Inizio ยป
<- precedente        seguente ->


Notizie su Israele 461 - 27 aprile 2009

1. Intervista a Vittorio Dan Segre
2. Come Hamas è nato
3. Come Hamas si comporta
4. Poche ore dopo il terremoto
5. Morti che restano avvolte nel mistero
6. Ebrei e cristianesimo in Israele
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 14:1. Il Signore avrà pietà di Giacobbe, sceglierà ancora Israele, e li ristabilirà sul loro suolo; lo straniero si unirà a loro e si stringerà alla casa di Giacobbe.
1. INTERVISTA A VITTORIO DAN SEGRE




Sguardo sulle "Metamorfosi d'Israele"

Vittorio Dan Segre osserva con disincanto le trasformazioni del popolo ebraico in Israele e nel mondo.

Vittorio Dan Segre
Ha vissuto personalmente le tragedie dell'Europa nazista e dell'Italia fascista. Vittorio Dan Segre, di origine italo-israeliana, nel 1939 è stato costretto a lasciare il Piemonte a causa dalle persecuzioni razziali, emigrando nella Palestina britannica. Ha fatto il soldato volontario al servizio dell'esercito inglese durante la Seconda Guerra Mondiale, partecipando alla costruzione dello Stato d'Israele prima come soldato e poi come diplomatico e docente universitario.
Vittorio Dan Segre è un personaggio molto conosciuto anche in Ticino. Oltre ad osservare con sguardo attento fatti e vicende internazionali, ha inaugurato all'Università di Lugano l'Istituto di Studi Mediterranei. Al suo attivo ha celebri pubblicazioni quali "Storia di un ebreo fortunato" (UTET), e "Il Bottone di Molotov" (Corbaccio). Nel 2007 Segre ha poi pubblicato presso UTET "Metamorfosi d'Israele". Ed è proprio partendo da questo saggio, che si snoda l'intervista…

- Quando è nato il sionismo e quale impronta ha assunto nel corso del tempo?
- "Il sionismo - osserva Vittorio Dan Segre - è per così dire incarnato nel pensiero ebraico. In passato infatti abbiamo vissuto momenti di forte fermento sionistico. In particolare, il "sionismo politico" è nato con Theodor Herzl nel 1902, ritenuto un profeta nel campo. Ma già nel 1862 si discuteva sul rapporto tra nazione e Stato e, soprattutto, che tipo di nazione-Stato potesse essere Gerusalemme e quale impronta darvi: se "messianica" o laica. Da sempre, a Roma come a Gerusalemme, trovare un equilibrio fra le due condizioni non è semplice".

- Vi sono diverse forme di antisemitismo, che lei ha analizzato nei suoi studi. Come si è espresso il nazismo di Hitler ?
- "Il nazismo si è manifestato perché rappresenta un movimento anti-ebraico in quanto è anti-cristiano: il nazismo è una forma di nuovo paganesimo. Un paganesimo che porta in sé l'idolatria di razza, simboli ed esclusione del divino dalla società. Il nazismo vede nell'ebraismo un nemico storico".

- Come si può definire il concetto di antisemitismo racchiuso in una frase?
- "L'antisemitismo è una delle massime espressioni della grande lotta fra monoteismo morale ebraico e paganesimo".

- Ha senso affermare ai nostri giorni che quanto succede nel mondo è legato alle tre religioni monoteiste?
- "Direi che molto di ciò che succede nel mondo sia ancora legato alle tre religioni monoteiste! Del resto, come noto, nessuna di esse è o è sempre stata pacifica… La loro affermazione si è anche realizzata con l'induzione forzata all'abbraccio dei propri dogmi. Per esempio, è stata imposta la conversione ebraica dei maccabei in Galilea. E il proselitismo delle altre religioni è stato fortemente ostacolato. In seguito, quando si è affermato un movimento rabbinico elitario, le conversioni forzate sono diminuite e quindi è calato l'interesse per il proselitismo. Nel frattempo sono pure sorti piccoli Stati ebraici, anche in Arabia".

- Secondo lei il mondo occidentale ha compreso che la tragedia della Seconda guerra mondiale non è confinata al solo popolo ebraico?
- "È difficile pensare che non riguardi il mondo occidentale, perché esso è responsabile di quanto capitato! Forse non tutti hanno ancora capito che l'antisemitismo è parte di nazionalismi e di paganesimi occidentali".

- Chi si può definire veramente ebreo? È vero che fede e ideali si "ereditano"?
- "È stabilito che è ebreo colui che è figlio di madre ebrea".

- Come si può descrivere l'identità ebraica?
- "È una questione molto difficile, perché questo tema viene affrontato da diverse angolazioni. Sarà la vita ebraica d'Israele a determinare chi è 'il nuovo ebreo'. La religione, le tradizioni, la lingua già praticate in Israele daranno e manterranno la dimensione ebraica della persona".

- L'opinione pubblica internazionale, non sempre favorevole alle decisioni di Israele, potrà in influenzarne i cambiamenti?
-
"È molto difficile fare delle previsioni, perché molto dipenderà dall'evoluzione culturale, religiosa e politica d'Israele. Così come capita da sempre, i paesi evolvono e mutano nei secoli. L'opinione pubblica influenza sì le nazioni ma non è determinante per l'evoluzione delle stesse".

