1. LESERCITO ISRAELIANO, UN ELEMENTO DI INTEGRAZIONE
Un'unità militare speciale
Dalla creazione dello Stato, nel 1948, Israele ha accolto circa tre milioni di nuovi immigrati. In Israele vivono persone provenienti da molte nazioni del mondo. Questa molteplicità si rispecchia nell'esercito del paese.
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Soldatesse di Zahal |
Nell'integrazione dei molti immigrati ebrei, l'esercito israeliano gioca un ruolo importante. Il servizio fianco a fianco, le fatiche fisiche sopportate insieme e le sfide superate insieme, tutto questo contribuisce a migliorare e ad accelerare l'integrazione dei nuovi venuti.
Ma questo esercito, che è preparato nel miglior modo ad integrare i nuovi immigrati nelle sue fila, dispone di un'unità che a questo riguardo è singolare. Esiste un'unità chiamata "Eres" in cui militano 144 nuovi immigrati provenienti da non meno di 28 diversi Stati.
L'unità "Eres" è aggregata alla Polizia Militare. Gli appartenenti a questa unità svolgono il loro servizio in undici posti di controllo distribuiti intorno a Gerusalemme. Hanno il compito di impedire infiltrazioni di palestinesi ostili allo Stato e di impedire attentati terroristici. Fra loro i soldati dell'unità "Eres" parlano ebraico, ma dispongono in totale di altre undici lingue: russo, amarico, inglese, spagnolo, portoghese, francese, rumeno, tedesco, polacco, svedese e ungherese.
Di solito una tale molteplicità di lingue provoca disorientamento e innumerevoli casi di incomprensione. Ma non è così nell'unità "Eres". Nel 2008 i soldati hanno portato a termine operazioni di successo particolarmente impressionanti: hanno impedito due attacchi terroristici che miravano direttamente alla loro unità; hanno catturato tredici persone ricercate dal servizio di sicurezza interno per attività contro lo Stato; hanno consegnato alle autorità 295 palestinesi ricercati per essere interrogati; hanno catturato 607 persone che volevano entrare in Israele illegalmente; hanno scoperto 308 palestinesi con documenti falsi.
La molteplicità delle lingue e la diversità di mentalità dei soldati non danneggiano la coesione sociale, al contrario. «In camera mia ci sono due ucraine, una rumena, una colombiana, una russa e una francese», ha detto il maresciallo Anna Sakitz, proveniente anche lei dalla Russia. «Un'amicizia profonda ci unisce. Di notte sediamo insieme, parliamo e ci scambiamo canti in tutte le lingue possibili. Spesso ho sentito usare la parola "crogiolo", ma soltanto adesso ne capisco il preciso significato.
Nelle fila dell'esercito israeliano militano attualmente circa 35.000 nuovi immigrati, di cui 9.000 sono arrivati in Israele all'età di 16 anni. A questo proposito, il responsabile dello Stato Maggiore per le questioni personali, Avi Samir, ha detto: «Facciamo di tutto per aiutarli e soprattutto per stare al loro fianco. Loro forniscono un grosso contributo alla sicurezza dello Stato d'Israele. Il servizio nell'esercito israeliano non è per niente facile, e per i nuovi immigrati andare sotto le armi è ancora più difficile. Per questo, davanti a questi ragazzi ci si può davvero togliere il cappello, e si deve fare di tutto per alleggerire il loro tempo.»
(Nachrichten aus Israel, maggio 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
I soldati di Zahal
2. LA PERSECUZIONE DEGLI EBREI SOTTO STALIN
La notte dei poeti fucilati perché ebrei
di Ugo Finetti
«Sono ebreo. Ho ricevuto la medaglia al Valore del lavoro durante la Grande guerra patriottica 1941-1945. Sono uno scrittore. Sono stato arrestato il 24 gennaio 1948 e ho ricevuto copia dell'atto d'accusa il 3 maggio 1952»: con queste e simili parole si presentavano uno dopo l'altro i quattordici esponenti del Comitato Ebraico Antifascista creato da Stalin dopo l'invasione hitleriana del 1941 e che l'8 maggio del 1952 venivano processati per tradimento, cospirazione e spionaggio. Un processo segreto senza avvocati e senza pubblico ministero dopo tre anni e mezzo di detenzione. I dibattimenti contro i cospiratori erano sempre stati per Stalin un'occasione di spettacolo propagandistico, ma in questo caso gli ebrei alla sbarra non furono ritenuti un'immagine da divulgare. L'istruttoria fu di una lunghezza straordinaria anche in conseguenza del fatto che il principale attore dell'orchestrazione delle accuse - il ministro della sicurezza Victor Abakumov - era caduto nel frattempo in disgrazia ed arrestato nel luglio del 1951.
- Senza testimoni
L'"affare Cea" fu l'ultimo processo prima che Stalin morisse nel 1953 ed il suo epilogo con la fucilazione degli imputati, tra cui poeti e scrittori, la notte del 12 agosto 1952 venne ricordato sin dall'inizio dalle comunità ebraiche come «la notte dei poeti assassinati». Una vicenda che intreccia repressione e antisemitismo nel regime comunista, ma che anche dopo l'apertura degli archivi sovietici è rimasta con molti lati oscuri. Nel 1997 il Libro nero del comunismo di Stèphane Courtois la rievocava infatti lamentando una «documentazione ancora lacunosa» e ricorrendo solo a ipotesi circa lo svolgimento del processo tenuto a porte chiuse nella sede dei servizi segreti, la Lubianka, davanti ad una Corte militare. Ora finalmente su questo capitolo dell'antisemitismo comunista si può fare piena luce grazie ai verbali ritrovati nel 2004 e pubblicati in Italia a cura di Francesco Maria Feltri nel libro intitolato appunto La notte dei poeti assassinati (SEI, Torino 2009, pp. 415, 20 euro).
È così che per la prima volta vediamo "rivendicato" dalle autorità sovietiche l'assassinio del presidente del Comitato, il direttore del teatro yiddish di Mosca Salomon Mikhoels, che era stato trovato morto il 13 gennaio 1948 a Minsk e che era stato sotterrato con grandi onori accreditando la versione di un incidente d'auto. Gli arresti erano iniziati nelle settimane precedenti e l'impianto accusatorio coinvolgeva l'intero vertice del Cea a cominciare dal suo presidente. Ma Mikhoels era un personaggio molto popolare e che il regime valorizzava da anni.
Il Cea era stato creato nel marzo del 1942 avendo tra i principali obiettivi quello di raccogliere fondi negli Stati Uniti ed è proprio da lì che Albert Einstein - che già aveva collaborato ai Comitati filosovietici di Willi Munzenberg nella Germania di Weimar - propone che il Comitato raccolga la documentazione della persecuzione degli ebrei che hanno attuato i tedeschi nel corso dell'invasione dei territori sovietici. Ma proprio nella realizzazione di quest'opera - "Il libro nero" sul genocidio nazista - si registrò l'inizio della caduta in disgrazia della causa ebraica. Infatti agli occhi di Stalin mettere a fuoco la persecuzione antisemita appariva come un tentativo di negare l'unità nazionale, il carattere "patriottico" della guerra sovietica contro Hitler. È così che - ricostruisce Francesco Maria Feltri - «si cominciò a far uso della formula generica pacifici cittadini sovietici ovvero a omettere la parola ebrei persino in contesti (come l'eccidio di Babij Jar, vicino a Kiev, o le esecuzioni praticate con camion a gas, a Minsk) in cui menzionare la nazionalità delle vittime sarebbe stato indispensabile». Il testo - che aveva tra i principali autori gli scrittori Il'ja Erenburg e Vasilij Grossman - venne prima corretto e censurato e alla fine si decise di non pubblicarlo.
