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Notizie su Israele 465 - 17 giugno 2009

1. Lettera aperta di Brigitte Gabriel a Barack Obama
2. Se i palestinesi riconoscessero il diritto di Israele
3. Scampata dall'Olocausto
4. Il gusto dei problemi generali
5. Il caso del Daniel Pearl francese
6. Una scommessa dell'Agenzia Ebraica
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Salmo 94:14-15. Il SIGNORE non ripudierà il suo popolo e non abbandonerà la sua eredità. Il giudizio sarà di nuovo conforme a giustizia e tutti i retti di cuore lo seguiranno.
1. LETTERA APERTA DI BRIGITTE GABRIEL A BARACK OBAMA




Caro Signor Presidente,

lei affronta sfide difficili che riguardano il raggiungimento della pace in Medio Oriente e la protezione dell'America dalla minaccia dell'Islam radicale e del terrorismo. Sono sfide che hanno tormentato i presidenti che l'hanno preceduta, fino ad arrivare a
Brigitte Gabriel
John Adams, il secondo presidente della storia degli Stati Uniti. Io non dubito che lei sia consapevole dell'impegno che tali sfide comportano, ed anche degli ostacoli enormi che si presentano per risolverli.
    Non ho dubbi neanche sul fatto che lei e i suoi collaboratori abbiate compreso che, qualunque cosa lei avesse detto nel suo discorso al Cairo giovedì scorso, ci sarebbero stati comunque quelli che avrebbero preso posizione contro di lei. Questo si verifica sempre quando si tenta di risolvere problemi profondi ed emozionalmente carichi come sono queste sfide.
    Suppongo che sia sua sincera speranza che l'approccio da lei scelto, come emerge da quello che certamente è stato un discorso attentamente costruito, alla fine avrà successo. Ciononostante mi rattrista dirle, Signor Presidente, che poiché nel suo discorso lei ha detto di essere "uno studente di storia", è chiaro che in questi argomenti lei non conosce la storia; perciò, come disse Santayana, è destinato a ripeterla. Concentrando in questa direzione i suoi sforzi, per quanto ben intenzionati essi siano, non produrranno gli effetti da lei tanto sperati.
    Un uomo saggio un giorno disse che se uno inizia con dei presupposti sbagliati, non importa quanto logico sia il suo ragionamento, arriverà comunque ad una conclusione sbagliata. Con tutto il dovuto rispetto, Signor Presidente, lei sta cominciando con tali presupposti, non supportati dalla storia e da uno studio oggettivo dell'ideologia dell'Islam politico.
    Lei ha cominciato il suo discorso affermando che sussistono "tensioni" tra gli Stati Uniti e i musulmani nel mondo, il che è certamente vero. Purtroppo ha poi continuato, in modo errato, a dare virtualmente tutta la colpa di queste tensioni all'America e all'Occidente. Ha accusato il colonialismo occidentale, la Guerra Fredda, e persino la modernità e la globalizzazione.
    Uno studente di storia americana che non cerchi di ricostruirla facendone un resoconto moderno politicamente corretto, dichiarerebbe che le tensioni tra l'America e i musulmani iniziarono quando i pirati musulmani dell'Africa settentrionale assalirono di propria iniziativa le navi americane per circa quarant'anni, tra la fine del diciottesimo e l'inizio del diciannovesimo secolo. Trovo rilevante il fatto che lei ha menzionato il trattato di Tripoli nel suo discorso, ma ha trascurato le circostanze che hanno portato a questo trattato. Esso è stato soltanto uno dei numerosi tentativi degli Stati Uniti di raggiungere la pace con gli jihadisti (dal termine "jihad", che indica la guerra santa islamica, ndt) delle coste dell'Africa settentrionale, che attaccavano le nostre imbarcazioni e uccidevano e rendevano schiavi i nostri cittadini e i nostri soldati e che, per loro stessa ammissione, facevano tutto questo per rispondere alla chiamata della jihad.
    Questi jihadisti non agivano per protestare contro la politica estera americana, che era fermamente isolazionista, e non c'era nessuno stato di Israele da prendere come capro espiatorio. Stavano facendo quello che gli jihadisti musulmani hanno fatto innumerevoli volte nel corso della storia, agendo in accordo con centinaia di versetti del Corano e degli Hadith che invitano i fedeli musulmani ad uccidere, conquistare o soggiogare gli infedeli.
    Uno studente di storia mondiale saprebbe che, per quante possano essere le ingiustizie attriibuite al colonialismo occidentale, queste impallidirebbero in confronto ai quattordici secoli di colonialismo islamico che iniziò in Arabia sotto la guida di Maometto. Lo studente di storia saprebbe che le forze militari islamiche sradicarono ogni presenza ebrea e cristiana dall'Arabia, dopo la morte di Maometto, e successivamente riuscirono a conquistare tutto il nord Africa, la maggior parte del Medio Oriente, una gran parte dell'Asia Minore e parti significative dell'Europa e dell'India, creando alla fine un impero più grande di quello romano nella sua massima espansione.
    Il numero delle persone uccise e messe in schiavitù durante tutti questi secoli di conquista militare e colonialismo islamico è stato stimato superiore a trecento milioni. In più la ricchezza di molte nazioni e culture conquistate fu saccheggiata dai conquistatori islamici, e milioni di non musulmani che sopravvissero furono costretti a pagare tasse onerose, come la "jizya", una tassa umiliante da versare ai califfi islamici. Infatti in alcune zone i cristiani e gli ebrei furono costretti a portare intorno al collo, come segno di disonore, una ricevuta della jizya pagata.
