1. INTERVISTA A MASSIMO INTROVIGNE
Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida
di Emanuele Rebuffini
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Massimo Introvigne |
«Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida» (Elledici) è il titolo dell'ultimo saggio di Massimo Introvigne. Direttore del prestigioso CESNUR (Centro studi sulle nuove religioni), Introvigne è tra i più lucidi analisti dell'estremismo religioso.
Professor Introvigne, come possiamo definire Hamas?
Hamas fa parte di una grande galassia internazionale che influenza milioni di persone, quella del fondamentalismo islamico. Hamas è una branca palestinese del maggiore movimento fondamentalista islamico, i Fratelli Musulmani, fondato in Egitto nel 1928 da Hassan al-Banna. Tra il 1940 e il 1950 la lotta palestinese è egemonizzata dai Fratelli Musulmani, però nel 1954 il presidente egiziano Nasser li mette fuori legge e li perseguita. Questo determina una profonda spaccatura interna. Da un lato abbiamo una corrente radicale che resta fedele alla formula "leninista" del colpo di Stato. Dall'altro una corrente neo-tradizionalista, che intende perseguire una islamizzazione dal basso. Una sorta di visione "gramsciana": se si vuole conquistare il potere, bisogna prima conquistare la società (fare il sindacato musulmano, fare le scuole musulmane, i giornali musulmani, etc.). Nel 1957 la direzione dei Fratelli Musulmani in Palestina si adegua alla posizione neo-tradizionalista, cessa ogni attività militare, non organizza attentati, ma si dedica a raddoppiare il numero delle moschee presenti nella striscia di Gaza e in Cisgiordania e a costruire una rete capillare di istituzioni fondamentaliste villaggio per villaggio e quartiere per quartiere.
Questo fino al 1987: poi che cosa succede?
Nel trentennio 1957-1987 in Palestina abbiamo un'attività armata e terroristica appaltata ai nazionalisti laici di Fatah, i quali deridono i fondamentalisti e li accusano di pregare e non di lottare. Però nel 1987 scoppia l'Intifada e la direzione dell'Olp si trova in un momento di debolezza. Ecco che allora i Fratelli Musulmani dichiarano che l'operazione neotradizionalista ha avuto successo. La rete islamica è forte ovunque in Palestina. Quindi fondano Hamas, una parola che significa «fervore» ed è insieme acronimo di «Movimento di resistenza Islamico».
Quindi è corretto definire Hamas un movimento religioso?
Spesso in Occidente si commette l'errore metodologico di considerare i fenomeni religiosi come sovrastrutturali. È un retaggio dell'analisi marxista. Chiaramente in tutti i fenomeni complessi le cause sono molteplici e si intrecciano motivi economici, politici e religiosi; però nel caso di Hamas la religione è elemento determinante. Se leggiamo lo Statuto di Hamas vediamo come questa organizzazione ha come obiettivo quello di trasformare la Palestina in uno Stato islamico, quindi retto dalla shari'a, nella prospettiva di una riunificazione di tutto il mondo musulmano nel Califfato. Però con una specificità, enunciata nell'art. 14: la lotta per la liberazione della Palestina è un obbligo per ogni musulmano in qualunque Paese viva.
Che differenza sussiste tra Hamas e al-Qa'ida?
E un po' la stessa che si determinò tra Stalin e Trotsky, il primo credeva nel comunismo in un unico Paese, il secondo predicava la rivoluzione permanente e internazionale. La questione palestinese per Hamas non è solo una questione nazionale, come la Cecenia o il Kashmir, ma presenta una essenziale componente religiosa: è lo scontro finale tra gli ebrei, protetti dai cristiani, e i musulmani. Gerusalemme è la terza città santa dell'Islam dopo la Mecca e Medina; è il luogo cui prima della Mecca si rivolgeva la preghiera dei credenti; è il punto di partenza per l'ascensione del Profeta. Per questo quella palestinese è una questione capace di mobilitare i musulmani dall'Indonesia al Marocco. Al-Qa'ida nega la centralità assoluta della questione palestinese. Infatti il maestro di bin Laden, lo shaykh Azzam, è un professore universitario palestinese esule in Arabia Saudita, che entra in contrasto con i Fratelli Musulmani quando scoppia il jihad in Afghanistan, iniziando a reclutare palestinesi per andare a combattere i sovietici.
