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Notizie su Israele 385 - 10 aprile 2007 |
1. Venti di guerra nella Striscia di Gaza
2. L'odio per Israele si insegna nelle scuole 3. Concessioni e ritiri da parte israeliana 4. Importante ruolo della comunità in Georgia 5. Una città per Tsahal nel deserto 6. Libri 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. VENTI DI GUERRA NELLA STRISCIA DI GAZA
Teheran si prepara all'attacco contro Israele Il comando meridionale dell'Idf rivela: Hamas è un vero e proprio esercito come Hezbollah in Libano di Stefano Magni
"Sono liberi. Ma la Gran Bretagna è stata umiliata". Così si intitola, all'indomani della liberazione dei quindici marinai britannici, l'editoriale del quotidiano popolare inglese Daily Telegraph. Riassume tutto il disappunto dell'opinione pubblica più patriottica dell'ex prima potenza navale del mondo che assiste da casa, nell'ordine: al rapimento di un equipaggio di 15 marinai completamente indifesi, all'esposizione mediatica dei prigionieri (subito pronti ad ammettere le loro presunte colpe di sconfinamento), ad una liberazione degli ostaggi seguita alla decorazione dei responsabili del rapimento e ad ammonizioni alla Gran Bretagna, sulla sua condotta morale (Ahmadinejad ha rimproverato gli Inglesi di aver spedito una madre lontana dai suoi figli, a pattugliare le acque dello Shatt al Arab) e soprattutto politica (sempre Ahmadinejad: "Il governo britannico, in una lettera, ha promesso di non ripetere incidenti simili"). Sembrano molto lontani i tempi delle Falkland, nel 1982, quando gli Inglesi accettarono di inviare buona parte della loro flotta dall'altra parte del mondo per salvare i loro connazionali dall'aggressione argentina. In questi giorni poco eroici, anche a Gaza gli Inglesi hanno deciso di venire a più miti consigli, in questo caso per liberare un altro ostaggio, il giornalista Alan Johnston, rapito da una banda armata palestinese tre settimane fa. Il console britannico, Richard Makepeace (un nome, un programma) ieri ha violato l'isolamento diplomatico di Hamas per incontrare il primo ministro palestinese Haniyeh. Mentre la Gran Bretagna mostra sempre più una politica estera di basso profilo, Mahmoud Ahmadinejad è uscito dalla crisi degli ostaggi come l'unico vero vincitore. Già da febbraio le Guardie Repubblicane annunciavano che avrebbero rapito uomini della Coalizione in caso di sanzioni Onu e lo hanno fatto. L'Iran ha sfidato apertamente una grande potenza, ha alzato la tensione internazionale fino allo zenit e poi ha scelto il momento giusto per abbassarla di nuovo. Quale sarà la prossima mossa? La notizia (non ancora confermata) che a Natanz sono state installate 1000 nuove centrifughe per l'arricchimento dell'uranio, in aperta violazione delle risoluzioni Onu, fa pensare a una brusca accelerazione del programma nucleare. Gli esiti di questa manovra si potranno vedere solo nel medio periodo. Nel breve periodo, invece, c'è da temere una forte escalation del terrorismo islamista sponsorizzato da Teheran, soprattutto contro Israele. Il premier israeliano Ehud Olmert ha denunciato, in un'intervista televisiva rilasciata lo scorso 31 marzo, che a Gaza le milizie di Hamas hanno raddoppiato i loro effettivi, fino a 10.000 uomini. Dai tunnel scavati sotto la striscia di Gaza, sono passate 30 tonnellate di esplosivi, mentre nelle officine segrete della guerriglia palestinese vengono preparati nuovi razzi Qassam, questa volta con una gittata di 15 km, in grado di colpire fino ad Ashkelon. Lo Stato Maggiore della Israeli Defence Force inizia a prepararsi ad una nuova guerra sul fronte meridionale ampia tanto quanto la Seconda Guerra del Libano dell'estate scorsa. Alle spalle di questi preparativi bellici ci sarebbe l'Iran. Secondo Yuval Diskin, direttore dello Shin Bet (il servizio segreto israeliano), dozzine di quadri e ufficiali di Hamas si stanno recando nella Repubblica Islamica per ricevere addestramento militare. Il portavoce di Hamas, Islam Shahwan, ha smentito