    Questi fatti non sono stati inventati da revisionisti della storia cristiani o ebrei, ma sono stati registrati in cronache da testimoni oculari musulmani nel corso di quattordici secoli e possono essere consultati da chiunque cerchi di capire oggettivamente in che modo l'Islam si sia esteso in tutto il mondo.
    Lei dice nel suo discorso che noi dobbiamo affrontare a viso aperto le tensioni che esistono tra l'America e il mondo musulmano. Questa è un'affermazione lodevole con la quale concordo, ma identificando nell'Islam la vittima storica e nell'Occidente (e per conseguenza nell'America) l'aggressore, lei non affronta queste tensioni a viso aperto, ma evita che il mondo musulmano faccia i conti con l'ideologia jihadista fondata sui propri libri sacri e praticata per 1400 anni.
Ancor peggio è che così facendo, lei rafforza e incoraggia i militanti islamici, che considerano le sue parole come segni di debolezza e sconfitta.
    La questione non è che tutti i musulmani siano dei terroristi o radicali o estremisti. Noi tutti sappiamo che la maggioranza dei musulmani non lo è. Sappiamo anche che molti musulmani che amano la pace sono vittime della violenza islamica.
    Il punto è questo: cosa spinge centinaia di milioni di musulmani in tutto il mondo a chiedere la morte degli ebrei?
    Cosa spinge milioni di musulmani a organizzare tumulti, distruggere proprietà, spezzare vite innocenti come reazione ai cartoni animati danesi?
    Cosa spinge decine di migliaia di musulmani a chiedere l'esecuzione di un'insegnante britannica il cui solo "crimine" è stato quello di permettere ai suoi allievi di dare ad un orsacchiotto il nome di Maometto?
    Cosa spinge innumerevoli musulmani in tutto il mondo a partecipare attivamente, o a finanziare, o a provvedere per il sostegno di organizzazioni terroristiche?
    Cosa spinge dei musulmani nelle moschee in America a proclamare e distribuire materiale che incita all'odio e alla distruzione degli infedeli?
    Cosa spinge interi paesi islamici a proibire la costruzione di una chiesa o sinagoga?
    Supporre, come apparentemente fa lei, che quello che spinge a fare queste azioni non è un'ideologia basata sui libri sacri dell'Islam, ma piuttosto un altro "genere di cause", la maggior parte delle quali attribuite da lei all'America e all'Occidente, è ingenuo nel migliore dei casi, pericoloso nel peggiore.
    Infine, devo ancora dire qualcosa sulla sua affermazione che "l'Islam ha una orgogliosa tradizione di tolleranza". Purtroppo gli esempi da lei proposti sono l'eccezione piuttosto che la regola.
    Parlando dal punto di vista storico, dubito seriamente che i copti egiziani, i maroniti libanesi, i cristiani a Betlemme, gli assiri, gli indù, gli ebrei e molti altri che sono stati perseguitati dalla violenza e dalla supremazia islamica sarebbero d'accordo con la sua affermazione.
    Per esempio, i cristiani e gli ebrei furono chiamati "dimmi", un gruppo di persone di seconda classe sotto l'Islam. I "dimmi" sono stati costretti ad indossare dei vestiti che li identificassero; è stato il califfo di Baghdad, Al-Mutawakkil, nel nono secolo d.C. che ideò un distintivo giallo per gli ebrei sotto l'Islam, che Hitler copiò e duplicò nella Germania nazista circa mille anni dopo.
    Io ho fatto esperienza diretta della "tolleranza" dell'Islam quando, negli anni settanta, gli islamici hanno devastato il mio paese natio, il Libano, lasciando dietro di loro morte e distruzione in vaste zone. Ho visto come hanno contraccambiato la tolleranza che i cristiani libanesi avevano concesso loro. La mia esperienza non è isolata. Quando lei fa un'affermazione infondata sulla "orgogliosa tradizione" di tolleranza nell'Islam, lei fa un grande danno a centinaia di milioni di non musulmani che sono stati uccisi, mutilati, resi schiavi, conquistati, soggiogati o cacciati per la causa della jihad islamica.
    Signor Presidente, per quelli come me che stanno lanciando l'allarme in America a proposito della minaccia dell'Islam radicale, non ci sarebbe niente di meglio che coesistere pacificamente con il mondo musulmano. Alla maggior parte degli americani niente piacerebbe di più che coesistere pacificamente con il mondo musulmano. L'ostacolo che impedisce di raggiungere questo non si trova fra di noi in America e in Occidente, bensì tra le centinaia di milioni di musulmani nel mondo intero, includendo molti dei loro leader spirituali, che prendono sul serio gli inviti alla jihad contenuti nel Corano e negli Hadith. Che considerano gli "infedeli" esseri inferiori e degni di essere conquistati, soggiogati e convertiti con la forza. Che appoggiano la "jihad culturale" considerandola un mezzo per sovvertire le culture non musulmane dall'interno. Che prendono sul serio gli inviti contenuti nel Corano e negli Hadith a convertire il mondo all'Islam, con la forza se necessario, e portarlo sotto il governo di Allah.
    Se lei non vorrà accettare tutto questo con coraggio ed onestà, le sue aspirazioni alle buone maniere nel mondo e alla pace in Medio Oriente sono destinate a fallire.