- Tribunale ipocrita
L'attività del Comitato diventò tradimento e sovversione nell'immediato dopoguerra quando nel settembre 1947 a Mosca vi furono manifestazioni di massa non organizzate dalle autorità sovietiche per festeggiare l'arrivo di Golda Meir a capo della prima delegazione israeliana in visita al Cremlino. A novembre il Comitato Ebraico Antifascista è sciolto in quanto «centro di propaganda antisovietica» e a dicembre iniziano gli arresti.
Nel leggere i verbali del processo segreto si coglie come lo stesso Tribunale viva momenti di tensione e di imbarazzo di fronte all'evidente montatura e alla ritrattazione delle confessioni estorte con la violenza. Emergono tradimenti e delazioni e gli imputati si difendono replicando persino con ironia alle accuse. Lo stesso presidente Cheptsov diventa esitante e il processo ha tempi insolitamente lunghi rispetto agli altri procedimenti pubblici: dura fino a metà luglio. Finalmente la sentenza e le fucilazioni. Il libro ricostruisce non solo la verità, ma porta anche alla luce una importante pagina della dignità e del coraggio degli ebrei sottoposti a persecuzione. Dal banco degli imputati lo scrittore David Bergelson replica: «Non può esservi nulla di criminale nella frase: Io sono un ebreo. Se mi avvicino a qualcuno e gli dico: Sono ebreo, che c'è di male?».
(Libero-news.it, 10 maggio 2009)
3. E DAVVERO UNA SOLUZIONE?
Due popoli, due stati
di Gianni Pardo
Il viaggio del Papa in Terrasanta ha riportato sotto i riflettori il problema palestinese. Uno dei luoghi comuni, al riguardo, è che la soluzione sia quella di "due popoli e due Stati". Anche se - si aggiunge - ci sono parecchi ostacoli: i coloni nei Territori Occupati, il problema dei rifugiati e, soprattutto, il rifiuto degli estremisti palestinesi. Infatti Hamas e gli estremisti islamici non vogliono una parte della regione, la vogliono tutta. Sono pazzi?
Forse meno di quanto si pensi.
Lo sarebbero certamente se sognassero, con le loro sole forze, di riuscire militarmente dove non sono riusciti tutti gli Stati arabi coalizzati. Ma forse è ragionevole che rifiutino un'offerta che non viene loro fatta. E facciano finta di chiedere di più.
La tesi sembra ardita ma non è detto che sia infondata.
Uno Stato è tale quando è sovrano, cioè quando ha l'indipendenza legislativa, amministrativa e soprattutto militare. Ebbene: un tale Stato non può essere tollerato da Israele. Gerusalemme può accordare al vicino una totale autonomia ma non potrà mai permettere la vera indipendenza militare, perché di questa indipendenza il nuovo Stato, secondo i suoi attuali programmi, si servirebbe per attaccarlo. Pure se molto debole, la Palestina potrebbe permettere ai suoi alleati - Siria, Egitto, Giordania e corpi di spedizione anche iraniani - di entrare nel proprio territorio per attaccare Israele dalle attuali frontiere. E perché mai Israele dovrebbe mettere a rischio la propria sopravvivenza, perché mai dovrebbe rinunciare al "cuscinetto" costituito dai Territori Occupati?
Nel 1948 i palestinesi si videro offrire uno Stato sovrano e lo rifiutarono. Dissero che non potevano contentarsi di più di metà della Palestina e tentarono - già allora - di "buttare a mare gli ebrei". Persero e invece di piegarsi al responso delle armi, continuarono a rilanciare per decenni con altre guerre, tutte perse, fino a scrivere nello Statuto di Hamas il programma dell'eliminazione degli ebrei. L'eventuale nuovo Stato dunque sarebbe aggressivo, mentre se oggi Israele può dormire sonni tranquilli è perché i palestinesi sono fermati da una recinzione e perché, da quei Territori, non può venire un esercito dotato di armi pesanti.
In passato i palestinesi non hanno voluto l'indipendenza, oggi non possono più averla. Non hanno soltanto perduto tutte le guerre, hanno perduto anche la pace. Se oggi dicono orgogliosamente che non sono disposti a nessun compromesso, possono farlo gratis: infatti la Palestina, malgrado la sua bandiera e un'incessante retorica di guerra ed odio, è solo un Territorio Occupato. E tale rimarrà a tempo indeterminato. Israele infatti non può permettere che si costituisca a pochi metri dalle sue case una minaccia per la propria sopravvivenza. Se i palestinesi, sessant'anni fa, avessero avuto un minimo di buon senso e di tolleranza, il problema non si sarebbe neppure posto: ma è andata com'è andata.
Nelle guerre normali, il vincitore lascia al vinto una limitata autonomia e questo avviene per un tempo relativamente breve. Dopo la Prima Guerra Mondiale le potenze alleate imposero il disarmo alla Germania; quelle della Seconda Guerra Mondiale tennero loro basi militari sul suolo tedesco per decenni e anche l'Italia ebbe le sue limitazioni: per esempio non è un caso se non possediamo portaerei. Ma il tempo e i buoni rapporti smussano gli angoli. Le ostilità si dimenticano e anche i vinti recuperano la loro indipendenza. Trenta o quarant'anni dopo la fine della Guerra, i rapporti fra inglesi e americani da un lato, e italiani e tedeschi dall'altro, erano tutt'altro che nel segno della guerra. Al contrario, trent'anni dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, di pace non si parlava neanche lontanamente. Dal 1978 sono passati altri trent'anni e Hamas sogna di buttare a mare gli israeliani. E allora non c'è speranza: il problema è insolubile.
L'unica via d'uscita sarebbe un atteggiamento pacifico che, alla lunga, rassicurasse Israele. Ma a questo punto non si deve sconfinare nella fantapolitica.
(il legno storto, 14 maggio 2009)
4. PARLA IL NUOVO AMBASCIATORE ISRAELIANO IN AMERICA
Israele può sopravvivere alle minacce solo se difende la sua identità
di Michael B. Oren
Raramente nella storia moderna le nazioni hanno dovuto affrontare autentiche minacce alla propria esistenza. Le guerre vengono dichiarate per cambiare i regimi, modificare le frontiere, ottenere nuove risorse, e imporre ideologie, ma quasi mai per eliminare un altro stato e la sua popolazione.