l'entità delle forze di Hamas, ma ha solo parzialmente negato l'esistenza di un rapporto militare stretto con l'Iran, affermando che non solo gli uomini di Hamas, ma anche quelli delle altre milizie, si recano in vari Paesi islamici (tra cui l'Iran) per l'addestramento. Però il generale Yoav Galant, del Comando Sud israeliano, ritiene che a causa dell'aiuto iraniano, Hamas ora non sia più un gruppo terrorista armato, ma un vero e proprio esercito, dotato di armi e tecnologie militari moderne, organizzato in battaglioni, compagnie, plotoni, commando di forze speciali, sempre più trincerato in una rete di bunker scavati nel centro abitato di Gaza. (L'Opinione, 6 aprile 2007) 2. L'ODIO PER ISRAELE SI INSEGNA NELLE SCUOLE Quei boy scout pronti al martirio di Fabio Perugia La forza armata di Hezbollah è frutto di anni di addestramenti. Di anni di indottrinamento che soprattutto i più giovani hanno recepito dagli imam sciiti. Il Centro informazioni intelligence e terrorismo e il Centro di studi speciali (C.S.S.) hanno redatto un rapporto sulle tecniche di formazione dei futuri combattenti della Jihad, la guerra santa. Nel 1985 fu fondata nella zona di sicurezza del sud del Libano l'organizzazione «The Imam Al-Mahdi Scout». Un movimento che oggi conta più di dieci milioni di membri e che lavora con un solo obiettivo: educare i giovani alla distruzione d'Israele. Un vero e proprio gruppo di scout che allestisce dei campi estivi nella valle della Bekaa (una fertile vallata che si estende tra il Libano e la Siria), dove con l'uso di lezioni teoriche e pratiche i ragazzi vengono ammaestrati per prendere parte alla battaglia «legale» di Hezbollah minimizzando i simboli libanesi, esaltano quelli della guerra santa iraniana e quelli delle loro guide spirituali. I giovani scout hanno un'età che va dagli 8 e i 17 anni: indossano uniformi, tute mimetiche, imparano a sparare con i fucili, si esaltano nelle parate di Beirut alla corte di Nasrallah e sono volti alla preparazione di una generazione islamica in accordo con la percezione del mondo dell'imam Ruhollah Mosavi Khomeyni (morto nel 1989) e della filosofia Wilayat-al-faqih (letteralmente «Governo del giudice religioso»). Tutto questo con il benestare, concesso nel 1992, del ministro libanese per l'educazione. Secondo il dossier dell'intelligence, in realtà Hezbollah non ha cresciuto una cultura propria, ma ha importato in Libano i principi iraniani della rivoluzione islamica. La stessa guardia rivoluzionaria iraniana ha acconsentito alla nascita e ha accompagnato la crescita di Hezbollah, giocando un ruolo centrale nell'attività di reclutamento dei giovani, i quali venivano «selezionati» principalmente nel sud del Libano e a Beirut. I primi risultati degli addestramenti del gruppo «The Imam Al-Mahdi Scout» si sono visti questa estate durante la guerra al confine nord d'Israele tra l'esercito israeliano e il gruppo armato Hezbollah. Quelli che erano giovani psicologicamente influenzati sono diventati dei combattenti, ora uomini, che lavorano sull'indottrinamento delle future generazioni. I nuovi allenamenti prevedono una parte più ludica composta da attività sociali, giochi, competizioni e sport, e un'altra dedicata alla «catechizzazione» dei principi rivoluzionari islamici. Nei campi si apprende l'uso delle armi attraverso allenamenti fisici, esercitazioni in marcia e tecniche di mimetizzazione. In un reportage dell'8 agosto 2006 pubblicato dal quotidiano egiziano Ruz Al-Yusuf si accerta che Hezbollah ha sempre reclutato adolescenti e bambini, e li ha addestrati a combattere fin dalla giovane età. «Ci sono bimbi che hanno meno di dieci anni e indossano tute mimetiche, colorano i loro volti di nero e giurano fedeltà alla Jihad, a Hezbollah e al loro gruppo di scout». Dopo anni di addestramento i ragazzi entrano a far parte del reparto operativo di Hezbollah (quando hanno compiuto i 17 anni di età). Molti di loro moriranno, come Hassan Kassem Halmid, capo degli scout, ucciso assieme al fratello questa estate durante