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Notizie su Israele 404 - 18 ottobre 2007

1. Semplicismo e malignità
2. «Caro vecchio zio Hitler»
3. La guerra santa degli islamisti
4. Diminuisce la popolazione ebraica nella diaspora
5. Conversioni agevolate
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Ezechiele 28:25-26. Così parla DIO, il Signore: «Quando avrò raccolto la casa d'Israele in mezzo ai popoli fra i quali essa è dispersa, io mi santificherò in loro davanti alle nazioni, ed essi abiteranno il loro paese, che io ho dato al mio servo Giacobbe; vi abiteranno al sicuro; costruiranno case e pianteranno vigne; abiteranno al sicuro, quando io avrò eseguito i miei giudizi su tutti quelli che li circondano e li disprezzano; e conosceranno che io sono il SIGNORE, il loro DIO.»
1. SEMPLICISMO E MALIGNITA'




Irresponsabile complicità

di Fiamma Nirenstein

Fiamma Nirenstein
Ogni volta che dalla complessità della scena mediorientale mi affaccio sull'opinione pubblica italiana, resto come interdetta, senza parole, muta dallo stupore di tanto semplicismo e tanta malignità insieme. Venerdì della scorsa settimana il TG3 della sera, momento di grande ascolto, presentava un servizio in cui si mostrava la folla palestinese intorno alla Moschea di Al-Aqsa, desiderosa di partecipare alla funzione religiosa, e impedita nel farlo dai perfidi soldati israeliani. Era presentata, montata, commentata proprio così: uno a uno a uno, con un montaggio semplicistico ma molto espressivo, si vedevano i giovani israeliani armati che spintonavano la folla che si accalcava loro addosso e i fedeli musulmani venivano descritti come popolo inerme, donne e bambini, fedeli delusi nella loro aspettativa spirituale. I soldati apparivano come sadici energumeni tutti protesi in una specie di partita di rugby, in un crudele gioco volto a reprimere la più nobile fra le aspirazioni umane: la preghiera. Intanto, a Teheran e a Damasco rispettivamente, Ahmadinejad e Nasrallah nel "Giorno di Gerusalemme" esortavano tutto il mondo arabo alla guerra e alla distruzione di Israele. Non c'è stata una parola sul potenziale esplosivo che i venerdì di Al-Aqsa, e in particolare quello dedicato ad Al-Quds, hanno sempre contenuto; sul fatto che in un mese sono stati sventati otto attentati suicidi di grandi dimensioni più una quantità di altri attentati minori; sulle cellule terroriste sia di Hamas che di Fatah che, secondo tutti i servizi di informazione, hanno sempre scelto, per colpire, le feste ebraiche e quelle musulmane (la fine del Ramadan), e stavolta, alla vigilia del summit di pace del Maryland, hanno tutto l'interesse a stravolgere le cose. Non è stata sprecata una parola sulla quantità di agenti stranieri, primo fra tutti l'Iran seguito dai suoi amici Hezbollah, che danno fuoco alle polveri proprio in questi giorni; né sullo scatenarsi di una grande pioggia di missili da Gaza negli ultimi giorni, di cui l'ultimo un vero missile Grad con 20 chilometri di gittata sulla città di Netivot. Invece, il cronista, con il tono degli annunci oggettivi e ufficiali, ha detto, cito a memoria e quindi con qualche imprecisione, che in quel giorno "il presidente iraniano Ahmadinejad ha ribadito la sua opinione sul fatto che Israele sia stata fondata come risposta all'Olocausto, occupando la terra dei palestinesi che con l'Olocausto non hanno niente a che fare, e ha suggerito che un loro stato avrebbe potuto essere costruito altrove, forse in Alaska". Così si concludeva il servizio, e il finale avrebbe potuto essere ritenuto ironico, così secco e senza commenti, se la parte precedente, quella sulla Spianata, non fosse invece stata satura di orripilato stupore nei confronti di quei disgraziati soldati. Che, si vedeva benissimo, si limitavano a spintonare indietro una folla minacciosa che si faceva loro addosso, cercando di non arrecare danno fisico a nessuno. Ma l'atmosfera è questa: criminalizzazione, diffamazione gratuita, ignoranza dello sfondo degli avvenimenti, che invece è determinante. Se qualcuno ha dato un'occhiata all'ultimo numero della rivista Limes, intitolato "La Palestina Impossibile", si sarà reso conto di come sullo sfondo del popolaresco festival di diffamazione in corso, c'è invece una robusta intelaiatura intellettuale, in cui la ridondanza del linguaggio è pari solo alla povertà dell'informazione e alla chiarezza di un messaggio ripetuto e incomprensibile a una mente normale: riconoscete Hamas, parlate con Hamas, fors'anche apprezzatelo. Già nelle prime cinque righe Hamas viene definita "vincitore delle ultime elezioni palestinesi, ma battezzato terrorista dalle potenze che contano". Battezzato terrorista! E la pioggia di kassam "razzi di latta sparacchiati dalle milizie palestinesi" cui Israele replica con "infiltrazioni mirate e bombardamenti dall'aria". In più, si sa, Israele "non teme di usare la violenza, lo fa senza complessi fin dalla nascita quando un'eteroclita coalizione araba tentò di strangolarlo nella culla". Che il sottinteso sia che era meglio se si faceva strangolare, è ovvio. E altrettanto ovvio per chi conosce la storia e la realtà, è che l'esercito cerca di usare meno violenza possibile, fino al sacrificio dei suoi soldati in questa impossibile guerra asimmetrica; semmai Israele ha tentato invece ripetutamente di consegnare terra ai palestinesi, di cercare un accordo di pace in cui, alzandosi dal tavolo, era palesemente l'unico a pagare. Ma tutto questo è obliterato in quel calderone di malevolenza che nei tempi di Ahmadinejad si trasforma sempre di più in complicità irresponsabile.