Senza dubbio fu questo il caso della seconda Guerra Mondiale, quando gli Alleati cercarono di ottenere la resa incondizionata della Germania e del Giappone per mettere fine ai regimi di leader detestabili, anche se, in nessun modo, le potenze alleate avevano intenzione di distruggere lo Stato tedesco o quello giapponese, né tanto meno eliminare i loro rispettivi popoli. Nei pochi casi in cui gli Stati moderni hanno visto minacciata la propria sopravvivenza, l'esperienza si è rivelata fortemente traumatica. I colpi di stato militari, le sommosse popolari, e gli scontri civili sono dei tipici sottoprodotti dell'incontro di uno Stato con una singola minaccia esistenziale.
Ogni giorno, lo Stato d'Israele deve fare i conti non con uno, ma con almeno sette minacce alla propria esistenza. Tali minacce sono straordinarie non solo perché numerose ma anche per la loro diversità. Accanto ai pericoli militari esterni da parte di regimi ostili ed organizzazioni terroristiche, lo Stato ebraico deve fare i conti con l'opposizione interna, con le tendenze demografiche in atto e con l'erosione dei suoi valori fondamentali. In effetti, è davvero difficile - se non impossibile - trovare l'esempio di un altro Stato che, nella storia moderna, ha dovuto affrontare tale molteplicità e varietà di minacce alla propria esistenza nello stesso tempo.
- La perdita di Gerusalemme.
Preservare Gerusalemme come la capitale politica e spirituale dello Stato ebraico è vitale per l'esistenza di Israele. Questo fatto fu ben compreso da David Ben-Gurion, il primo premier israeliano, all'epoca della fondazione dello Stato nel 1948. Nonostante Israele fosse stato attaccato simultaneamente su tutti i fronti da sei armate arabe - e avendo già perso ampie fette del suo territorio fra la Galilea e il Negev - Ben-Gurion impegnò la maggioranza delle forze armate israeliane in una operazione che aveva come obiettivo di rompere l'assedio di Gerusalemme. Il primo ministro sapeva che la città rappresentava la raison d'être dello Stato ebraico e che, senza Gerusalemme, Israele sarebbe stato un'altra mera miniatura di enclave mediterranea, una terra dove non avrebbe valso la pena vivere né tantomeno difenderla.
L'assioma di Ben-Gurion si è dimostrato corretto: per oltre 60 anni, Gerusalemme ha rappresentato il nucleo dell'identità nazionale e della coesione d'Israele. Ora però, per la prima volta dal 1948, Israele sta correndo il rischio di perdere Gerusalemme, non per colpa delle forze armate arabe ma per una combinazione di negligenza e di disinteresse.
Gerusalemme non vanta una maggioranza Sionista. Su una popolazione totale di 800mila persone, ci sono 272mila arabi e 200mila Haredim - gli ebrei ultra ortodossi che, di norma, non si identificano con lo Stato sionista. Negli ultimi anni siamo stati testimoni della fuga dalla città di migliaia di ebrei secolarizzati, specialmente di professionisti e giovani coppie. Questo esodo ha gravemente eroso gli introiti fiscali di Gerusalemme, trasformandola nella città più povera di Israele. Aggiungete a tutto questo la mancanza dello sviluppo industriale e i numerosi attacchi terroristici, e vi renderete conto del perché Gerusalemme sia così poco attraente per i giovani israeliani. Non è un caso che circa la metà degli israeliani sotto i 18 anni non abbiano mai visitato la città.
Se questa tendenza dovesse continuare, l'incubo di Ben Gurion si materializzerà in poco tempo e Israele rimarrà senza un'anima. Un Paese dove, un giorno, la gran parte degli ebrei non vorrà più vivere o per il quale non sarà più disposta a sacrificare la vita.
- La minaccia demografica araba.
Le stime sul tasso di crescita degli arabi, sia in Israele sia nella West Bank e a Gaza, variano in grande misura. Una scuola di pensiero massimalista ritiene che la popolazione palestinese che vive su entrambi i lati delle linee di confine stabilite dall'armistizio del 1949 stia crescendo molto più velocemente di quanto cresca quella ebraica, affermando che i palestinesi supereranno gli israeliani in meno di un decennio. Al contrario, una scuola minimalista insiste dicendo che il tasso di nascite della popolazione araba in Israele stia diminuendo e che la popolazione dei territori palestinesi si stia riducendo a causa dell'emigrazione.
Nonostante l'interpretazione minimalista sia in gran parte corretta, essa non può negare il fatto che gli arabi israeliani attualmente costituiscono un quinto della popolazione del Paese - un quarto della popolazione sotto i 19 anni - e che nella West Bank oggi vivono almeno due milioni di arabi.
Israele, lo Stato Ebraico, esiste perché è stato proclamato tale da una decisiva e stabile maggioranza ebraica, che rappresenta almeno il 70 per cento della popolazione. Qualsiasi dato inferiore a questa percentuale comporta una scelta, quella tra essere uno Stato ebraico e uno Stato democratico. Se Israele sceglie la democrazia, dovrà cessare di esistere come Stato ebraico. Se decide di rimanere ufficialmente ebraico, allora dovrà affrontare un livello d'isolamento internazionale senza precedenti, incluse le sanzioni, che potrebbero essere fatali.
Il rimedio ideale a questo dilemma è la separazione di due Stati, uno per ebrei e l'altro per i palestinesi. Le condizioni sostanziali per una soluzione del genere però sono irrealizzabili, almeno nell'immediato. La creazione di un governo palestinese - persino seguendo i parametri stabiliti nell'accordo proposto dal presidente Clinton nel 2000 - richiederebbe lo spostamento di almeno 100mila israeliani dalle loro case nella West Bank. Nel 2005, furono necessarie ben 55mila uomini dell'esercito israeliano per evacuare solo 8.100 coloni da Gaza. Fu la più vasta operazione militare israeliana dalla guerra dello Yom Kippur del 1973, e si rivelò profondamente traumatica. A differenza della roccaforte biblica della Giudea e della Samaria - che oggi viene chiamata West Bank - Gaza non è mai stata considerata una parte della storica Terra d'Israele.
Sul fronte palestinese, non c'è mai stata una leadership, nemmeno una, disposta a concedere la richiesta di rimpatrio dei rifugiati palestinesi in Israele, oppure a cedere una parte del Monte del Tempio (una precondizione necessaria per un insediamento che non comporti la divisione di Gerusalemme). Nessun leader palestinese, neanche quello più moderato, ha mai riconosciuto il diritto all'esistenza di Israele e neppure l'esistenza di un popolo ebreo.
In assenza di un paradigma realistico della soluzione "due popoli / due stati", la pressione internazionale crescerà per cercare di trasformare Israele in uno Stato binazionale. Questo comporterà la fine del progetto Sionista. Se consideriamo l'illegalità endemica e la violenza che esistono in altre realtà del Medio Oriente, dove è stato creato un solo Stato, come nel caso del Libano e dell'Iraq, tantissimi ebrei israeliani sceglieranno la via dell'emigrazione.
- Delegittimazione.