Distinti saluti,
Brigitte Gabriel

(newsletter di Naomi Ragen, 11 giugno 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. SE I PALESTINESI RICONOSCESSERO IL DIRITTO DI ISRAELE




Per amore di chiarezza, un utile esperimento mentale

da un articolo di Daniel Gordis

C'è un po' quest'idea, che circola nell'aria: Israele è il problema e gli Stati Uniti ne hanno abbastanza; se non fosse per Israele il Medio Oriente non sarebbe tutti i giorni in prima pagina; per arrivare alla pace in Medio Oriente tutto quello che bisogna fare è sottomettere Israele: piegate la sua intransigenza e finalmente si vedranno progressi.
    Vorrei dunque proporre un esercizio mentale, a chi mi legge e magari allo stesso presidente Barack Obama. Si immagini che gli israeliani decidano di voler arrivare a un accordo entro un paio di settimane. Ed ecco dunque che abbattono la barriere di sicurezza (il "muro"), rimuovono tutti i posti di blocco, aprono tutte le strade e i valichi nonché le acque territoriali e lo spazio aereo della striscia di Gaza, accettano pubblicamente di ritirarsi più o meno sulla Linea Verde (la linea armistiziale 1949-'67) e accettano che mezza Gerusalemme, compresi i luoghi santi, passi sotto controllo internazionale o magari addirittura sotto controllo palestinese.
    Tutto ciò porrebbe fine al conflitto? Naturalmente no. La Carta di Hamas invoca la distruzione dello stato d'Israele, e non solo: invoca anche la guerra santa islamica contro gli ebrei ovunque si trovino (per quale motivo non dovremmo prenderla in parola?). Cosa cambierebbe realmente? Il cappio non farebbe che stringersi; i razzi verrebbero lanciati ancora, e non più solo dalla striscia di Gaza ma anche da territori ben più a ridosso del cuore stesso di Israele; la pretesa di far affluire in Israele i profughi palestinesi (e i loro discendenti), ponendo fine all'unico stato ebraico del mondo, persisterebbe e si farebbe ancora più pressante. Come avvenne quando Israele lasciò il Libano meridionale nel maggio 2000 e Gaza nell'estate 2005, i nemici di Israele percepirebbero i segni di un paese ferito e indebolito e si appresterebbero alla fase successiva della loro guerra.
    Non sarebbe affatto la pace. Per quanto tutti noi si desideri la fine di questo conflitto, c'è qualcuno che davvero non vede questo scenario? In altri termini, qualunque mediatore onesto deve ammettere che non c'è praticamente nulla che Israele possa fare per porre fine, di sua iniziativa, al conflitto.
    Tentiamo ora l'esperimento contrario. Immaginiamo che i palestinesi decidano che ne hanno abbastanza del conflitto, o che il loro elettorato riesca ad avviare il tanto atteso ribaltone elettorale mettendo l'accento sulla composizione pacifica.
    Dunque i palestinesi, sia di Hamas che di Fatah, pur continuando a chiedere che Israele accetti quanto sopra (fine dei posti di blocco, apertura di Gaza, collegamento fra Gaza e Cisgiordania, confini prossimi a quelli del '67, magari anche il controllo su Gerusalemme est), al contempo potrebbero riconoscere il diritto di Israele ad esistere come stato ebraico, potrebbero accettare un'immediata e definitiva cessazione delle ostilità e delle violenze a parole e nei fatti (un esperimento mentale difficile, lo ammetto), e potrebbero accettare che ogni importante questione venga negoziata e risolta con gli Stati Uniti e gli altri partner del Quartetto come intermediari e facilitatori. E mettiamo che chiedano agli israeliani di pronunciarsi con un voto entro un mese, non di più, su questo accordo.
    Quanti sarebbero gli israeliani che si pronuncerebbero contro? Certo, vi sarebbero alcuni israeliani residenti in Cisgiordania che si opporrebbero ad abbandonare le loro case. Ma non vi è dubbio che vi sarebbe un plebiscito della popolazione israeliana a favore di una tale offerta. Nell'arco di poche settimane si potrebbe chiudere un secolo di spargimenti di sangue e di sofferenze.
    Tutto questo, naturalmente, non succederà. Perché, indipendentemente da tutta la nuova retorica e tutta la confusione che oggi viene fatta, c'è sempre stata una parte che cercava la pace, ovviamente nella sicurezza, e un'altra parte che la rifiutava. Fu così nel 1948, fu così coi "no" di Khartoum del 1967, ed è così ancora oggi. Israele non può porre fine al conflitto. Può cedere molto, può indebolirsi molto, ma il solo modo che ha per portare la pace nella regione (unilateralmente) è dichiarando fallimento. Se è questo che vogliono veramente i pacifisti, lo si vedrà presto con agghiacciante chiarezza.

(Jerusalem Post, 14 maggio 2009 - ripreso da israele.net)





3. SCAMPATA DALL'OLOCAUSTO




«Così sono uscita viva dalla camera a gas»

di Francesco Saverio Alonzo

Ci accoglie con un sorriso un po' forzato, lasciando da parte per un'ora i dolori che l'affliggono da tempo, facendoci accomodare in un angolo della bella casa di cura per anziani nel centro di Stoccolma. Le è costato molta fatica decidere di raccontare la sua odissea, riaprendo così le ferite che molto lentamente si erano richiuse nella sua anima. E che l'hanno segnata per sempre. «Vede, forse le sembrerà strano, ma la sola vista di un cane pastore tedesco mi far star male ancora oggi perché era con quei cani da guardia, sempre minacciosi, che i soldati ci tenevano in riga». Poi, tirando un sospiro profondo, Sara Rosenbaum ci dice: «Se sapesse… dopo che sono apparsa alla televisione svedese… ho ricevuto tante minacce dai neonazisti, anche recentemente, e non vorrei che approfittassero di questa occasione per tornare all'attacco. Molti amici mi avevano sconsigliato di parlare ancora temendo per la mia incolumità, ma ho pensato: bisogna che qualcuno racconti anche oggi la verità dello sterminio degli ebrei mediante l'orrore delle camere a gas, che qualcuno è arrivato a mettere in discussione come verità storica. Io sono una delle poche persone, forse l'unica vivente, che sia uscita viva da uno di quei luoghi di morte e che abbia visto con i propri occhi i risultati delle cosiddette "disinfezioni".

    Da quanto tempo si trovava ad Auschwitz quando sfuggì miracolosamente alla morte?
    
Mi trovavo nel campo di sterminio da poche ore, era l'inverno del 1944. Tre anni prima, nel 1941, i tedeschi e i loro collaboratori locali avevano iniziato in Lituania, dove risiedevo, la pulizia etnica, arrestando tutti gli ebrei. Mio padre e mio fratello furono rinchiusi nella "Fortezza numero sette" (una prigione militare ndr) e uccisi pochi giorni dopo insieme con altre centinaia di ebrei. Anche mia madre e mia sorella furono deportate, di loro non si è più saputo nulla. Io, che avevo appena dieci anni, fui rinchiusa in un campo per bambini e vi rimasi per tre anni. Avevo perso totalmente la nozione del tempo, non sapevo più che giorno fosse, notavo soltanto il cambiamento delle stagioni. Un freddo giorno d'inverno fummo raccolti, noi bambini provenienti dagli Stati baltici e dall'Ungheria, e caricati su carri bestiame per essere inviati a lavorare in uno zuccherificio. Arrivati ad Auschwitz, sporchi e maleodoranti, fummo passati in rivista dal dottor Mengele. Lo ricordo bene: alto, in uniforme delle SS, guanti bianchi.

