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Notizie su Israele 466 - 30 giugno 2009

1. Una visione della costruzione del Tempio ebraico
2. Israele ricorda l'ospitalità ricevuta
3. Una pagina di storia poco sottolineata
4. Una questione ancora aperta
5. Il prezzo della giusta informazione
6. Perché non si vuole riconoscere lo Stato ebraico?
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Osea 3:4-5. I figli d'Israele infatti staranno per parecchio tempo senza re, senza capo, senza sacrificio e senza statua, senza efod e senza idoli domestici. Poi i figli d'Israele torneranno a cercare il Signore, loro Dio, e Davide, loro re, e ricorreranno tremanti al Signore e alla sua bontà, negli ultimi giorni.
1. UNA VISIONE DELLA RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO EBRAICO




Irrealistiche fantasie escatologiche o irresponsabile incitamento alla guerra?

Nel centro Konrad-Adenauer di Gerusalemme un gruppo di esperti di "dialogo interreligioso" discute su come "negli ultimi giorni" ebraismo, cristianesimo e islam potrebbero condividere pacificamente il monte del Tempio. Al termine della riunione viene mostrato un quadro rappresentante una visione del terzo tempio.

di Johannes Gerloff

Prima della presentazione del quadro due sceicchi musulmani, due rabbini e un gesuita cattolico discutono su Dio

La maggior parte dei rappresentanti delle tre religioni monoteistiche aveva già tagliato la corda. Soltanto allora - e in modo volutamente distinto dallo scambio di opinioni su «l'unico Dio nell'ebraismo, nell'islam e nel cristianesimo» - è stato presentato il progetto per la costruzione di un terzo tempio ebraico sul monte del Tempio.

Una presentazione di Gerusalemme
    L'atmosfera si addiceva im modo eccezionale. Il sole calante della prima estate inonda di una luce dorata i muri della città vecchia di Gerusalemme. Un'arpa in sottofondo fa risuonare melodie israeliane, classiche e moderne. Tra panini al tonno e succhi d'arancia, Rabbi Yuval Sherlow, Yoav Frankel e l'architetto-artista Ascher Oskar Frölich presentano un gigantesco quadro ad olio nel centro conferenze Konrad-Adenauer del quartiere Mischkenot Shaananim di Gerusalemme.
    Nel quadro di Ascher Fröhlich cantano, suonano e ballano in primo piano persone che evidentemente rappresentano diversi popoli e gruppi religiosi. In pieno accordo, stanno insieme tra l'islamica Cupola della Roccia e un altro edificio che corrisponde alle usuali rappresentazioni del Tempio erodiano. Sullo sfondo, masse di persone irrompono sulla piazza attraverso la Porta d'Oro. L'intero quadro di religiosa armonia si trova sotto un arcobaleno - il segno del patto che Dio ha fatto con Noè (Genesi 9:12ss). Oggi l'arcobaleno è anche il simbolo del movimento New Age.