Dalla metà degli anni Settanta, i nemici di Israele hanno lanciato - con un successo sempre maggiore -una campagna di delegittimazione contro Israele nei forum mondiali, nei circoli intellettuali e accademici, e sulla stampa. Questa campagna tende a rappresentare Israele come uno Stato razzista e colonialista, che garantisce diritti straordinari ai cittadini ebrei e nega le libertà fondamentali agli arabi.
Queste accuse si sono fatte spazio nella manualista pubblicata in Medio Oriente e sono diventati parte integrante delle discussioni quotidiane alle Nazioni Unite e in organizzazioni internazionali. Più di recente, Israele è stato definito uno Stato che pratica l'apartheid, comparandolo di fatto all'ex regime sudafricano che affermava la supremazia della popolazione bianca sui neri. Molti degli sforzi israeliani nelle operazioni di contrasto al terrorismo vengono etichettati come crimini di guerra, e i generali israeliani sono accusati da tribunali stranieri.
Nonostante l'occupazione della West Bank e di Gaza abbia chiaramente contribuito ad arrugginire l'immagine di Israele, la campagna di delegittimazione si sta concentrando sempre di più non sulla politica condotta nei Territori dallo Stato ebraico ma sulla sua stessa essenza di Stato nazionale ebraico.
In passato queste calunnie venivano scartate come innocua retorica. Ma nello stesso tempo la delegittimazione di Israele si rafforzava sempre di più, e venivano poste anche le fondamenta per l'adozione di misure internazionali tese a isolare Israele e a punirlo con lo stesso genere di sanzioni che hanno fatto cadere il regime Sudafricano. Le campagne accademiche per boicottare le università e gli intellettuali israeliani sono il preludio del tipo di critiche che potrebbero distruggere economicamente Israele e negargli la possibilità di difendersi contro le minacce alla sua esistenza lanciate dal terrorismo e dall'Iran.
- Terrorismo.
Fin dal momento della sua nascita, Israele è stato l'obiettivo di una serie di attacchi - bombardamenti, imboscate, lancio di razzi - condotti da elementi irregolari arabi impegnati a distruggerlo. Nel decennio tra il 1957 e il 1967 - considerato il periodo più sereno nella storia israeliana - centinaia di abitanti sono stati uccisi durante gli attacchi. Nonostante questo, l'establishment che aveva in mano la sicurezza del Paese guardava a questa condizione di terrore come a una seccatura che non minacciava la sopravvivenza dello Stato, anche se poteva tormentarlo.
Questa valutazione cambiò nell'autunno del 2000, quando i palestinesi risposero all'offerta israelo-americana di creare uno Stato nella West Bank e a Gaza con un'offensiva di fuoco lungo le frontiere e con una serie di attacchi kamikaze. Il risultato è stato che i turisti e il capitale straniero hanno abbandonato il Paese, e gli israeliani si sono letteralmente rinchiusi dentro le proprie case. Lo Stato stava morendo.
Alla fine Israele radunò le proprie forze e, nella primavera del 2002, lanciò una controffensiva contro le roccaforti terroriste nella West Bank e a Gaza. Le Forze della Difesa Israeliana (IDF) svilupparono delle tecniche innovative per pattugliare le città palestinesi, coordinare le forze speciali e le unità d'intelligence, prendendo nel mirino i leader del terrorismo. Israele costruì una barriera di separazione per impedire ai terroristi di infiltrarsi nello stato da est.
Queste misure ebbero quasi successo nell'eliminare i kamikaze e nel risanare la stabilità economica e sociale. Non appena queste politiche iniziarono a ottenere i primi risultati storici, i terroristi avevano già trovato una nuova arma altrettanto pericolosa per l'esistenza d'Israele.
I razzi Katyusha lanciati dall'Hezbollah a nord di Israele e quelli Qassam lanciati da Hamas a sud hanno reso la vita emotivamente impossibile in gran parte del Paese. Ma se le operazioni di terra e di aria israeliane possono anche aver avuto successo nell'impedire temporaneamente questi attacchi, Israele ha dovuto comunque ricorrere a una terapia da XXI secolo per difendersi da una minaccia nata alla metà del XX secolo.
Per di più negli arsenali di Hezbollah e di Hamas ci sono anche razzi capaci di colpire qualsiasi città israeliana. Se lanciati allo stesso tempo, potrebbero distruggere gli aeroporti israeliano, colpire l'economia del Paese, incitare a un esodo di massa, e forse scatenare una reazione a catena che potrebbe unire alcuni arabi israeliani e numerosi stati mediorientali nell'assalto. I tentativi israeliani di difendersi, per esempio invadendo il Libano e Gaza, verrebbero condannati internazionalmente, e servirebbero come pretesto per delegittimare lo Stato ebraico. La sopravvivenza di Israele sarebbe minacciata.
- Un Iran armato di atomica. Facendo da sponsor ad Hamas e l'Hezbollah, l'Iran è intrinsecamente legato alla minaccia terroristica. Ma quando la Repubblica Islamica otterrà l'arma nucleare - secondo le stime dell'intelligence israeliana entro quest'anno - la minaccia aumenterà e molto.
Un Iran armato di atomica comporta non una ma numerose minacce all'esistenza di Israele. Quella più chiara è il desiderio che, ormai per abitudine, l'Iran continua a esprimere proclamando di voler "spazzare via dalle mappe Israele". Un'altra minaccia deriva dal fatto che i calcoli fatti durante la Guerra Fredda sulla deterrenza nucleare - basati sul concetto della mutua distruzione - potrebbero non valere più nel caso del radicalismo islamico e dei suoi combattenti ansiosi di diventare martiri. Alcuni esperti israeliani prevedono che la leadership iraniana sarebbe disposta a sacrificare il 50 per cento della popolazione pur di "sradicare" Israele dalla faccia della terra.
Al di là dai pericoli rappresentanti da un attacco vincente dell'Iran contro Israele, esiste la possibilità che Teheran passi le sue capacità nucleari ai gruppi terroristici, che poi le scatenerebbero contro Israele grazie alla permeabilità dei porti del Paese e attraversate i suoi confini.
Un Iran nucleare toglierà ad Israele la capacità di rispondere agli attacchi terroristici: per esempio, in risposta a una rappresaglia israeliana contro Hezbollah, l'Iran potrebbe annunciare l'allerta nucleare, causando un panico diffuso in tutto Israele e il collasso della sua economia. Infine - ed è il fatto più pericoloso - molti Stati mediorientali hanno dichiarato di voler sviluppare da soli le loro capacità nucleari non appena l'Iran riuscirà a ottenere la bomba.
Israele si troverà rapidamente in una situazione di profonda instabilità nucleare che potrebbe generare violente rivoluzioni e calcoli errati destinati a portare alla guerra. Come ha affermato il ministro laburista Efraim Sneh, in queste circostanze tutti quegli israeliani che potranno lasciare il paese lo faranno.
- L'emorragia della Sovranità. La sovranità d'Israele non si basa su larghe sezioni del suo territorio né sui principali settori della sua popolazione. A Gerusalemme Est - a breve distanza da dove vengono severamente applicati i codici di costruzione israeliani usati a Gerusalemme Ovest - gli arabi hanno costruito centinaia di case abusive, molte delle quali nelle aree storiche della città, e nella più completa impunità. La situazione è molto peggio che nel Negev o in Galilea, dove grandi appezzamenti di terra sono stati confiscati agli occupanti abusivi. In queste zone le tasse vengono pagate in modo irregolare e, nel migliore dei casi, la polizia è solo una presenza simbolica.