Perché nel 1993 Hamas fa la scelta del terrorismo suicida?
Credo che una parte di colpa ce l'abbia Israele, quando nel 1992 deporta 415 dirigenti palestinesi nel Sud del Libano, dove questi entrano in contatto con i guerriglieri sciiti di Hezbullah. La teologia che giustifica come "martirio" le operazioni suicide è elaborata in ambito sciita durante la guerra Iran-Iraq, quando i ragazzi iraniani imbottiti di esplosivo si lanciavano di corsa contro le linee irachene.
Chi sono i terroristi suicidi?
Persone che si preparano secondo rituali tipicamente religiosi. Non hanno bisogno di un grande addestramento, devono solo nascondere una cintura esplosiva e premere un bottone. Quindi occorre che non abbiano paura. La preparazione è essenzialmente spirituale, insiste sulla preghiera, sulla recitazione di brani coranici. E una parte di questa preparazione è dedicata al superamento delle obiezioni secondo cui il suicidio sarebbe contrario all'Islam. Può essere sgradevole dire che il terrorista suicida palestinese è mosso dalla religione. Ma è così. È sbagliato considerarli dei manipolati o delle persone che nascondono motivazioni economiche. Un'analisi dei profili socioeconomici di coloro che hanno fatto la scelta del martirio, ci dice che il loro livello, sia di reddito sia di istruzione, è superiore alla media dei palestinesi e un paio di terroristi facevano parte della più alta borghesia. Per cui non si tratta certo dei disperati dei campi profughi.
Uno dei limiti delle analisi del conflitto Israele-Palestina non sta forse nella sottovalutazione dell'aspetto religioso?
Il problema è ancora più ampio, perché l'Occidente per decenni ha fatto una scommessa che si è rivelata una scommessa perduta: quella di puntare esclusivamente su un tipo di interlocutore laico. All'indomani della rivoluzione islamica in Iran si cominciò a credere che il modo migliore per "contenere" (l'espressione preferita da Kissinger) l'espansione del fondamentalismo fosse sostenere forze e leader "laici" che diffidano della religione e desiderano secolarizzare la società. È per questo che nella guerra Iraq-Iran l'Occidente sostenne Saddam Hussein, per questo si è sempre puntato tutto su Yassir Arafat. Dopo l'Iran, l'Algeria, la Turchia, l'Occidente comincia a rendersi conto che quel teorema non è più praticabile e che quindi non si può più ignorare forze politiche che hanno dimostrato di essere rappresentative di fasce molto consistenti della popolazione.
Hamas nell'art. 13 del suo Statuto nega ogni utilità delle iniziative di pace e delle conferenze internazionali. Ma allora si può dialogare con Hamas?
Se ci limitassimo allo Statuto no, però Hamas ha sempre saputo coniugare la poesia della retorica con la prosa della realtà, infatti in Hamas esistono oggi correnti più pragmatiche, soprattutto una parte della leadership interna alla Cisgiordania, che in questo si differenzia dagli esuli in Qatar. Non è forse un caso che gli israeliani non tocchino Yasin, nonostante che tutti sappiano dove si trova. Immaginare un processo di pace che consideri come unico interlocutore Fatah ed escluda completamente i partiti religiosi non è ragionevole. Una delle grandi sfide è proprio quella di trovare all'interno del mondo religioso degli interlocutori disponibili a un discorso, se non di pace, almeno di tregua.