     La visione del nuovo tempio secondo Ascher Oskar Fröhlich

Spostare il Tempio ebraico?
    Per cinque anni Yoav Frankel e il suo team hanno fatto ricerche per verificare se è possibile, secondo la tradizione ebraica, spostare di alcuni metri a nord la costruzione del Tempio, cioè di lasciare ai musulmani il luogo originario del santuario ebraico. Dopo aver consultato «importanti rabbini in Israele», è arrivato alla convinzione che secondo la legge ebraica sarebbe possibile costruire il tempio non nel luogo originario dove si trovavano il tempio di Salomone e il tempio di Erode - e dove adesso si trova la Cupola della Roccia - ma in un altro posto sul monte Moriah. Per trovare questo posto - che sul quadro a olio di Fröhlich si troverebbe qualche centinaio di metri più a nord della Cupola della Roccia - sarebbe necessaria la venuta di un profeta che dovrebbe indicare il posto esatto. Naturalmente questo profeta dovrebbe essere riconosciuto da una maggioranza del mondo ebraico.
    No, di istruzioni sulla costruzione i promotori della visione del tempio dell'unione mondiale delle religioni non ne vogliono dare, anche se per Frankel è importante il fatto che l'artista che ha dipinto il quadro è un architetto. Si tratta soltanto - dicono espressamente - di trasformare il «monte santo di Dio» da luogo di discordia in una «casa di preghiera per tutti i popoli» (Isaia 56:7). In questo modo «la più alta missione dell'ebraismo, del cristianesimo e dell'islam e l'originario scopo del Tempio» sarebbero compiuti. Tutto il mondo potrebbe adorare insieme in pace l'unico Dio.
    Fino ad ora gli ebrei e i cristiani continuano a denominare il centro di Gerusalemme «Monte del Tempio». I musulmani, che contestano accanitamente la presenza storica di un tempio ebraico, indicano invece la piazza su cui oggi si trovano la moschea al-Aqsa e la Cupola della Roccia con il nome di «Haram A-Sharif», «nobile Santuario». Secondo l'opinione di Frankel, sono stati «gli imperatori romani e i loro successori nella storia» quelli che hanno portato la discordia fra i popoli e hanno trasformato il Monte del Tempio in un luogo di contesa.
    Il modo in cui potrebbe avvenire praticamente la trasformazione del luogo da pomo della discordia a calumet della pace, è una cosa che Frankel & Co. lasciano aperta. Per questo, sul quadro di Fröhlich gli specifici dati topografici di Gerusalemme sono stati intenzionalmente alterati. I visionari del tempio vogliono deliberatamente tenere fuori i particolari riguardanti le relazioni tra le religioni, come per esempio nel campo della liturgia e della teologia. In fondo, si vuole costruire pace e non guerra.

Non si riconosce nessun cristiano
    Una certa tendenza comunque - che sia espressamente voluta o no dai promotori del quadro - può essere notata sul dipinto. All'interno dell'area del tempio non è riconoscibile chiaramente nessun rappresentante della cristianità, per esempio attraverso un collare sacerdotale o un abito monacale. La basilica del Santo Sepolcro, il luogo santissimo del cristianesimo, si trova fuori della cerchia muraria dell'auspicato tempio. A questo scopo il muro è stato volutamente spostato da est a ovest. Una fotografia della realtà odierna mostra la Cupola della Roccia in pacifica trinità, almeno architettonicamente, con la chiesa del Redentore e la basilica del Santo Sepolcro. Il contrasto con la realtà di questa composizione esprime chiaramente quello che il rabbino capo sefardita Yosef Azran aveva detto poco prima nella discussione: «In una moschea posso pregare, in una chiesa non potrei mai!»
    Anche all'interno del santuario è possibile scorgere una certa tendenza nel quadro a olio. Le persone a sinistra del quadro stanno sotto uno strano influsso tenebroso che proviene dalla Cupola della Roccia islamica - del tutto in contrasto con la realtà odierna, in cui la cupola d'oro del più antico edificio islamico si presenta ai turisti, nella maggior parte dell'anno, in una raggiante luce solare. Il fiume della vita descritto dal profeta Ezechiele (capitolo 47), che intenzionalmente è stato inserito nel quadro, scorre invece dal santuario ebraico pienamente illuminato alla destra del dipinto.
    E' tutto casuale, o è una «festosa pittura» dei visionari ebrei? «E' come nel gioco degli scacchi», aveva spiegato Yoav Frankel rispondendo alle domande nella sua presentazione del progetto: «si offre la regina per vincere la partita». C'è da chiedersi se i cristiani e i musulmani saranno così pronti ai compromessi da decidersi a entrare in questo gioco. Non è stato affatto un caso che i sempre sorridenti partner di dialogo cristiani, musulmani e perfino ebrei se ne siano andati prima della presentazione del quadro. I due sceicchi drusi sono rimasti ancora per il buffet. Il rabbino capo Shear Yashuv Cohen da Haifa e il vescovo luterano-palestinese Munib Younan si erano annunciati, ma poi non si sono visti.