un attacco. Altri, invece, scateneranno una tempesta di missili sopra i cieli d'Israele. Dal confine nord del Libano torneranno poi a Beirut, accolti come fieri condottieri. Attraverso i loro mezzi di propaganda convinceranno la popolazione che è stata una grande vittoria. Si attiveranno per vere azioni di marketing distribuendo opuscoli titolati «Sharon unico diavolo», «Le più grandi gesta della resistenza islamica», «La Jihad giovanile». Pubblicheranno giornali, libri, calendari e volantini esaltando la guerra santa di matrice sciita-iraniana. Recluteranno nuovi giovani. Istruiranno la futura generazione che entrerà a far parte del gruppo «The Imam Al-Mahdi Scout». E si prepareranno nuovamente a una nuova guerra. Per loro santa. (Shalom, 30 marzo 2007) 3. CONCESSIONI E RITIRI DA PARTE ISRAELIANA La strada sbagliata da un articolo di Uzi Arad Nel momento in cui sentiamo il primo ministro israeliano Ehud Olmert che prevede ottimisticamente una pace entro un breve lasso di tempo, dobbiamo aspettarci ulteriori prove di flessibilità diplomatica da parte di Israele. Le due formule diplomatiche che vennero respinte da Ariel Sharon quando era primo ministro l'iniziativa saudita e l'iniziativa di Ginevra vengono oggi rinnovate da Ehud Olmert e Tzipi Livni. Se verranno adottate varie clausole contenute in quelle iniziative, esse andranno ad aggiungersi a tutta una serie di concessioni, ritiri e flessibilità da parte israeliana che hanno caratterizzato quest'ultimo decennio, quasi tutte assunte unilateralmente senza ottenere praticamente alcun vantaggio. Nell'estate 2000 l'allora primo ministro israeliano Ehud Barak cercò per la prima volta di porre fine al conflitto una volta per tutte. Le concessioni che presentò a Camp David andavano ben oltre qualunque cosa Israele fosse disposto a cedere in precedenza, violando quelle che allora venivano chiamate "linee rosse". Yasser Arafat respinse quelle proposte senza prendersi nemmeno la briga di presentare delle proposte alternative. Poche settimane dopo i palestinesi lanciarono l'intifada. Alla fine di quell'anno, nel disperato tentativo pre-elettorale di Taba il governo Barak propose ulteriori concessioni che andavano persino oltre quelle offerte a Camp David. Invano. Nonostante il cambio di governo e le crescenti violenze palestinesi, le posizioni di principio d'Israele continuarono ad erodersi. Nel discorso di Latroun del 2003 Sharon affermò che lo stato palestinese è uno stato "de facto". La sua dichiarazione aprì la strada alla Road Map del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu), che prevedeva altri tre anni per arrivare a un accordo di pace e l'istituzione di uno stato palestinese ancor prima di arrivare all'accordo definitivo, senza alcuna parallela compensazione (come, ad esempio, un impegno ad esercitare il ritorno dei profughi solo nelle aree sotto governo palestinese). Sharon ignorò questi svantaggi preferendo sottolineare il fatto che la prima fase della Road Map prevedeva che i palestinesi smantellassero le loro strutture terroristiche. E così strappò l'approvazione del suo governo. Pochi mesi dopo Sharon andò oltre la Road Map lanciando l'iniziativa del "disimpegno" dalla striscia di Gaza, che comportava nuove concessioni: smantellamento degli insediamenti e ritiro completo sulle linee del 1967 prima di arrivare a un accordo sullo status definitivo, e senza ricevere nulla in cambio. Pressato dall'opposizione, Sharon riuscì solo a ottenere dagli americani alcuni impegni relativi all'accordo futuro sullo status definitivo: il riconoscimento americano che Israele ha diritto a confini difendibili, l'inclusione futura di alcuni grossi blocchi di insediamenti sotto sovranità israeliana, una dichiarazione secondo la quale i profughi palestinesi non entreranno in territorio israeliano. Quando il "disimpegno" fu completato, i suoi architetti, compresi Olmert e Livni, ne annunciarono uno simile in Cisgiordania nel quadro di una politica di "riallineamento". La debolezza