(Liberali per Israele, 26 febbraio 2008)
2. HAMAS AI CIVILI ISRAELIANI: "VI VOGLIAMO MORTI"
A cosa punta Hamas? Non è un segreto. Anzi, il messaggio che Hamas rivolge direttamente agli israeliani (in inglese e persino in ebraico) è inequivocabilmente chiaro: "Voi siete il nostro bersaglio, vi vogliamo morti".
Lo stesso giorno, il 26 febbraio scorso, in cui il movimento jihadista palestinese cercava di inscenare (con scarso successo) una manifestazione di donne e bambini alla frontiera fra striscia di Gaza ed Israele, il sito web ufficiale di Hamas pubblicava un poster che raffigura dei caduti israeliani e alcuni terroristi pesantemente armati con lo slogan (in inglese ed ebraico): "La morte sta arrivando".
Negli giorni successivi, con l'aumento dei lanci di razzi e missili sulle città israeliane, la propaganda di Hamas volta a spiegare che la morte dei civili israeliani è il suo vero obiettivo si è fatta ancora più esplicita. Basta vedere gli ultimi poster messi on-line sui siti di Hamas, con didascalie che non lasciano spazio ad alcun dubbio.
In uno di questi, forse il più ripugnante e significativo, sono raffigurati dei bambini di Sderot rannicchiati in un rifugio durante un attacco di Qassam palestinesi, e lo slogan recita: "I sionisti si nascondono bene".
Un altro manifesto mostra l'ingresso della città israeliana di Ashkelon bombardato da granate palestinesi, e la scritta: "Scordatevi della sicurezza".
(Intelligence and Terrorism Information Center, 2 marzo 2008 - ripreso da israele.net)
3. VITA NORMALE IN ISRAELE
Il primo kibbutz etiope a Ghedera!
Adattato da Tamar Rotem, Haaretz
Basta guardare Asanka Darba chinarsi per prendersi gentilmente cura delle piante di sedano e basilico che crescono nel suo orto a Ghedera per capire che nel profondo del cuore lui è ancora un contadino. Darba, un immigrato etiope di circa cinquant'anni, può anche aver lasciato in Etiopia il suo appezzamento ed essersi trasferito in Israele, ma il suo legame con la terra non si è sciolto. "Chi altri può raccogliere un pugno di terra, annusarla e sapere che cosa può piantare nel suo orto?" esclama Yovi Tashome, uno dei membri del kibbutz urbano di Ghedera che sta aiutando Darba a coltivare il suo fazzoletto di terra. Appena arrivato in Israele dall'Etiopia Darba era stato assunto dal commune di Ghedera prima come bidello e poi come giardiniere dei parchi cittadini. Ora che è disoccupato, per la prima volta ha un terreno tutto suo dove coltivare erbe aromatiche e verdure ed è evidente che ne va molto orgoglioso.
L'idea dei giardini comunitari è solo uno dei progetti creati dai membri del kibbutz urbano, un gruppo di giovani, per lo più etiopi. Due anni fa hanno dato vita al "kibbutz urbano" nel quartiere Shapira, dove la maggior parte degli abitanti etiopi di Ghedera (circa 1.700 famiglie) risiede. Oggi fanno parte del kibbutz 11 famiglie, quasi tutte etiopi. Oltre ad occuparsi di agricoltura, i membri del gruppo sono impegnati in attività socio-educative.