Escatologiche fantasticherie?
    Resta da vedere se nella realtà odierna le idee di Frankel si riveleranno come irrealistiche fantasticherie escatologiche. Forse saranno soltanto amichevolmente derisi e compatiti dai più diretti interessati. Questo sarebbe il caso migliore. Ma il quadro di Fröhlich potrebbe anche diventare la miccia per una nuova stagione di violenza. E' possibile che a simili ingenui, fanatici visionari degli ultimi tempi in Gerusalemme certi contemporanei potrebbero reagire con così poco senso di humor come è avvenuto per gli osceni disegni critici di Copenaghen. Da quando il procuratore romano Pilato ha mescolato il sangue di ebrei con quello dei loro sacrifici (Luca 13:1), l'entusiasmo per questo monte al centro della città di Gerusalmme è costato la vita a centinaia di migliaia di persone. E lo spargimento di sangue arriva fino al recente passato.
    In ogni caso, Yoav Frankel e i suoi seguaci perseguono un sincretismo di cui ben pochi «credenti ortodossi» potrebbero essere entusiasti, indipendentemente dalla religione a cui appartengono. Molti cristiani biblici conservatori vedranno nei piani di Frankel un'anticipazione della venuta dell'Anticristo, «che s'innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio» (2 Tessalonicesi 2:4). Il fondatore del movimento islamico in Israele, sceicco Abdullah Nimar Darwisch, ha lasciato ostentatamente l'edificio del centro Konrad-Adenauer in Gerusalemme prima della presentazione della visione del tempio. Prima di uscire comunque aveva detto - ben sapendo quello che sarebbe avvenuto in seguito - che sarebbe meglio non toccare lo Status Quo di Haram A-Sharif prima della venuta del Messia. E dei non conosciuti consiglieri rabbini di Yoav Frankel hanno così commentato la sua visione: «Ma per arrivare a questo i musulmani, i cristiani, e anche gli ebrei, devono ancora cambiare molto!»

(www.israelnetz.com, 19 giugno 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. ISRAELE RICORDA L'OSPITALITA' RICEVUTA