- Qual è il rapporto della persona di fede ebraica rispetto al Paese in cui vive?
- "La tendenza era e rimane per l'assimilazione e l'adattamento al Paese ospitante. E questo anche in Europa occidentale…".

- Nel 1939 lei scappò dall'Italia per la Palestina, che impressione ricevette?
- "Trovai una società ideologicamente molto forte e compatta".

- Molti ritengono che i due aspetti da lei elencati - una società ideologicamente forte e compatta - tendano ad esacerbare il concetto di nazionalismo.
-
"Un nuovo olocausto potrebbe sempre ripetersi. Quello che è successo agli ebrei dovrebbe ricordare a tutti che il male può ancora riaffiorare".

- Come commenta la recente questione dei lefevbriani?
-
"È una questione che riguarda la Chiesa".

- Il presidente americano Barack Obama sta cercando un dialogo con tutti i Paesi "caldi" del pianeta, Iran incluso. Israele però storce il naso. È possibile creare un dialogo mondiale in vista di una pace definitiva?
- "Non credo che l'umanità debba esistere solo nelle tensioni. Purtroppo però, ed è paradossale, è proprio la globalizzazione ad aver risvegliato sentimenti nazionali e religiosi distorti, che un più dichiarato nazionalismo rendeva più contrastabili. Il rischio è che oggi si vada verso un nazionalismo che vuole conservare un'identità, che per alcuni, è più minacciata di ieri…".

(ticinonews.ch, 24 aprile 2009)





