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Notizie su Israele 433 - 19 agosto 2008

1. L'incredibile storia di Jakob Rosenfeld
2. Una guerra psicologica
3. Gente d'Israele
4. Il paradosso d'Israele
5. Archeologia
6. Riflessioni
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Deuteronomio 4:39-40. "Sappi dunque oggi e ritieni bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli, e quaggiù sulla terra; e che non ve n'è alcun altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti do, affinché siate felici tu e i tuoi figli dopo di te, e affinché tu prolunghi per sempre i tuoi giorni nel paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà."
1. L'INCREDIBILE STORIA DI JAKOB ROSENFELD




Scappato dall'Europa, fu un eroe della rivoluzione. Emarginato da Mao morì in Israele

Il medico ebreo che diventò il "Generale Luo"

di Leonardo Coen

PECHINO - Vi racconto l'incredibile storia di Jakob Rosenfeld, il medico ebreo viennese diventato "Eroe della rivoluzione cinese". Perseguitato dai nazisti trovò rifugio a Shanghai. La sua straordinaria epopea varrebbe un film. Tutto nasce da un serie speciale di francobolli emessi dalle poste cinesi nel 2002: ogni tanto la passione filatelica fa scoprire storie incredibili.
Jakob Rosenfeld
    Rosenfeld nacque a Lemberg (l'attuale Lviv in Ucraina) nel 1902, figlio di un sottufficiale dell'esercito austro-ungarico. I suoi genitori gli inculcarono la passione per la cultura tedesca, soprattutto della musica e della letteratura, così come una particolare sensibilità alla sofferenza dei deboli e degli oppressi.
    Questo percorso culturale e spirituale lo porta a diventare medico, specializzato in urologia e ginecologia. Ha una clientela piuttosto selezionata presso le personalità e gli uomini d'affari viennesi. Si iscrive al partito democratico sociale austriaco e viene arrestato spesso per le sue attività antiimperialiste.
    L'Anschluss dell'Austria al Terzo Reich lo travolge: finisce a Dachau, poi a Buchenwald. Liberato nel 1939, ma ad una condizione: deve abbandonare il Terzo Reich entro due settimane. Dove poteva andare un ebreo? Shanghai era l'unica destinazione per la quale non veniva richiesto alcun visto né era necessario presentarsi alla concessione internazionale. Rosenfeld vi si rifugia ed apre ben presto uno studio medico.
    Pochi sanno che tra il 1931 e il 1941 Shanghai era stata soprannominata la "piccola Vienna": vi abitavano tra i 25 e i 30mila ebrei scappati dall'Europa per sfuggire ai nazisti. Più di quanti ce ne fossero in Canada, Australia, Nuova Zelanda, Africa del Sud e India messe assieme. Gli ebrei vivevano liberi sino all'occupazione dei giapponesi, quando, nel 1942, venne creato un ghetto. Nel 1943 i giap invadono la città e compiono massacri indicibili. Il colonnello Joseph Meisinger (noto come il "boia di Varsavia") arriva in Cina. Il suo piano della "soluzione finale a Shanghai" fortunatamente non è applicato dai giapponesi.
    Che sorte era toccata, nel frattempo, al buon dottore Rosenfeld? Fin dal 1941 aveva avviato dei contatti con un agente di propaganda del Komintern (l'Internazionale Comunista). L'esercito cinese era costantemente sottoposto a pesanti attacchi da parte dei giapponesi e subiva grosse perdite. Jakob decise di raggiungere la "Nuova 4a Armata" di Mao Tse Tung. Erano appena trascorsi due anni dal suo arrivo in Cina ed eccolo nella provincia di Shandong, a est del paese, dove si fa passare per un missionario tedesco per ingannare i giapponesi.
    Gli stranieri che si aggregano a Mao sono pochissimi. Rosenfeld capisce che il suo ruolo è quello di fare il medico e di migliorare le drammatiche condizioni sanitarie delle truppe rivoluzionarie. La sua abnegazione colpisce i dirigenti comunisti cinesi: perché Rosenfeld non solo svolge il suo lavoro, opera ininterrottamente, ma addestra decine di praticanti cinesi alla medicina moderna. La sua incessante opera umanitaria è tale che salverà 100mila persone, tra soldati e civili cinesi. E' venerato dall'esercito "rosso" e dalla popolazione, il Comitato Centrale lo nomina generale. Anzi, diventa il "Generale Luo". Rosenfeld si lega a Liu Shaogi e Chen Yi, i quali diventeranno rispettivamente presidente cinese e ministro degli esteri; non entra mai in sintonia con il Grande Timoniere.
    La guerra finisce. Hitler si suicida, il Terzo Reich crolla, gli Usa sganciano le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ma Jakob continua a restare in Cina. Il "Generale Luo" partecipa all'assedio e alla caduta di Pechino nel 1949 e solo dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, decide di tornare a Vienna. Ritrova una città devastata, ancora segnata dall'antisemitismo. Non ci si ritrova più. La famiglia è stata sterminata. Le autorità alleate lo tengono d'occhio perché lo sospettano una spia.
    Rosenfeld, allora, tenta di ritornare in Cina, ma col nuovo regime e con lo scoppio della guerra in Corea gli stranieri non sono più i benvenuti. E' disgustato dall'ingratitudine e così chiede il visto per recarsi negli Stati Uniti ma il consolato Usa glielo rifiuta a causa del suo "servizio attivo" nell'esercito comunista cinese. Non gli resta che emigrare in Israele. Lavorerà all'ospedale Assuta di Tel Aviv. Ma la sua salute declina rapidamente. Chiede di nuovo il visto per gli Usa perché è convinto che soltanto lì potrà essere operato e salvarsi. Ma il Dipartimento dell'Immigrazione gli nega ancora il visto. E' un ebreo che ha combattuto per i comunisti ed è dunque dichiarato "persona non grata". Siamo infatti in piena era McCarthy. Il maccartismo è in piena furibonda attività.
    Jakob Rosenfeld muore d'infarto al miocardio nel 1952, in piena solitudine. Nessuno in Cina ha voluto (o potuto) raccontare la sua epopea. Caduto nell'oblìo, Rosenfeld sarà progressivamente riabilitato solamente dopo la morte di Mao. Nel 1992 Cina ed Israele stabiliscono le relazioni diplomatiche. L'associazione dell'amicizia tra i due Paesi trova la tomba di Jakob al cimitero di Kiriat Shaoul a Tel Aviv e la restaura. Nel 2002, in occasione del centenario della sua nascita, la Cina celebra la memoria del medico "Generale Luo", l'amico ebreo della Cina, con un'emissione commemorativa. Oggi Rosenfeld ha anche la sua statua, un ospedale porta il suo nome e il museo storico di Pechino gli ha consacrato una mostra, inaugurata dal presidente Hu Jintao.