    E lì cosa accadde?
    
Con un dito indicava quali bambini dovessero andare a destra e quali a sinistra. Io finii nel gruppo di sinistra e le ausiliarie tedesche ci spiegarono che saremmo andati a fare la doccia. Ci spogliammo, ma, all'atto di entrare nel locale del bagno, non so perché, decisi di essere l'ultima della fila. Quasi subito si udirono i primi che urlavano dopo essersi accorti che in quel locale non c'era l'acqua. Il panico si diffuse rapidamente, qualcuno aveva già sentito parlare delle camere a gas, e tutti cercavano disperatamente di uscire dalla camera delle docce. Io fui spinta contro la porta da coloro che tentavano di scappare. Il soldato addetto alla porta tentò di chiuderla, ma non ci riuscì perché il mio corpo la bloccava. Allora, con uno strattone, mi tirò fuori e quindi chiuse la porta sigillata con strisce di gomma. Quella fu la mia miracolosa salvezza.

    Una volta in salvo, cosa fece?
    
Ero nuda e uscii all'aperto. Un soldato mi domandò in tedesco: «Dove sei stata?». «A fare la doccia», risposi. «E con chi sei?». «Con noi», risposero alcune donne di un gruppo di zingari che sostava fuori del locale. Mi procurarono subito degli indumenti e poi entrai con loro, reggendo un idrante, per lavare i cadaveri dei bambini uccisi che dovevano essere caricati sulle carrette e condotti ai forni crematori.

    Ma non vi furono altri tentativi di ucciderla con il gas?
    
No. Quello era stato, diciamo cosí, l'ultimo atto di Auschwitz, con il sacrificio di cinquecento bambini e ragazzi. Quasi subito fummo incolonnati e lasciammo il lager, iniziando quella che sarebbe stata "la marcia della morte" sotto l'incalzare delle truppe sovietiche. Ricordo che un alto ufficiale ci urlò: «Maledetti ebrei, è finita per noi, ma ci farete compagnia». Chi cadeva per terra, veniva abbandonato e chi rallentava veniva freddato con un colpo di pistola.

    Dove eravate diretti?
    
Non so. Forse ai tedeschi premeva soltanto di svuotare il lager. I soldati che ci scortavano erano frustrati e stanchi. Una sera ci stiparono in una stalla e poco dopo venne un sergente e domandò se ci fosse qualcuno capace di cantare. La mia migliore amica, Clary, un'ebrea cecoslovacca, si presentò insieme con me. Cantammo delle belle canzoni e i soldati ci ricompensarono con minestra e pane. Tornate nella stalla, Clary mi disse che sentiva tanto freddo. La strinsi a me. Eravamo cosí magre (io pesavo 23 chili) che ciascuna sentiva sul suo corpo le ossa dell'altra. Al mattino, quando mi svegliai, sentii che Clary era gelida. Era morta nelle mie braccia.

    Quanto durò questo calvario?
    
Il 3 marzo 1944 fummo finalmente liberati dalle truppe sovietiche ed io venni ricoverata in ospedale. Un capitano medico ebreo constatò un principio di tubercolosi ossea e mi domandò se non avessi qualche parente negli Stati Uniti. Sapevo soltanto che un mio zio abitava a Brooklin, ma riuscirono, non so come, a reperirlo. Non era ricco, ma mi inviò comunque cinque grammi di streptomicina che costava ventotto dollari al grammo. Il mio medico mi disse: con questo quantitativo non risolviamo nulla. Vendiamoli e con i soldi ti farò avere cibo nutriente. E cosí fu. Latte, uova, carne mi rimisero in sesto e guarii.

    Lei si recò quindi in Israele e là iniziò una nuova vita prima di incontrare il suo futuro marito, un ebreo svedese di origini polacche, e di trasferirsi qui in Svezia.
    
Proprio cosí. Ma voglio riferirle un episodio emblematico. Abitavo nel cosiddetto "kibbutz dei bambini" e un giorno stavamo per partire per una gita, a bordo di un autobus, quando vidi un signore che ci inseguiva correndo, facendo cenno di fermarci. L'autista arrestò il mezzo e io feci sedere il sopravvenuto accanto a me. Parlammo del più e del meno e io gli raccontai del modo in cui ero sfuggita alla morte nella camera a gas. Allora lui mi chiese se fosse stato in occasione dell'eccidio degli ultimi cinquecento bambini. Risposi di sì ed egli mi disse, rivolgendomi uno sguardo affettuoso: sono Simon Wiesenthal e, nel corso delle mie ricerche sull'Olocausto, ho avuto la conferma della tua storia da quel soldato tedesco che ti tirò fuori dalla camera a gas.

(Avvenire, 5 giugno 2009)





4. IL GUSTO DEI PROBLEMI GENERALI




Ginzburg, mio padre. Filologo della libertà

di Dino Messina

Le leggi razziali gli apparvero una ferita all' eredità risorgimentale cui si sentiva fortemente legato. Prima di morire, ucciso dalle SS, confidò: non odio i tedeschi. Sognava un continente diverso.