(dal blog di Fiamma Nirenstein, 9 ottobre 2007)





2. «CARO VECCHIO ZIO HITLER»




Hitler veniva inondato di lettere dagli ammiratori

Uno storico tedesco le ha rinvenute in un archivio di Mosca

ROMA - Adolf Hitler ha ricevuto fino a mille lettere al mese dai suoi ammiratori nel corso della sua lunga carriera politica: dichiarazioni d'amore, promesse di fedeltà eterna, ma anche richieste molto bizzarre. Lo riferisce il quotidiano britannico 'The Independent', il quale osserva che in quanto a numero di fan il dittatore tedesco può benissimo rivaleggiare con i Beatles.
    Una selezione di queste lettere - rinvenute in un fondo d'archivio nazista, sequestrato dai sovietici nel '45 e conservato a Mosca - è ora contenuta in un nuovo libro intitolato "Lettere a Hitler - Un popolo scrive al suo leader", scritto dal giovane storico tedesco Henrik Eberle.
    Ieri il giornale tedesco 'Bild' ne ha offerto un'anticipazione, pubblicando alcune lettere riportate nel volume, che faranno certamente discutere. In un telegramma del giugno 1925, un tale di nome Walter Zickler manifesta ad esempio la sua "immutabile fedeltà e incrollabile fede verso il nostro leader, Adolf Hitler". In un'altra lettera, un fornaio nazista chiede invece al Fuhrer il permesso di lanciare una nuova linea di dolci e torte in suo onore, con il nome "Torta Hitler". Ma Rudolf Hess, il delfino di Hitler che spesso scriveva di suo pugno le risposte, riferisce al devoto fornaio che forse non era il caso, poichè era opportuno evitare pubblicità "kitsch".
    Ben più inquietante ed indicativa del clima dell'epoca è una lettera scritta da un membro del Partito Nazista per chiedere consiglio a Hitler su come comportarsi dopo aver appreso che la nonna era ebrea: "Grande capo, cosa devo fare? Devo porre fine alla mia attività? Siamo umani? Per favore aiutami". Lapidaria la risposta: "Forse potresti aiutare la sezione locale del partito".
    Una donna tedesca della Prussia Orientale, Annelene K., che vive oggi in Lituania, scrive a sua volta: "Caro vecchio Zio Hitler, ti stiamo aspettando da molto tempo, quando vieni nella nostra regione? Saremmo felici di appartenere nuovamente alla Germania. Gli ebrei e i lituani dovranno andare tutti via, non è vero? Gli ebrei ci porteranno via il pane, e uccideranno i Cristiani per Pasqua".
    Infine, una lettera, scritta nel 1932 da un membro del Partito nazista, un anno prima dell'ascesa di Hitler alla cancelleria, afferma testuale: "Non vogliamo nessun altro al governo, vogliamo solo ADOLF HITLER come dittatore. Noi, nazionalsocialisti, vogliamo la chiusura di tutti i giornali che hanno diffuso veleno contro il nostro leader, e l'espulsione di tutti gli ebrei".