2. COME HAMAS E’ NATO




Morire per vincere. Genesi di Hamas

di Daniele Santoro

Hamas nacque ufficialmente l'8 dicembre '87, in seguito ad un evento piuttosto banale in Terra Santa. Un camion israeliano investì due taxi palestinesi provocando quattro morti. A Gaza, tale episodio fu interpretato come un atto di ritorsione per l'accoltellamento, il giorno precedente, di un israeliano. Fu così che scoppiarono rivolte incontrollate che, in poco tempo, si condensarono in quella che è divenuta universalmente nota come "prima Intifada". Il 9 dicembre 1987 i Fratelli musulmani palestinesi si riunirono intorno al loro capo, lo sceicco Ahmad Yassin, e il 14 dicembre diffusero un volantino che incitava ad intensificare la ribellione firmato MRI (Movimento delle resistenza islamica; in arabo: "HMS", "Harakat al Muqawarna al Islamiyya). Nel febbraio 1988, le iniziali in arabo del movimento furono trasformate nella sigla Hamas ("zelo").
    Per comprendere la specificità e, soprattutto, l'impatto politico della nascita di Hamas, è necessario tuttavia ripercorrere brevemente il precedente ventennio di storia medio-orientale.
    Se il quindicennio tra il 1952 (presa del potere di Nasser in Egitto) e il 1967 (sconfitta araba nella guerra dei Sei giorni) era stato il periodo d'oro del nazionalismo, a partire dalla sconfitta della coalizione araba (Egitto, Siria, Giordania, Iraq) nella guerra del 1967 contro Israele lo spazio di senso islamico tenderà ad essere sempre più riempito dall'islam politico.
    La disfatta nella guerra dei Sei giorni provocò infatti la "morte" dell'ideologia panaraba e del nasserismo. Soprattutto, provocò l'irrimediabile declino dell'appeal della causa nazionale palestinese nel mondo arabo e islamico. La dimostrazione più eclatante di questo fenomeno fu il "settembre nero" del 1970, anno in cui, fra l'altro, morì improvvisamente lo stesso presidente Nasser (al quale successe il vice Anwar al-Sadat).
    La guerra del Kippur del 1973 sancì poi quella che Gilles Kepel ha definito "la vittoria del petro-islam e l'espansione wahhabita". Se negli anni Sessanta il nazionalismo arabo aveva relegato in un angolo la relgione, la guerra del 1973 cambiava completamente le carte in tavola. Israele poteva ancora una volta proclamare la vittoria militare, ma nel caso della guerra del Kippur le conseguenze politiche furono assai più rilevanti.
    Il 17 ottobre, quando ancora infuriavano i combattimenti, i paesi arabi aderenti all'Opec, sotto la guida dell'Arabia Saudita, annunciarono una progressiva riduzione della produzione di greggio fino a quando Israele non si fosse ritirata dai territori occupati nel 1967. Subito dopo, gli stessi paesi stabilirono un aumento del prezzo del petrolio pari a circa il 70% e decretarono l'embargo totale nei confronti di Stati Uniti e Olanda, che riforniva di petrolio l'intera Europa occidentale attraverso il porto di Rotterdam.
    Fu così che gli introiti dei prodotti petroliferi dell'Arabia Saudita passarono dai 4,3 miliardi di dollari del 1973 ai 22,6 del 1974. Miliardi di dollari che vennero utilizzati per foraggiare l'alleanza tra istituzioni wahhabite e i membri della Fratellanza espulsi dall'Egitto da Nasser sviluppatasi nel decennio precedente. In altri termini, a partire dal 1973 l'obiettivo della monarchia saudita sarà, nelle parole di Gilles Kepel, quello di "fare dell'islam un protagonista capace di sostituirsi sulla scena internazionale al nazionalismo sconfitto, e ridurre i modi di espressione di questa religione al credo dei signori della Mecca".
    La svolta nella battaglia tra nazionalismo ed islam politico fu però esterna al mondo arabo: la rivoluzione iraniana del 1979. Per quanto specificatamente iraniana e sciita, infatti, la Rivoluzione islamica ebbe un effetto deflagrante anche in campo arabo-sunnita. Dopo il 1979, centinaia di migliaia di giovani provenienti da ogni angolo del Dar-al-Islam si recarono a Teheran convinti che il modello iraniano aspettasse solo di essere applicato al contesto specifico di ogni paese.
    Gli ayatollah sciiti erano infatti riusciti dove i leader nazionalisti arabi (Nasser in primis) avevano sempre fallito: sconfiggere l'Occidente e passare da quella che nell'epoca d'oro del "terzomondismo" veniva definita "indipendenza formale" alla tanto agognata "indipendenza sostanziale" (cioè, economica oltre che politica). E vi erano riusciti ponendo al centro della loro azione politica quello che già Max Weber aveva individuato come architrave dell'Islam: il martirio ("shahada"), che Alì Shariati, vero grande teorico della Rivoluzione iraniana, definiva "l'unica ragione per esistere, l'unico segnale di presenzialità, l'unico mezzo di attaccare e di difendere e l'unico modo di resistere, così che la verità, il diritto e la giustizia possano rimanere vivi in un'epoca e sotto un regime in cui la nullità, la falsità e l'oppressione dominano".I rivoluzionari iraniani chiarirono dunque all'intero Dar-al-Islam il rapporto di dipendenza esistente tra la morte in battaglia e la vittoria. La morte in battaglia non era solo uno strumento necessario per il trionfo dei supremi principi della fede, ma una sorta di dovere religioso. Soprattutto, i rivoluzionari iraniani chiarirono la differenza esistente tra "jihad" e "shahada" che Massimo Campanini, sintetizzando il pensiero di Shariati, riassume nei seguenti termini: "il combattente del jihad è scelto dalla morte, mentre il martire, il shahid, sceglie la morte".Il cambio di scenario, con il declino sempre più inarrestabile del nazionalismo e l'ascesa, altrettanto inarrestabile, dell'islam politico, fu palese nel decennio successivo. Negli anni Ottanta, infatti, la causa nazionale palestinese non attirava più le simpatie e le attenzioni del mondo islamico come negli anni Sessanta. Il Dar-al-Islam era completamente assorbito dalla maestosa battaglia tra casa Saud e ayatollah iraniani per la conquista della leadership del mondo musulmano.
    La punta di diamante della strategia di contenimento della Rivoluzione islamica elaborata da Arabia Saudita e Stati Uniti fu infatti la jihad afgana. Essa era certamente funzionale ad arginare l'invasione sovietica dell'Afghanistan ma, soprattutto, costituiva una sorta di diversivo, una "guerra santa sunnita" da contrapporre alla Rivoluzione khomeinista per evitare che le masse arabe potessero essere attirate dalle sirene di Khomeini.
    Le ricadute della jihad afgana sulle sorti della causa nazionale palestinese sono ben esemplificate dalla vicenda personale di Abdallah Azzam. Azzam nacque nel nord della Palestina nel 1941, studiò all'università di Damasco e combatté nella guerra dei Sei giorni del 1967. Ruppe con la centrale palestinese dopo il "settembre nero" del 1970, rimproverando ad Arafat di aver dispiegato le sue truppe contro Hussein di Giordania piuttosto che contro Israele. Dopo aver conseguito un dottorato all'università Al-Azhar, divenne professore di "sharia" all'università di Giordania. In quanto membro dei Fratelli musulmani, fu cacciato da re Hussein e, come la maggior parte dei membri della Fratellanza, si rifugiò in Arabia Saudita. Grazie ai petro-dollari gestiti dalle istituzioni wahhabite, fece una brillante carriera che lo portò a diventare, negli anni Ottanta, uno dei leader della jihad afgana. Secondo la sua agiografia, la "conversione" alla causa afgana sarebbe avvenuta in seguito ad un incontro con alcuni pellegrini afgani avvenuto alla Mecca nel 1980. in seguito a quest'incontro, e sempre secondo la sua agiografia, Azzam "sentì che la causa che aveva cercato invano per tanto tempo era proprio quella del popolo afgano". Ora, se si tiene presente che a fare tale affermazione è un palestinese, si può comprendere quale fosse l'appeal della causa nazionale araba in generale, e palestinese in particolare, negli anni Ottanta.
    La nascita di Hamas, e la conseguente islamizzazione della causa nazionale palestinese, dunque, non è un fenomeno isolato, ma il risultato di un processo ventennale, iniziato a partire dalla sconfitta araba nella guerra dei Sei giorni del 1967, che ha coinvolto l'intero Dar-al-Islam, dall'Iran all'Arabia Saudita, dal Libano all'Afghanistan, dall'Algeria al Pakistan.
    I rivoluzionari iraniani e i "Freedom Fighters" afgani avevano dimostrato che per vincere bisogna morire. Il martirio è un'arma straordinariamente efficace, un'arma contro la quale eserciti e aviazioni nulla possono. E questo perché il martirio non si configura come la disponibilità a morire in battaglia ma come la volontà di morire in battaglia: sopravvivere al combattimento è un disonore per colui che ha deciso si combattere in nome di Dio.
    La nascita di Hamas rappresenta dunque la naturale evoluzione della causa palestinese da "causa nazionale" a "causa islamica". In proposito, lo Statuto di Hamas è piuttosto chiaro: "Il Movimento di resistenza islamico crede che la terra di Palestina sia un deposito legale per finalità religiose, terra islamica affidata alle generazioni dell'Islam fino al giorno della Resurrezione. Non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite, hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell'Islam sino al giorno del Giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell'Islam fino al giorno del Giudizio? Questa è la regola nella Legge islamica, e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani l'hanno consacrata per tutte le generazioni dell'Islam fino al giorno del Giudizio" (Cap. III, art. 11).
    La Palestina, dunque, non è più la terra sulla quale i palestinesi dovrebbero erigere l'espressione concreta del loro sentimento nazionale, ma un "deposito legale per finalità religiose". Il nazionalismo, poi, affermando che nessuno Stato può arrogarsi il diritto di agire "per conto di tutte le generazioni dell'Islam sino al giorno del giudizio", viene evidentemente subordinato all'ideologia religiosa.
    Aspirazione al martirio e antisemitismo intransigente sono dunque le caratteristiche fondamentali di Hamas. Caratteristiche comuni a tutti i gruppi fondamentalisti nati in seguito alla Rivoluzione iraniana, da Hezbollah ad Al-Qaeda, e che hanno permesso il trionfo della stessa Rivoluzione e l'instaurazione della Repubblica islamica.Affermare che Hamas è un movimento di popolo che ha vinto le elezioni significa voler coscientemente riconoscere solo una parte della verità. L'altra parte è che Hamas è anche un'organizzazione religiosa di stampo fondamentalista che utilizza il martirio dei fedeli come principale strumento bellico.
    Allo stesso modo, quando si afferma che con Hamas bisogna dialogare, ci si dimentica di domandarsi se sia ragionevole chiedere ad un israeliano di dialogare con chi, nel suo Statuto, proclama quanto segue: «Il profeta - le benedizioni e la Pace di Allah siano con Lui - dichiarò: "L'ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra e l'albero diranno: 'O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo'"» (Statuto di Hamas, cap. II).