Yovi Tashome, 31 anni, è arrivata in Israele quando aveva 6 anni. Come molti altri figli di immigrati, ha frequentato una scuola religiosa a tempo pieno e ha trascorso gli anni delle superiori in un kibbutz religioso. Yovi descrive come uno shock culturale il passaggio dal rassicurante ambiente esclusivamente etiope della sua infanzia a quello misto e con una forte coscienza di classe del kibbutz. "Quel periodo buio, quando ero una cittadina di terza classe a paragone con i membri del kibbutz e con gli israeliani in generale, ha provocato in me una crisi d'identità", racconta. Dopo aver completato il servizio militare, Yovi ha lavorato come istruttrice per il Club Escursionisti della Società per la Protezione della Natura Israeliana (SPNI). È stato in quel periodo che ha capito l'importanza di lavorare in quartieri come questi, "per mettere gli abitanti in relazione reciproca e dare loro la sensazione di appartenere a una comunità con l'obiettivo di cambiare veramente le cose". Così Yovi Tashome ha contattato Nir Katz, la persona responsabile dei club escursionisti etiopi della SPNI , e insieme hanno fondato a Ghedera un primo nucleo, che si è poi sviluppato nel kibbutz urbano. Secondo quanto dice Katz, il kibbutz urbano non è un'associazione economica, ma unisce persone legate da un progetto e da un'idea comuni. "In un mondo alienato noi cerchiamo di creare la nostra società personale", dice. "L'obiettivo di questa associazione è di promuovere un cambiamento sociale per noi stessi e per l'ambiente in cui viviamo".
Le famiglie dei membri del kibbutz vivono in appartamenti in affitto che si trovano tutti a pochi passi l'uno dall'altro. Hanno anche deciso di stabilirsi nelle vicinanze del quartiere, e non al suo interno. "Siamo così coinvolti nella vita del quartiere che abbiamo deciso di mantenere una certa distanza dalle sue dinamiche interne", spiega Tashome. Di solito i membri del kibbutz celebrano insieme le festività ebraiche e insieme organizzano gite nei fine settimana.
Inoltre, sembra proprio che stiano confermando l'antica propensione dei kibbutz a discutere e dibattere questioni concettuali che riguardano innanzitutto l'identità del gruppo e la sua natura specifica. Proprio in questo periodo, dopo che numerose famiglie hanno chiesto di poter entrar a far parte del gruppo, è in atto un acceso dibattito su questioni come il diritto di voto, l'età minima dei nuovi membri, l'entità del contributo richiesto a ciascuno a favore della comunità, l'accettazione di coppie religiose, ecc. Queste discussioni vengono condotte formalmente in un forum denominato "Beit Hamidrash", che si riunisce ogni mercoledì.
Oggi sono circa 400 i giovani che traggono beneficio da queste attività. Queste iniziative sono inevitabilmente entrate anche nel campo dell'educazione formale. Tzachi Azaria e Ilana Malek, due membri del kibbutz
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urbano di Ghedera, trascorrono le loro giornate nel locale liceo per promuovere un programma volto a prevenire l'abbandono scolastico. Un altro programma
prevede l'offerta di lezioni aggiuntive che gli insegnanti, alcuni dei quali sono etiopi, danno direttamente a casa dei bambini.
I membri del gruppo sono coinvolti nelle attività socio-educative, o come
volontari o come dipendenti stipendiati. Un appartamento è stato trasformato in un club giovanile dove le attività sono modellate su quelle di un gruppo escursionisti. Sono stati creati molti altri gruppi, tra cui uno in cui i genitori possono discutere problemi di famiglia in amharico e un altro per emancipare le ragazzine.
(Keren Hayesod, 29 febbraio 2008)
4. CORSI DI EBRAICO BIBLICO IN ISRAELE
Israele, arrivano i pacchetti turistici per studiare la lingua della Bibbia
Gli studenti possono frequentare i corsi nel periodo estivo, risiedendo a Gerusalemme
Da sempre in Israele e nel mondo esistono le cosiddette Ulpan, le scuole di lingua ebraica organizzate dai comuni e dalle università per apprendere l'ivrit, la lingua ebraica moderna. Prima fra tutte, l'Università ebraica di Gerusalemme Mount Scopus propone ogni anno corsi estivi presso la ormai famosa Rothenberg School dove è possibile approfondire lo studio della lingua ebraica biblica e moderna dal livello più elementare a quello più avanzato. Insieme ai corsi di lingua vengono proposti anche corsi di archeologia biblica e di storia del Medio Oriente. Da oggi accanto ai corsi della Rothenberg School dell'Università Mount Scopus, vengono proposte delle vere e proprie "vacanze studio" aventi lo scopo di offrire agli studenti la possibilità di frequentare corsi biblici in Israele nel periodo estivo, risiedendo a Gerusalemme. Accanto ai corsi intensivi di ebraico biblico verranno proposti anche corsi di archeologia e geografia biblica all'interno dei quali le lezioni in aula si alterneranno con lezioni-visite ai siti archeologici della città e del resto del Paese. I corsi saranno in lingua italiana e si svolgeranno nel periodo 1-22 luglio 2008.