Shoah, ebrei salvi nelle Filippine

di Giorgio Bernardelli

Tre porte spalancate, di dimensioni tra loro diverse. Tre porte che in un gioco di forme geometriche intrecciate, vanno a comporre tanto il triangolo della bandiera filippina quanto la stella di Davide della bandiera israeliana. Si presenta così Open Doors, un nuovo monumento che verrà inaugurato domenica 21 giugno nel Memorial Park di Rishon LeZion, la quarta maggiore città israeliana (e che si trova all'interno della grande area metropolitana di Tel Aviv). Si tratta di un avvenimento in qualche modo storico: per la prima volta, infatti, un segno ricorderà in Israele l'ospitalità offerta dalle Filippine a un migliaio di ebrei in fuga dalla Germania nazista.
    È una delle tante pagine sconosciute del grande dramma della Shoah. Dimenticata da tutti tranne che da quanti nell'arcipelago dell'Estremo Oriente trovarono appunto - una porta aperta negli anni della persecuzione nazista. Ed è una storia che, per essere compresa fino in fondo, va collocata nel contesto degli anni Trenta, con la tragedia delle tante altre porte chiuse che gli ebrei desiderosi di fuggire dalla Germania trovarono davanti a sé. Il caso più famoso fu quello degli Stati Uniti, che a partire dagli anni Venti avevano drasticamente cambiato politica sul tema dell'immigrazione, restringendo in maniera molto pesante gli ingressi. Ebbene, proprio in quegli anni ci fu un Paese cattolico sotto protettorato americano che gli ebrei si offrì invece di accoglierli. E - dopo il nulla di fatto della conferenza di Evian, nell'estate del 1938 - il suo presidente Manuel Quezon diede la disponibilità ad accogliere almeno diecimila ebrei, offrendo loro la possibilità di stabilirsi a Mindanao, la grande isola del Sud delle Filippine. In una terra - dicevano a Manila - ben più fertile della Palestina.
    Non si trattava di un'idea del tutto disinteressata: già dagli anni Venti era iniziata la colonizzazione di Mindanao, con lo spostamento di migliaia di contadini filippini dalle altre due grandi isole di Luzon e Visayas, ritenute sovrappopolate. L'operazione, però, aveva subito innescato tensioni con le locali popolazioni Moro, di religione musulmana. In pratica stava iniziando il conflitto che tuttora perdura a Mindanao e probabilmente Quezon pensava alla presenza degli ebrei come a un elemento che avrebbe potuto dargli una mano in chiave anti-islamica. L'idea trovò comunque titubante il Dipartimento di Stato americano, sotto la cui longa manus le Filippine allora si trovavano. Lo studio tecnico di fattibilità dell'operazione andò avanti per mesi, finché arrivò l'attacco giapponese a Pearl Harbour e l'opzione Mindanao per il salvataggio degli ebrei finì negli archivi. A Manila, però, nel frattempo le porte si erano aperte per davvero. Grazie all'impegno della piccola comunità ebraica locale, che poté contare sull'appoggio del presidente Quezon. Il 17 novembre 1938 alcune centinaia di filippini si riunirono a Manila per manifestare il proprio sdegno di fronte alle notizie giunte dalla Germania sulla 'Notte dei cristalli'.
    E alla fine furono circa 1.200 i profughi ebrei che trovarono realmente ospitalità nella capitale filippina. Tra di loro c'era anche il berlinese Frank Ephraim che nel 1939 aveva soli otto anni: è stato lui nel 2003 a ricostruire tutta la vicenda, in un libro intitolato Escape to Manila ('Fuga a Manila'). Quello delle Filippine non fu comunque un rifugio tranquillo per gli ebrei: nel corso della guerra Manila avrebbe poi conosciuto l'invasione giapponese. E ci furono anche 67 profughi ebrei tra i 100 mila abitanti della città che rimasero uccisi durante i massicci bombardamenti aerei americani che precedettero la liberazione (la stessa sinagoga venne distrutta). Degli ebrei salvati a Manila finora non c'era traccia allo Yad Vashem, il museo della Shoah a Gerusalemme. Nessun filippino figura nell'elenco dei Giusti tra le nazioni (attualmente sono circa 22.700 di 44 Paesi diversi). Non per una questione di cattiva volontà, ma per una regione 'tecnica': il titolo di Giusto tra le nazioni è assegnato a coloro che misero a repentaglio la propria vita per salvare quella degli ebrei. Nel caso delle Filippine, invece, nessuno corse dei rischi personali. Ciò non toglie, però, che il gesto di solidarietà ci fu.
    Così, alla fine, il sindaco di Rishon LeZion ha scelto di ricordarlo con il monumento che verrà inaugurato nel locale Giardino della memoria. Un segno che parlerà anche dei profondi legami di amicizia che uniscono tra loro Israele e le Filippine. Le relazioni diplomatiche risalgono infatti al 1957; ma già dieci anni prima Manila era stato l'unico Paese asiatico a votare a favore della nascita dello Stato d'Israele nella famosa votazione all'Onu del novembre 1947. Oggi, però, questo legame ha anche un nuovo volto: quello dei circa 40 mila lavoratori filippini portati in Israele dalle nuove frontiere del mercato del lavoro globalizzato. Una presenza che - proprio nell'area metropolitana di Tel Aviv è molto forte, tra badanti per gli anziani e inservienti dei grandi alberghi della costa. Non senza, però, alcuni problemi: la legislazione israeliana considera i lavoratori immigrati un fatto solo temporaneo e di conseguenza prevede un tetto massimo di cinque anni e tre mesi per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Una condizione, questa, che rende di fatto impossibile a un immigrato costruirsi una famiglia nel Paese che lo ospita. La speranza è che il monumento ai filippini che settant'anni fa accolsero gli ebrei in fuga, aiuti Israele a pensare anche a chi - per ragioni diverse - una porta un po' più aperta la sta cercando adesso.

(Avvenire.it, 18 giugno 2009)