(da Corriereweb.net)





3. COME HAMAS SI COMPORTA




HRW: Hamas e Fatah torturano e uccidono oppositori

di Mauro W. Giannini

Hamas e' responsabile di attacchi contro gli oppositori politici e i sospetti collaboratori di Gaza che hanno portato alla morte di almeno 32 Palestinesi e al ferimento di diverse decine di persone durante e dopo la recente offensiva militare israeliana. Lo ha detto Human Rights Watch in un rapporto pubblicato ieri, invitando il gruppo palestinese a cessare tali sue azioni e i leader di Hamas a Gaza di individuare i responsabili.
    La relazione, dal significativo titolo "Sotto la copertura della guerra: la violenza politica di Hamas a Gaza" documenta un modello instauratosi dalla fine del dicembre 2008 nella striscia con arresti e detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziali commessi da presunti membri di Hamas. La relazione si basa su interviste con le vittime ed i testimoni e relazioni di gruppi per i diritti umani palestinesi.
    L'ondata di attentati ha avuto inizio durante l'operazione militare di Israele, dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 ed e' proseguita per tre mesi. "Durante l'attacco di Israele a Gaza, Hamas ha agito con violenza contro i suoi oppositori politici e quelli considerati collaboratori con le forze israeliane", ha detto Joe Stork, vice direttore di Human Rights Watch per la divisione Medio Oriente e Nord Africa, spiegando che arresti illegali, torture e uccisioni sono continuati anche dopo la cessazione dei combattimenti, in beffa alle affermazioni di Hamas di difendere la legge".
    La violenza politica a Gaza e in Cisgiordania non e' nuova. Nel corso degli ultimi tre anni, Hamas e la sua principale rivale, Fatah, che controlla la Cisgiordania, hanno effettuato arresti arbitrari di ogni sostenitore altrui, poi detenuti e sottoposti a tortura e maltrattamenti. Tuttavia - anche per le ultime violazioni a Gaza - le autorita' di Hamas non hanno ancora affrontato seriamente i crimini da parte delle loro 'forze di sicurezza' durante e dopo l'attacco israeliano.
    Il Ministero degli Interni ha istituito il 16 aprile una commissione che dirige le indagini. Intervistato il 15 e 16 aprile, un portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, e il portavoce del ministero degli Interni di Gaza, Ihab al-Ghusein, Human Rights Watch hanno detto che Hamas aveva esplicitamente vietato l'eccessivo uso della forza da parte delle forze di sicurezza dopo l'operazione militare israeliana, ma hanno detto che le forze di Hamas potrebbero non aver impedito le violazioni durante l'attacco israeliano a causa del caos dei