di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), l'ascesa al potere di Hamas e la seconda guerra in Libano hanno fatto slittare il piano, e ci si poteva attendere che se ne traesse qualche insegnamento. Ora invece sembra che la tendenza verso le concessioni senza contraccambio prosegua. Dopo il "disimpegno", lo smantellamento delle strutture terroristiche sembra non essere più una precondizione per colloqui diplomatici: Israele sta gradualmente accettando un governo di unità nazionale palestinese che comprende Hamas, e si dimostra disposto ad avviare colloqui sull'"orizzonte politico", cioè sui termini dello status definitivo. Anche il rilancio dell'iniziativa saudita, la cui richiesta chiave è il ritiro su tutte le linee del 1967, rappresenta l'abbandono di un concetto assodato dai tempi del presidente Ford fino a quelli di George W. Bush. Come è potuto accadere che, mentre arabi e palestinesi si tengono ben strette le loro armi e aumentano persino le loro rivendicazioni, Israele passa da un'iniziativa all'altra abbandonando principi e posizioni considerate cruciali solo fino a ieri. Vi sono diverse spiegazioni. Secondo la visione di sinistra, ad esempio, le richieste palestinesi sono fondamentalmente giuste, l'occupazione israeliana è la madre di tutti i peccati, e dunque ogni concessione o ritiro è una benedizione. Un'altra posizione è quella ammaliata dalla riconciliazione: è la convinzione che soggetti aggressivi e prepotenti possano essere placati cedendo alle loro pretese. Esiste anche il distacco dalla realtà: ignorare i dati di fatto e la situazione, abbandonandosi ai propri pii desideri. E poi sono stati fatti errori per debolezza e sventatezza. Un altro errore diffuso nasce dall'ignoranza delle regole del negoziato, e in primo luogo da una interpretazione sbagliata dell'errore insito nelle mosse unilaterali: non esistono pasti gratis, e non esistono concessioni gratis. Infine, e questo non dovrebbe essere nascosto, da Taba fino al "disimpegno" e forse fino ad oggi, la vana pratica delle concessioni è stata attuata anche per il mero scopo di sopravvivere politicamente. Una serie di concessioni a valanga potrà mai soddisfare i palestinesi al punto da spingerli a porre fine al conflitto e smetterla di avanzare altre rivendicazioni? Difficile credere che questo accada, perché storicamente più Israele ha moderato le sue richieste, più i palestinesi hanno reso intransigenti le loro. E poi non accadrà perché le concessioni non sono state condizionate a |
concessioni reciproche, ed anche perché i palestinesi non hanno permesso la chiusura in nessun precedente tentativo. Le posizioni dell'attuale governo palestinese sono simili a quelle che prevalevano fra i palestinesi prima di Oslo, mentre a poco poco emergono segni che indicano le rivendicazioni dei palestinesi israeliani, che vanno ad aggiungersi a quelle dei palestinesi esterni: tutto questo non fa presagire la fine del conflitto quanto piuttosto la fine dello stato ebraico. E questa non è la strada che porta alla pace. (YnetNews, 4 aprile 2007 - da israele.net) 4. IMPORTANTE RUOLO DELLA COMUNITA' EBRAICA IN GEORGIA Georgia: a due ore da Israele La crisi con la Russia non rallenta lo sviluppo economico della Georgia. L'importante ruolo svolto da Israele e dalla comunità degli ebrei georgiani di Marina von Koenig*, per Eurasianet , 9 marzo 2007 (titolo originale: "Jewish Community Helps Georgia and Israel Draw Closer") I blocchi posti dalla Russia su commercio e trasporti possono aver indebolito la crescita economica della Georgia, ma il Paese è riuscito ad assicurarsi significativi investimenti stranieri. La crescita economica del 10 per cento dello scorso anno, stando ai dati del governo, è dovuta non da ultimo all'emergere di nuovi partner economici. Tra questi c'è anche Israele. A partire dai primi anni ottanta, più dell'80 per cento dei circa 50.000 ebrei che vivevano in Georgia hanno lasciato il Paese, soprattutto per andare in Israele. Questo secondo la Comunità ebraica di Tbilisi, un'organizzazione