(Alice News, 10 ottobre 2007)





3. LA GUERRA SANTA DEGLI ISLAMISTI




Un'altra vittima dell'intolleraza religiosa islamica

di Stefano Magni

Nel 1948 i cristiani in Palestina erano il 20% della popolazione. Oggi sono appena il 2%. Betlemme era una città quasi interamente cristiana. Oggi i cristiani di Betlemme sono in minoranza rispetto ai musulmani, in una città dove le moschee hanno superato numericamente le chiese. Nella Gaza conquistata militarmente da Hamas, i primi episodi di intolleranza non si sono fatti attendere. Il 14 giugno scorso, all'indomani del golpe islamista, erano già stati saccheggiati un convento e una scuola cristiana. E le violenze non sono finite lì: negozi di musica e Internet café sono stati minacciati o distrutti da milizie che si sono auto-investite del compito di imporre la legge coranica con la forza. I 3200 cristiani rimasti a Gaza (ma potrebbero già essere molti meno) sono comprensibilmente spaventati e hanno ricominciato a fuggire dalla città caduta nelle mani degli islamisti. Quelli che restano subiscono pressioni e minacce. Come Rami Khader Ayyam: missionario protestante, direttore della principale libreria cristiana di Gaza (appartenente alla Società Biblica Palestinese), aveva già subìto numerose minacce. Il governo palestinese gli aveva fornito una scorta, ma si trattava di una protezione talmente leggera che, domenica scorsa, uno sconosciuto killer lo ha potuto pugnalare e finire a colpi di rivoltella mentre Ayyam era solo. I poliziotti di scorta avevano ottenuto una licenza per la fine del Ramadam ed erano a casa loro a consumare il primo pranzo dopo il digiuno.
    Quando c'era Arafat e tutta la Palestina era controllata dai partiti dell'Olp, gli omicidi e le persecuzioni dei cristiani (e gli attentati contro Israele) venivano attribuiti ai «fanatici di Hamas». Adesso che gli stessi «fanatici di Hamas» hanno preso il potere a Gaza, questi attribuiscono la colpa a gruppuscoli jihadisti ancora più fanatici, affiliati ad Al Qaeda. Anzi, il leader politico del partito islamista, Haniye, giunge a proclamarsi il protettore dei cristiani in Palestina: «I cristiani sono parte della nostra storia palestinese e non permetterò a nessuno di rovinare questa storica alleanza», ha dichiarato subito dopo l'omicidio del missionario protestante. Il fine è chiaro: vuole sedersi al tavolo delle trattative, assieme alle potenze occidentali, come rappresentante legittimo della sua parte di Palestina. Eppure molti suoi colleghi di partito erano stati molto più espliciti. Secondo il programma politico di Hamas, i cristiani devono essere sottomessi: fra le varie riforme proposte si trova, ad esempio, l'imposizione della jeziya, la tassa tradizionale che i non musulmani devono pagare ai musulmani per ricevere in cambio la «protezione», cioè la possibilità di continuare a vivere.
    Un cristiano che fa proseliti, anche vendendo libri ai musulmani, non trova posto in una società che non ammette la pratica di altre religioni su un piano di parità. Nel 2005 il capogruppo di Hamas a Betlemme, lo dichiarava apertamente: «Noi di Hamas intendiamo introdurre questa tassa (la jeziya, ndr). Lo diciamo apertamente: diamo a tutti il benvenuto in Palestina, ma a patto che accettino di vivere sotto le nostre regole». E i cristiani palestinesi come reagiscono? Quelli che non fuggono o non vengono uccisi cercano di scendere a compromessi. Come il sindaco cattolico di Betlemme, Victor Batarseh, che dichiara di opporsi contro la violenza terroristica, rifiuta di parlare di annientamento dello Stato di Israele ed è contro ogni discriminazione nei confronti dei cristiani. Però, allo stesso tempo, amministra la città grazie ai voti di Hamas, con cui è alleato. Grazie a questi esempi politici, gli islamisti al potere a Gaza si presentano come protettori della cristianità. E alla Farnesina ci sarà sicuramente qualcuno pronto a credere alla loro versione dei fatti, perché non vede l'ora di sedersi con Hamas al tavolo delle trattative.