combattimenti. Ma, secondo la relazione, la natura sistematica di molte delle esecuzioni e attentati e il fatto che le uccisioni sono continuate dopo l'offensiva israeliana, confutano queste affermazioni.
    In particolare preoccupa la diffusa pratica della mutilazione di persone sparando loro nelle gambe. Secondo la Commissione Indipendente per i Diritti Umani (ICHR), il difensore civico dei diritti umani dell'Autorità palestinese, uomini mascherati e armati hanno colpito almeno 49 persone nelle gambe tra il 28 e il 31 gennaio. Alcune delle vittime, intervistate, hanno accusato Hamas. I sequestri e le gravi percosse sono un'altra grande preoccupazione. Secondo la ICHR, uomini non identificati hanno spezzato le gambe e le braccia di 73 uomini di Gaza dal 28 dicembre al 31 gennaio. Alcune delle vittime sono convinte che gli autori siano uomini di Hamas.
    Durante i periodi di conflitto armato, Hamas, come effettiva autorita' nella striscia di Gaza, ha il diritto di adottare misure adeguate per garantire la sicurezza, compresa la detenzione di persone che pongono rischi per la sicurezza autentica, commenta HRW, ma l'abuso fisico, compresa la tortura e le esecuzioni sommarie, e' severamente vietato in tutte le circostanze. Ai sensi del diritto internazionale, non vi possono essere detenzioni arbitrarie ne' si puo' prendere a bersaglio un gruppo o una categoria di persone per motivi politici. Dal canto suo, Fatah, l'autorita' che gestisce la Cisgiordania, avrebbe aumentato le misure repressive nei confronti di membri e sostenitori di Hamas in quella regione.
    Dal 28 dicembre al 28 febbraio, i gruppi per i diritti umani palestinesi hanno registrato 31 reclami di residenti che hanno detto di essere stati torturati da gruppi guidati dalle forze di sicurezza di Fatah ed avrebbero registrato la morte di uno conosciuto in stato di custodia cautelare e la detenzione arbitraria di due giornalisti di una stazione televisiva privata considerati pro Hamas.
    Gli Stati Uniti e l'Unione Europea - che finanziano e formano le forze di Fatah in Cisgiordania - non hanno espresso alcuna critica pubblica di tali gravi violazioni dei diritti umani.

(Osservatorio sulla legalità, 21 aprile 2009)





4. POCHE ORE DOPO IL TERREMOTO




Il ritorno a Fossa degli ebrei salvati nel '43

I Di Consiglio in fuga dai nazisti trovarono riparo dai De Bernardis. E ora li vogliono adottare.

di Francesco Battistini

“Dov'è Nello? Conoscete Nello? E che ne è di Fossa? Come sta la gente di Fossa?” Poche ore dopo il terremoto, quand' è ormai chiaro chi e come c' è rimasto in mezzo, un uomo piomba da Roma e chiede notizie fra le tendopoli d'Abruzzo. Il suo nome, Leo Terracina. Il suo scopo, cercare una memoria. Non sa bene che cosa può trovare. E se. E quando. Però ha visto le immagini, sentito le notizie, capito che quello è il posto a cui pensare. Sua mamma si chiama Roberta Di Consiglio ed è originaria di Fossa, la prima ebrea romana mai nata fuori dal Ghetto.
    È a Fossa che Leo vuole andare: in uno dei paesi più colpiti. A cercare Nello De Bernardinis, 74 anni, e la famiglia che 66 anni prima aveva nascosto sua mamma ai nazisti, l' aveva registrata come piccola ariana. Le aveva ridato una vita. La caccia dura poco: Nello è vivo. Seduto nella sua macchina. Una coppola grigia, una tuta blu e grigia, l' asciuttezza di chi ha perso tutto e non chiede nulla. «Come stai, Nello?». «Sono qui». «Che cosa posso fare?». «Grazie. Non ho bisogno di niente. Vi state preoccupando di noi, e solo questo mi commuove».
    I riemersi e i salvati. Nelle storie del doposisma c' è Onna, che i tedeschi vogliono ricostruire per lavare una colpa storica del massacro che i nazisti vi compirono. E c' è Fossa, che è invece il posto dove si rifugiarono quattro famiglie d' ebrei in fuga da Roma. E che gli ebrei italiani, e forse lo Stato d' Israele, ora hanno deciso d' adottare. Raccontano i Di Consiglio (i salvati): «Dall' ottobre ' 43, siamo rimasti un anno e mezzo nascosti a Fossa. I De Bernardinis ci hanno dato tutto, senza chiederci nulla. Mio papà - a parlare è Letizia, zia di Leo - aveva una bottega a Termini. Pochi giorni prima dei rastrellamenti tedeschi, decise di scappare. Non era mai stato in Abruzzo. Fossa fu il primo posto che trovammo. I De Bernardinis, i primi che incontrammo. Era gente perbene. Capirono subito. Ci nascosero in una stalla: lì nacque Roberta, mia sorella. Lì ci salvammo tutti».
    Racconta Nello De Bernardinis (il salvatore): «Io avevo 8 anni, quando i Di Consiglio sbucarono dal nulla. Noi facevamo la fame, allora. Ma siamo sempre stati una famiglia dal cuore aperto. Mio papà sapeva di metterci tutti in pericolo, ma ci disse che era nostro dovere aiutare quella gente. Scavammo un buco nella stalla. E quando arrivarono i tedeschi per un controllo, e videro uno di loro, riuscimmo a farlo passare per un nostro lavorante». S' emozionano i salvati: «Un' amicizia fortissima ci lega ancora a Fossa - dice Leo -. Tutta la comunità ebraica conosce quel paese. Vogliamo ospitarli nelle nostre case, dare loro un po' di quel che loro ci diedero allora». Arrossiscono i salvatori: «Anche dopo la guerra - racconta Nello -, i Di Consiglio volevano ricompensare mio padre con dei soldi. Lui non accettò. E anch' io oggi non posso accettare. La situazione è critica: mia nuora ha perso diversi parenti, la nostra casa è lesionata, io dormo in auto perché la preferisco alla tenda... Ma, in fondo, ce la stiamo cavando». Aiutare chi aiutò. I Di Consiglio che ancora ringraziano e vogliono adottare i De Bernardinis. I De Bernardinis che ringraziano e vogliono far da sé. L' incrocio di due tragedie è finito sulla stampa israeliana, raccontato dal quotidiano Yedioth Ahronot, e sta muovendo molti.
    Leo Terracina ha chiesto a Riccardo Pacifici, il presidente della comunità ebraica, d'unirsi nel sostegno. Perché ci sono altre famiglie che meritano: «Abbiamo fatto un appello anche al governo israeliano». Dice Pacifici: «Abbiamo già mandato vestiti e cibi in Abruzzo, ma per Fossa, per i De Bernardinis, per i Corona e tutti quelli che aiutarono gli ebrei c' è una responsabilità particolare. Devono essere riconosciuti fra i Giusti d' Israele, specie ora che si trovano in questo disastro». Il governo israeliano ha già mandato squadre di psicologi, ma a Gerusalemme dicono che è solo l' inizio: «I bambini di Fossa verranno invitati per le vacanze d' estate. Poi, si farà un esame di ciascuna situazione». Una promessa: «Daremo una mano a tutti».