BOLOGNA - «Mi terrò lontano dall' ambito del privato». Con questa precisa indicazione comincia la prima intervista che Carlo Ginzburg, uno dei maggiori storici italiani, il più noto in campo internazionale, abbia mai dedicato a suo padre Leone. Figura cruciale dell' antifascismo e della cultura italiana fra le due guerre, uno di quei personaggi che hanno avuto una vita breve e intensa, come Piero Gobetti (che non conobbe) e Giaime Pintor, che invece incontrò nei primi anni Quaranta, Leone Ginzburg nacque a Odessa il 4 aprile 1909 e morì il 5 febbraio 1944 nell' infermeria del carcere romano di Regina Coeli, in seguito alle percosse subite durante gli interrogatori da parte dei nazisti. Trasferitosi a Torino con la famiglia, superò gli esami di



ammissione al liceo Massimo D' Azeglio e continuò il brillante percorso di studi con ragazzi che si chiamavano Norberto Bobbio, compagno di classe e coetaneo, Cesare Pavese, di un anno più grande, che lo avrebbe considerato come il suo migliore amico, Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Carlo Dionisotti, Giulio Einaudi, col quale avrebbe dato un impulso decisivo alla costruzione della casa editrice. Un gruppo in cui svolgeva una funzione di maestro e guida spirituale Augusto Monti. «Monti - dice Carlo Ginzburg - commentava il Breviario di estetica di Benedetto Croce, che per quei ragazzi fu la via verso l' antifascismo». Come ha notato Norberto Bobbio nella introduzione agli Scritti di Leone Ginzburg editi nel 1964 (poi ristampati nel 2000 con un' importante prefazione di Luisa Mangoni), «l' adesione a Croce ci faceva sentire estranei alle convenzioni». La precocità intellettuale, politica e persino morale di Leone è sottolineata in questo saggio di Bobbio: «La sua sicurezza era frutto non soltanto di una cultura più ampia e più solida, ma anche di una consapevolezza del proprio compito». In giovanissima età tradusse Taras Bul' ba di Nikolaj Gogol, Anna Karenina di Lev Tolstoj e cominciò a pubblicare saggi sulla letteratura russa.
    Si laureò con una tesi su Guy de Maupassant e incontrò Carlo Rosselli esule a Parigi. Ma prima del 1931, anno in cui ottenne la cittadinanza italiana, non volle impegnarsi nella cospirazione antifascista. «Fu Vittorio Foa - ricorda Carlo - a segnalarmi l' importanza di questo punto. Leone Ginzburg non era venuto in Italia per caso. Il suo padre naturale era un ebreo italiano, e da bambino aveva vissuto alcuni anni a Viareggio. Ma la decisione di diventare italiano fu fondamentale nella costruzione della sua personalità intellettuale e politica. Aveva un legame fortissimo con la tradizione risorgimentale, come Vittorio Foa, che ne parla ripetutamente nelle lettere dal carcere. Quando era a Pizzoli, il paese vicino all' Aquila dove era stato internato dopo lo scoppio della guerra, lavorava a una raccolta di scritti sul Risorgimento, di cui è rimasto il saggio incompiuto La tradizione del Risorgimento. Immagino che anche mio padre, come Vittorio Foa, abbia reagito all' ignominia delle leggi razziali come a una cesura rispetto alla tradizione risorgimentale». L' attenzione al Risorgimento andava di pari passo con gli studi sulla letteratura italiana dell' Ottocento: curò l' edizione dei Canti di Leopardi per la collana Scrittori d' Italia di Laterza fondata da Croce. Nel periodo di internamento passato a Pizzoli stava raccogliendo materiale per un libro su Manzoni, che è andato perduto quando, dopo il 25 luglio 1943, lasciò Pizzoli per andare a Roma, dove durante l' occupazione tedesca diresse l' edizione clandestina dell' Italia Libera, giornale del Partito d' Azione. Gli studi sull' Ottocento italiano s' intrecciavano con quelli sull' Ottocento russo: così nacquero l' accostamento tra Puskin e Manzoni e il saggio Garibaldi e Herzen. La scelta di essere italiano venne rinnovata quando, dopo le leggi razziali, gli arrivò dagli Stati Uniti, credo attraverso Max Ascoli e la fondazione Rockefeller, l' offerta di espatriare. Lui rifiutò, disse che il suo posto era qui».
    Di quel periodo a Pizzoli Carlo Ginzburg conserva una foto, appesa di fianco a una delle librerie della grande casa bolognese, che lo ritrae bambino di due anni, con una matita in mano, in braccio al padre. Sul retro c' è un messaggio di Leone al filologo Santorre Debenedetti, che in quel periodo (come risulta dalle Lettere dal confino curate da Luisa Mangoni) era il direttore occulto, per via dei divieti razziali, della raccolta di classici Einaudi. A Pizzoli Leone era stato raggiunto dalla moglie Natalia, la scrittrice da cui ebbe tre figli. «Leone, la sua passione vera era la politica - scrive Natalia in Lessico famigliare -. Tuttavia aveva, oltre a questa vocazione essenziale, altre appassionate vocazioni, la poesia, la filologia e la storia». Quale di queste vocazioni era la più forte? «Il letterato e lo storico erano molto intrecciati. Resta il problema di capire se la vocazione politica fosse imposta dalle circostanze, dall' esigenza morale di contrapporsi al fascismo, o se fosse qualcosa di originario. Per rispondere a questa domanda di nuovo mi viene in mente Vittorio Foa e quel che mi disse una volta parlandomi di Piero Gobetti. "A differenza di Gobetti tuo padre era un filologo", mi disse. Questa vocazione alla filologia non emerse subito, ma negli anni, anche grazie al decisivo incontro con Santorre Debenedetti, che dopo Croce, con cui mio padre ebbe un rapporto intenso e diretto, divenne il suo secondo maestro. Forse "il maestro". La vocazione di filologo in qualche modo definisce un atteggiamento che si può trovare sia negli studi sulla letteratura sia in quelli di storia, e forse, paradossalmente, anche nell' azione politica. Mi spiego: qui non penso alla filologia in senso tecnico ma alla filologia in senso ampio di cui parla Giambattista Vico (qui tra i libri di mio padre conservo una copia dell' edizione 1744 della Scienza nuova): un abito mentale che consente di ascoltare e interpretare la voce degli altri, del passato ma anche dei contemporanei, senza prevaricare. Mi è parso di ritrovare questo atteggiamento anche nello scritto politico del 1932, Viatico ai nuovi fascisti, di cui parlò Carlo Dionisotti (lo ricorda Giorgio Panizza nell' introduzione agli Scritti sul fascismo e sulla Resistenza di Dionisotti). A proposito delle iscrizioni forzate al Partito nazionale fascista dei dipendenti pubblici mio padre scriveva: "Le settecentomila persone, che sentono come un marchio quest' iscrizione forzata (al Partito nazionale fascista, ndr) hanno modo di non dare al fascismo che il guadagno del prezzo annuale della tessera. Dinanzi alla loro vendetta, Mussolini si avvedrà di quel che significhi ridurre la gente per bene alla vergogna e alla disperazione". Era un discorso duro e generoso: io non faccio le vostre scelte ma non le condanno moralisticamente; esse però non devono diventare un alibi per una vita di compromessi».
    Nel 1934 Leone Ginzburg avrebbe lasciato il posto di libero docente di letteratura russa rifiutando di prestare giuramento al fascismo. Nel novembre di quell' anno sarebbe stato arrestato, accusato di cospirazione antifascista e condannato a quattro anni (ne scontò due nel carcere di Civitavecchia). Il rigore filologico e la capacità di guida intellettuale di Leone Ginzburg si vedono soprattutto nella collaborazione alla neonata Einaudi: «Gli studi di Luisa Mangoni hanno dimostrato inequivocabilmente ciò che lo stesso Giulio Einaudi riconobbe più volte: mio padre, uscito di prigione nel 1936, diede un' impronta decisiva alla casa editrice con la creazione di collane come la Biblioteca di cultura storica, i Narratori stranieri tradotti, i Saggi, la Nuova raccolta di classici italiani annotati. La severità dell' atteggiamento filologico di mio padre traspare anche nella critica alle straordinarie traduzioni che Giaime Pintor aveva fatto delle poesie di Rainer Maria Rilke». Giaime sarebbe morto il 1o dicembre 1943 nel tentativo di attraversare sul Volturno le linee naziste e unirsi alla Resistenza romana. Leone era stato catturato il 20 novembre nella tipografia dell' Italia Libera. Diede il falso nome di Leonida Gianturco, ma fu riconosciuto, perché schedato come antifascista, e consegnato ai nazisti. «Sandro Pertini - ricorda Carlo - ha scritto nella sua autobiografia Sei condanne e due evasioni che mio padre, che aveva incontrato sanguinante dopo l' ultimo interrogatorio, gli disse "che non bisognerà, in avvenire, avere odio per i tedeschi". Perché questa frase? Io mi sono dato due spiegazioni. La prima rinvia alle sue convinzioni politiche: nella costruzione di una federazione europea la Germania avrebbe naturalmente avuto un posto importante. La seconda rinvia a un imperativo di genere diverso: la necessità di distinguere tra tedeschi e nazisti. Anche in quel momento, penso, imponeva a se stesso il distacco critico di cui parla nell' ultima lettera scritta a mia madre, poi raccolta nel volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Dal carcere scriveva: "Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale"».