(Ragion Politica, 9 ottobre 2007)





4. DIMINUISCE LA POPOLAZIONE EBRAICA NELLA DIASPORA




Mentre la popolazione ebraica in Israele aumenta ogni anno, il numero degli ebrei nella Diaspora è in rapida diminuzione. Persino la comunità ebraica degli Stati Uniti non ha registrato un incremento significativo. Le ragioni: forte assimilazione e basso tasso di natalità. Seguono due articoli tratti da Keren Hayesod.

1. Dove stanno scomparendo gli ebrei della Diaspora?

di Eli Bardenstein

Madonna e i suoi amici di Hollywood stanno forse suscitando grande interesse intorno all'ebraismo e alla Cabala, ma il numero degli ebrei nella Diaspora sta in realtà diminuendo. Stando ai dati forniti dall'Istituto per la Politica di Pianificazione del Popolo Ebraico (JPPPI) fondato dall'Agenzia Ebraica, il numero degli ebrei nella Diaspora è sceso di 2,3 milioni di unità negli ultimi 37 anni e registra ora solo 7,76 milioni di unità.
    Al momento ci sono 13.1 milioni di ebrei nel mondo, incluso Israele. Questo significa che dal 1970 il numero degli ebrei ha registrato un aumento complessivo di meno di mezzo milione di unità, ovvero solamente del 4%. La popolazione ebraica nella Diaspora è diminuita soprattutto nei paesi dell'ex-Unione Sovietica e dell'Est europeo, da dove circa un milione di ebrei è immigrato in Israele. La popolazione ebraica in questi Paesi arriva oggi a 450.000 unità, di cui 221.000 in Russia e 79.000 in Ucraina.
    Un significativo calo del 24% si è registrato in Sud America, dove oggi gli ebrei sono solo 393.000, di cui 189.000 in Argentina, 96.000 in Brasile e 40.000 in Messico. C'è stata anche una significativa diminuzione nel numero di ebrei residenti nel Nord Africa, dove oggi sono solo 5.000 contro gli 83.000 del 1970. Mentre nel 1970 nei Paesi asiatici vivevano circa 100.000 ebrei, oggi ce ne sono solo 20.000, la maggior parte dei quali risiede in Iran. Ci sono circa 300 ebrei che vivono in Yemen, 10 in Siria e uno solo in Afghanistan.
    Il numero degli ebrei residenti nel Nord America non ha subito cambiamenti significativi (nonostante le grosse ondate di immigrazione ebraica provenienti dall'Europa orientale e dirette negli Stati Uniti d'America) e oggi si attesta sui 5,6 milioni di unità. Nell'Europa occidentale la popolazione ebraica è scesa del 5% circa e oggi supera di poco il milione di unità, di cui 490.000 in Francia, 295.000 in Inghilterra e 120.000 in Germania. Solo in Australia e in Nuova Zelanda la popolazione ebraica ha registrato un incremento, attestandosi sulle 111.000 unità contro le 70.000 del 1970.
     A fronte del crollo del numero degli ebrei nella Diaspora, la popolazione ebraica in Israele è invece raddoppiata dal 1970, raggiungendo i 5,4 milioni di unità, corrispondenti al 40% della comunità ebraica mondiale.
    Il crollo del numero degli ebrei nella Diaspora si spiega, naturalmente e innanzitutto, con l'immigrazione verso Israele. Tuttavia l'altra e non meno significativa ragione è data dall'assimilazione. Si stima che il tasso di assimilazione si attesti sul 50% nel Nord America, 70% in Russia e 45% nell'Europa occidentale. Il tasso di natalità ebraica è un altro fattore determinante per quanto concerne la diminuzione del numero degli ebrei nel mondo. Mentre in Israele il tasso di natalità è di 2.75 bambini per famiglia ebrea, in Occidente non supera l'1.5. Nei Paesi dell'ex-Unione Sovietica il numero è persino inferiore e si attesta intorno a un bambino per famiglia.
    Secondo il direttore del JPPPI Avinoam Bar Yosef il modo migliore per risolvere la questione dei matrimoni misti è di incoraggiare l'immigrazione in Israele: a questo scopo le leggi che regolamentano le conversioni dovrebbero essere rese più flessibili, prima di affrettarsi a modificare la Legge del Ritorno.