3. UNA PAGINA DI STORIA POCO SOTTOLINEATA




I profughi dimenticati

di Anna Rolli

ll sedici giugno, in un'audizione alla Commissione Esteri della Camera, è stata affrontata la questione dei profughi ebrei dai paesi arabi. Di fronte alla Commissione ha parlato il Prof. Irwin Cotler, già Ministro della Giustizia Canadese e presidente onorario dell'organizzazione "Justice for Jews from Arab Countries" e il Prof. David Meghnagi dell'Università di Roma Tre, lui stesso fuggito dalla Libia insieme ai familiari nel 1967.
    Purtroppo gli italiani conoscono molto poco la storia del Medio Oriente e quasi tutti ignorano quella degli ebrei di quelle terre. E' importante parlare oltre che dei profughi palestinesi che abbandonarono le proprie case nel 1948 durante la guerra d'Indipendenza israeliana, anche degli ebrei che furono costretti a fuggire dai luoghi nei quali avevano vissuto per millenni da ben prima, cioè, dell'invasione araba del VII secolo.
    Il numero dei profughi ebrei fuggiti dai paesi musulmani si aggira intorno ai 900.000 (100.000 dall'Egitto, 120.000 dall'Iraq, 45.000 dalla Libia) superando quindi, non di poco, quello dei palestinesi che gli storici valutano a meno di 700.000. In Europa è diffusa la favola della tolleranza e della benevolenza islamica nei confronti delle minoranze religiose, favola molto lontana dalla realtà dei fatti.
    Gli ebrei avevano vissuto, per secoli, nei paesi arabi, in una condizione di perenne incertezza, costretti ogni anno a pagare una tassa per ricomprare il diritto alla vita, esposti ad ogni prepotenza, in tutto e per tutto in una condizione di umiliazione e di inferiorità rispetto ai musulmani. Nel secolo appena trascorso, la portata dei sequestri di beni, delle aggressioni e delle carneficine fu tale da spingere la quasi totalità di loro alla fuga in Israele o in Europa: soprattutto negli anni dal 1945 al '48 e poi di nuovo nel 1967 e nel



1973. Gli ebrei fuggirono con addosso quasi soltanto i propri vestiti, quasi sempre perdendo ogni cosa: case, proprietà, denaro e finora nessun paese arabo ha mai pagato un risarcimento.
    Mentre la nakba fu causata dai cinque eserciti arabi che si opposero alla risoluzione di partizione dell'Onu del novembre 1947 e che invasero Israele chiedendo insistentemente ai palestinesi di spostarsi sul territorio per avere mano libera e poter più facilmente massacrare gli ebrei, l'espulsione dai paesi arabi riguardava comunità che non avevano mai adottato un atteggiamento ostile verso quelle che consideravano le loro patrie.
    In Europa si assiste, ogni giorno, alle manifestazioni di solidarietà e alla commozione nei confronti delle sofferenze dei profughi palestinesi del 1948 e dei loro discendenti, mantenuti artificiosamente in tale condizione nonostante l'immane mole di aiuti umanitari inviati negli ultimi 60 anni, non sarebbe forse il caso di ricordare, qualche volta, anche lo sterminato esodo ebraico, che è costato tante vite e tanto dolore?
    L'audizione alla Commissione Esteri non ha avuto un carattere di rivendicazione, gli ebrei cacciati o costretti alla fuga si guardano bene da invocare il "diritto al ritorno" nelle ex-patrie che sono state così crudeli con loro e si dichiarano molto soddisfatti di poter vivere finalmente in regimi democratici. Si è trattato di una iniziativa volta a far conoscere la Storia, a conservare la memoria e a sottolineare l'importanza della giustizia nella speranza che il riconoscimento delle reciproche sofferenze serva alla causa della pace.

(Agenzia Radicale, 19 giugno 2009)





4. UNA QUESTIONE ANCORA APERTA




Verità e giustizia per gli ebrei del Mediterraneo

Magiar: "E' ora di raccontare questo dramma"

di Daniela Gross

Per una giornata il dramma degli ebrei profughi dai paesi arabi ha ritrovato voce e racconto. Per un giorno questa vicenda ormai secolare, che ha visto l'espulsione di oltre un milione di persone dal Marocco, dall'Egitto, dall'Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia e da tanti altri luoghi ancora, è tornata all'attenzione collettiva. Grazie alle iniziative promosse a Roma da Justice for jewish from arab countries (Jjac), realtà internazionale di cui l'UCEI è parte, se n'è parlato alla commissione Affari esteri della Camera, in un incontro con i principali media e in un evento aperto alla cittadinanza al Palazzo della cultura.
    Ma il percorso non si esaurisce qui perché l'obiettivo è ben più ambizioso di una generica sensibilizzazione dell'opinione pubblica. "Vogliamo che la storia degli ebrei profughi dai paesi arabi sia raccontata nella sua interezza e che su questa vicenda si possano finalmente ristabilire verità e giustizia", dice infatti Victor Magiar, consigliere UCEI, egli stesso protagonista, bambino, di una drammatica fuga dalla Libia narrata pochi anni fa nel romanzo E venne la notte (Giuntina). Punto di partenza di questo nuovo inizio, un documento programmatico che ha visto la luce proprio nell'incontro romano.