(la Repubblica, 15 agosto 2008)





2. UNA GUERRA PSICOLOGICA




La sindrome del "perché (non) io"

da un articolo di Liat Collins

Perché io?" è molto più che una domanda. È una invocazione fondamentale per cercare di comprendere ciò che è spesso incomprensibile. È forse la reazione più naturale a quel genere di trauma che ti costringe a batterti per capire quale forza divina o cosmica ti abbia prescelto. Recentemente sono giunta alla conclusione che Israele soffre di una forma diversa del fenomeno. Chiamiamola "la sindrome del perché-non-io". È la sindrome dei sopravvissuti: i sopravvissuti all'Olocausto, alla guerra, al terrorismo.
    Prima dello scambio con cui Israele ha ricevuto i corpi dei soldati rapiti Eldad Regev e Ehud Goldwasser, ho visto in TV l'intervista a un riservista che all'ultimo momento aveva cambiato turno con uno dei due uomini che – ora lo sappiamo – sarebbero tornati a casa solo due anni e quattro giorni dopo, in una bara. Il riservista confessava i suoi (naturali) sensi di colpa. Ricordo mio fratello che patì qualcosa di simile quando il medico che lo aveva sostituito verso la fine del suo servizio, nella prima guerra in Libano, venne mortalmente ferito durante una missione in cui altri tre membri della sua unità rimasero uccisi.
    Soprattutto, ricordo un soldato della mia unità Nahal che era in visita da amici in un kibbutz durante la prima guerra in Libano (nei giorni dell'operazione Pace in Galilea, prima ancora che Hezbollah fosse fondata). "Mickey, ho sentito che un miracolo ti ha salvato!", qualcuno salutò il soldato appena tornato dal fronte. Mickey, normalmente molto mite, esplose: "Che razza di miracolo sarebbe? Il tizio accanto a me è stato ucciso! Questo non è un miracolo!". Fu la reazione tipica di qualcuno che combatte con la fase del senso di colpa del lutto. Allora non conoscevo ancora il termine "sindrome da stress post-traumatico".
    Questi ricordi, che forse sarebbe meglio cancellare, sono ritornati il mese scorso con "lo scambio di prigionieri". Il termine stesso è traumatico, visto che i nostri soldati erano stati presi in ostaggio e Hezbollah certamente non aveva rispettato nessuna delle leggi e convenzioni internazionali concernenti i prigionieri di guerra, mentre i suoi "combattenti prigionieri" erano dei terroristi assassini di bambini. Non c'è nessuno peggiore di Samir Kuntar e della "signora morte" Dalal Mughrabi, responsabile dell'uccisione a sangue freddo di 36 persone nel massacro di 30 anni fa sull'autobus della strada costiera.
    Ricordo gli amici che non sono tornati e quel terribile senso di colpa mentre si ascolta una lista di nomi di vittime e si prega in silenzio: "Per favore, fa che non sia..."
    C'è anche un altro ricordo. Il fratello del negoziante vicino alla tipografia dei miei genitori, a Karmiel, fu catturato dai siriani nel 1982. Yohanan Alon tornò a casa dalla sua famiglia ad Akko il 28 giugno 1984, tra grandi accoglienze e pacche sulle spalle da parte dei politici. Ricordo i suoi occhi, ancora appannati, la trasparenza della sua pelle (in quei due anni non aveva mai visto la luce del giorno), il suo sorriso, con qualche dente in meno. E la canzone "Ani hozer habayta" "Sto tornando a casa, io e la mia chitarra" – una popolarissima versione israeliana de L'Italiano – che sembrava andare avanti all'infinito.
    Quando i corpi di Regev e Goldwasser sono stati riportati a casa, l'umore e la musica erano molto diversi. Era una conclusione, ma senza gioia. La radio suonava le canzoni che sono di un genere israeliano unico: il tipo di musica trasmesso nel giorno dei Caduti, nel Giorno della Shoà e quando c'è un grave attentato terroristico.
    Fin dall'inizio avevo sospettato che i due soldati fossero morti. Ma, suppongo, avevo anche sperato che si compisse un miracolo ("Che razza di miracolo?"). Mi è scesa una lacrima alla vista di quelle bare. "La giornata di oggi segna la fine della guerra in Libano," diceva un incauto commentatore della radio israeliana mentre i corpi entravano in Israele a Rosh Hanikra. La guerra non è finita. Non sarà finita fino a che lo sceicco Hassan Nasrallah non sarà lui stesso in una bara, o perlomeno in lutto.
    Nemmeno la prima guerra in Libano è finita. Chiedete ai soldati che l'hanno combattuta. E chiedete alle famiglie dei tre della battaglia di Sultan Yakoub: Zachary Baumel, Zvi Feldman e Yehuda Katz restarono dispersi in quella battaglia nel giugno 1982. Nel corso degli anni le famiglie hanno visto, scambio dopo scambio, il prezzo che saliva e la "merce di scambio" che scendeva. Il primo ministro israeliano Ehud Olmert è stato pazzo, per non dire altro, a dichiarare che lo scopo della guerra contro Hezbollah era quello di riportare a casa Regev e Goldwasser sapendo che erano quasi certamente morti. Ma avviare i negoziati di pace con la Siria senza esigere la restituzione dei "missing in action" di Sultan Yakoub meriterebbe un'altra inchiesta.
    Ora c'è il timore che aumentino le pretese dei terroristi per la restituzione di Gilad Schalit, tenuto in ostaggio da Hamas dal giugno 2006, e che aumenti l'incentivo a compiere nuovi attentati. D'altra parte, Hamas potrebbe desiderare talmente tanto emulare la "vittoria" di Hezbollah da finire col prendere sul serio le condizioni per la liberazione di Shalit. Nel frattempo, come ha proposto Yona Baumel, dovremmo avere il coraggio di cambiare le regole del gioco e congelare ogni contatto della Croce Rossa con i detenuti palestinesi in Israele fino a quando non sarà stabilito un contatto con Schalit.
    Siamo tutti segnati dal "trauma Ron Arad", l'aviatore israeliano disperso da quando dovette paracadutarsi sul Libano nel 1986. Poco prima dello scambio, nel quadro delle trattative vennero consegnate a Israele delle foto di Arad e dei suoi appunti personali alla moglie: sono vecchi di almeno 20 anni. Yediot Aharonot, i cui titoli spesso sembrano succinte opinioni di una riga, pubblicò una di quelle foto in prima pagina con le parole: "Guardatelo negli occhi". L'ho guardato e ho riconosciuto quello sguardo opaco, lo stesso di Alon. La differenza è che Alon l'ho visto a casa sua, circondato da amici, cibo e festeggiamenti.
    Quando Olmert ha guardato negli occhi Arad, i suoi dilemmi morali sono senza dubbio aumentati. Sarebbe stata dura perfino per re Salomone, figuriamoci per un politico che si dibatte tra accuse di corruzione e crisi di governo. Era una di quelle decisioni in cui si sbaglia in ogni caso. Evidentemente il demonio – nella forma di Nasrallah, Kuntar e altri – ci avrebbe comunque guadagnato più di Israele.
    Ma nel profondo, in mezzo a tanta angoscia, sovviene anche il ricordo della nostra forza oltre che della nostra debolezza. Perché, oltre a tutto il resto, questa è una guerra psicologica: gli israeliani ne sono consapevoli, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ne è maestro. Con tutti i suoi difetti, lo scambio ancora una volta ha dimostrato il significato della frase "Kol Yisrael arevim zeh lazeh", "tutti in Israele sono responsabili gli uni per gli altri", uno dei fondamenti della vita ebraica.
    Abbiamo appena rievocato il periodo delle "tre settimane" tra la data ebraica del 17 Tamuz, in cui venne aperta una breccia nelle mura di Gerusalemme, e il 9 di Av, data della distruzione dei due Templi. Il secondo Tempio, ci dicono, fu distrutto per un odio senza senso. E allora, in questo momento, la profonda preoccupazione per la sorte dei nostri soldati – tutto l'amore che possiamo mostrare a "uno dei nostri ragazzi" – è anche la nostra forza. Hezbollah ha riottenuto i suoi assassini, ma la vittoria morale è nostra.
    