(Corriere della Sera, 14 aprile 2009)





5. MORTI CHE RESTANO AVVOLTE NEL MISTERO




Urss, l'olocausto sconosciuto

di Francesco Bizzini

Quasi che la tragedia seguisse anch'essa una sorta di "moda". C'erano le croci uncinate. C'era lo sterminio. Ma in molti casi non c'erano proprio gli storici a ricordare quelle vittime così profondamente ignorate, coloro che non trovarono la morte nei più conosciuti e studiati campi di sterminio.
    Ci sono volti, storie, avvenimenti che pochi conoscono. Ricordi persi nel computo dei sei milioni: la città di Berdichev in Ucraina racconta di donne ebree obbligate a nuotare fino alla morte nel fiume, a Telsiai, in Lituania, bambini venivano lanciati nelle fosse dove già giacevano morti i genitori. Nella bielorussa Liozno ebrei furono chiusi in un fienile e lasciati morire di freddo.
    Storie provenienti dall'est. Storie potenzialmente dimenticate e ora nelle mani dell'Istituto Internazionale per le Ricerche sull'Olocausto che vuole ricostruire tutti quei piccoli ma importanti massacri. Sforzo immane che ha appena partorito un documento iniziale chiamato "La Storia mai Raccontata".
    E sono proprio le parole di David Bankier, capo dell'International Institute for Holocaust Research, a delineare i contorni di questa ricerca: "Questi avvenimenti sono stati in gran parte trascurati perché hanno coinvolto piccoli villaggi o città. In molti casi la gente del posto ha svolto un ruolo chiave negli omicidi. Tentiamo di capire come fosse possibile che un uomo il giorno prima giocasse a calcio con il vicino ebreo e il giorno dopo lo uccidesse".
    Se queste morti rimangono ancora avvolte nel mistero però almeno il retroscena storico è ben che noto: lo sterminio iniziò con l'arrivo nei territori dell'Unione Sovietica dei nazisti nel 1941 e le prime prove di ciò che "la razza superiore" fece furono raccolte dai sovietici solamente a margine di un'indagine per l'individuazione dei "nemici del popolo".
    Oggi si vuole invece raccogliere più materiale possibile per tentare di ricostruire i fatti avvenuti in quelle dimenticate terre. Si raccolgono diari dei tedeschi, testimonianze dei sopravvissuti e anche le stime delle commissioni "rosse" che però alle volte sembrano addirittura esagerare il fenomeno rendendo così necessario rifocalizzare sistematicamente il tutto.
    Testimonianze che raccontano l'irraccontabile: "Furono messi in fila prima d'essere cacciati verso le trincee. Questo fu compiuto dalle SS lettoni - racconta un testimone tedesco - e agli ebrei fu comandato di voltare le spalle al plotone. Ma già alla vista della trincea avevano capito che la fine era vicina, probabilmente perché sul fondo già giacevano cadaveri ricoperti di un leggero strato di sabbia".
    Numeri che impressionano. La direttrice del progetto, Lea Prais, ricorda la storia della cittadina bielorussa di Krupki dove il 18 settembre del 1941 l'intera comunità ebraica locale fu spazzata via. Mille persone c'erano e mille persone morirono.
    "Ma il silenzio degli ebrei dell'Unione Sovietica non fu poi così tanto silenzioso", afferma ancora la Prais. Neanche troppo tempo dopo in numerose piazze e luoghi circostanti spiccavano Stelle di David o altri segni per ricordare questi massacri. E questo avveniva anche sfidando gli occhi di una non certo favorevole opinione sovietica.
    Ma il coraggio qui sconfisse il silenzio. Ora e per sempre.