(Guida Viaggi, 27 febbraio 2008)
5. IL FETIDO ANTISEMITISMO CHE SPIRA IN MEDIO ORIENTE
I bambini ebrei di Sderot, bersaglio dell'odio palestinese
di Giulio Meotti
ROMA, 28 feb - Più di diecimila persone dal nord e dal centro di Israele si sono recate due giorni fa a Sderot per fare le compere per lo Shabbat nella cittadina presa di mira dai razzi Qassam dei miliziani palestinesi di Gaza, ed esprimere così la loro solidarietà nei confronti dei locali. Centinaia di macchine sono partite da Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e Raanana, dirette a Sderot, che si trova in prossimità del confine con la Striscia di Gaza. L'organizzatore di questa iniziativa, Ilan Cohen, ha manifestato la sua soddisfazione alla radio militare: "Oltre diecimila persone stanno venendo in città, ci sarà una grande festa, invito tutti gli israeliani a venire qui, c'è ancora tempo. Non dimentichiamo i residenti di Sderot, i cittadini israeliani sono la loro ultima speranza". Secondo uno studio del Natal, il Centro Israeliano per le Vittime del Terrore e della Guerra, dal 75 al 94 per cento dei bambini di Sderot di età compresa tra i 4 e i 18 anni manifesta sintomi da stress post-traumatico. La tradizione sionista ha sempre dato la medesima risposta: reazione. Nonostante i 3.500 razzi kassam che sono caduti in questa regione, il numero degli abitanti è cresciuto dal 2002. Lo scorso sabato 9 febbraio la gamba sinistra di Osher Tuito, otto anni, è stata amputata dalle schegge di un razzo kassam caduto a pochi metri da lui. E' soltanto una delle tante vittime di Sderot, la città più colpita dai lanci di razzi kassam palestinesi. Osher era andato al locale bancomat per prelevare il denaro necessario ad acquistare un regalino per il compleanno di suo padre. Stavolta l'immagine più struggente è quella della piccola Maria, otto anni, che accarezza la fronte del fratello Yossi, dieci anni, che giace ferito sul pavimento della drogheria dove si sono rifugiati. Non ci sono grida, non c'è panico, non ci sono pianti.