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"Il popolo ebraico ha subito abbastanza colpi in quest'ultimo secolo", ha aggiunto Bar Yosef.
    Tuttavia, autorevoli fonti ebraiche della Diaspora non vedono di buon occhio i tentativi israeliani di incoraggiare l'Aliyah. Per anni l'elite ebraica degli Stati Uniti si è opposta alla promozione dell'Aliyah e solo di recente alcuni hanno iniziato a mostrarsi maggiormente disponibili in questo senso. Alcuni leader della comunità ebraica francese sostengono che l'immigrazione in Israele indebolisce la loro comunità.
    "Tra matrimoni misti e basso tasso di natalità, nella Dispora gli ebrei non riescono a bilanciare il numero delle nascite con quello delle morti", dice Sergio Della Pergola, capo-demografo per il JPPPI. "L'immigrazione in Israele può avere un'influenza positiva, ma gli ebrei non devono essere costretti ad immigrare. Israele ha bisogno di una Dispora forte, non della sua eliminazione".
 

2. Non abbiamo reso l'ebraismo sufficientemente attraente

di Malcolm Hoenlein
Direttore esecutivo della Conferenza dei Presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti

Il declino della popolazione ebraica negli Stati Uniti preoccupa tutti, anche se noi siamo convinti che la comunità ebraica continuerà ad esistere in futuro. Tuttavia è una questione di qualità e quantità e per questo non abbiamo ancora trovato la formula vincente. Sappiamo comunque per certo che la chiave si trova nell'educazione ebraica formale e informale, nelle scuole ebraiche, nei campi estivi, nel programma Taglit e in qualsiasi altra cosa che possa aiutare. Non esiste una soluzione unica per tutti i problemi.
    Uno dei problemi che dobbiamo affrontare è il gran numero di ebrei single negli Stati Uniti e in Israele (circa un milione di persone). Raccomandiamo che alla vigilia del 60° anniversario della fondazione dello Stato d'Israele venga fatto uno sforzo particolare per organizzare incontri e incoraggiare l'immigrazione. E comunque, anche se queste coppie alla fine non decideranno di stabilirsi in Israele, quanto meno avranno una famiglia ebraica. Questo è un progetto in cui tutti noi, inclusi il governo israeliano e l'Agenzia Ebraica, possiamo giocare un ruolo di primo piano.
    Non vedo alcuna contraddizione nell'investire maggiormente nell'educazione ebraica e nell'incoraggiare i giovani a fare l'Aliyah. Incoraggiando l'Aliyah non si distruggerà la comunità ebraica Americana, né se ne determinerà il futuro, in quanto – come sappiamo – i numeri dell'immigrazione sono molto bassi. La situazione americana non è comparabile con quella europea, dove Israele deve aumentare gli sforzi per incoraggiare l'Aliyah a causa della rapida crescita delle locali comunità mussulmane e delle preoccupanti implicazioni per il futuro.
    È troppo facile biasimare l'Aliyah per la diminuzione del numero degli ebrei negli Stati Uniti: la verità è che non siamo riusciti ad organizzare un adeguato sistema educativo ebraico, né a rendere l'Ebraismo sufficientemente attraente. Non abbiamo preso la questione dell'educazione ebraica abbastanza seriamente e non abbiamo investito abbastanza nei nostri giovani. Anche oggi non stiamo facendo tutto il possibile. La società americana è estremamente aperta, il che facilita moltissimo il processo di assimilazione. Si tratta solo di prendere decisioni pertinenti per quanto riguarda la distribuzione delle risorse filantropiche ebraiche. Coloro che donano somme ingenti a musei e ospedali dovrebbero finanziare anche quelle iniziative che mirano a trasmettere contenuti ebraici alla gioventù ebraica e questo farebbe la differenza. Tutti dovrebbero aspirare ad entrare in contatto con qualcosa di ebraico e perciò è necessario pensare in modo creativo a come raggiungere i giovani.
    Sono d'accordo che rimanere ebrei è più facile in Israele che in qualunque altro posto. Ma questo non è abbastanza. Anche in Israele bisogna investire di più sull'educazione ebraica e sull'identità ebraica dei giovani. Molti giovani israeliani non hanno dimestichezza con la storia e il retaggio ebraici, per cui sono privi di identità ebraica e di contenuto. Se i bambini non sanno perché Israele è speciale, perché dovrebbero volerci rimanere? Basta vedere quanti se ne vanno a vivere altrove. Non è sufficiente essere israeliani: è necessario dare un contenuto alla forma. L'ebraismo non è solo l'Olocausto e in Israele è necessario capire che ciò che i giovani cercano in India e in Tailandia può in realtà essere trovato nell'ebraismo. Inoltre è necessario rafforzare il legame tra Israele e la Diaspora e questo deve diventare un legame a doppio senso.