(Il Corriere della Sera, 1 maggio 2009)





5. IL CASO DEL DANIEL PEARL FRANCESE




Se questo è un ebreo

"Se questo è un ebreo". Il caso del Daniel Pearl francese. Al processo contro gli islamisti che hanno torturato e giustiziato Halimi s'è alzato un grido: "Allah vincerà".

di Giulio Meotti

Ilan Halimi
ROMA. "Se questo è un ebreo", recita il titolo del bellissimo pamphlet di Adrien Barrot. La Francia ha scoperto il sorriso contagioso di Ilan Halimi soltanto dopo la sua morte. Un sorriso che nulla sembra dire di quell'odio e di quella ferocia durata tre settimane nelle mani di una gang di islamisti delle banlieue parigine. "Giovani per i quali gli ebrei sono inevitabilmente ricchi", ha detto Ruth Halimi degli assassini di suo figlio. La madre di Ilan ha pubblicato il diario di quei "24 giorni" (Seuil edizioni). Ieri Ruth è andata in tribunale a guardare la gang musulmana, in un processo che genera angoscia e scandalo in Francia per come il caso è stato trattato fin dall'inizio, da quel tragico febbraio di tre anni fa. "Quando li osservo, non vedo odio, ma una tristezza immensa", dice il padre, Didier Halimi. Ruth ripete che l'uccisione di suo figlio è "senza precedenti dalla Shoah".
    Youssouf Fofana, il capo "dei barbari", è entrato in aula con il sorriso, ha alzato un pugno verso l'alto e gridato: "Allah vincerà". Testa rasata e maglietta bianca, Fofana alla domanda sulla sua data di nascita ha risposto: "Il 13 febbraio 2006 a Sainte-Geneviève-des-Bois". E' il giorno in cui il corpo di Ilan è stato trovato, nudo e straziato. Quando gli viene chiesto il nome, Fofana risponde: "Africana barbara armata rivolta salafista".
    La Francia non ha ancora fatto i conti con questo feroce antisemitismo islamico, che germina all'interno delle sue folte comunità musulmane. Sei anni fa, Sebastien Selam, un dj di Parigi di 23 anni, uscito dall'appartamento dei genitori per andare al lavoro, venne aggredito nel garage del parcheggio dal vicino musulmano Adel, che gli ha tagliato la gola due volte, quasi decapitandolo, gli ha squarciato il volto e gli ha cavato gli occhi. Adel è corso sulle scale del condominio, grondando sangue e urlando: "Ho ucciso il mio ebreo. Andrò in paradiso". Nella stessa città, in quella stessa sera, un'altra donna ebrea veniva assassinata, in presenza della figlia, da un altro musulmano. Erano i prodromi di una "tendenza" e i mezzi di comunicazione amano le tendenze. Eppure, nessuna delle principali testate francesi riportò il fatto.
    Lo zio di Ilan racconta che durante le telefonate per il riscatto alla famiglia venivano fatte sentire le urla del ragazzo ebreo bruciato sulla pelle, mentre "i suoi torturatori leggevano ad alta voce versi del Corano". I rapitori pensavano che tutti gli ebrei fossero ricchi e che la famiglia di Halimi avrebbe pagato il riscatto. Non sapevano che la madre era una centralinista. E che Ilan, per campare alla meglio, lavorava in un negozio di telefoni cellulari. Fu trovato agonizzante, il corpo bruciato all'ottanta per cento, vicino alla stazione di Saint-Geneviève-des-Bois. Seminudo, con ferite e bruciature di sigarette ovunque sulla carne viva e in tutto il corpo, Ilan è morto nell'ambulanza verso l'ospedale.
    Ruth nel suo libro denuncia che, per non urtare la sensibilità della comunità musulmana delle periferie, il caso venne fin dall'inizio tenuto su un registro basso, la polizia negava l'intento religioso del sequestro e l'identità islamica di tutti i rapitori; la stessa polizia che chiese alla famiglia di non farsi pubblicità e che fece poco, molto poco, per scardinare la rete di famiglie che proteggeva la gang. Decine di persone sapevano delle torture inflitte per tre settimane a quel ragazzo ebreo che sognava di vivere in Israele. Nidra Poller sul Wall Street Journal scrive che "ciò che più disturba in questa storia è il coinvolgimento di parenti e vicini, al di là del circolo della gang, a cui fu detto dell'ostaggio ebreo e che si precipitarono a partecipare alla tortura". Divenne tutto più chiaro quando l'allora ministro dell'Interno Nicolas Sarkozy annunciò che a casa del rapitore erano stati trovati scritti di Hamas e del Palestinian Charity Committee. Intanto la magistratura francese ha ritirato le copie del magazine "Choc" che ha appena pubblicato la fotografia di Halimi in ostaggio, giudicandola "offensiva". Si vede Ilan imbavagliato, con una pistola alle tempie e una copia di un giornale. La stessa, identica posa d'una famigerata fotografia di sette anni fa con Daniel Pearl, il corrispondente ebreo del Wall Street Journal decapitato da al Qaida in Pakistan.