Israele non solo non applica le leggi nei segmenti della sua popolazione araba, ma non lo fa neanche con significanti settori della comunità ebraica. Più di 100 avamposti sono stati creati illegalmente nella West Bank, e la violenza perpetrata dai coloni ebrei nei confronti dei civili palestinesi e delle forze di sicurezza israeliane, oggi è considerata una grande minaccia anche per l'IDF.
Ma non è tutto perché Israele si è tirato indietro anche quando è balenata l'idea di rafforzare molti degli status della fiorente comunità Haredim. (Secondo un recente rapporto, nel 2012 gli Haredim saranno un terzo degli studenti delle scuole elementari ebraiche di Israele). Anche se è difficile parlare in termini generali degli Haredim israeliani, la maggioranza schiacciante della comunità
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non fa il servizio militare e non riconosce i simboli dello Stato.
Una buona parte dei membri della Knesset, sia arabi che ebrei, non
distingue la validità dello Stato per cui lavora. Alcuni di loro chiedono attivamente la sua dissoluzione. In poche parole,
Israele sta subendo un'emorragia di sovranità e, in questo modo, sta minacciando la propria esistenza come Stato.
- Corruzione.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a processi contro i principali leader israeliani con accuse di appropriazione indebita, di aver accettato mazzette, di riciclaggio, molestie sessuali, e persino
stupro. Gli israeliani più giovani detestano la politica, che viene ampiamente percepita come un mondo fatto di tagliagole; secondo delle rilevazioni annuali, poi, la Knesset è l'istituzione meno rispettata fra tutti gli organi dello Stato. Le accuse di corruzione si sono estese in aree della società israeliana che un tempo erano considerate incorruttibili, com'è il caso dell'esercito.
A mio parere il venir meno della moralità pubblica pone la più grande minaccia alla esistenza di Israele. E' proprio questa minaccia, infatti, che ostacola la capacità israeliana di resistere alle altre minacce; tutto questo mina la volontà degli israeliani di lottare, di governare e persino di continuare a vivere in uno Stato ebraico sovrano. Tutto questo incoraggia i nemici di Israele a farsi avanti e rovina la sua reputazione internazionale. Per esempio , il fatto che Israele sia un leader mondiale nel settore del traffico di droga e di esseri umani, del riciclaggio di denaro e nel traffico di armi clandestino, non solo è eccessivo per uno Stato ebraico, ma in sostanza riduce anche la sua capacità di sopravvivenza.
- Soluzioni. Anche se può sembrare il contrario, le minacce all'esistenza di Israele hanno soluzione, in parte o del tutto. La protezione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico deve diventare una priorità politica per Israele. Vanno investite grandi risorse nell'espansione delle infrastrutture industriali e sociali della città e nell'incoraggiare i giovani a tornarci. Due volte l'anno, i bambini israeliani devono visitare Gerusalemme; nei programmi scolastici vanno introdotti materiali sulla centralità di Gerusalemme nella storia ebraica e sulla importanza della città nell'identità nazionale.
Allo stesso modo, per mantenere l'integrità demografica israeliana, devono essere adottate misure per separare Israele dalle aree densamente popolate della West Bank. In mancanza di un vero interlocutore fra i palestinesi, Israele deve stabilire unilateralmente le sue frontiere orientali. I nuovi confini dovrebbero includere quanti più ebrei possibile, gli assetti naturali e strategici e i luoghi sacri ebraici.
Non c'è una soluzione assoluta per il terrorismo, ma gli attacchi terroristici possono essere ridotti a un livello gestibile attraverso operazioni combinate (d'aria, terra e d'intelligence), opponendo degli ostacoli fisici, e sistemi antibalistici avanzati. E' anche necessario che Israele adotti una politica di tolleranza zero contro il terrorismo: per ogni razzo o colpo di mortaio lanciato oltre i suoi confini deve esserci una immediata risposta punitiva. Nessuna immunità per i leader terroristici, né militari né politici. Israele ha dimostrato che i kamikaze possono essere praticamente eliminati e che le organizzazioni terroristiche come Hezbollah possono essere dissuase.
Israele non può permettere che l'Iran ottenga armi atomiche. Dovrebbe invece lavorare in tandem con gli Stati Uniti appoggiando l'attuale amministrazione negli sforzi diplomatici di dissuadere gli iraniani nel proseguire lo sviluppo del loro programma nucleare, ma dovrebbe anche ricordare ai politici americani i pericoli della prevaricazione iraniana. Israele non può neanche consentire che gli vengano legate le mani perché deve essere libera di avviare operazioni segrete per impedire lo sviluppo di tale programma, mentre continua a sviluppare i piani e l'intelligence necessaria per un'operazione militare.
Se si vuole far sopravvivere lo Stato, non ci sono altre possibilità se non quelle di fare in modo che Israele affermi la sua sovranità completamente e in modo giusto su tutto il territorio e su tutta la cittadinanza. Questo significa anche proibire le costruzioni illegali a Gerusalemme Est, nel Negev e in Galilea. Devono essere fatti grandi investimenti per aumentare le forze di sicurezza necessarie per applicare uniformemente il diritto israeliano in tutto il Paese.
Nel caso specifico degli arabi israeliani, Israele deve adottare una politica "a due punte" per assicurare una totale eguaglianza nell'erogazione dei servizi sociali e nelle infrastrutture, ma deve anche insistere nella richiesta che gli arabi israeliani dimostrino una sostanziale lealtà allo Stato ebraico. Va stabilito un sistema di servizio nazionale - militare oppure no - che dovrebbe essere obbligatorio per tutti gli israeliani, mettendo fine alla separazione distruttiva delle giovani generazioni degli Haredi dalle responsabilità verso la cittadinanza.
La corruzione deve essere affrontata non solo dal punto di vista istituzionale ma anche da quello ideologico. Il primo passo per ridurla tra i politici è una riforma radicale del sistema di coalizione, a cui la corruzione è organica. I giovani devono essere incoraggiati a entrare in politica e devono essere favoriti i movimenti in grado di stimolare la correttezza negli affari pubblici.
Per sradicare la corruzione è ancora più importante investire sulla rinascita dei valori sionisti ed ebraici. Questi valori dovrebbero essere prima di tutto inculcati nelle scuole, poi attraverso i media e la cultura popolare. La necessità più pressante però è quella di una leadership. Certamente tutte queste minacce possono essere superate con leader coraggiosi, perspicaci, e moralmente solidi, com'era David Ben-Gurion.
Nonostante esistano dei rimedi per tutte le imponenti minacce che Israele si troverà ad affrontare, contemplarli non significa uscirne scoraggiati. Una contestualizzazione storica può rivelarsi utile. Israele ha sempre dovuto lottare contro pericoli mortali, molti dei quali poco invitanti rispetto a quelli di oggi, ma comunque sia, ce l'ha sempre fatta a prevalere.