operante sotto gli auspici dell'American Jews Joint Distribution Committee, organizzazione non governativa che assiste le comunità ebraiche in ogni parte del mondo. L'esodo è stato motivato dalle ristrettezze economiche e dal desiderio di tornare nella patria degli ebrei, ha commentato Zaira Davarashvili, vice direttrice della Casa della comunità ebraica di Tbilisi, ma il desiderio di essere d'aiuto nello sviluppo della Georgia sta ora attirando indietro molti ebrei georgiani. "Gli ebrei sono vissuti in Georgia per 26 secoli", ha detto la Davarashvili. La Georgia è sempre stata orgogliosa della sua comunità ebraica e delle sue relazioni con Israele, ma nell'era post-Shevardnadze queste relazioni hanno assunto una dimensione molto più pragmatica. Subito dopo la rivoluzione delle rose del 2003 il nuovo presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, si recò in Israele accompagnato da quella che descrisse come "la più numerosa delegazione che io abbia mai portato con me", che comprendeva i suoi ministri degli Esteri, della Difesa e delle Finanze. "La Georgia è a sole due ore da Israele". Così il Jerusalem Post, quotidiano israeliano in lingua inglese, riportava le parole di Saakashvili, paragonandolo ad un tour operator. "Abbiamo un'atmosfera estremamente accogliente, stazioni sciistiche e balneari, siti di grande interesse naturalistico, storico ed artistico, e una popolazione molto ospitale nei confronti degli ebrei". Così si espresse Saakashvili, aggiungendo che egli vedeva un immenso potenziale per il turismo e per le joint venturs commerciali. Per facilitare gli investimenti, specialmente per gli israeliani di origine georgiana, Saakashvili offrì loro la doppia cittadinanza. Fece questa offerta quando nel dicembre 2005 prese parte alle festività della Hannukah nell'affollata sinagoga di Tbilisi. L'offensiva diplomatica di Saakashvili è stata però accolta anche con scetticismo. "Il problema", ha detto un rappresentante del governo, citato dal Jerusalem Post nel 2005, "è che la Georgia è un Paese molto povero e non possiede infrastrutture turistiche. La sua capitale Tbilisi ha solo due hotel che soddisfano gli standard occidentali". Due anni più tardi, molti di questi problemi permangono, anche se gli osservatori ritengono che la diminuzione delle tasse e la semplificazione nelle procedure doganali e nella concessione delle licenze commerciali abbia incrementato l'interesse degli investitori stranieri nello Stato del Caucaso meridionale. In un'intervista rilasciata il primo marzo al servizio di notizie online Civil.ge, il rappresentante del Fondo monetario internazionale (FMI) Robert Christiansen ha stimato che in Georgia nel 2007 gli investimenti esteri diretti ammonteranno ad un minimo di 1,2 miliardi di dollari, in leggera crescita rispetto agli 8-900 milioni dell'anno precedente. La ricerca di nuovi investitori ed alleati si è intensificata mentre si deterioravano le relazioni con il principale partner commerciale della Georgia, la Russia. Le relazioni tra i due Paesi hanno toccato il fondo nel settembre dell'anno scorso, quando i georgiani arrestarono quattro funzionari russi con l'accusa di spionaggio. Da allora, la Russia ha cancellato i voli diretti tra i due Paesi, e ha espulso centinaia di lavoratori immigrati; un embargo commerciale riguardante vino, acqua minerale e mandarini era già in vigore. Ma al posto della destabilizzazione che ci si attendeva, sostengono alcuni osservatori locali, la pressione della Russia ha generato il risultato opposto: ha accelerato lo sviluppo economico. "L'economia della Georgia ha continuato ad avere un andamento notevolmente positivo, nonostante la perdita dei principali mercati per le sue esportazioni e i più alti prezzi per le forniture energetiche". Queste le affermazioni del vice direttore amministrativo dell'FMI Takatoshi Kato, riportate da un comunicato stampa del primo marzo. Questo successo economico ha incoraggiato gli ebrei che da tempo avevano lasciato la Georgia a cercare