(il reporter, 22 aprile 2009)o





6. EBREI E CRISTIANESIMO IN ISRAELE




Che cosa pensano dei cristiani gli ebrei in Israele?

Che atteggiamento hanno gli ebrei in Israele verso il cristianesimo, il mondo cristiano e i cristiani? E' una domanda che oggi interessa l'opinione pubblica in Israele, perché il modo in cui è stata trattata la questione del vescovo negazionista Williamson ha danneggiato il prestigio del Vaticano. Inoltre, in Terra Santa ci si sta preparando alla visita del Papa a maggio.
    Anche se nel cristianesimo non tutti i cristiani si identificano col Vaticano, la relazione ufficiale di Israele con il Papa si presta ad essere una specie di rappresentazione della relazione con il cristianesimo. In pratica, agli occhi della popolazione israeliana il cristianesimo viene fatto coincidere con la Chiesa e con il mondo occidentale, non con i cristiani nati di nuovo. Per questo è così importante che autentici cristiani vengano in Israele, per essere qui una luce e far vedere la differenza tra i cristiani nominali e i cristiani nati di nuovo.
    Per illustrare meglio il rapporto tra ebrei e cristiani, l'Istituto di Gerusalemme per gli studi su Israele e il Centro di Gerusalemme per le relazioni ebraico-cristiane hanno svolto un'inchiesta fra gli ebrei in Israele. Particolarmente interessanti sono le differenze di opinioine tra laici e religiosi. Il 54% dei laici pensa che il cristianesimo sia più vicino all'ebraismo [dell'islamismo], mentre tra gli israeliani religiosi soltanto il 17% è di questa opinione e il 48% ritiene che l'Islam sia più vicino all'ebraismo [del cristianesimo].
    Alcuni israeliani pensano che questa notevole differenza possa dipendere dalla provenienza, perché molti laici sono di provenienza ashkenazita - cioè europea - e quindi il cristianesimo è per loro più familiare. Molti ortodossi invece sono sefarditi, provengono da paesi come Marocco, Egitto o altri stati arabi, e quindi per loro l'islam non è niente di sconosciuto. Il motivo principale però potrebbe risiedere nel fatto che gli ebrei considerano la Trinità nel cristianesimo come "tre dei". Si riferiscono allora a Deuteronomio 20:3: "Non avrai altri dei davanti a me". Nell'Islam c'è un solo Dio: Allah.
    Che gli israeliani laici siano più aperti verso il cristianesimo si evince anche dalle risposte a questa domanda: si deve insegnare il cristianesimo a scuola? il 68% si sono detti favorevoli e il 52% sono d'accordo perfino con una introduzione al Nuovo Testamento. I religiosi invece sono nettamente contrari, con percentuali rispettivamente del 73% e 90%. Però bisogna anche fare delle graduazioni, perché gli ortodossi stretti costituiscono una percentuale relativamente piccola della popolazione in Israele. Soltanto 6% degli ebrei israeliani si dichiarano religiosi ultra-ortodossi, 43% ebrei religiosi o tradizionali e 51% laici.
    Anche l'atteggiamento nei confronti degli arabi cristiani nel paese presenta delle differenze: 51% dei laici considerano positivo il comportamento verso lo Stato d'Israele dei cristiani arabi, mentre 62% dei religiosi lo considerano piuttosto negativo e 51% dei religiosi sono dell'opinione che Israele dovrebbe invitare i cristiani arabi ad emigrare.