(Jerusalem Post, 20 luglio 2008 - da israele.net)






3. GENTE D'ISRAELE




Il Direttore indaffarato: incontro con Zeev Twito

a cura di Anna Rolli

A mezz'ora di automobile da Tel Aviv, in direzione Nathania, il Centro Hadassim per i giovani a Even Yehuda, è un villaggio costruito nel bel mezzo di un grande giardino alberato e fiorito.
    Hadass in ebraico significa: fronda di mirto,e Hadassim, il suo plurale, si riferisce ad una speciale cerimonia di Sukkot (Festa delle Capanne) che ricorda il lungo viaggio degli ebrei, diretti alla terra promessa, attraverso il deserto.
    Durante la cerimonia vengono agitati cedri, fronde di mirto, di palma e di salice legati assieme, sia in alto e in basso, sia verso i quattro punti cardinali, per testimoniare il dominio di Dio su tutta la creazione e come preghiera simbolica per richiedere pioggia sufficiente sulla vegetazione per l'anno a venire.
    Sono arrivata al villaggio Hadassim una mattina di sole in compagnia di una volontaria della Wizo e lo abbiamo visitato da cima a fondo, passeggiando lungo i sentieri ed entrando nelle case famiglia per salutare gli operatori, poi abbiamo mangiato nella mensa comune il cibo incredibilmente buono e gustoso che si serve nelle mense in Israele, infine abbiamo trascorso alcune ore con Zeev Twito, il direttore, nel suo studio.
    Il direttore giovane e barbuto sembrava molto indaffarato e ce ne ha spiegato il motivo: il giorno successivo i ragazzi avrebbero iniziato a rientrare dalle vacanze. Seduto ci parlava con l'informalità cordiale e sbrigativa che sembra uno dei caratteri nazionali degli israeliani, spiegava e spiegava mescolando ebraico ed inglese, e dall'espressione del viso e dall'attitudine di tutta la persona traspariva il desiderio di superare una sorta di ritrosia, una sorta di intimo riserbo per mostrare e far capire alla giornalista straniera, la quale probabilmente di queste cose non capisce niente, che cosa significhi il lavoro con ragazzi tanto giovani e che, per la loro origine, sarebbero quasi privi di ogni speranza.
    A volte entrava un operatore, lui si alzava, parlava con lui, sfogliava delle carte, si grattava il capo, poi si risiedeva al nostro fianco, poi arrivava un genitore, poi un ragazzo, e lui li salutava, parlava con loro, poi di nuovo con noi, poi rispondeva al telefono.....e sempre scapigliato e con un ché di svagato, in mezzo a quel gran daffare, suscitava il mio sorriso e tutta la mia simpatia.
    Poi, forse, la giornalista straniera e professionale, ha dato l'impressione di non essere poi tanto distante da non poter capire cosa voglia dire una infanzia abbandonata o una adolescenza sulla strada, da non poter capire quanto il lavoro con tali creature possa essere coinvolgente e suscitare tutta la passione e la dedizione, allora il direttore si è un po' rilassato e si vedeva che era contento e a sua volta mi ha guardata con simpatia mentre continuavo a chiedergli spiegazioni e alla fine mi ha invitata ad uscire dallo studio e a seguirlo in giardino per mostrarmi con orgoglio colmo d'affetto un giovane albero d'ulivo, simbolo di pace, e una targhetta di rame con su scritto "Albero di ulivo, dono del popolo del Nord. Estate 2006". Un giovane albero d'ulivo piantato per ricordo e gratitudine dagli sfollati di ogni età accolti qui nel villaggio durante l'ultima guerra arabo-israeliana.