nuove opportunità nel Paese dove un tempo vivevano. Secondo l'Agenzia nazionale georgiana per gli investimenti, gli investimenti esteri israeliani in Georgia nel 2006 sono cresciuti di venti volte rispetto ai due anni precedenti, arrivando dai 500.000 dollari del 2003 ai quasi 3 milioni di dollari solo nei primi tre mesi del 2006. L'offerta di doppia cittadinanza di Saakashvili è stata bene accolta. Trecentotrentotto persone di origine ebraica hanno ottenuto la cittadinanza georgiana nel 2006, secondo il ministero georgiano per gli Affari esteri. Alcuni di questi hanno già comprato un appartamento o una casa. "Agli ebrei georgiani che vivono in Israele piace molto l'idea di avere una proprietà immobiliare in Georgia, specialmente visto che i prezzi di anno in anno continuano a crescere", ha detto l'investitore israeliano Zeev Frenkiel, la cui compagnia Tsavkisi Valley sta ora costruendo 168 ville private in un sobborgo di Tbilisi. Frenkiel nella Georgia occidentale gestisce anche una compagnia di telecomunicazioni, un centro medico e una compagnia agroalimentare e, stando alle sue affermazioni, tutte queste imprese sono in attivo. Oltre che per lo sviluppo delle costruzioni immobiliari, gli investitori israeliani hanno mostrato interesse per i progetti infrastrutturali, per le industrie alimentari e per le banche. Nel gennaio di quest'anno la seconda banca di Israele in ordine di grandezza, la Leumi Bank, ha firmato un accordo preliminare con la banca georgiana TBC per l'acquisizione del 20 per cento del suo capitale azionario. "Israele è uno dei principali investitori della Georgia, e questo ha in larga misura determinato la nostra scelta di stabilire una partnership con la Leumi Bank", ha dichiarato Mamuka Khazaradze, presidente del consiglio dei supervisori della banca TBC all'emittente televisiva georgiana Rustavi-2 il 26 gennaio. Un ruolo determinante è giocato anche dalle ambizioni energetiche di Israele e dal ruolo della Georgia di terra di transito per il petrolio e il gas del Mar Caspio. Negli ultimi mesi Turchia e Israele hanno definito un accordo provvisorio per trasportare il petrolio del Mar Caspio dal porto di Ceyhan in Turchia al porto israeliano di Eilat sul Mar Rosso, permettendo così la spedizione del petrolio verso i mercati asiatici. La Georgia beneficia direttamente di questi accordi in termini di maggiori tasse di libero transito, dato che l'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan passa sul suo territorio. Questi accordi sono un segno che il Paese sta consolidando la sua posizione storica, di crocevia vitale tra Europa ed Asia. Mentre questo processo continua, il governo spera che i legami emotivi che avvicinano gli investitori stranieri d'Israele alla Georgia aiuteranno a fare la differenza. ______________ *Marina von Koenig e Nino Taktakishvili lavorano in Georgia come giornalisti freelance per giornali cartacei ed emittenti radiofoniche (Osservatorio Balcani, 3 aprile 2007 - trad. Carlo Dall'Asta) 5. UNA CITTÀ PER TSAHAL NEL NEGHEV Domenica 1 aprile il governo israeliano ha dato il suo consenso alla creazione nel deserto del Neghev di un'importante città che di fatto sarà un complesso destinato ad accogliere una decina di basi militari. I ministri hanno accettato all'unanimità il progetto iniziato dal vice Primo Ministro Shimon Peres, incaricato anche dello sviluppo del Neghev, e dal Ministro della Difesa Amir Peretz. La città sarà situata presso la zona industriale Ramat Hovev, non lontano da Beersheba, e dovrebbe essere inaugurata nel 2011. Battezzata «la città delle basi d'istruzione», si estenderà su una superficie di 125 ettari e accoglierà 11.000 militari del contingente di leva e dell'esercito di carriera. Disporrà di tutte le infrastrutture necessarie: stazione ferroviaria, poste, biblioteca, centro commerciale, ristoranti, scuole, ospedale, commissariato, banche, campi sportivi, palestre e piscina. Il Primo Ministro Ehud Olmert ha stimato che questo progetto «modificherà totalmente la realtà del