Accoglienza dei cristiani nel paese

L'opinione che i cristiani arabi farebbero meglio a lasciare il paese è stata confermata da Rabbi David Sterne, il quale ha espresso a israel heute un interessante punto di vista che fa riferimento ai 7 precetti noachidi*. "Il loro posto non è qui", ha detto il Rabbi ultra-ortodosso riferendosi ai cristiani nel paese. "A meno che non rispettino i 7 precetti di Noè. Allora possono anche restare".
    Rabbi Sterne ritiene che i 10 comandamenti di Dio sono stati dati esclusivamente agli ebrei, e quindi non sono vincolanti per tutti gli altri. Diversamente stanno le cose per i 7 precetti di Noè(*), che sono stati promulgati prima del tempo della Torà. "Se i cristiani si attengono a questi, allora possono anche vivere in Israele, altrimenti no. Loro devono capire che questo è un paese ebraico. Se vengono come visitatori, va bene, ma il problema si pone quando vogliono comprare della terra per venire a risiedere qui. Questo naturalmente non si può. Come cristiani religiosi non possono acquistare terra in Terra Santa, perché questa terra è stata promessa da Dio agli ebrei", ha detto Sterne.
    Ma anche all'interno del gruppo ultra-religioso ci sono opinioni diverse, perché il rapporto personale con i cristiani nel paese è influenzato non solo dalla visione religiosa ma anche dalle esperienze che gli ebrei hanno fatto, per esempio nella diaspora. L'ultra-ortodossa Sarah Berkovitz ha presentato a israel heute il suo rapporto con i cristiani come positivo negli ultimi anni. "E' un'evoluzione che si può notare anche sul piano della politica, perché ci sono sempre più politici molto influenti, come Benjamin Netanyahu e Benny Elon, che mantengono apertamente buone relazioni con i cristiani di tutto il mondo, soprattutto con i credenti evangelici risvegliati.
    Berkovitz crede che il legame sia sorto a causa della crescente minaccia costituita dall'islamismo radicale. C'è la consapevolezza che dobbiamo vivere in pace, e sia tra i cristiani che tra gli ebrei esiste anche la fondamentale volontà di farlo. C'è rispetto per la fede dell'altro, senza volergli rovesciare addosso la propria idea religiosa.
    Oren Taz, un ebreo ortodosso, non ha nessun problema con i cristiani. Se non fanno i missionari, per parte mia possono anche vivere qui. Io sono già stato all'estero, e lì sono entrato in contatto con dei cristiani. Non ho nessun problema con loro", ci ha detto il 37enne.
    Josef Beck è decisamente contrario ad invitare i cristiani che vivono in Israele a lasciare il paese. "Personalmente, i cristiani nel paese non mi disturbano. Ci sono cristiani che vivono qui già da anni. Che cosa succederebbe se agli ebrei che vivono negli USA dicessero che se ne devono andare e venire qui? Io credo che in fondo gli USA siano un paese cristiano, così come questo è un paese ebraico", è l'opinione che questo ebreo laico ha espresso a israel heute, e che è condivisa dalla maggior parte dei laici.


La libertà di fede dei cristiani

L'americano cristiano Richard Brodgen vive da sette anni in Israele. Alla domanda se si sente accettato come cristiano in Israele risponde con un chiaro "sì". "Vedo una grande apertura da parte degli israeliani, soprattutto dei laici, che sono sempre pronti ad ascoltare la visione cristiana in relazione alle questioni di fede. Il mio padrone di casa mi ha già invitato più volte in Sinagoga per lo Shabbat. Nel mio appartamento in Mevasseret Zion si svolgono spesso incontri di lode e preghiera. Attribuisco la libertà che mi viene accordata al fatto che sono un cristiano e non un credente ebreo. Io non costituisco un pericolo", ha detto il Pastore della comunità battista di Gerusalemme.
    Proprio questo è il punto cruciale. I cristiani possono godere di un trattamento amichevole perché loro, al contrario degli ebrei messianici, agli occhi degli ebrei religiosi non rappresentano una minaccia ai valori e alle tradizioni ebraiche, perché si trovano al di fuori dell'ebraismo e quindi sono chiaramente delimitati.
    Su questo punto gli ebrei religiosi sanno fare una chiara distinzione tra cristiani ed ebrei messianici. Ma il direttore della Bible Society in Israele, Victor Kalisher, ha detto chiaramente a israel heute che in Cristo-Yeshua (Gesù) gli ebrei e i gentili sono uno. "La mia identità ebraica è completata in Yeshua", ci ha detto Kalisher.
    Agli occhi suoi, comunque, esiste una certa distanza tra credenti, che dipende da dove si vive e si lavora, e da come ci si comporta con l'ambiente intorno, per esempio se si parla della propria fede.


Altri risultati dell’inchiesta:
  Laici Religiosi
Deve essere permesso ai cristiani di esercitare liberamente la loro fede in Israele? 71% sì 68% no
Devono essere limitate le attività delle chiese
in Israele?
48% no 48% sì
Disturba la vista di un simbolo cristiano, p.es. una collana con una croce? 91% no 60% si
Le organizzazioni ebraiche dovrebbero accettare denaro dai cristiani? 70% sì 79% no
E' positivo l'atteggiamento della Chiesa cattolica verso l'ebraismo? 43% sì 65% no
I soldati cristiani dovrebbero giurare sul Nuovo Testamento? 56% sì 62% no
Deve essere permesso agli ebrei di visitare le chiese? 80% no 43% sì
I cristiani in Israele sono missionari?
82% no 43% sì
Il cristianesimo è idolatria?
66% no 78% sì



* I 7 precetti noachidi:

1. Non adorare gli idoli
2. Non profanare il Nome
3. Non uccidere
4. Non commettere atti sessuali proibiti
5. Non rubare
6. Persegui la giustizia
7. Non essere crudele con gli animali

Maimonide: "Chiunque accetti i sette comandamenti e li osservi con cura è considerato un gentile devoto, e ha parte alla vita eterna, a condizione, però, che riceva e segua tali precetti perché Dio li ha imposti nella sua Legge e ci ha rivelato tramite Mosè, nostro maestro, che quelli sono i comandamenti ricevuti in origine dai figli di Noè." (ndr)

(israel heute, aprile 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





MUSICA E IMMAGINI




Adonai Sfatai Tiftach




INDIRIZZI INTERNET




The Coordination Forum for Countering Antisemitism

Welcome to Gilgal




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.