Nel 1948, una popolazione composta dalla metà di quella di Washington DC, senza risorse economiche e senza alleati, armata con nient'altro che pistole, riusciva a tenere a bada ben sei eserciti arabi. Quel popolo ha costruito un'economia, in dieci anni ha triplicato la sua popolazione, ha sviluppato una democrazia vibrante e una cultura ebraica.
Diciannove anni dopo, nel giugno del 1967, Israele era circondato da un milione di soldati arabi che volevano il suo annientamento. L'economia stava collassando e la Francia, il suo unico alleato, stava passando dall'altra parte. Non c'era nessun tipo di aiuto dagli Stati Uniti ma solo l'odio da parte dai paesi del blocco sovietico, la Cina e persino l'India.
Guardate cos'è diventato oggi Israele. Una nazione di 7 milioni di persone, con un'economia robusta, con sei università tra le migliori del mondo, una pulsante cultura giovanile, un'arte all'avanguardia, e un sistema militare che - almeno in due guerre - è stato capace di mobilitare più del 100 per cento delle sue riserve. Secondo inchieste recenti gli israeliani sono secondi solo agli americani quanto a patriottismo e disponibilità a difendere il proprio paese.
Nel 2009 Israele ha stipulato accordi con la Giordania e con l'Egitto, ha eccellenti rapporti con l'Europa dell'Est, la Cina e l'India, e un'alleanza storica con gli Stati Uniti. In pratica, da qualsiasi punto di vista, Israele si trova in una posizione migliore che mai nei suoi 61 anni d'indipendenza.
Nonostante la severità delle minacce che la mettono in pericolo, l'esistenza di Israele non deve essere sottovalutata come non devono essere sottovalutati né la sua resistenza né la volontà nazionale. Questa persistenza riflette, almeno in parte, il successo del popolo ebraico nel superare i pericoli per ben 3.000 anni. Accanto alla Diaspora ebrica e ai milioni di sostenitori di Israele all'estero, Israele non può sopravvivere da sola a tutti questi pericoli ma, come nel passato, può prosperare.
Tratto da "Commentary"
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Michael B. Oren (1955) è uno storico e scrittore israelo-americano. E' stato anche un ufficiale dell'IDF, l'esercito israeliano. Il 2 maggio scorso è stato nominato ambasciatore di Israele negli Stati Uniti. Ha scritto "Six Days of War: June 1967 and the Making of the Modern Middle East", tra gli altri.
(l'Occidentale, 18 maggio 2009 - trad. Fabrizia B. Maggi)
5. LA GUERRA DELLE GRIFFE
Gli ebrei ultraortodossi e la disfida del cappello (griffato)
di Francesco Battistini
Uno su dieci. In Israele i religiosi sono il 10 per cento della popolazione, il giro d' affari dei copricapi imponente.
Quelli di Borsalino hanno un diavolo per cappello. Perché di cappelli ce n' è in palio centinaia di migliaia: quanti ne servono a coprire le teste degli ultraortodossi, il dieci per cento degli ebrei d'Israele. Cappelloni neri. Di feltro, ricavato dal coniglio australiano o argentino. Sempre più eleganti, sempre più costosi. Il mercato è esploso negli ultimi quindici-vent'anni, da quando l'abito ha ricominciato a fare l' ebreo, da Gerusalemme a Brooklyn, e i copricapo degli haredi* sono diventati un affare.
Finora i cappellai alessandrini di Spinetta Marengo, che già coprirono le crape di Bogart e di Belmondo, d'Alain Delon e di Harrison Ford, di Reagan e di Gorbaciov, non avevano faticato a conquistare i più dandy dei rabbini. Imponendo anche qui la legge del made in Italy. Fino all'ultima Pasqua, però. Fino a quando una ditta concorrente non ha spinto sul mercato un suo cappello dal nome vagamente simile, Brandolino, ricorrendo addirittura allo sfottò nella pubblicità: «Borsalino, il cappello che ispira rispetto», diceva sui poster un giovanotto dall'importante sigaro in bocca? «Brandolino, il cappello che ispira tutti», faceva il verso un sorridente concorrente. Hanno subito preso cappello.
E la silenziosa guerra delle griffe, che si combatteva a suon d'offerte speciali fra le vetrine di Mea Sharim e di Bnei Barak, i quartieri ortodossi gerosolimitani e telavivi, alla fine è arrivata in tribunale. Col rivenditore locale di Borsalino, Mendi Bastumoski, che naturalmente non ha gradito la confusione dei marchi. E con Yitzahk Meir Frester, il produttore del Brandolino, che rivendica l'antichità della sua azienda («non prendo lezioni da nessuno: facciamo cappelli da 152 anni, mio nonno li fabbricava a Varsavia nel 1912, i nostri modelli li portavano Ben Gurion e Begin») e chiede un po' di sano protezionismo.
Il mercato è ghiotto: questo tipo di cappello è ormai il 30 per cento della produzione dei mastri piemontesi ed è per questo che la Borsalino, che prima utilizzava Frester come distributore, ha deciso l'anno scorso d'aprire anche negozi in proprio, assoldando un'agenzia di pubblicità «per raggiungere soprattutto i giovani delle scuole religiose». Ogni ortodosso ne ha in genere due, uno per la settimana e uno per le feste. E il Knaitesh, il modello italiano di gran moda fra i lituani e i Lubavich, è considerato l' oggetto di desiderio di qualunque ragazzino ortodosso dai 13 anni in su: è normale, il sabato, vedere per le strade di Mea Sharim gli adolescenti che corrono a casa con la cappelliera griffata.
Dice un Midrash che gli ebrei cacciati dall'Egitto non cambiarono il loro modo di vestire: è per questo che gli ultrà amano indossare i cappottoni scuri e i cappelli enormi che a inizio secolo s'usavano nei ghetti di tutt'Europa. Chiaro perché gli stilisti non possano sbizzarrirsi più di tanto: ogni anno, a Pasqua, è tradizione concedersi l'ultimo grido e anche se a noi gentili possono sembrare tutti uguali, ci sono almeno cento tipi diversi di cappello, che variano di qualche millimetro nell'ala, nella cinta, nella tesa o nell'altezza. C' è chi spende mille-duemila dollari. E il capo (nel senso della testa) firmato piace di più: Borsalino o Brandolino? Ai poster, e ai giudici, l'ardua sentenza.
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* Gli Haredi, di cui fan parte gli Hasidim di origine est europea, sono ebrei conservatori che seguono strettamente la legge religiosa (halacha) e i suoi codici di comportamento immutati da secoli. Stile di vita: rigida separazione tra maschi e femmine, studi in scuole religiose, divieto di usare tv, giornali, internet se non per gli affari. Abbigliamento: abiti tradizionali modesti per le donne, di colori scuri per gli uomini, che portano barba e cappelli neri. Gli Hasidim usano vesti particolari e grandi cappelli a tesa larga.
(Corriere della Sera, 25 aprile 2009)
6. «IL PAPA, CHE ROBA E?»