    Il New York Times scrive che "in due settimane e mezzo di processo poco è filtrato sul procedimento". Si svolge a porte chiuse. Quel che è emerso è senz'altro il tentativo del governo francese di occultare l'odio islamico contro gli ebrei come movente della esecuzione di Halimi. Si è parlato poi della stanza in cui venne tenuto Halimi come di un "campo di concentramento fatto in casa". Il reporter francese Guy Millière scrive che "le grida venivano sentite dai vicini perché erano particolarmente atroci: gli assassini sfregiarono la carne del giovane uomo, gli spezzarono le dita, lo bruciarono con l'acido e alla fine gli hanno dato fuoco con del liquido infiammabile". La madre di Ilan aggiunge che durante una delle telefonate alla famiglia i sequestratori trasmisero un nastro: "Sono Ilan, Ilan Halimi. Sono figlio di Didier Halimi e di Ruth Halimi. Sono ebreo. E sono tenuto in ostaggio".
    "Come si fa a non pensare a Daniel Pearl?", domanda Ruth. Adrien Barrot, filosofo all'Università di Parigi, ha scritto per le edizioni Michalon uno straordinario libro sul significato dell'uccisione di Halimi. "Non è stato facile fare il verso a Primo Levi", dice al Foglio a proposito del titolo del suo saggio, "Se questo è un ebreo". "Si fatica oggi a capire la crescita enorme dell'antisemitismo in Francia dopo l'11 settembre. Io stesso sono di sinistra e per molto tempo faticavo a realizzare questo antisemitismo nuovo che si nutre della cultura antirazzista. Non possiamo criticare gli immigrati musulmani, così finiamo per accusare di razzismo gli stessi ebrei. Dicono che c'è antisemitismo, ma che la colpa è soltanto del sionismo. Lo sentiamo ripetere ogni giorno. L'affaire Halimi significa che il tabù è caduto e l'antisemitismo si sta diffondendo ovunque in Francia".
    Barrot critica la visione pedagogica dell'antisemitismo. "E' troppo astratta, fondata su un'immagine stereotipata. Siamo resi incapaci di identificare ciò che il crimine 'dei barbari' ci mette sotto gli occhi, la cellula germinativa dell'orrore che la nostra 'memoria' non cessa ritualmente di esorcizzare. Ilan non portava un lungo caffettano nero, un cappello di feltro, le frange rituali, non portava neppure la kippà. Ilan Halimi portava soltanto il suo nome e fu sufficiente a fare di lui una preda. E' allora che ho compreso che ormai era ridiventato difficile essere ebreo in questo paese". La retorica pseudoeducativa sull'antisemitismo è incapace di penetrare l'odio che l'islamismo predica contro gli ebrei. "La memoria dell'antisemitismo è evocata per impedire, proibire, riconoscere la realtà attuale, di chiamare le cose con il loro nome. Eccesso, abuso, dittatura della memoria? Memoria inutile? Memoria vuota piuttosto, che ha immesso nella coscienza pubblica soltanto una nozione completamente astratta. Come se i soli buoni ebrei, gli ebrei degni di essere difesi, fossero gli ebrei morti, trasportati in una sfera astratta e pura, non contaminata da tutto ciò che, nella vita, li espone all'odio. C'è una relazione sinistra tra la morte atroce di Ilan Halimi e l'assenza di mobilitazione massiccia che l'ha seguita. La nostra vigilanza veglia sugli ebrei morti ed espone i vivi alla violenza".
    Al processo, i carcerieri di Ilan hanno raccontato che la prima settimana del sequestro Halimi l'ha trascorsa in un appartamento prestato ai rapitori da un concierge. Youssouf Fofana ha pensato a decorarlo di tele "con motivi arancione per coprire i muri". Ammanettato, con addosso soltanto una vestaglia comprata all'Auchan, alimentato con proteine liquide attraverso una cannuccia, Ilan passò così molti giorni. Per entrare nell'appartamento ci voleva un codice: bussare due volte e poi ancora una. Poi Fofana si è caricato Ilan in spalla e l'ha portato nella caldaia: "Pisciava in una bottiglia e faceva la cacca in una busta di plastica", racconta uno dei carcerieri, Yahia. Le botte sono iniziate dopo che è fallito il primo tentativo di riscatto. Ma gli episodi più significativi sono avvenuti quando si è trattato di scattare le foto destinate a spaventare la famiglia della vittima, compresa la simulazione di una sodomia con il manico della scopa e uno sfregio alla faccia fatto con il coltello di un imputato, Samir Ait Abdelmalek. Il giorno in cui venne giustiziato, racconta Fabrice, "gli ho tagliato i capelli, Zigo e Nabil (altri due carcerieri, ndr) hanno detto che non erano abbastanza corti e l'hanno rasato con un rasoio a due lame". Gli hanno tagliato anche i peli del corpo. Per non lasciare alcuna traccia nel covo. Ilan venne asciugato e avvolto in un telo viola, comprato al supermercato all'angolo. Fofana è arrivato nel profondo della notte. Quando Ilan è riuscito a guardarlo in faccia, l'islamista lo ha colpito con un coltello alla gola, alla carotide, poi un altro affondo. Poi gli ha dato un taglio alla base del collo, e al fianco. E' tornato con una tanica di benzina, gli ha versato il combustibile e gli ha dato fuoco. Finiva così la vita di un ragazzo di 23 anni nel primo paese nella storia ad aver dato agli ebrei diritti civili. Ieri, in tribunale, Ruth ripeteva: "Chiedo ogni giorno a mio figlio di perdonarmi".