(Keren Hayesod, 10 ottobre 2007 - da Maariv)





5. CONVERSIONI AGEVOLATE




La metà delle conversioni all'ebraismo avviene durante il servizio militare

di Jean-Marie Allafort

Mentre le autorità di governo questionavano con le autorità rabbiniche sui problemi di conversione all'ebraismo di migliaia di non ebrei arrivati dai paesi dell'ex Unione Sovietica, Tsahal [l'esercito israeliano], in collaborazione con l'Agenzia Ebraica, è riuscito a operare in silenzio una piccola rivoluzione in questo campo.
    In cinque anni, nel quadro del programma "Nativ" (sentiero), 2.213 giovani si sono convertiti all'ebraismo durante il servizio militare. Soltanto l'anno scorso, la metà dei convertiti all'ebraismo in Israele (circa 2.000) sono dei soldati.
    Sia per l'Agenzia Ebraica che per il Ministero dell'Integrazione, la conversione nel quadro del servizio militare è di gran lunga la migliore perché i giovani candidati non hanno bisogno di presentarsi davanti al tribunale rabbinico civile, che generalmente moltiplica le esigenze e le difficoltà per quelli che hanno il desiderio di convertirsi senza tuttavia diventare degli ebrei ortodossi.
    L'iniziativa di creare un percorso speciale di conversione per i giovani coscritti viene dal generale Elazar Stern del dipartimento delle risorse umane di Tsahal. Si era accorto che molti soldati, al termine delle loro classi, chiedevano di prestare giuramento di fedeltà non sulla Bibbia ebraica ma sul Nuovo Testamento. Secondo l'ex nunzio apostolico in Israele, Montezzemolo, nel 2004 c'erano circa 7.000 soldati israeliani cristiani di tutte le confessioni nei ranghi di Tsahal. L'eventualità di creare una cappellania cristiana era stata evocata in quel tempo.
    Il dipartimento di risorse umane di Tsahal ha rifiutato di rivelare il numero dei soldati cristiani, essenzialmente giovani dei paesi dell'ex Unione Sovietica, che servono sotto le bandiere d'Israele.
    Da diverse decine d'anni esiste nell'esercito israeliano un tribunale rabbinico militare che nel passato convertiva al più qualche dozzina di soldati all'anno. Dal 2002 un programma messo in atto dal dipartimento educativo di Tsahal e dall'Agenzia Ebraica permette ai giovani di seguire un percorso d'insegnamento di 7 settimane di iniziazione all'ebraismo e al sionismo. Al suo termine, il candidato può frequentare un programma di seminari in vista della conversione all'ebraismo. I rabbini dell'esercito hanno finito per rinunciare alle esigenze, imposte ai candidati alla conversione, di praticare i comandamenti della Legge. Hanno accettato il principio che l'esercito è la casa di questi giovani e che al suo interno i valori dell'ebraismo sono rispettati, come anche le leggi alimentari e l'osservanza dello Shabbat e delle feste.