Mea Shearim, i suoi falò
e la visita di Papa Benedetto XVI
Un giornalista evangelico tenta di intervistare qualche ebreo di Mea Shearim, il quartiere ortodosso di Gerusalemme, per sapere che cosa pensano della visita del papa in Israele.
di Johannes Gerloff
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Più che alla visita del papa, gli ebrei ortodossi si interessano ai fuochi di Lag BaOmer (foto Johannes Gerloff)
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«Il centro del mondo è Israele: Il centro di Israele è Gerusalemme. Il centro di Gerusalemme è Mea Shearim....» L'ultra-ortodosso vestito di nero mi guarda con occhio scrutatore per vedere se seguo, e continua: «... e il centro di Mea Shearim sono gli "Stüblach". Così pensano questi bambini che vedi qui. Questo devi sapere, se vuoi capire le persone che sono qui.» Un turbine di ragazzini dai 13 ai 14 anni sfreccia davanti a noi gridando forte. Si trascinano dietro, strepitando, un paio di intelaiature di porta. Le successive spiegazioni si perdono sotto il rumore.
Tutti gli abitanti ultra-ortodossi del quartiere Mea Shearim sono vestiti di nero, proprio come gli ebrei dell'Europa dell'Est nel 18esimo e 19esimo secolo. Nissim, così si chiama il mio interlocutore, non è cresciuto in questo mondo. Come il suo amico Elasar, è venuto qui per studiare nel "Bet Midrash", la casa di studio del Rebbe di Breslavia. A dire il vero, qui si parla soltanto yiddish. E gli "Stüblach" in questa lingua di tedesco antico sono le innumerevoli minisinagoghe in cui i devoti si immergono giorno e notte nei loro studi. "Mea Shearim" significa precisamente "Cento porte", ma queste per il mondo esterno sono chiuse. Mea Shearim è un mondo a sé, a cui il papa non ha alcun accesso, anche se visita la Città Santa passando soltanto poche centinaia di metri più in là.
- Il papa, che roba è?
Nissim e Elasar sono i primi che si mostrano disposti a rispondere alla mia domanda: «Che cosa pensa della visita del papa?» Poco fa mi trovavo davanti a una di quelle pareti di manifesti che agli abitanti di Mea Shearim servono da giornale. Radio e televisione sono malvisti, perché potenziali porte d'ingresso per la decadenza secolare. Un vecchio Rabbino con una lunga barba bianca interiorizza l'esortazione ad evitare gli autobus della società Egged nel caso non sia disposta ad offrire linee separate per sesso. Anche la società di stile medievale di Mea Shearim sa fare opinione e esercitare pressione economica. Alla mia domanda sulla visita del papa fa un gesto di rifiuto. Poi con voce in falsetto mi dà la sua risposta: «Che? Che c'è?? Che roba è??? Nessuno! Niente!!» E nel dirlo neanche mi guarda.
Poco prima uno dei suoi correligionari mi aveva fissato senza capire: «Papa? Che cos'è?!?» Dopo avergli spiegato che il signor Ratzinger è un personaggio molto rappresentativo della cristianità, ha risposto seccamente: «Io non ho tempo da perdere per queste cose.» Interviene il suo compagno. Il ventenne Israel a dire il vero parla soltanto yiddish e inglese, ma proviene «come tutti i veri ebrei» da Brooklin e quindi ha un ampio orizzonte. «Very good», dice a commento della visita del "santo padre": «Si è deciso a pentirsi per quello che il Cristo ha fatto nell'Olocausto [sic!]. Per questo protesta. Per questo viene, no?!»
Avraham Stern è immigrato in Israele dalla Romania nel 1951. Anche lui non ha tempo da perdere per pensare alla visita del papa. Annoiato, osserva il trambusto di auto e persone. Sto lì vicino a lui, un po' indeciso, e penso a come fare per cavargli di bocca una parola di commento. E' difficile strappare un'opinione da persone che non ne hanno. Bruscamente il settantenne mi guarda diretto in viso: «Sì, ma almeno porta soldi? Baruch HaBa', venga pure. Io non ho niente in contrario. Non mi disturba.»
Dietro l'angolo siede Mustafà sotto un pericolante tetto di latta, e vende frutta e verdura, e questo da 40 anni! Mustafà ha 45 anni e abita nel quartiere arabo della città vecchia di Gerusalemme. Alla mia domanda sul papa fa l'indaffarato: «Conosco uno che sa tutto!» «Ma io vorrei sapere quello che pensi tu», insisto. «Non ho idea» risponde l'arabo mentre sorseggia un tè caldo da un bicchiere di plastica che mostra pericolosi rigonfiamenti. E grida: «Uuuusi!» - «No», obietto io energicamente, «mi interessa la tua opinione!» «Sette shekel e settanta», risponde a una donna ultra-ortodossa che gli mostra un sacchetto di plastica pieno d'insalata.
«Chi è, il papa?!» mormora poi rivolgendosi di nuovo a me. «Lui viene.. e poi se ne rivà...» Non demordo. «Viene soltanto per la politica...» Mustafà svicola. «Ja'ani, Ke'ilu..." frammischia parole di imbarazzo arabe ed ebree. «Non ho un'idea, ma figurati un po' quello che costa: 80.000 poliziotti per proteggerlo! Se questo non è uno spreco di soldi, che cos'è??! - Cinque shekel e quaranta", comunica alla ultra-ortodossa, che ignora del tutto me e la mia domanda sul papa, come si addice a una costumata donna che appartiene a Mea Shearim. E' stata una sfacciataggine da parte mia l'averle rivolto la parola.
«Alla visita del papa io non ci penso proprio» risponde caparbiamente Nissim: «Perché, ci devo pensare?!??» Mentre mi chiedo perché mai gli ebrei debbano sempre rispondere ad una domanda con una controdomanda, il suo amico Elasar prende la parola: «Ho sentito dire che per il papa chiuderanno il "Kotel" - così chiamano gli ebrei il "Muro del pianto". Figurati un po', per dodici ore non possiamo pregare! Loro chiuderebbero forse il Vaticano per dodici ore, se il nostro Rabbino Capo andasse in Italia?!»
- Possibilmente non avere contatti con stranieri e cristiani
Queste persone evitano per quanto possibile ogni straniero, e soprattutto i cristiani. Per poter entrare in contatto con loro mi sono messo sul capo una Jarmulke. Elasar adesso viene a sapere che vengo dalla Germania. Si entusiasma: «L'anno scorso ero a Michelstadt, nell'Odenwald, e ho visitato la tomba del Baal Shem di Michelstadt, per tutta una notte: E poi siamo andati a Warmsea (così si dice in yiddish la città di Worms sul Reno), nel Bet Midrash di Rashi.» Evidentemente gli ebrei di Mea Shearim hanno in Europa un mondo di cui gli abitanti locali non sanno quasi niente.
Il suo amico Nissim ritorna sul tema: «Che Benedetto porti gioia, non è una cosa che proprio si può dire. Ma io ho un Padre lassù» e il giovane vestito di nero punta l'indice contro il cielo, «che dirige ogni cosa. Il papa non m'interessa. Che faccia quello che gli pare. E poi Giovanni Paolo era migliore.» «Perché?» vuole sapere il suo amico. «Perché non era un negatore dell'Olocausto!» «Ma ha detto che gli dispiace», osa obiettare Elasar. «E' tutto un bluff. Lui ha appoggiato Durban II, capisci?! Ma la cosa comunque non m'interessa", dice voltandosi in modo dimostrativo: «Io studio la Gemarah (Talmud).»
«Lo sai che gli attrezzi del Tempio sono nei sotterranei del Vaticano», dice Elasar, trovando infine qualcosa che ancora fa interessare le persone del loro mondo al mondo del cattolicesimo. Al mio sconcertato sguardo incredulo l'ultra-ortodosso discepolo del Talmud risponde: «L'ha detto il Rav Lau.» «E loro dicono soltanto cose che già sanno che sono vere», aggiunge Nissim, confermando il suo amico e i loro rabbini, «e inoltre lo si vede anche dall'arco [di Tito, ndt] a Roma, come i romani hanno portato lì la Menorah (il candelabro a sette bracci)." Un'altra orda di ragazzini passa gridando davanti a noi trascinando pezzi di legno di tutti i tipi, e questo provoca la brusca fine del nostro colloquio.
Una paio di vicoli più avanti siede Israel (un altro con lo stesso nome, ma non proveniente da Brooklin) nel suo sudicio, impolverato negozio di cartoleria. Da Israel c'è tutto quello di cui la persona (ebrea) ha bisogno per scrivere, leggere e pregare. «Qui tutto è "saporito"» commenta il cinquantenne, riferendosi alla merce messa in vendita. In mano tiene un logoro, ingiallito libro di preghiere.
- Il Lag BaOmer comincia lunedì sera
 «Quando avverrà?» risponde alla mia domanda con una controdomanda. «La prossima settimana», gli comunico doverosamente. «Quando, la prossima settimana?» vuole sapere con precisione. «Solo lunedì, martedì, mercoledì...» «Allora io sarò al Meron...» mi interrompe tranquillo, «lì il papa certamente non ci verrà.» Centinaia di ebrei ortodossi si radunano per il "Lag BaOmer", il 33esimo giorno del Conteggio dell'Omer, sul monte Meron in Galilea e ricordano il giorno della morte di Rabbi Shimon Bar Yochai.
Il Conteggio dell'Omer comincia con la festa di Pasqua e finisce il 50esimo giorno (in greco "pentekosta") con la Festa delle Settimane, "Shavuot", che i cristiani festeggiano come Pentecoste (cfr. Levitico 23:9-16). A Rabbi Shimon Bar Yochai viene attribuita la compilazione del Sohar, un libro fondamentale per la dottrina ebraica della Cabala. Gli ebrei però celebrano il Lag BaOmer soprattutto come una gioiosa festa dei saggi. Secondo la tradizione talmudica, 24.000 discepoli del Rabbi Akiva (secondo secolo dopo Cristo) morirono in un'epidemia perché non si erano dati il giusto onore l'uno con l'altro. Il 33esimo giorno del Conteggio dell'Omer l'epidemia cessò di imperversare. Per questo dopo il 33esimo Omer gli ebrei ortodossi possono di nuovo rasarsi, possono sposarsi e celebrare altre feste gioiose, cosa che prima era interdetta.
«Che porterà di buono per Israele il papa?» riprende a dire Israel, il cartolaio con il libro delle preghiere in mano. «Tu naturalmente sai come sono i cristiani, quello che ci hanno fatto per interi anni, tutta la violenza, la menzogna e l'imbroglio. Che cosa abbiamo a che fare noi con i cristiani? Che cosa fanno qui in Israele tutto l'anno?? Io non ho nessun rapporto con loro, non so chi e che cosa sono.» Mi fissa negli occhi con sguardo scrutatore. «Io non sono ebreo», confesso. «Sì, sì», mi interrompe: «ci sono anche non ebrei che al tempo dell'Olocausto, per esempio, sono stati buoni con gli ebrei. Tu lo sai, ci sono i "Giusti tra le nazioni'..." Parliamo ancora un po' su quello che ha caratterizzato la storia di queste persone nei paesi cristiani: pogrom, espulsione, persecuzione, omicidio e umiliazione. «Spero che non sei offeso» mi dice prima che io vada via. No, non sono offeso, volevo soltanto sapere qualcosa su quello che muove queste persone.
- "Fuori i sionisti"
Sulle pareti dei muri di sasso di Mea Shearim si può leggere, in colori vivaci: «Via i sionisti e i loro collaboratori!» E: «I sionisti non sono ebrei, gli ebrei non sono sionisti!» Elijah, un nero barbuto, mi dice: «Tutti i problemi del popolo d'Israele provengono dal fatto che noi non ascoltiamo i saggi e i grandi della Torà. Per questo anche i gentili devono soffrire.» Ho dimenticato la mia domanda sulla visita del papa e ascolto quello che muove quest'uomo: «Guarda per esempio l'Olocausto. Il popolo d'Israele ha sofferto molto. Ma anche i gentili hanno sofferto, e sofferto molto di più. Adesso non si parla di questo. L'irreligiosità del popolo ebraico è la causa della miseria di questo mondo. Soltanto quando riconosceremo il Creatore del mondo qualcosa si cambierà.»
Elijahu appartiene ai Neturei Karta, un gruppo di ebrei ultra-ortodossi che rifiuta lo Stato d'Israele nella sua forma attuale. «
Noi siamo i veri sionisti», sottolinea. «A quale scopo la terra d'Israele è stata data al popolo d'Israele? Il Santo, sia Egli benedetto, voleva che noi vivessimo qui sotto la Torà e sotto i precetti. Se camminiamo sulla via della Torà, non abbiamo nient'altro da desiderare. Qui è la Terra Santa, la Casa di Dio.» Ai sionisti secolari rimprovera di aver derubato la Terra Santa. Ma anche i suoi stessi genitori sono immigrati in Israele nel 1951, «perché gli arabi in Iraq li hanno buttati fuori. Non avevano altra scelta che venire qui.»
Mentre lo Stato d'Israele investe milioni nella visita del papa, Mea Shearim si prepara al Lag BaOmer. Nei manifesti sui muri vengono annunciati i dettagli logistici. Molti partono per la Galilea, la maggior parte però rimane a casa la sera dell'11 maggio, la sera prima del 33esimo giorno del Conteggio dell'Omer, accendendo i tradizionali fuochi. Quindi la Gerusalemme ortodossa - e anche larghi strati della popolazione - è invasa dal fumo dei falò, per i quali i bambini già mesi prima raccolgono tutto il legno (e tutto quello che può bruciare) che si può portare via. Vicino a me si apre una porta. Un falegname getta un paio di tavole sulla strada. Da tutte le parti si precipitano sul legno i bianco-neri ragazzini e si azzuffano per la preda. Da dove provenga la tradizione dei falò, nessuno lo sa veramente. Ma diverte un mucchio! Molto più che stare a pensare alla visita del vecchio uomo che viene da Roma.
(Israelnetz Nachrichten, 10 maggio 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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