  L'ambasciatore francese in Israele Jean-Michel Casa passa vicino alla bara di Ilan Halimi nella cerimonia di sepoltura a Gerusalemme

(Il Foglio, 29 maggio 2009)





6. UNA SCOMMESSA DELL'AGENZIA EBRAICA




Ebrei dall'Etiopia, la difficile integrazione

di Luciana Borsatti

TEL AVIV-ROMA. Per lo Stato di Israele - nato dall'utopia egualitaria dei pionieri del secolo scorso - e' forse l'integrazione piu' difficile. Perche' il gap culturale tra chi ha vissuto fino a pochi anni fa in un remoto villaggio africano e la modernita' che si respira a Tel Aviv non e' di quelle che si superano facilmente, nemmeno in una generazione. Lo sanno bene i Falascia' o Falasha, popolazione di pelle nera dell'Etiopia settentrionale, di lingua semitica e religione ebraica, che tra gli anni '80 e '90 - ma gli arrivi continuano ancor oggi, anche se con numeri inferiori a quelli del passato - sono emigrati in massa nella Terra Promessa grazie ad epiche operazioni israeliane, come la storica ''Salomone'' del 1991. E lo sa anche l'Agenzia Ebraica - l'organismo nato durante il Mandato britannico per agevolare l'immigrazione degli ebrei in Palestina - che ha trovato nel recente ingresso di un milione di ebrei russi ma anche dei Falascia' la fonte di delusioni e di costi molto salati per lo Stato. Gli ebrei etiopi infatti, agricoltori che non sapevano leggere e scrivere la lingua ebraica, sono divenuti rapidamente dei diversi, se non degli emarginati, comunque condannati ai lavori meno qualificati. Mentre la loro comunita' ha raggiunto le 105 mila persone, la maggior parte delle quali sotto i 20 anni. Un rapporto di fine 2008 dell'Acri, associazione israeliana per i diritti civili, individuava proprio negli immigrati russi ed etiopi i gruppi piu' socialmente svantaggiati.
    Ma quella dell'integrazione nella societa' israeliana e' una scommessa che l'Agenzia Ebraica - che dal 1948 ha gestito l'ingresso di quasi tre milioni di nuovi immigrati - ancora non vuol dare per persa. E presenta con orgoglio ai visitatori centri di accoglienza come quello di Mevasseret Zion, il piu' grande Absortion Center del Paese. Una citta' nella citta', con casette basse dove vivono 1.200 etiopici che gli operatori dell'Agenzia assistono costantemente nel loro sforzo di superare senza traumi la distanza culturale con la societa' della nuova patria. Non si tratta infatti solo di dare loro un tetto temporaneo, spiegano al centro, ma molto di piu': il metodo e' quello di un ''approccio olistico'' all'integrazione. E se stupiscono le capanne africane costruite in alcuni cortili per rendere meno traumatico l'adattamento ad altri stili di vita, l'immagine che piu' colpisce e' quella dei bambini che giocano nella sala computer, alle prese con software d'avanguardia che, divertendoli, li introducono all'alfabeto e alla modernita'.
    Come la strada dell'emancipazione sociale passi del resto per l'istruzione lo sanno bene all'Ono Academic College di Kyriat Ono, nei pressi di Tel Aviv. Un istituto universitario che punta - spiega il vicepresidente Doron Haran - non solo all'eccellenza accademica, ma anche ad accompagnare fino alla fine degli studi, sostenendoli nei loro specifici punti deboli, anche i soggetti piu' svantaggiati: dagli ebrei ultraortodossi (il 50% dei quali vive, proprio per le conseguenze della propria specificita' religiosa, al di sotto della linea di poverta') agli etiopi. Nato come progetto pilota nel 2002, ora il programma conta circa 180 studenti, 26 dei quali gia' impegnati in corsi post-graduate. Il corso di studi offerto, sostenuto da borse di studio, permette loro non solo di raggiungere l'obiettivo del titolo finale, ma anche - con l'aiuto dello staff del College - uno sbocco professionale.
    La studentessa Orit-Itzhak-Yasu racconta ad un gruppo di giornalisti i drammi dell''aliah', l'approdo in Israele, della sua famiglia quando era ancora bambina: la fuga notturna dal villaggio, le settimane di marce forzate con i genitori e i fratellini fino al campo profughi e l'attesa dell'aereo della salvezza. La sua storia e' quella di mille altre israeliane di origini etiopi come lei, ora e' il suo futuro che deve cambiare.

(ANSAmed, 16 giugno 2009)





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