(Un Echo d'Israèl, 2 ottobre 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





6. LIBRI




Benny Morris, "La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli Stati arabi 1947-1949", Rizzoli, 2007.

di Giulio Meotti

Protagoniste sono come sempre le masse arabe palestinesi che lasciarono le loro case alla vigilia della prima guerra di Israele. Spinte a fuggire, sia dalla reggenza araba in Medio Oriente, che aveva rigettato l'offerta di spartizione con gli ebrei e fomentato la guerra santa, sia dall'avanzata delle armate ebraiche che stavano combattendo la loro guerra per la sopravvivenza. Il messaggio del nuovo libro dello storico israeliano Benny Morris è che il mondo arabo può perdere, come ha fatto, numerose guerre contro Israele. A Israele non è concesso perderne neppure una. Si intitola La prima guerra di Israele e lo ha pubblicato Rizzoli. Negli anni Ottanta, Benny Morris si presentava come il paladino dei "nuovi storici israeliani". Giovani studiosi nati e cresciuti nel nuovo stato, ma pronti a dissacrarne i miti fondatori a colpi di documenti e minuziose ricerche d'archivio. Da colomba che rifiutò la divisa del suo esercito, Morris divenne quindi un "revisionista" e un difensore delle ragioni israeliane, persino nella scelta di "trasferire" parte della popolazione palestinese (rilasciò una clamorosa intervista al quotidiano Haaretz). Il suo nuovo libro racconta l'emigrazione ebraica negli anni Venti e Trenta e la formazione del fragile esercito d'Israele, la predicazione antiebraica e il pogrom antisemita a Hebron quando ancora non c'era una "questione israelo-palestinese". Ma anche i tanti incontri prebellici che svelano questa storia di odio ed espiazione. Come quello nel 1947 tra due diplomatici sionisti, Abba Eban e David Horowitz, con il segretario generale della Lega Araba, Abdul Rahman Azzam Pasha.
    L'assemblea generale dell'Onu stava per adottare la soluzione dei due Stati per il problema palestinese, la divisione del paese in uno Stato per gli ebrei e uno per gli arabi. I diplomatici dissero ad Azzam: la comunità sionista in Palestina (che allora contava circa 600.000 anime) è "un fatto assodato", e gli arabi "devono essere tanto realisti da prenderne atto". Azzam, "sorpreso", rispose: "Voi potreste essere un dato di fatto per me, ma (per le popolazioni arabe) non lo siete, siete un fenomeno temporaneo. Secoli fa, i crociati si insediarono fra di noi contro la nostra volontà, e dopo duecento anni li abbiamo cacciati. Questo perché non abbiamo mai fatto l'errore di accettarli come un dato di fatto". Azzam avrebbe annunciato una "guerra di sterminio" contro Israele. La ferita intima nel grande orgoglio arabo, causata dalla nascita del piccolo Stato degli ebrei nell'oceano arabo, marca ogni pagina di Morris. Il saggio è una magnifica cronistoria di quell'affronto e di quella storica vittoria, la realizzazione in terra nemica di un grande sogno religioso e laico, alle origini socialista: il sionismo. Morris però va oltre la storia, si inserisce nell'originario odio antigiudaico coltivato dagli albori dell'islam. Là dove i cristiani perseguitavano gli ebrei in quanto "deicidi", i musulmani li perseguitavano nel ripercorrere la "politica" formalizzata da una Sunna che vede Maometto uccidere a freddo nel 627 dopo Cristo, quinto anno dell'Egira, i 600 ebrei Banu Quraiza, ragazzi inclusi, con l'accusa di avere "violato il patto" con la comunità musulmana. Gli ebrei avevano "tradito" la grande polis musulmana.