     
*****

In Israele abbiamo trentadue centri per i giovani e la Wizo ne gestisce sei direttamente. Sono tutti di ottimo livello e tra breve, nel paese, saremo in grado di raggiungere e ospitare la totalità dei giovani a rischio.
    Nell'organizzazione di Hadassim, del nostro villaggio, siamo partiti dall'idea che i giovani deboli dal punto di vista socio-economico dovessero essere allontanati dalle periferie e dovessero crescere insieme ad altri che provengono da un ambiente ottimo e che si comportano molto bene. Di conseguenza Hadassim è stato costruito in una zona molto ricca e benestante.
    Il nostro lavoro consiste nell'accogliere i bambini e i ragazzi ed inserirli in un ambiente che sia come una grande famiglia, una famiglia responsabile e che si occupa di tutto: della loro salute fisica e psicologica, della loro crescita, della loro conoscenza delle tradizioni e della loro preparazione scolastica. Noi non possiamo essere la "vera famiglia" possiamo però essere "come una famiglia". La loro famiglia di provenienza non si occupa di loro e noi dobbiamo prendercene cura come se fossimo i genitori naturali.
    Il Centro non è un Paradiso. All'inizio è molto dura, perché i ragazzi debbono impegnarsi a cambiare, e debbono lottare per diventare buoni e bravi. All'inizio si crea una situazione difficile perché sono stati presi dalla strada e qui ogni cosa è completamente diversa. Sulla strada, indubbiamente,  la vita era molto più facile.
    All'inizio hanno tutti una bassa fiducia in se stessi e nessuna autostima, sono ridotti come uno straccio. Questo accade perché i genitori hanno sempre detto loro che non valgono nulla e che non sono capaci di fare nulla, noi invece, per prima cosa, gli facciamo il seguente discorso: "Tu sei sicuro che non avrai successo nella vita e che non valga la pena di impegnarsi. Bene, siamo in perfetto disaccordo! Noi, tutto al contrario, crediamo in te e siamo sicuri che tu avrai successo".
    Gli assistenti sociali, nel frattempo, cercano di convincere le famiglie ad ospitarli per lo shabbat e per le feste e a comportarsi bene con loro, le aiutano e le preparano. Così a volte tornano a casa per un mese ma se la situazione è troppo negativa d'estate li mandiamo ai campeggi estivi e non vanno a casa per niente, neppure per le vacanze.
    Noi siamo una delle più grandi e più complesse esperienze per giovani di tutte le provenienze e che presentano ogni tipo di problematica anche perché siamo l'unico posto che ha tutte le età dai più piccoli fino al servizio militare.
    Abbiamo il collegio dove vivono e dormono ragazzi fino ai 19 anni, tutti sono stati tolti dalla strada e da famiglie molto problematiche.
    Ci sono poi le unità familiari per ragazze a rischio. In ogni casa vivono dieci ragazze che studiano fuori in scuole professionali e a seguirle ci sono due donne che fanno da guida. Le ragazze pranzano a scuola, la sera invece cucinano e gestiscono la casa. Per loro si tratta di un grande cambiamento e lo staff è sempre pronto per parlare e fare attenzione.
    Lo staff deve essere sempre reattivo, deve sempre saper rispondere e parlare ed è sempre sotto pressione perché queste ragazze lo sfidano continuamente per vedere come reagisce.
    Il budget che dedichiamo a loro è tre volte superiore alla media perché debbono essere seguite sempre, continuamente. Ogni ragazza è un progetto a sé e una scuola a sé ed è molto difficile perché tutte provengono dalla strada. Sono state mandate qui dagli assistenti sociali e se le avessero mandate prima sarebbe stato più facile perché nel frattempo avrebbero evitato molte esperienze negative.
    Infine abbiamo le case famiglia ognuna con i bambini dall'asilo fino ai 13 anni, in ogni casa vive una coppia di operatori che si occupa  soltanto della relazione, la direzione invece si occupa delle pulizie, della lavanderia e di procurare cibo e vestiti. Se la coppia ha figli propri  crescono tutti insieme e i bambini non cambiano mai,  rimangono sempre nella stessa casa. La coppia ha uno scambio continuo sia con gli insegnanti che con gli psicologi.
    A tredici anni i ragazzini lasciano la coppia e vanno ad unirsi al reparto di giovani dai tredici ai diciannove anni, divisi in gruppi di 25 ragazzi ciascuno. Sono molto meno a rischio delle ragazze e arrivati a questo punto hanno bisogno di minore attenzione, hanno una maggiore motivazione e una maggiore fiducia in se stessi, però è ancora necessario continuare a seguirli.
    La mattina i nostri ragazzi e bambini, come tutti quelli della loro età, si alzano e vanno a scuola. Noi dobbiamo prepararli, e mandarli puliti e ben vestiti, con cibo, libri, penne e quaderni, con tutto ciò di cui hanno bisogno ed inoltre debbono sentirsi di buon umore e avere fiducia in se stessi. Ovviamente siamo continuamente in contatto con gli insegnanti per sapere come si comportano.
    Dopo la scuola c'è il pranzo tutti insieme alla mensa, nel pomeriggio studiano e la sera fanno conversazione, sport, musica, canto, teatro e arte, e per chi vuole c'è anche un gruppo scout. Da noi studiano e poi svolgono  molte attività sociali, perché questo è molto importante per il loro sviluppo. 
    Non è facile, nella realtà le difficoltà sono enormi. Arrivano a pezzi abituati soltanto a lamentarsi e indirizzarli verso la direzione giusta è un processo che richiede molti anni ma loro sono consapevoli di andare sempre avanti e noi sappiamo da dove provengono e dove arriveranno.
    Abbiamo problemi psicologici, di comportamento e di studio, però noi vogliamo che arrivino al Liceo molto preparati, vogliamo che vivano come ragazzi normali e pensino alle cose positive della vita e non a quelle negative,