Tornando da scuola, lunedì pomeriggio, Yossi Haimov (dieci anni) e sua sorella Maria (otto anni), bambini israeliani di Sderot, erano andati a trovare un amico col quale si sono messi a giocare in cortile. Ecco come Maria racconta il ferimento del fratello: "Abbiamo sentito suonare l'allarme, siamo corsi velocemente a nasconderci, c'è stato un piccolo boom e poi, quando siamo usciti, un'esplosione più forte. Ci siamo nascosti contro il muro e la scheggia ha colpito Yossi alla spalla. Allora siamo corsi gridando in una drogheria. Il negoziante ha subito chiamato l'ambulanza e hanno portato Yossi all'ospedale. Yossi non ha pianto, continuava solo a dire che gli faceva male. Non ricordo molto della sua ferita. Tutto quello che ricordo è che c'era fumo dappertutto e quando ho visto la spalla di Yossi piena di sangue ho visto che era tutta rotta". Dopo l'intervento d'urgenza, il dottor Ron Lobel dell'ospedale Barzilai di Ashkelon ha informato i genitori che l'equipe medica è riuscita a salvare il braccio di Yossi. Dal Jerusalem Post si legge che "mentre le telecamere delle televisioni di tutto il mondo erano puntate a ovest per riprendere la fallita provocazione di Hamas al confine fra Israele e striscia di Gaza, pochi chilometri più a est un bambino di dieci anni veniva gravemente ferito mentre giocava in cortile con la sorellina più piccola nella città israeliana di Sderot, colpita per l'ennesima volta da una pioggia di missili Qassam palestinesi". Yossi chiede dove sia la mamma, come qualunque bambino di dieci anni che in un momento del genere la vorrebbe accanto. Ma capisce che la mamma non c'è e allora, nonostante la scheggia di Qassam conficcata nella spalla, il sangue tutt'attorno e il dolore lancinante, Yossi mantiene uno stupefacente autocontrollo. Mormora soltanto che la spalla gli fa male e la sorellina, come farebbe una brava infermiera, gli accarezza delicatamente la fronte. Come racconta il Post, Yossi ha capito che accanto a lui c'è solo la sorellina più piccola e, come sempre, si sente in dovere di proteggerla. Così trova da qualche parte un'incredibile forza d'animo, trattiene le lacrime e si tiene dentro il dolore per non spaventarla.
Un eroe bambino, che un attimo prima stava giocando spensierato come ogni bambino dovrebbe poter fare. Tornato da scuola, era andato a giocare a pallone dopo aver lasciato a casa la cartella. Una cosa talmente ovvia, talmente scontata in qualunque altro luogo, e invece così pericolosa nella città israeliana di Sderot. Un bambino che ha cercato di vivere la vita normale di un'infanzia normale nel mezzo di una guerra anormale e senza fine, e che l'ha pagata cara rischiando di perdere un braccio. Un bambino che, a causa di un razzo, è stato catapultato dal giardinetto per bambini dietro casa dritto dentro il mondo degli adulti, dove ha imparato sulla propria pelle quanto possa essere doloroso l'odio che vi viene coltivato. "Era come se lo sguardo negli occhi del piccolo Yossi ferito e della sorella Maria che lo consolava sul pavimento del negozio dicesse: lo sapevamo che prima o poi sarebbe toccata anche a noi. Quante sirene d'allarme avevano già sentito, quante volte avevano già immaginato la possibilità di essere feriti, e come sarebbe stato, e cosa avrebbero fatto?". Forse Yossi si era domandato se avrebbe perso anche lui una gamba, prima o poi, come è accaduto meno di tre settimane fa a Osher Twito, otto anni, e se avrebbe più potuto giocare a pallone. "Quanti incubi di morte avevano già popolato le notti di questi due bambini, in una città che da più di sette anni viene bersagliata dai Qassam palestinesi? Avevano parlato fra loro delle loro paure o si erano tenuti tutto dentro? Un bambino di dieci anni non dovrebbe essere un eroe ferito, e non dovrebbe in alcun modo essere necessario che una bambina di otto anni sia chiamata ad assistere il fratellino sanguinante". Lunedì scorso un missile Qassam ha rubato l'innocenza e posto fine all'infanzia di Yossi e Maria, bambini in guerra di Sderot. Vittime del fetido antisemitismo che spira in Medio Oriente.
(Il Velino, 28 febbraio 2008)
6. «NON HO IDEA DI COME QUESTO AVVERRÀ»
La risposta
di Naomi Ragen
Ero seduta con i miei nipoti nella sinagoga, una piccola congregazione collocata in un edificio scolastico. C'erano così tanti bei bambini. Così tanti baby. Così tante donne incinte. E nessuna sembrava avere più di trentacinque anni. Pensavo: i nazisti hanno perso. Siamo qui, giovani, prosperi, in crescita, nel nostro paese. E pensavo: questo dovrebbe portare felicità nel cuore di ogni persona buona nel mondo, sapendo che gli ebrei vanno avanti bene. Che questa stirpe, che hanno tentato di sterminare, sta prosperando. Tutti questi bei bambini, e i loro genitori. Se fossi un non ebreo, la storia degli ebrei e della terra d'Israele dovrebbe riempire il mio cuore di gioia.