    L'intellighenzia europea non ha mai voluto comprendere che dietro il "rifiuto arabo di Israele" non c'era solo una questione nazionale, di terra, di diplomazia, ma anche e soprattutto un "a priori" teologico e antiebraico. Secondo Morris il rifiuto arabo e islamico dello Stato di Israele, sin dall'inizio, dal 1917, da quando gli inglesi ne gettarono le basi per l'indipendenza, si basa su un millenario rifiuto antisemita di matrice religiosa. Come diceva l'ayatollah Khomeini, "fin dal principio il movimento islamico venne tormentato dagli ebrei, i quali diedero inizio alla loro attività reattiva, inventando falsità circa l'islam, attaccandolo e calunniandolo. Ciò è continuato sino ai nostri giorni". Un'analisi che Khomeini condivideva con tutti i fondamentalisti musulmani del Novecento, fossero essi sunniti o sciiti: Hassan al Banna e i suoi Fratelli musulmani (e con lui Yusuf al Qaradawi); il pachistano Abu ala al Mawdudi e i teologi wahabiti: "Il rifiuto del profeta Maometto da parte degli ebrei è riportato dal Corano ed è impresso nella psiche di chi è stato educato sulle sue sure". Come hanno detto i Fratelli musulmani nel 1948, "gli ebrei sono i nemici storici dei musulmani e nutrono un odio profondo per la nazione di Maometto". Questa mentalità antisemita non era limitata ai sovrani wahabiti o agli imam fondamentalisti. Secondo Morris fa parte del profondo arabo. La guerra del 1948 è stata una tappa significativa nel conflitto tra due movimenti, ma per Morris è anche stata "parte di una lotta più generale, globale, tra l'Oriente islamico e l'Occidente, in cui la terra di Israele-Palestina rappresentava, e rappresenta tuttora, uno dei fronti principali. Lo Yishuv si considerava, ed era universalmente visto dal mondo arabo, come l'incarnazione, l'avamposto dell'"Occidente".
    Il conflitto del 1947-48 fu un'espressione del rifiuto, da parte degli arabi islamici, dell' Occidente e dei suoi valori e una reazione a quella che veniva considerata un'invasione colonialista europea sul "sacro suolo islamico". La guerra del 1948, per gli arabi, è stata una guerra di religione forse anche più che una guerra per rivendicare un territorio. In altri termini, il territorio era sacro: la sua violazione da parte di infedeli era una ragione sufficiente per muovere una guerra santa, e la riconquista una necessità decretata da Dio. Vi sono abbondanti prove del fatto che nel mondo arabo molti, se non quasi tutti, vedono questa lotta essenzialmente come una guerra santa. Nell'aprile del 1948 il mufti d'Egitto, lo sceicco Muhammad Mahawif, emise una fatwa secondo la quale la jihad in Palestina era dovere di tutti i musulmani. Il martirio per la Palestina rievocava, per i Fratelli musulmani, "il ricordo della battaglia di Badr... e anche le prime jihad islamiche per la diffusione dell'Islam e la liberazione della Palestina dai crociati per mano di Saladino". Già il 2 dicembre 1947 gli ulema dell'università di Al Azhar, rispondendo alla risoluzione dell'Onu sulla spartizione, invocarono una "jihad mondiale" contro lo Yishuv. Ancora il 12 dicembre 1948 gli ulema di Al-Azhar invitarono di nuovo alla jihad, chiedendo che si liberasse la Palestina dalle bande sioniste e la si restituisse agli abitanti cacciati dalle loro case. Gli eserciti arabi avevano "combattuto vittoriosamente nella convinzione di adempiere a un sacro dovere religioso". Il libro di Benny Morris ha questo grande merito di riconsegnarci una parte della storia volutamente dimenticata e cancellata, per troppo tempo nascosta dalla storiografia progressista e di ispirazione materialista, il cui valore testamentario è invece capitale per capire gli ultimi trent'anni di cultura islamista del rigetto di Israele, idea e destino oltre che geografia.

(Il Velino, 17 ottobre 2007)





MUSICA E IMMAGINI




Avadim Hayinu




INDIRIZZI INTERNET




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