non a strade veloci ma false per stare bene, non alle scorciatoie ma alla strada giusta.
    Abbiamo speciali progetti per prevenire tutti questi problemi, il focus consiste nell'insegnare ai ragazzi il sentimento interiore della responsabilità e del comportarsi bene, nello sviluppare la propria unità interiore e la propria interiorità nei suoi vari aspetti.
    Qualche volta abbiamo avuto problemi con la droga, a volte la provano con gli amici come accade ovunque, ma per noi è molto facile sapere come va, sia perché abbiamo occhi ben aperti e li vediamo dalla mattina alla sera e la scuola ci dice tutto, sia perché loro parlano apertamente e a volte anche i loro amici si confidano.
    Non abbiamo un vero problema con la droga, è accaduto molto raramente. Noi siamo sempre attenti e in caso possiamo farli seguire da un esperto in droga e in alcol. Inoltre i genitori sottoscrivono l'autorizzazione a sottoporre i ragazzi a tutte le analisi di laboratorio.
    Abbiamo avuto problemi di violenza tra i ragazzi ma la nostra strategia è di non permettere mai nessuna aggressione. Reagiamo immediatamente, non si tratta di punizioni ma di parlare e parlare. Parliamo con loro, con i genitori e con gli insegnanti. Non abbiamo mai avuto coltelli o feriti in ospedale, abbiamo avuto soltanto qualcuno che ha fatto a cazzotti ma anche questo non lo permettiamo. Qui l'atmosfera è buona e deve rimanere buona.
    Durante il giorno ci sono 2000 persone, 1200 ragazzi, più gli insegnanti, più lo staff della boarding school, più gli operatori per la cucina, per la pulizia ecc. ecc. E tutti lavorano per l'armonia, la serenità e il calore. La nostra strategia è "violenza zero", e lo sanno sia i genitori che i ragazzi.
    Si tratta di una politica permanente e mantenendola sempre si ottimizza il risultato, perché i ragazzi vogliono questo, vogliono questa atmosfera e desiderano moltissimo essere controllati e guidati.
    Uno dei nostri obiettivi nel lavoro qui al centro è quello di guidare i ragazzi a risolvere il conflitto interiore, non soltanto con un trattamento psicologico comune ma anche con uno individuale, nel mentre, contemporaneamente, nelle città, gli operatori sociali si occupano delle famiglie per aiutarle a migliorare.
    Molti dei ragazzi, se hanno successo a scuola e nella società, dopo, risolvono meglio anche i problemi interiori e la propria vita sentimentale. Debbono confrontarsi con situazioni molto dure, la pressione dell'età difficile e nello stesso tempo il rapporto con la famiglia che loro amano ma che a volte li rifiuta e a volte è criminale. E' un conflitto continuo ma se hanno successo a scuola, nel teatro o nello sport ciò li aiuta molto.
    Il governo e la Wizo hanno investito molti soldi per questi ragazzi bisognosi che affrontano enormi difficoltà, noi abbiamo per loro le migliori scuole d'Israele e ottimi insegnanti e anche psicologi e assistenti sociali e l' obiettivo che ci poniamo è il loro miglioramento.
    L'obiettivo minimo è che dopo aver trascorso qualche anno nelle nostre scuole siano diventati uguali a tutti gli altri giovani, ma si tratta soltanto del nostro obiettivo minimo, in realtà vogliamo che diventino persone di alto livello sociale che dopo l'esercito  continuino a studiare e che diventino eccellenti nel loro lavoro.
    Il paradosso è come un miracolo, perché sarebbe ovvio per questi ragazzi diventare dei falliti e dei criminali e, invece, alla fine abbiamo dei cambiamenti radicali e più del 90% raggiungono il diploma e moltissimi si laureano e diventano dei dirigenti della società.
    Noi dobbiamo rompere il circolo vizioso e distruttivo per ottenere il cambiamento. Questi ragazzi, in seguito, da adulti, costruiranno una famiglia completamente diversa e i loro figli non avranno bisogno di noi. Il circuito della violenza deve essere spezzato, così la nuova generazione sarà diversa e non finirà sulla strada..
    Il lavoro dello staff lo chiamiamo "prendersi cura" che è, in effetti, l'aspetto più importante. Noi consideriamo sempre ogni bambino e ogni ragazzo come un caso unico. Gli operatori sono molto preparati e si aggiornano continuamente, ognuno di loro si occupa di un gruppo da un minimo di 7 membri a un massimo di 30.
    La gente qui non lavora per i soldi, gli operatori danno molto di più di quello che guadagnano, lavorano perché amano il loro lavoro. Per essere qui ci devi credere, devi credere in ciò che fai. Ogni sette anni i membri dello staff hanno diritto ad un anno sabbatico, perché non è possibile non essere coinvolti nelle varie situazioni che quasi sempre sono molto dolorose e così c'è il rischio di non farcela, di sentirsi esauriti.
    Durante la guerra del 2006 c'era moltissima gente sfollata e tutte le scuole Wizo di tutto il paese hanno immediatamente aperto le porte. Il nostro centro lo ha fatto sin dal primo giorno, siamo stati il primo villaggio in tutta Israele ad aprire le porte. Abbiamo accolto oltre 600 persone, abbiamo disposto letti e aria condizionata nelle classi e tutti gli insegnanti e gli operatori hanno rinunciato alle vacanze e sono venuti a lavorare come volontari.
      Da Metula, la città israeliana più a Nord, è arrivato un istituto al completo con quaranta bambini autistici e tutto lo staff di insegnanti e operatori. Poi sono arrivati da Naharia e poi da tutto il Nord. E' nato anche un bambino durante quei giorni e noi lo abbiamo circonciso e gli abbiamo regalato un bonus per frequentare gratuitamente una scuola Wizo per un anno. Tutti gli sfollati sono stati ospitati gratuitamente, avevano lasciato le loro case e sono stati accolti ma molti di loro si sono offerti per lavorare con noi come volontari.
    Dopo 33 giorni quando la guerra è finita, prima di tornare indietro, hanno voluto piantare un ulivo, simbolo di pace, qui in giardino, per lasciare un ricordo del loro passaggio.
 
(Agenzia Radicale, 13 agosto 2008)





4. IL PARADOSSO DI ISRAELE




Come fa Israele a essere felice?

di Spengler*

Nessun paese di questo pianeta è più invidiato di Israele, e per buoni motivi: in termini concreti, a sessant'anni dalla sua fondazione, Israele è la nazione più felice della terra. E' uno degli stati più ricchi, più liberi e meglio istruiti del mondo, e la durata media della vita è più alta di quella della Germania e dell'Olanda. Ma la cosa più significativa è che gli israeliani sembrano amare la vita e detestare la morte più di qualsiasi altra popolazione. Se la storia è fatta non da piani razionali ma dalle esigenze del cuore umano, la serenità mostrata dagli israeliani di fronte ai continui pericoli cui sono esposti è degna di nota e di un attento esame. Può essere davvero una coincidenza che questa antichissima nazione – e la sola convinta di essere stata chiamata sul palcoscenico della storia per realizzare i piani di Dio – sia formata da individui che sembrano amare la vita più di qualsiasi altro essere umano?
    A conferma di quest'affermazione si può confrontare il tasso di fertilità e quello di suicidi di Israele con quello di altri trentacinque paesi industrializzati: Israele sta al primo posto della classifica dei paesi amanti della vita. Coloro che credono nell'elezione divina di Israele vedono nel suo amore per la vita una speciale grazia di Dio. In un mondo dominato dall'ambiguità, lo stato di Israele insegna al mondo l'amore per la vita, non nel senso triviale della "joie de vivre", ma come solenne celebrazione della vita.
    Una volta ho scritto che "è facile per gli ebrei parlare del loro amore per la vita. Sono convinti di essere eterni, mentre gli altri popoli tremano di fronte alla prospettiva della loro prossima estinzione. Non è la loro stessa vita individuale che gli ebrei considerano così deliziosa, ma piuttosto l'idea di una vita fondata su un Patto che procede ininterrotta attraverso le generazioni". Ciononostante, è sorprendente osservare come gli israeliani siano di gran lunga il popolo più felice della terra. Le nazioni si estinguono perché gli individui che le compongono decidono collettivamente di lasciarsi morire. Non appena la libertà prende il posto dei costumi fissi delle società tradizionali, la gente che non ama la propria vita non si dà pena di procreare dei figli. Non è la spada dei conquistatori, ma l'indigeribile sbobba della vita quotidiana che minaccia la vita delle nazioni, che oggi si stanno estinguendo a un ritmo che non ha precedenti nella storia.
    Lo stato di Israele è circondato da vicini che sono pronti a uccidersi pur di distruggerlo. "Proprio come voi amate la vita, noi amiamo la morte", insegnano i religiosi musulmani (questa stessa formula è scritta su un manuale di scuola palestinese per gli studenti delle medie). Oltre a essere tra i popoli meno liberi, meno istruiti e (fatta eccezione per i paesi produttori di petrolio) più poveri del mondo, gli arabi sono anche i più infelici. Il contrasto tra la felicità degli israeliani e la tristezza degli arabi è ciò che rende così difficile raggiungere l'obiettivo della pace nella regione.
    Questa tristezza non può essere attribuita alle condizioni materiali della vita. L'Arabia Saudita, ricchissima di petrolio, si trova al centosettantunesimo posto nella scala internazionale sulla qualità della vita, addirittura dietro al Ruanda. Israele si trova invece allo stesso livello di Singapore, anche se si deve osservare che Israele, nella mia lista sull'amore per la vita, sta al primo posto e Singapore all'ultimo. Ancor meno si può attribuire la causa dell'infelicità alle esperienze storiche, perché nessun popolo ha sofferto più degli ebrei o ha una giustificazione migliore per lamentarsi. Gli arabi non hanno inventato gli attentati suicidi, ma hanno generato una riserva mai vista prima di popolazione pronta a morire pur di arrecare danni al proprio nemico. I religiosi musulmani non esagerano affatto quando esprimono il loro disprezzo per la vita.
    L'amore di Israele per la vita, inoltre, è qualcosa di ben più profondo di una semplice caratteristica etnica. Chi conosce la vita degli ebrei soltanto attraverso le eccentriche lenti di scrittori ebreo-americani come Saul Bellow e Philip Roth, o attraverso i film di Woody Allen, si immagina gli ebrei come un popolo di angosciati nevrotici. Gli ebrei laici che vivono in America non hanno un tasso di natalità più alto di quello dei loro concittadini gentili, e tutto fa pensare che siano altrettanto depressi. Da un lato, gli israeliani sono molto più religiosi degli ebrei americani. Due terzi degli israeliani credono in Dio, sebbene soltanto un quarto di essi siano strettamente osservanti. Persino gli israeliani che si dichiarano contrari alla religione mostrano un diverso genere di laicità rispetto a quello che caratterizza l'occidente secolarizzato. Parlano il linguaggio della Bibbia e per tutte le elementari e le medie studiano costantemente il loro testo sacro. La fede nell'amore eterno di Dio per un popolo convinto di essere stato liberato dalla schiavitù ed eletto per la realizzazione dei suoi scopi è parte della spiegazione. Gli israeliani più religiosi sono quelli con il più alto tasso di natalità. Le famiglie ultraortodosse hanno in media nove bambini. Ciò non deve sorprendere, perché le persone religiose hanno generalmente più figli di quelle laiche, come ho già dimostrato statisticamente in una ricerca effettuata in diversi paesi. C'è una profonda differenza tra le società tradizionali e quelle moderne: nelle prime le donne non hanno altra scelta che passare quasi tutta la vita incinte. Nel mondo moderno, dove la procreazione è il frutto di una scelta e non di una costrizione, la decisione di fare figli è il segno di un amore per la vita. L'alto tasso di nascita dei paesi arabi ancora legati a una struttura di tipo tradizionale non regge il confronto con quello di Israele, di gran lunga il più alto in tutto il mondo sviluppato.
    La fede degli israeliani è davvero unica. Gli ebrei si sono recati in Palestina per un atto di fede, per costruire uno stato nonostante enormi difficoltà e la prospettiva di un accerchiamento da parte dei suoi nemici. Come dice una celebre battuta: "Non devi essere pazzo per essere sionista, ma aiuta". Nel 1903 Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, si assicurò l'appoggio britannico per la fondazione di uno stato ebraico in Uganda, ma fu il suo movimento a farlo tornare indietro, perché soltanto il ritorno alla Sion della profezia biblica poteva soddisfarlo. Anziché ricorrere a una lingua moderna, i coloni ebrei riportarono in vita l'antico ebraico, una lingua soltanto di uso liturgico dopo il IV secolo d.C., con un atto di volizione linguistica senza precedenti. Forse in Israele la fede brucia più forte proprio perché Israele è stata fondata in uno slancio di fede.
    Due vecchie barzellette ebraiche illustrano perfettamente questo atteggiamento degli israeliani. Due anziane signore ebraiche sono sedute su una panchina nel parco di St. Petersburg, in Florida. "Signora Levy – chiede la prima – che notizie avete del vostro figlio Isacco a Detroit?". "Oh, è orribile – risponde la signora Levy – sua moglie è morta un anno fa e lo ha lasciato da solo con due bambine. Ora ha perso il lavoro, e la sua assicurazione sanitaria scade fra due settimane. Visto come va il mercato immobiliare, non può nemmeno vendere la casa. E una delle due bambine si è ammalata di leucemia e ha bisogno di cure molto costose. E' fuori di sé, e non sa che cosa fare. Ma mi ha scritto una bellissima lettera in ebraico, ed è un vero piacere leggerla". Ci sono vari livelli di significato in questa barzelletta, ma quello più importante in questo contesto è che le cattive notizie vengono ammorbidite se scritte nella lingua della Bibbia, che per gli ebrei contiene sempre un messaggio di speranza.
    Nella seconda barzelletta il protagonista è un uomo d'affari americano che emigra in Israele poco dopo la fondazione dello stato. Al suo arrivo, richiede l'installazione di una linea telefonica, ma aspetta varie settimane senza ricevere risposta. Decide allora di recarsi alla compagnia telefonica e viene condotto in un ufficio dove due funzionari gli spiegano che il suo nome è inserito in una lista d'attesa di almeno due anni e che non c'è modo di farsi spostare avanti. "Intendi dire che non c'è speranza?", domanda l'americano. "E' proibito agli ebrei dire che non c'è speranza! – tuona il funzionario – Al massimo, nessuna chance".
    La speranza trascende la probabilità. Se la loro fede rende gli israeliani felici, perché allora gli arabi, la cui osservanza della dottrina islamica sembra ancora più stretta, sono così depressi? L'islam offre ai suoi fedeli non l'amore – perché Allah non si rivela nell'amore come fa Javhé – bensì il successo. Come ho già scritto, "il mondo islamico non può sopravvivere senza la fede nella vittoria, senza la convinzione che 'andare alla preghiera' sia la stessa cosa di 'andare alla vittoria'. L'umiliazione – ossia la percezione che la umma non possa premiare coloro che si sottomettono a essa – supera la sua capacità di sopportazione". L'islam, che significa "sottomissione", non concepisce la fede (ossia la fiducia in Dio anche nel caso che le sue azioni appaiano incomprensibili) nello stesso modo in cui la concepiscono ebrei e cristiani. Poiché il capriccio di Allah controlla tutti gli eventi, dall'orbita degli elettroni fino all'esito delle battaglie, i musulmani conoscono soltanto successo o sconfitta. Le sconfitte militari, economiche e culturali subite dalle società islamiche sono insopportabili agli occhi dei musulmani; il successo degli ebrei è un abominio, perché, a giudizio dei musulmani, è dovere di ogni fedele bramarlo e cercare di sottrarlo agli usurpatori alla prima occasione.
    Non bisogna fare un passo molto lungo per concludere che è proprio l'amore di Israele per la vita, la sua felicità nella fede, ciò che rende impossibile realizzare una pace regionale. L'usurpazione della felicità che è dovere di ogni musulmano è causa sufficiente per uccidersi allo scopo di sottrarre la felicità al nemico ebreo. Se i nemici di Israele non riusciranno a distruggre la felicità degli israeliani, rimane un barlume di speranza che possano decidere di scegliere la felicità anche per loro stessi. Perché le nazioni cristiane non sono altrettanto felici di Israele? Poche nazioni europee possono essere veramente definite "cristiane". La Polonia, l'ultimo paese europeo che registri ancora un'elevata partecipazione alla messa (circa il 45 per cento della popolazione), mostra ciononostante un tasso di natalità di appena 1,27, uno dei più bassi d'Europa, e un tasso di suicidi di 16 su 100 mila. La fede europea ha sempre oscillato tra l'adesione al cristianesimo come religione universale e idolatria etnica mascherata dietro una facciata cristiana. Nel IX secolo il nazionalismo europeo ha relegato ai margini il cristianesimo, e le due disastrose guerre mondiali combattute nel Ventesimo secolo hanno lasciato gli europei senza più alcuna fiducia né nel cristianesimo né nel sentimento nazionale. Soltanto in alcune sacche della popolazione americana si registrano tassi di natalità confrontabili con quelli di Israele, per esempio tra i cristiani evangelici. Non c'è alcun modo di confrontare direttamente il grado di felicità dei cristiani americani e degli israeliani, ma il carattere tumultuoso e proteiforme della religione americana non appare particolarmente adatto per garantire la soddisfazione personale. Ho il sospetto che la felicità degli israeliani sia davvero unica.
    In questi giorni va di moda fare previsione sulla fine di Israele, e la stessa situazione strategica dello stato di Israele non lascia molto spazio all'ottimismo. Il futuro di Israele dipende dagli israeliani. Durante duemila anni di esilio, gli ebrei sono rimasti ebrei nonostante tutti gli sforzi, spesso violenti, profusi per farli assimilare ai cristiani o ai musulmani. Si deve supporre che non abbiano abbandonato l'ebraismo perché gli piaceva essere ebrei. Con la massima sincerità, gli ebrei recitano tre volte al giorno questa preghiera: "E' nostro dovere lodare il Signore del tutto, acclamare la grandezza dell'Uno che produce tutta la creazione, perché Dio non ci ha fatto come le altre nazioni, né come le altre stirpi della terra. Dio non ci ha posto nella stessa situazione degli altri popoli, e il nostro destino è diverso da quello di tutti gli altri". Se gli israeliani sono il popolo più felice della terra, come indicano le statistiche, sembra possibile che faranno tutto ciò che è necessario per conservare il proprio paese, nonostante gli ostacoli e le difficoltà. Non so se riusciranno a farcela. Se gli israeliani perdono, però, il resto del mondo perderà un metro davvero straordinario della capacità che hanno gli uomini di essere felici e di avere fede. Non riesco a immaginare un evento più triste.
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* Spengler è lo pseudonimo usato da uno degli editorialisti di Asia Times, web magazine nato a Hong Kong nel 1999. Nessuno conosce la sua vera identità: di sé Spengler dice soltanto di essere un uomo di mezza età. Nei sui scritti cita la Bibbia, Kierkegaard e Clausewitz, mai Oswald Spengler, il pensatore tedesco cui potrebbe aver rubato il nome, che considera un "atroce razzista". Nella sua agenda, spiega, c'è la promozione delle radici giudaico- cristiane dell'occidente.

(Il Foglio, 15 maggio 2008 - ripreso da Informazione Corretta)





5. ARCHEOLOGIA




Zippori rivela i suoi segreti antichi

Scavi archeologici intrapresi dall'Università Ebraica hanno condotto alla scoperta di un tempio pagano romano nel parco nazionale di Zippori (Galilea). Una scoperta di peso che mette in luce la società culturale della Zippori antica.
    Gli scavi, effettuati dalla spedizione di Noam Shudofsky Zippori, sotto la responsabilità del professor Zeev Weiss, dell'Istituto di archeologia dell'Università ebraica, dimostrerebbero che il tempio risale al secondo secolo.
    Le scoperte rivelano che Zippori, capitale ebraica della Galilea durante il periodo romano, accoglieva una popolazione abbastanza importante di pagani. Ed è questa che è all'origine della costruzione del tempio nel cuore della città.
    Secondo il professor Zeiss, «questo fatto mostra che i pagani, che erano una minoranza, pregavano nel centro della città e vivevano in armonia con la maggioranza ebraica».
    Il tempio è stato scoperto sotto le fondamenta di una chiesa del periodo bizantino. E' situato a sud di quella che sembra essere stata la strada principale della città dal periodo romano a quello bizantino.
    Situato al centro di una corte, il tempio misura approssimativamente 12
La dea Tyche
metri per 24, e possedeva una facciata decorata di fronte alla strada. I muri del tempio sono stati saccheggiati nel passato, e adesso restano soltanto le fondamenta.
    La natura dei rituali praticati nel tempio non ha potuto essere scoperta, ma alcuni pezzi, risalenti al tempo di Antonino Pio, ritrovati all'interno, evocano un luogo di culto dedicato alle divinità romane Zeus e Tyche.
    Di fronte al tempio è stata messa in luce anche una monumentale costruzione romana. La sua funzione non è molto chiara, anche se la sua mole e la sua natura fanno capire che era un edificio importante.
    Nel centro dell'edificio è stato scoperto un cortile con un marciapiede in pietra di grande qualità su cui è stata ritrovata una pila di colonne crollate, probabilmente risultato di un terremoto.

(Guysen International News, 12 agosto 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





RIFLESSIONI




A partire da questo numero, ogni tanto si darà indicazione di una riflessione contenuta nel sito ma non riportata nel notiziario.

Vangelo e Israele, che cos'hanno in comune?




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