine di realizzare, a detta del suo presidente, il reverendo James Hutchens, «l'appello di Dio che consiste nell'aiutare il popolo ebraico a ritornare e a restaurare la terra d'Israele» (Jeffery L. Sheler, "Evangelicals Support Israel, but Some Jews Are Skeptical", in U.S. News and world Report, 12 agosto 2002).
    I doni degli evangelisti servono a lottare contro la povertà, ad acquistare degli autobus scolastici blindati - contro i terroristi - o anche ad aiutare degli ebrei a immigrare in Israele dalla Russia o dall'Ucraina. Comunità locali e molte associazioni beneficiano degli aiuti degli evangelici.
    Tuttavia, il sostegno degli evangelici a Israele fa scorrere molto inchiostro. Ci sono voci, anche in Israele, che si levano contro i doni che arrivano soprattutto dagli Stati Uniti, per denunciare una specie di ingerenza politica, come fa lo scrittore pacifista israeliano Uri Avnery, che confonde volentieri influenza politica e solidarietà, e che rimprovera all'amministrazione di George Bush, nonostante la Road Map, di non aiutare Israele nel cammino di pace con i suoi vicini. Secondo un'interpretazione condivisa da alcuni giornalisti, gli evangelici eserciterebbero addirittura una pressione per radicalizzare i conflitti in Medio Oriente...
    La generosità degli evangelisti è dunque spesso male accolta e mal compresa. I dibattiti e le polemiche non sono di utilità, contrariamente ai doni che aiutano concretamente delle persone in grande difficoltà, soprattutto dopo l'inizio della seconda intifada. Israele non ha mai avuto tanti poveri e tante persone in distretta materiale e psicologica. Il ritorno di un terrorismo devastatore - che si tratti di attentati o di missili «Qassam» lanciati su Israele dalla striscia di Gaza o di «Katiuscia» lanciati dal Libano fino all'estate 2006 - non mette soltanto in pericolo la vita di troppi israeliani: il terrorismo rovina alcune regioni sul piano economico. Il terrorismo non si limita ad uccidere e mettere in pericolo la vita degli israeliani, il terrorismo impoverisce!
    E le missioni di solidarietà degli evangelici non possono che essere apprezzate, quando si pensa che il mondo occidentale si disinteressa delle immense difficolta che il governo israeliano incontra per rispondere alle conseguenze economiche e sociali della guerra e del terrorismo.
    Sì, gli evangelisti donano a Israele, e tenuto conto delle difficoltà che incontriamo, i molteplici gesti di solidarietà sono apprezzabili; alcuni li considerano addirittura indispensabili. Per mettere in evidenza l'utilità di questa benvenuta solidarietà, senza dubbio bisognerebbe distinguere la parte di questi doni dal totale dei doni fatti a Israele ed esibire la lista degli organismi e delle comunità locali effettivamente sovvenzionate dagli evangelici.
    La Torah insegna che bisogna fare onore a chi dona...

(Guysen Israel News, 5 marzo 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

COMMENTO - Gli evangelici non contestano quando sono chiamati "evangelisti", perché in fondo il termine esprime quello che vorrebbero essere: predicatori dell'evangelo. Anche se in questo articolo l'autore non sempre mostra di aver ben capito il pensiero dei suoi interlocutori, una cosa certamente l'ha capita: che si tratta di solidarietà fondata sull'amore. Che questo sia compreso ed apprezzato, è forse la migliore ricompensa per i donatori. M.C.





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