Invece è vero il contrario. In tutto il mondo ci sono persone che odiano Israele, e gli ebrei. Dicono che Israele deve lasciar bombardare le sue città, lasciar saltare in aria i suoi bambini; dicono, ancora una volta, che deve lasciare ogni speranza di poter assicurare un futuro stabile a sé stesso e al suo popolo cedendo alle richieste dei terroristi, persone che vogliono cancellarlo dalla carta geografica, e che dichiarano questo pubblicamente.
Ci sono quelli che dicono che Israele si sta attirando addosso l'odio. Hanno molte ragioni e spiegazioni e proposte su come risolvere il problema, e in tutti i casi questo implica, più o meno, un'implicita accettazione di rimprovero. "Vi odiano perché..." E segue una lunga lista di crimini di cui gli ebrei sono colpevoli e che devono espiare. Tra queste persone ci sono molti ebrei, che si sentono minacciati nel loro privilegiato bozzolo dorato in diaspora, che trattano Israele come se fosse una squadra di calcio. Lattina di birra alla mano, seguono i giochi e danno consigli da salotto, mentre i nostri figli rischiano la vita nell'esercito per proteggerci, mentre le nostre città sono distrutte dalle bombe dei terroristi.
Alcuni di questi ebrei sono israeliani. Sono i politici e i generali che hanno portato il paese in una situazione in cui la frontiera meridionale adesso è diventata zona di guerra. Sono quelli che con le loro decisioni sbagliate hanno reso possibile la creazione nel Sud di una porosa rete di tunnel per il contrabbando di armi, che hanno demolito delle comunità che impedivano ai lanciatori di razzi di avvicinarsi alle nostre frontiere, che hanno portato via i soldati dal corridoio Filadelfia.
Vorrei dire una cosa alle persone che non amano Israele, che non vogliono veder fiorire i suoi figli, la miracolosa generazione post-olocausto fatta di giovani meravigliosi. Potete cantare su tutti i toni che vi piacciono. Potete cercare tutte le scuse che volete. Ma siete trasparenti. Vedo attraverso di voi il vostro brutto cuore che batte con odio. Vedo il vostro stupido, ottuso cervello pieno di propaganda razzista e sudici pregiudizi. Siete l'opposto del popolo che odiate e state cercando di distruggere. Siete pezzi senza D.o di pattume umano e non vincerete mai. Non vincerete mai.
E a quelli del mio popolo che si sono uniti a loro, che hanno dimenticato il loro passato, dico: avete abbandonato il vostro D.o. Vi siete fatti comprare e corrompere mettendovi dalla loro parte nella speranza di sfuggire al destino del vostro popolo. Non sfuggirete. Siete una stessa cosa con noi, che lo vogliate o no. Per quanto pochi di numero, quelli di noi che si opporrano a voi, vinceranno. Non perché sono particolarmente bravi, o coraggiosi, o fortunati. Ma perché questa è la volontà di D.o. Quelli che ci benedicono saranno benedetti, quelli che ci maledicono saranno maledetti. E i nostri figli, insieme al nostro paese, il meraviglioso, giovane, vibrante, crescente paese degli ebrei, la terra d'Israele, fioriranno. Voi invece, tutti voi che siete contro di noi, voi no. Non ho nessuna idea di come questo avverrà. Ma conservate questo scritto. Datelo ai vostri nipoti. Ditegli di darlo ai loro nipoti, e quando questi lo leggeranno, avranno la risposta.
(Newsletter di Naomi Ragen, 1 marzo 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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