    Victor, quali sono le possibili prospettive d'azione?
    Il documento, su cui vi è stato consenso unanime, ci impegna a porre il tema degli ebrei profughi dai paesi arabi all'opinione pubblica internazionale affinché sia considerata con la dovuta attenzione nelle trattative di pace per il Medioriente.

    L'accostamento con la questione palestinese è quasi scontato, anche se si tratta di vicende storiche molto diverse.
    Il paragone con i palestinesi scatta immediato. E ce ne siamo resi conto anche nell'incontro con la commissione Affari esteri della Camera. La relazione però non è simmetrica e questo va spiegato. I palestinesi sono profughi perché vittime di un conflitto bellico. Gli ebrei furono invece costretti a lasciare i paesi arabi ben prima della nascita dello Stato d'Israele e della guerra. I primi pogrom nel nord Africa avvengono infatti tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento.

    Qual è dunque il rapporto con il mondo palestinese?
    
Non vi è alcun rapporto conflittuale. Vogliamo solo che la storia degli ebrei dei paesi arabi ritrovi la sua verità e abbia il giusto peso nelle trattative internazionali.

    Un aspetto che ha trovato grande attenzione in questi giorni riguarda i beni culturali.
    
Nei paesi arabi la presenza ebraica è plurimillenaria. Vi sono dunque cimiteri, sinagoghe, musei e edifici dal valore storico e affettivo incommensurabile. Uno dei nostri obiettivi è riuscire a tutelare questo straordinario patrimonio attraverso una serie d'accordi con i singoli governi.

    Un compito non facile.
    
Assolutamente no. Anche perché la questione si pone in modo molto diverso da paese a paese, anche in relazione alla maggiore o minore persistenza della popolazione ebraica.

    La fuga degli ebrei dai paesi arabi ha riguardato oltre un milione e mezzo di persone. Eppure, malgrado la sua entità, questa vicenda è ancora poco conosciuta. Per quali motivi?
    
E' una storia finora raccontata da pochi per molteplici motivi. Il nostro esodo ha raggiunto il culmine alla fine degli anni Quaranta, quando il mondo andava prendendo coscienza della Shoah. Davanti a quell'immensa tragedia la nostra sembrava una storia minore. Un altro aspetto riguarda il nostro atteggiamento. Fuggendo dai paesi arabi siamo infatti andati verso la libertà, verso l'Europa o Israele. E qui, pur conservando la memoria del passato, abbiamo guardato al futuro costruendoci una nuova vita. Sotto quest'aspetto il nostro essere profughi è stato profondamente diverso dall'esperienza palestinese. L'aver relegato in secondo piano la storia dei profughi ebrei dal mondo arabo dipende infine dal fatto che l'elaborazione di questa perdita così dolorosa ha richiesto un suo tempo storico.

    E' un dolore ormai pacificato?
    
Fino a un certo punto. Noi ebrei abbiamo abitato per secoli in Libia, in Algeria, in Marocco e in altri paesi in città cosmopolite in cui le lingue, le religioni, le culture e le usanze si mescolavano in armonia e con grande apertura mentale. A Tripoli nella mia classe c'erano bimbi arabi, italiani, francesi, inglesi, greci, jugoslavi… Era un mondo plurale oggi scomparso, distrutto per sempre dal nazionalismo arabo, dal panarabismo e dal panislamismo. E questo ancor oggi continua a farci soffrire fin nel profondo.

(Notiziario Ucei, 19 giugno 2009)





5. IL PREZZO DELLA GIUSTA INFORMAZIONE




Arie Avneri, l'instancabile Don Quijote

di Michael Sfaradi

Arie Avneri, da non confondere con il pacifista Uri Avneri con il quale ha solo il cognome in comune, è un personaggio quasi sconosciuto ma i risultati del suo lavoro sono finiti sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo. Ex giornalista di "Yediot Ahronot" e di "Maariv", le due più importanti testate giornalistiche israeliane, ha fatto della lotta contro la corruzione la sua ragione di vita. Non c'è politico israeliano che non lo tema. Le sue inchieste hanno messo in luce decine di casi di corruzione e mala gestione del tesoro pubblico costringendo diversi amministratori alle dimissioni fino ad arrivare al caso più eclatante di un ex ministro che ha scontato diversi anni di carcere. Arie Avneri è colui che con il suo coraggio riesce a mantenere pulito il lato più bello di Israele e con la sua passione e il suo lavoro costringe lo Stato a guardare se stesso e a mantenersi quanto più pulito possibile.