Neghev» perché offrirà migliaia di impieghi e attirerà «una popolazione che darà un nuovo slancio alla regione». Il progetto ha suscitato le critiche degli ecologisti, i quali sottolineano che la zona di Ramat Hovav accoglie 17 importanti imprese industriali inquinanti e dannose dal punto di vista sanitario. Accusano il governo di non aver effettuato ricerche serie prima di prendere una decisione simile. Gli ecologisti hanno l'intenzione di presentare un'istanza alla Corte Suprema su questa faccenda. Lo scopo di questa impresa non è soltanto quello di favorire lo sviluppo del Neghev, ma anche, attraverso lo spostamento delle basi d'addestramento di Tsahal dal centro del paese, di permettere l'evacuazione di spazi importanti per lo sviluppo di località che oggi sono a un livello di saturazione per quanto riguarda l'habitat. (Un Echo d'Israèl, 6 aprile 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) 6. LIBRI EMANUELE OTTOLENGHI, Autodafé - L'Europa, gli ebrei e l'antisemitismo, ed. Lindau, Torino, 2007. Dalle pagine di copertina Quando si parla di antisemitismo, il pensiero corre alle persecuzioni degli anni '30 e '40 del secolo scorso, sfociate nell'Olocausto. E il confronto con l'oggi porta a concludere che quel problema è stato sostanzialmente superato, o riemerge in forme episodiche e molto circoscritte, che a qualcuno possono sembrare perfino folkloristiche. Ma l'antisemitismo a sfondo razziale, così intimamente associato al nazismo, rappresenta un'aberrazione rispetto all'odio antiebraico che lo aveva preceduto. Tutte le più vecchie forme di pregiudizio antiebraico - dalle dottrine cristiane al disprezzo marxista per gli ebrei, all'ostilità antiebraica di liberali e illuministi - avevano in realtà un altro elemento in comune: per gli antisemiti, gli ebrei avevano «un problema» (di natura religiosa o sociale, o socio-economica, o storica), che era parte della loro identità e che costituiva un ostacolo alla loro piena integrazione nella società. Essi avrebbero potuto «salvarsi» convertendosi, assimilandosi o unendosi alle forze della rivoluzione. E, in effetti, in tutti quei casi in cui gli ebrei cedettero al doppio ricatto di minacce e lusinghe, ottennero non solo uguaglianza e integrazione, ma spesso alte cariche e importanti onorificenze. L'antisemitismo attuale è una variante di questo vecchio pregiudizio: trova come scusa non un supposto tratto biologico malvagio, bensì un'opinione e un comportamento degli ebrei nei confronti d'Israele che sono espressione, prima di tutto, della loro identità. Nel clima attuale, si assiste insomma all'emarginazione di ebrei filo-israeliani o a una crescente pressione su di loro perché abbandonino le loro posizioni su Israele e Medio Oriente e si conformino al paradigma dominante. Le loro opinioni trovano sempre meno spazio sui giornali europei ed è possibile che la narrativa storiografica revisionista che forma il nucleo accademico di delegittimazione d'Israele, vinca la battaglia dei libri di testo negli atenei e trionfi sugli scaffali delle librerie (rendendo sempre più precaria tra le élite la posizione di Israele e degli ebrei che lo sostengono). Naturalmente, una dissociazione chiara (e, se possibile, frequentemente ribadita) da Israele e dalla sua politica può rendere gli ebrei che la pronunciano socialmente più accettabili. «È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio.» Albert Einstein __________ EMANUELE OTTOLENGHI è nato a Bologna. Ha conseguito]a laurea in Scienze Politiche all'Università di Bologna e un Ph.D. all'Università Ebraica di Gerusalemme. Dal 1998 al 2006 ha insegnato Storia d'Israele all'Università di Oxford, dov'era Leone Ginzburg Senior Fellow in Israel Studies presso l'Oxford Centre for Hebrew and Jewish Studies e il Middle East Centre del St. Antony's College. Da settembre 2006 dirige il Transatlantic lnstitute di Bruxelles. MUSICA E IMMAGINI Jewish Songs INDIRIZZI INTERNET Zion Oil & Gas Trumpet of Salvation Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |