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Notizie su Israele 432 - 6 agosto 2008

1. Il movimento messianico in Israele e nel mondo (II)
2. Centro messianico a Gerusalemme?
3. Testimonianza di Emanuele Pacifici
4. Dossier di Human Rights Watch sui palestinesi a Gaza
5. Il meglio dello spirito israeliano
6. La Cina colpisce anche nei territori palestinesi
7. Un miliardo di dollari alle vittime dell'Olocausto
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 65:1-2. «Io sono stato ricercato da quelli che prima non chiedevano di me, sono stato trovato da quelli che prima non mi cercavano; ho detto: "Eccomi, eccomi", a una nazione che non portava il mio nome. Ho steso tutto il giorno le mani verso un popolo ribelle, che cammina per una via non buona, seguendo i propri pensieri.»
1. IL MOVIMENTO MESSIANICO IN ISRAELE E NEL MONDO (II)




Gli ebrei messianici (2a parte)

di Antoinette Brémond

Il simbolo degli ebrei messianici: una menorah e un pesce
che si uniscono nella stella di Davide
Ogni assemblea messianica è autonoma e ha il suo proprio carattere. Tuttavia, nonostante le diversità, si può ugualmente parlare di «movimento messianico d'Israele». In alcune città, come Gerusalemme, Haifa, Tel Aviv in particolare, delle assemblee si ritrovano regolarmente diverse volte all'anno in occasione di una festa per lodare insieme, o, nel caso di una crisi politica, per intercedere. Inoltre, alcuni messianici di diverse congregazioni s'impegnano insieme in azioni sociali, nella musica o nella testimonianza.
Dal 1981 i pastori messianici hanno sentito il bisogno d'incontrarsi. Tre volte all'anno ha luogo una Conferenza Nazionale di pastori e anziani. Nonostante qualche tentativo, non ha potuto essere elaborata nessuna dichiarazione comune e non esiste un'autorità centrale che rappresenti questo movimento su scala nazionale. Dei convegni spirituali, organizzati regolarmente su scala regionale e nazionale, sembrano rispondere meglio ai bisogni dei leader. Dal 2003, che sia in Galilea o a Gerusalemme, sono invitati anche i pastori evangelici arabi. Anche i quadri delle assemblee russe e amariche, rimasti da parte per qualche anno a causa della lingua, si uniscono adesso ai convegni dei pastori di lingua ebraica. Dal 2001 viene organizzato due volte all'anno nel Negev un convegno nazionale di 3 o 4 giorni. 50-70 partecipanti si ritrovano insieme per ascoltare la Parola del Signore.
Nel 1997 i leader messianici israeliani hanno creato una loro propria rete informatica che permette di avere rapide relazioni e informazioni intercomunitarie.


La musica

     Poiché la lode ha un posto di primaria importanza nelle assemblee, bisognava comporre o tradurre dei cantici. Nel 1957 fu pubblicato un innario, «Chir hadash» (Un canto nuovo) con 200 canti e inni, di cui la maggior parte costituita da cantici evangelici, spesso molto belli, tradotti in ebraico. Nel 1976 è stato pubblicato un altro libro con 400 inni, tra cui dei Negro spirituals, dei canti di rinnovamento carismatico e altri delle assemblee messianiche d'America. Naturalmente tutto tradotto in ebraico. Ma ben presto sono apparsi dei cantici composti in ebraico, più popolari e semplici: qualche versetto biblico ripetuto. Erano più facili da cantare per i nuovi immigrati. Poi ha fatto il suo ingresso la chitarra. Dal 1979 i compositori messianici israeliani organizzano un congresso di musicisti messianici che permette loro di farsi sentire. I canti migliori sono raccolti e pubblicati in forma di libretti. Nel 1997 è stato pubblicato un libro di cantici messianici, costituiti in maggior parte da parole tratte dalla Bibbia. Alcuni canti riprendono delle preghiere ebraiche del sidur (libro di preghiere)
    Attualmente ci sono giovani compositori che spesso preferiscono scrivere parole di testa loro che esprimono la loro fede, la loro gioia, il loro amore per Yeshua. La musica molto ritmata spesso però rimane povera. «Arriveremo un giorno, noi israeliani, a scrivere degli inni, delle sinfonie, degli oratori, delle opere che tengano la ribalta?» si chiede David Loden, uno dei primi musicisti messianici d'Israele. Da tre anni, accompagnata da batteria, chitarre elettriche e da un pianoforte, una corale messianica composta da giovani e da qualche anziano, tutti israeliani, si esibisce a Gerusalemme. La sala è colma, e l'entusiasmo molto israeliano incoraggia questi giovani artisti.
    

L'opposizione

    Dal punto di vista giuridico le assemblee messianiche sono delle associazioni dichiarate (amouta). In generale la loro presenza è accettata. Tuttavia l'opposizione esiste.
    Da certe autorità ebraiche i messianici sono accusati di essere missionari. Un documento sottoscritto dai leader di quattro denominazioni ebraiche (conservatori, ortodossi, liberali e riformati) rimprovera loro di essere «in conflitto radicale con gli interessi comunitari e il destino del popolo ebraico», e di esibire un «ebraismo che non è tale», cosa che spinge loro a «cercare di convertire i loro ex correligionari».
    Nel 1977 è stata votata una legge per frenare questo movimento. Divieto di evangelizzare i minorenni e di proporre un aiuto materiale allo scopo di indurre alla conversione. Il resto è legale.
    Nel 1997 e nel 1998 due nuove leggi anti-missionarie più incisive sono state presentate alla Knesset, ma non hanno avuto seguito. Bisogna dire che molto di quello che si racconta e si ripete su questi «missionari» spesso appartiene più al mito e al pregiudizio, e oggi è senza fondamento, salvo che per qualche rara eccezione.
    L'organizzazione Yad Leahim (la mano tesa ai fratelli), che riceve sussidi dal governo per la sua attività caritativa, ha un dipartimento anti-missionario molto organizzato ed efficace. Suoi obiettivi: scoprire i messianici, minacciarli e attirare su di loro l'odio dei vicini, dei padroni, dei proprietari e addirittura dei direttori scolastici. In certi casi estremi i ragazzi «scovati» devono lasciare l'edificio scolastico in cui i genitori li avevano iscritti, e degli adulti perdono il lavoro semplicemente a causa della loro fede. Dopo la nascita del movimento messianico, diversi sono stati minacciati, soprattutto dei pastori, e del materiale è stato rovinato. Sono stati appesi graffiti o poster con la foto del «messianico» del quartiere con la scritta «Pericolo». Alcune sale di culto sono state incendiate. Ma questo resta un eccezione. Citiamo in particolare la comunità di Arad, tartassata in questi ultimi anni dal gruppo ortodosso degli Hassidim de Gour, e i suoi membri insultati pubblicamente. Questo «odio profondo» che si manifesta in certi strati della popolazione non ha nulla di sorprendente, tanto è latente la paura di vedersi «rapiti» dei fratelli. Non si può pensare che questa paura si sia radicata in una lunga storia di persecuzione e di conversioni forzate?
    Un messianico, molto discreto, che era stato obbligato a traslocare con la sua famiglia, mi diceva: «Tuttavia, non ho fatto niente di male. Non ho niente da nascondere. Ho semplicemente incontrato il Messia d'Israele». Si pensa a quello che Gesù diceva ai suoi discepoli: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Luca 21: 17).
    Qualche esempio recente:
    In aprile il tribunale locale di Gerusalemme aveva accordato ad un'associazione messianica il diritto di restaurare l'interno di una casa che le apparteneva da 20 anni e che serviva come luogo di riunione e di attività caritative in collaborazione con alcuni abitanti del quartiere. Ma il Consiglio del quartiere Rehavia di Gerusalemme, mobilizzato da un'associazione anti-messianica e sostenuto dal Partito nazionale religioso, ha preso paura. Temendo l'influenza che avrebbero potuto avere questi messianici sul vicinato, sui ragazzi in particolare, ha fatto firmare una petizione indirizzata alla Corte Suprema per poter arrestare i lavori in corso [ved. articolo seguente].
    L'atmosfera anti-messianica è culminata in un attentato terroristico a Ariel, il 20 marzo scorso, contro un pastore e la sua famiglia, che per poco costava la vita al più giovane dei figli, di 16 anni, gravemente ferito. L'inchiesta non avanza, nonostante la videocamera installata davanti alla casa a causa delle minacce. Insabbiare questo affare sarebbe grave, perché aprirebbe la porta ad altri attentati.
    Alcuni rabbini hanno tentato di boicottare il concorso intenazionale della Bibbia che ha luogo ogni anno il giorno dell'Indipendenza. In effetti, Yad Lehim aveva scoperto che uno dei candidati selezionati da un concorso preliminare era un'ebrea messianica di 17 anni. Per questi rabbini, sostenuti dai due Grandi Rabbini d'Israele, lei non era ebrea e quindi non poteva rappresentare Israele in questo concorso. Ma il Ministero dell'Educazione ha dichiarato che dal punto di vista giuridico lei è ebrea. Il concorso dunque si è svolto con tutti i candidati selezionati. Una giovane israeliana di 15 anni ha vinto il concorso [ved. Notizie su Israele 429].
    Tuttavia, se nel 1986 la mia professoressa di ulpan [scuola di ebraico] diceva: «Gli ebrei messianici, questa cosa non deve esistere», il clima attuale è diverso. In particolare, la popolazione laica è più aperta alla diversità delle fedi. Nella stampa e alla televisione spesso si parla favorevolmente di questi messianici, presentandoli come leali cittadini.
    

Jerusalem Institute of Justice (J.I.J)

     Un giovane avvocato messianico ha creato e dirige questo Istituto il cui nome è sufficiente per dire i suoi scopi. Appellandosi alla Corte Suprema d'Israele, questo Istituto vuole permettere, tra l'altro, ad ogni ebreo di trovare il suo posto in Israele indipendentemente dalla sua fede.
    Due anni mezzo fa, dodici ebrei messianici ai quali il Ministero dell'Interno rifiutava il diritto di cittadinanza in base alla Legge del Ritorno, avevano chiesto l'aiuto giuridico all'ufficio di avvocati collegato con J.I.J.
    Nell'aprile del 2008 questo Istituto ha ottenuto un successo: la Corte Suprema ha promulgato una sentenza stabilente che, secondo la legge, «essere ebreo messianico non impedisce di essere cittadino israeliano secondo la Legge del Ritorno». Una decisione molto attesa [ved. Notizie su Israele 422, 427].
     J.I.J. lotta per permettere alla comunità ebrea messianica di essere riconosciuta semplicemente come uno dei tanti movimenti del mondo ebraico. Questo Istituto conduce anche altre battaglie, contro la povertà per esempio.
    

Il moshav Yad Hashemona

     Nel 1974 Seppo Raulu, finlandese, ottiene da Golda Meir il permesso di fondare un moshav su una delle colline attigue a Abu Gosh. Con alcuni finlandesi costruisce un memoriale per onorare la memoria di 8 ebrei austriaci rifugiati in Finlandia e espulsi verso Auschwitz. E' Yad Hashemona (memoriale per gli otto). Questi finlandesi protestanti, venuti per aiutare Israele, vi creano un'impresa di falegnameria. I mobili e le infrastrutture comuni sono in puro stile finlandese.
    Nel 1989 tre ebrei messianici si uniscono a questi finlandesi. A poco a poco degli ebrei messianici sostituiscono i pionieri finlandesi. Nel 2008, su 15 membri fondatori, solo 4 sono finlandesi. Questo villaggio messianico si compone attualmente di 15 famiglie e di 8 celibi: 38 membri e una quarantina di ragazzi. Tutti hanno la nazionalità israeliana, acquisita qualche volta attraverso matrimoni. Una ventina di volontari internazionali condividono la loro vita e il loro lavoro.
    Negli ultimi anni questo moshav si è trasformato in un centro turistico, con una casa per ospiti, sale per conferenze e ristorante strettamente kasher che permette cerimonie religiose, matrimoni, bar-mitzva, anniversari... di tutte le tendenze.
    Nel 2000 il moshav ha inaugurato il suo «villaggio biblico», che permette di scoprire le condizioni di vita e di lavoro dell'epoca biblica. Una folla di visitatori israeliani viene a visitarlo, e spesso consumano lì un pasto. Alcuni temono l'influenza di questi messianici. Ma per Yad Hashemona la visita di questo museo biblico non ha niente a che vedere con velleità missionarie. Il moshav dice di aspirare a una coabitazione armoniosa e di voler trovare il suo posto nella società israeliana. Su questo punto, sembra che la sua integrazione sia perfettamente riuscita.
    

Conclusione

     Questo movimento è diventato un ponte tra gli ebrei e i cristiani, come desideravano i suoi precursori? E' tempo che noi cristiani stiamo attenti a questa realtà nuova - ma a rifletterci bene piuttosto antica - dell'esistenza di ebrei che hanno incontrato il Risorto, Gesù Messia d'Israele, senza con questo perdere la loro ebraicità. E che possano contare sulla nostra solidarietà e la nostra preghiera.
    
(Un écho d'Israèl, 15 maggio 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. CENTRO MESSIANICO A GERUSALEMME?




La richiesta di costruire a Gerusalemme un «centro messianico pubblico» è stata approvata dalle autorità israeliane. Tuttavia, a causa delle accese proteste degli abitanti del luogo, sembra che sarà necessario rimandame la costruzione.

L'azienda «Netivyah» ha depositato la domanda di permesso di costruire. L'ufficio urbanistico dell'amministrazione della città di Gerusalemme ha approvato il progetto di costruzione relativo alla trasformazione di un antico quartiere di Gerusalemme, Rehavia. Questo quartiere, costruito negli anni '30 conseguentemente all'arrivo di molti ebrei tedeschi provenienti dalla Germania, si trova nelle immediate vicinanze di Gerusalemme; comprende edifici di elevata qualità, ed è una zona di stampo prevalentemente laico.
    «E' come se si volesse costruire una sinagoga in un villaggio arabo in cui non ci sono ebrei», ha dichiarato con tono polemico uno degli abitanti di questo quartiere, nel corso di un'intervista realizzata da un giornalista israeliano; ma sembra che questo non sia l'unico motivo della loro opposizione. Alcuni sono decisamente contrariati da quando hanno saputo che si sta progettando di costruire proprio a casa loro il primo centro messianico biblico del paese. Joseph Shulam, direttore della «Netivyah», è uno dei portavoce più influenti della comunità ebraica messianica di Gerusalemme; è da tempo ormai che la sua azienda si è abituata all'atteggiamento ostile prevenuto degli abitanti del luogo. Ha dichiarato che la sua azienda ha sede a Rehavia ed ha già organizzato molte iniziative caritatevoli in collaborazione con i residenti. «Non abbiamo mai nascosto la nostra fede; siamo attivi nel quartiere e tutti sanno bene cosa facciamo; non predichiamo, non facciamo attività missionaria, vogliamo solo aiutare gli ebrei e sostenerli nelle loro necessità. Niente di più!», ha dichiarato Shulam alla stampa israeliana.
    Molti abitanti si sono riuniti e hanno depositato un ricorso presso la Alta Corte di giustizia per impedire la trasformazione del quartiere, ma i lavori «per ora proseguiranno come da progetto», ha affermato Shulam. I lavori di trasformazione e ampliamento sono gestiti dallo studio di architettura "PHI Architectures», che ha già realizzato in Israele e negli Stati Uniti diversi progetti per la comunità ebraica messianica. AN
    
(Chiamata di Mezzanotte, Anno IV, n. 6/7 2008)





3. TESTIMONIANZA DI EMANUELE PACIFICI




«Appena passato l'8 settembre del '43 cominciarono i ...

«Appena passato l'8 settembre del '43 cominciarono i rastrellamenti dei tedeschi contro gli ebrei. Iniziò in Italia la vera caccia agli israeliti, il clima era da "si salvi chi può". È appena passato il "Rosch Asciana", il capo d'anno ebraico e mio padre venne a prendermi.

Con mio fratello Raffaele trovammo accoglienza nel collegio di Santa Marta a Settignano, a Firenze». E qui comincia la storia che racconta Emanuele Pacifici, allora dodicenne, figlio del rabbino capo Riccardo Pacifici, deportato e morto ad Auschwitz nel 1943 insieme alla moglie Wanda Abenaim. Il viaggio verso la prigionia, le camere a gas, la morte, iniziò da Firenze dove i coniugi Pacifici furono "prelevati" dai tedeschi nel Convento del Carmine.
    Emanuele Pacifici, che conosco, con sua moglie Gioia, da quaranta anni, uomo di grande cultura e di altrettanta umanità, è il padre di Riccardo, attuale presidente della comunità ebraica romana che, del nonno, porta il nome.
    "Quando entrai a Santa Marta - ricorda Emanuele - avevo appena fatto la quinta elementare. L'ho ripetuta, tanto per fare qualcosa. Le suore, per ragioni di sicurezza, mi cambiarono subito il nome, vollero che mi chiamassi Emanuele Pallini, un cognome molto diffuso in Toscana. All'inizio, insieme a me, c'erano altri bambini ebrei, credo francesi, ma dopo un mese che ero lì se ne andarono. Non so più, eppure ho cercato di scoprirlo, che fine abbiano fatto. Le suore mi separarono da mio fratello: lui era piccolo, aveva cinque anni (Raffaele è morto nel 1981 in Israele. A portarlo via, a 42 anni, è stato il cancro) e doveva frequentare l'asilo. Raramente potevamo stare insieme, le suore, pur generosissime, avevano una gran paura che si sapesse che si ospitavano bambini ebrei. Credo proprio di capire oggi che la paura non fosse tanto per la loro vita ma per la nostra, di bambini inermi, rimasti soli, indifesi".
    Emanuele, che vive a Roma da sempre (l'altra figlia Miriam è in Israele) ricorda, oggi ha 77 anni, e piange. Si commuove tornando a quei giorni, alle immagini del padre, di mamma Wanda, del fratello Raffaele: "Per motivi di sicurezza le suore volevano che io frequentassi tutte le funzioni religiose. Eravamo esonerati soltanto dalla confessione, dalla comunione e dal servire la Messa. Ma io - aggiunge Emanuele - rispettavo la religione cattolica ed ero portato come esempio: avevo imparato benissimo anche il rosario che recitavo insieme alle suore».
    Sul finire della guerra, per circa quaranta giorni, entrarono a Santa Marta i tedeschi. Ne fecero il loro quartier generale.
    "Spesso noi bambini - prosegue "deglutendo" spesso Emanuele Pacifici mentre la moglie Gioia ascolta rapita il racconto - li aiutavamo a pulire i camion, a lucidare le scarpe, a scaricare i rifornimenti che arrivavano dalla Germania. Venivamo compensati con qualche pezzo di pane di segale che non induriva mai. Le suore avevano una paura incredibile perché i militari parlavano male delle SS e loro non sapevano come comportarsi. Una suora poi mi diceva che nel collegio c'era qualche bambino, figlio di gerarchi fascisti, che riferiva tutto al padre. Bisognava stare attenti insomma".
    Poi la ritirata dei tedeschi. "Era il giugno del 1944 - racconta Pacifici - e vidi saltare verso le 21 il Ponte di Santa Trinita. Ero nella mia camera ed avevo eluso la sorveglianza delle suore. Per trenta giorni infatti siamo stati reclusi nello scantinato del collegio. Non uscivamo neppure per i bisogni, neppure per fare pipì: lì facevamo proprio tutto e la mattina dopo io e suor Cornelia, che ho sempre chiamato mamma, (purtroppo è morta recentemente) versavamo i secchi nell'orto. Condizioni igieniche immaginabili. Ed eravamo tutti in preda

della febbre. Anche alta, molto alta: il collegio non aveva più acqua, i pozzi erano prosciugati. Da mesi poi le tubature non esistevano più, qualcuno l'aveva prese".
    Si arriva al momento che Emanuele definisce "il ricordo peggiore". Quello della bomba da cannone che doveva colpire il collegio.
    "Fortunatamente centrò una quercia secolare che credo sia ancora nel giardino di Santa Marta. Purtroppo una scheggia colpì una suora alla mano e la religiosa perse un arto".
    Ed eccoci all'epilogo, all'incontro indimenticabile. "Una mattina - racconta Emanuele ritrovando il sorriso - un soldato della Brigata Ebraica che combatteva a fianco dell'Ottava Armata inglese, che pensava a rifornire d'acqua Firenze, mi si avvicinò. Nel portellone del camion cisterna avevo notato il "Maghen David", sulle mostrine della camicia appariva ben scritta, in ebraico e in inglese "Palestine" (allora Israele perché fino al '48 si chiamava così). Mi feci coraggio e senza dirgli "Shalom" mi avvicinai alle sue orecchie e recitai piano piano, ricordando i miei genitori, lo "Sheman Israel…". L'uomo mi abbracciò forte forte, si mise a piangere ed io gli raccontai tutto, anche dei miei genitori che sapevo ormai di non avere più. Gli dissi che a Roma c'erano forse i miei zii e i nonni paterni che speravo vivi. Elia Lubinsky, che è morto, mi accompagnò. A Firenze trovai insomma un nuovo padre e una nuova mamma, suor Cornelia. A questa città sono legati i miei ricordi peggiori e quelli migliori: salvò la vita a me e a mio fratello, fu l'inizio della fine dei miei genitori".
    Cinque anni fa, con una grande cerimonia che si è svolta in Campidoglio, Emanuele Pacifici ha donato alle suore di Santa Marta "la medaglia dei giusti" che è stata loro attribuita.
    Emanuele vive nella sua casa di Roma, immerso tra i suoi libri (ne ha scritti tanti anche lui) e nei suoi ricordi. Sono ormai lontani anche gli anni della intensa collaborazione con lo zio che trasformò Emanuele in un manager - venditore fantastico riuscendo, grazie al suo lavoro, alle sue "commissioni" a far crescere la Doublo, che produceva calzini ("m'ha detto pedalino" diceva scherzosamente Emanuele) fino ad occupare più di 400 persone. Anche quella fase della sua vita, che racconta spesso agli amici del mare a Castiglione della Pescaia, nella sua Maremma, che frequenta da mezzo secolo, è tra i suoi ricordi più belli.

(Il Tempo, 31 agosto 2008)





4. IL DOSSIER DI HUMAN RIGHTS WATCH SUI PALESTINESI A GAZA




Palestinesi torturano palestinesi

di Giulio Meotti

ROMA - Dopo la rottura del giugno 2007, le forze di sicurezza palestinesi legate a Fatah e Hamas hanno fatto ricorso con sempre più frequenza agli arresti politici e alla tortura. Human Rights Watch sospende per la prima volta le consuete denunce contro l'esercito israeliano e pubblica un dossier sui metodi barbari che i palestinesi infliggono ai palestinesi. Hamas è accusata di avere effettuato a Gaza "arresti arbitrari di avversari politici, torture di detenuti, di avere soffocato la libertà di espressione e di raduno e di avere violato diritti processuali di attivisti di al Fatah". Crimini della stessa natura sono denunciati in Cisgiordania a carico del governo di al Fatah e a danno dei militanti di Hamas. La ong parla chiaramente di "crimini di guerra". Il quotidiano "Yedioth Ahronoth" ha presentato così l'Hamastan a un anno dal golpe: "Un piccolo stato terrorista, violento e dittatoriale". A Gaza oggi bande di islamisti attaccano i saloni di bellezza considerati contrari alla sharia. L'uomo forte di Fatah, Mohammed Dahlan, ha detto simbolicamente che "Hamas è più distruttiva dell'occupazione israeliana". Bombe sono state lanciate contro gli istituti cristiani. Il convento del Rosario è stato devastato e le immagini sacre sono state incendiate.
    È stato ucciso Rami Khader Ayyad, direttore dell'unica libreria cristiana di Gaza. Da tempo riceveva minacce anonime di morte per il suo lavoro di diffusione del Vangelo. Lo scorso aprile la libreria era stata bruciata durante una campagna contro "il vizio" lanciata da un gruppo denominatosi "la Spada dell'islam". Hamas ha assunto il controllo di università, uffici commerciali, media e istituzioni. Ha imposto l'egemonia grazie a un governo dittatoriale che non permette protesta. Secondo il rapporto di 85 pagine appena pubblicato dall'ong palestinese al-Haq e basato su 150 testimonianze giurate, diverse forme di tortura e di abusi vengono quotidianamente utilizzati sia da Fatah che da Hamas sulla pelle dei fermati della fazione rivale. Tra il 20 e il 30 per cento dei detenuti palestinesi – afferma la stima di al-Haq - ha subito torture. Le accuse di al-Haq sono state confermate dall'ong internazionale Human Rights Watch. Come ha anticipato all'"Associated" Press il ricercatore di Hrw Fred Abrahams, in Palestina "l'uso della tortura è drammaticamente in aumento". Anche il Centro palestinese per i diritti umani ha riportato diversi casi di abusi, sequestri, torture da parte di membri della Forza Esecutiva di Hamas, e la morte di un prigioniero tenuto dall'ala militare di Hamas.
    Human Rights Watch parla di esecuzioni sommarie di prigionieri, assassinio di civili che non partecipano agli scontri, scontri a fuoco dentro ospedali. Il 10 giugno del 2007 le forze di Hamas hanno catturato Muhammad Swairki, cuoco della guardia personale del presidente Mahmoud Abbas, e lo hanno ucciso gettandolo dal 15esimo piano di un palazzo, con mani e piedi legati. La notte dello stesso giorno i combattenti di Fatah hanno catturato e buttato giù da un alto palazzo Muhammad al-Ra'fati, sostenitore di Hamas. L'11 giugno a Beit Lahiya gli uomini di Hamas hanno assalito la casa di Jamal Abu al-Jadiyan, importante funzionario di Fatah, lo hanno catturato, fatto uscire in strada e crivellato di proiettili. Ora le ong liberal aprono gli occhi sulle torture intestine che hanno dilaniato la Palestina.

(Il Velino, 5 agosto 2008)





5. IL MEGLIO DELLO SPIRITO ISRAELIANO




Le Paraolimpiadi d'Israele, corpo pieno di schegge e noci d'acciaio

Il paese che ha più invalidi, vittime di guerra e del terrore.

di Giulio Meotti

Oren Almog aveva dodici anni quando una terrorista suicida si fece esplodere al ristorante Maxim di Haifa, uccidendo 21 israeliani compresi 5 membri della sua famiglia. "L'ultima immagine che ricordo è quella di un medico che mi ha messo un tubo in bocca, dopo un mese mi sono svegliato cieco". Prima dell'attentato, Oren era il più giovane israeliano insignito della cintura nera di karate. E' stato Avi Mizrachi dell'associazione Etgarim, fondata 15 anni fa dall'invalido della guerra del Kippur Yoel Sharon, a convincerlo a tornare a fare sport, ma stavolta la vela. Oren dice di ispirarsi a Dror Cohen, il velista paraplegico che ha vinto la medaglia d'oro alle Paraolimpiadi di Atene 2004. I veri paladini dello sport in Israele sono i paraolimpici. Sono meno mediatizzati dei loro colleghi "normali", ma quando trionfano esprimono il perché d'Israele, il paese con la più alta concentrazione di invalidi di guerra o per le ferite riportate in attentati terroristici. Il dieci per cento dell'intera popolazione soffre di disabilità. A Pechino anche quest'anno ci saranno gli "eroi paraolimpici", come li chiama il Jerusalem Post. Non sono "sportivi", sono il meglio dello spirito israeliano.
    Il tiratore Doron Shaziri perse una gamba su una mina nel 1987 ed è passata dall'esercito anche la nuotatrice Karen Leibovitch. Oltre la metà degli atleti paraolimpici sono reduci di Tsahal. Molti sono immigrati. Il cestista Tal Brody viene dal New Jersey, mentre è russo il campione di decathlon Alex Averbukh. Alcune delle loro storie risalgono al massacro di Monaco '72, quando un commando di terroristi palestinesi uccise undici atleti israeliani. Come Michal Shahar, perse il padre Kahat in quella strage. Le loro avventure hanno ispirato la riabilitazione degli scampati al terrorismo. Come Asael Shabo, sei anni fa gli uccisero la famiglia in un'esecuzione sommaria presso Nablus. Asael è tornato in Israele sulle proprie gambe, una delle quali artificiale. Aveva sempre rifiutato di indossare protesi, preferendo le grucce o saltellando su una gamba sola.
    E' stato Shlomo Nimrod, un invalido di guerra che indossa una protesi simile a quella dell'atleta Oscar Pistorius, a convincere Asael a farsene preparare una simile. Il generale Doron Almog è il paladino dei disabili. Ha preso parte alle più grandi imprese militari, dalla liberazione di ostaggi a Entebbe al trasporto aereo di seimila ebrei dall'Etiopia. Suo figlio Eran non parla, mangia cibo per bambini ed è autistico. Doron ha fondato un'organizzazione, Aleh, che fornisce cure mediche e riabilitative ad alto livello a 500 bambini disabili. Ha anche pensato di costruire un villaggio nel Negev per dare una casa a 200 adulti disabili. "A Entebbe era possibile liberare gli ostaggi", ha detto Doron. "Ma per Eran non esiste operazione che li renda liberi. Tutto quello che si può fare è dar loro un futuro migliore".
    Gli scampati al terrorismo passano dal Centro di riabilitazione Lowenstein. Ilona voleva fare l'indossatrice, ma le hanno dovuto insegnare nuovamente a parlare perché quella sera era in discoteca e ci sono voluti 22 interventi di chirurgia per riavere un viso. Maya ha un chiodo in testa perché mangiava in pizzeria, Ronit ha noci di metallo perché ha preso il bus, Maia ha perso un occhio e ha frammenti nel cranio perché sedeva in un caffé, Emma ha un chiodo nell'addome e il corpo di Paulina è pieno di pezzi di ferro. Un tempo era una danzatrice, passo dopo passo è tornata a camminare. Medici, psicologi, infermieri, volontari e familiari. E poi scuole, ristoranti, sinagoghe, strade e case. Israele è una meravigliosa gigantesca ferita. A Pechino i suoi atleti vanno anche a rivendicare la vittoria sul terrorismo.

(Il Foglio, 31 luglio 2008)





6. LA CINA COLPISCE ANCHE NEI TERRITORI PALESTINESI




Fabbriche chiuse a causa dei prodotti cinesi

di Mario Correnti

RAMALLAH - "La Cina e' pronta a fare la sua parte nello sviluppo dell'economia palestinese".
    Era il 19 giugno 2005 quando il premier cinese Wen Jiabao assicuro' al presidente palestinese Abu Mazen che il suo Paese avrebbe sostenuto in ogni modo la crescita dell'economia dei Territori.
    Ma a tre anni di distanza di quei buoni propositi non vi e' traccia e l'economia palestinese soffoca sotto il peso di straripanti importazioni di prodotti made in China.
    Colpite prima dalle rigide misure di sicurezza attuate dall'esercito israeliano, e adesso dall'arrivo di prodotti cinesi di ogni genere, a basso costo, decine di fabbriche palestinesi hanno chiuso o sono sul punto di farlo e migliaia di operai stanno perdendo il lavoro.
    "La situazione e' drammatica - ha detto ad Apcom Murad Salah, della Associazione degli Imprenditori Palestinesi di Ramallah - ci troviamo di fronte ad una invasione di merci che non riusciamo ad arginare.
    La nostra produzione e' sempre stata competitiva, grazie al basso costo della forza lavoro palestinese, ma dalla Cina arrivano prodotti meno costosi e i commercianti e la popolazione li preferiscono ai nostri che pure sono qualitativamente migliori".
    Non esistono cifre ufficiali, ma secondo stime fatte da grossisti palestinesi almeno il 30% delle merci che oggi circolano nei Territori hanno il marchio "Made in China".
    E non mancano proteste nei confronti delle autorita' di governo palestinesi che, secondo uomini d'affari e imprenditori locali, dovrebbero imporre misure protezionistiche volte a frenare l'invasione di prodotti cinesi.
    "Occorre agire subito perche' la produzione dei nostri manufatti tessili e' scesa del 70%", ha denunciato Hussam Ijawi, segretario generale della Camera di Commercio di Nablus, sottolineando che la crisi economica non e' piu' dovuta esclusivamente ai posti di blocco israeliani che smembrano la Cisgiordania.
    "Il lassismo dell'Anp ha permesso alle esportazioni cinesi ma anche a quelle turche di surclassare i nostri prodotti" ha aggiunto Ijawi, riferendo che una storica fabbrica di calzature, la Malhis, che dava lavoro a 400 operai, adesso ha appena appena 70 dipendenti.
    Le piu' penalizzate appaiono le piccole imprese dell'area di Hebron, a sud della Cisgiordania, storico polo industriale palestinese specializzato nel Tac (tessile-abbigliamento-calzaturiero).
    "La mia fabbrica fino a qualche anno fa dava lavoro a 50 persone, sono rimasto solo e producono non piu' di un'ora al giorno", ha denunciato Abdel Aziz Karake, proprietario dell'unica fabbrica in Cisgiordania di "kufiah", il tradizionale copricapo palestinese a scacchi bianchi e neri nonche' simbolo della "resistenza" contro l'occupazione.
    I cinesi, dicono ad Hebron, producono di tutto, spesso su indicazione proprio di businessman palestinesi che hanno intuito l'ottimo affare dell'importazione di merci cinesi a prezzi stracciati e ora fanno la spola con Pechino.
    Tra di loro qualcuno, approfittando della poligamia consentita dall'Islam, prende moglie in Cina in modo da garantirsi la possibilita' di entrare piu' facilmente nel gigante dell'economia mondiale.
Le statistiche dalla Camera di Commercio di Hebron sono eloquenti: delle 120 fabbriche tessili registrate nel 2000, oggi ne sopravvivono appena 10 e dei 10mila operai di otto anni fa solo 2.500 sono riusciti a conservare il posto di lavoro.
    E ad inondare di prodotti cinesi i Territori sono anche i grossisti israeliani. "Un tempo chiedevano alle nostre fabbriche di produrre per loro, ora gli israeliani si sono accorti dei costi vantaggiosi delle merci cinesi. Non solo non ci fanno piu' richieste di scarpe e vestiti, ma ci vendono quanto importano con il marchio "Made in China"", commenta con amarezza Murad Salah.

(ParmaOK, 1 agosto 2008)





7. UN MILIARDO DI DOLLARI ALLE VITTIME DELL'OLOCAUSTO




Dieci anni dopo la conclusione dell'accordo globale sui fondi ebraici, il Tribunale di New York - incaricato di gestire le pratiche dei risarcimenti - ha comunicato che a fine giugno 2008, dei 1.25 miliardi di dollari pattuiti dall'accordo con le maggiori banche svizzere, ne era già stato versato un miliardo a quasi 449mila beneficiari.
    Come ben si ricorda, dopo che nel 1987 l'UBS aveva informatizzato i propri conti, erano stati scoperti molti conti che erano "dormienti" già a partire dal 1939. Si trattava verosimilmente di soldi appartenuti ad ebrei morti durante o dopo la guerra e che nessun erede aveva mai reclamato. Ma tutto era iniziato a metà degli anni novanta, quando il Congresso mondiale ebraico aveva fatto partire dagli Stati Uniti una battente campagna mediatica contro la Svizzera, che veniva accusata di essersi messa al servizio dei gerarchi nazisti, favorendo con la sua neutralità il regime nazionalsocialista di Adolf Hitler. Alle più grandi banche svizzere veniva lanciata la pesante accusa di aver consapevolmente taciuto sui considerevoli fondi che i nazisti avevano estorto agli ebrei e depositato in Svizzera.
    Il sito www.swissbankclaims.com fornisce ogni dettaglio riguardo al miliardo di dollari già risarcito: oltre che i numerosi "conti dormienti" (per i quali erano stati messi in conto circa 800 milioni di dollari, di cui però solo 477 sono stati sinora reclamati), i risarcimenti riguardano gli ebrei (o i loro discendenti) condannati ai lavori forzati dal regime nazista. Vi è da notare che 287 milioni di dollari sono andati a circa 200mila di queste persone: di esse solo 570 avevano lavorato in filiali di industrie svizzere attive in territorio germanico, mentre le altre avevano lavorato per industrie germaniche i cui guadagni erano stati depositati in banche svizzere.
    205 milioni di dollari sono stati versati a quasi 230mila ebrei che a seguito della fuga dal nazismo erano stati costretti ad abbandonare tutti i loro beni, oppure a cui erano stati confiscati tutti i beni. 11.5 milioni sono stati versati a 42158 ebrei che erano stati espulsi dalla Svizzera o che erano stati respinti alle frontiere. I rimanenti milioni sono stati distribuiti a diverse associazioni e fondazioni.

(ticinolibero.ch, 4 agosto 2008)





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