    Perché Arie Avneri ha scelto nella sua vita una strada così difficile?
    Io sono cresciuto in una famiglia religiosa ed anche se le scelte che ho adottato mi hanno portato ad essere laico, dell'educazione religiosa mi è rimasto segnato in fondo al cuore il bisogno di onestà nei confronti del prossimo e pretendo onestà da parte di chi amministra i beni pubblici. La mia carriera di giornalista mi ha portato alla conclusione che non ci sono molti colleghi disposti a pagare il prezzo della giusta informazione. Qualcuno doveva farlo. Non mi è stato mai permesso di essere un commentatore politico, sapevano che non avrei guardato in faccia nessuno né a destra né a sinistra e avrei portato alla luce le notizie senza crearmi il problema su ciò che mi conveniva o no per non incorrere nelle vendette del potere. Ho scritto su Netanyahu, su Barak, tutti sanno che non mi possono comprare ne intimorire. Quello che non ho potuto scrivere sul giornale l'ho scritto sui libri che sono stati pubblicati anche con l'aiuto delle due fondazioni sorte dal mio impegno e di quello dei miei pochi amici che credono in questa missione. C'è chi ha provato a corrompermi, ed ogni volta che rifiutavo il prezzo si alzava, se avessi voluto oggi sarei un milionario. La mia forza, e quella delle persone che lavorano con me, è la possibilità di mettere le mani su informazioni assolutamente riservate. Informazioni che prima di essere pubblicate sono sottoposte ad un'attenta verifica di veridicità. Molte volte anche la polizia e la magistratura mi hanno richiesto documenti per aprire inchieste ed indagini.

    In Israele la corruzione negli ambienti politici è sempre stata presente nel corso degli anni o è una cosa che è cresciuta solo ultimamente?
    Possiamo dire che nel passato l'evoluzione era presente e a livelli molto più bassi, con cifre che oggi farebbero sorridere. Ma la differenza sostanziale era che i politici dei tempi passati versavano i soldi nelle casse dei partiti, praticamente la corruzione serviva per finanziare partiti che erano al governo. Oggi invece la corruzione serve quasi unicamente a riempire le tasche dei corrotti e le cifre rispetto a quelle del passato sono decisamente molto più alte, un aumento difficile da calcolare anche in percentuale.

    Il lavoro più recente che lei ha fatto è stata l'indagine su Ehud Olmert mentre era ancora in carica con tutti i risvolti che ha avuto a livello giudiziario e penale, vogliamo raccontare la storia di queste indagini?
    Ho conosciuto Olmert fin dall'inizio della sua carriera e in molti si fecero affascinare da lui perché aveva incominciato una guerra contro la criminalità organizzata. Questo ebbe una grossa presa sulla popolazione, si diceva: "Finalmente qualcuno che metterà a posto questa situazione", alla fine però si è scoperto che questa guerra era soltanto fumo negli occhi e un'abile mossa politica per acquistare consensi e fare carriera.

    Questa guerra la fece come sindaco di Gerusalemme?
    No, era un semplice parlamentare quando montò su questo "cavallo" pur di farsi conoscere al grande pubblico. Il suo modo di fare e di rispondere ai bisogni della gente dicendo loro quello che volevano sentirsi dire non mi ha mai ispirato fiducia ed è per questo che non l'ho perso di vista neanche per un momento. Anche questa volta il mio istinto mi aveva dato ragione. Non posso ancora raccontare, visto che ci sono dei processi in corso, molti particolari su come Olmert si sia fatto corrompere, ma la verità non si saprà mai fino in fondo perché si tratta di una persona estremamente furba. Aveva ideato dei sistemi, al limite della legalità, per raschiare il denaro, come ad esempio far acquistare i quadri della moglie, che fa la pittrice, a prezzi assolutamente incredibili per quadri di quella fattura. È chiaro che quello era un sistema legale per farsi pagare cose illegali. Questo tipo di corruzione è comunque difficile da dimostrare. Rimane che un primo ministro ha il dovere di un'etica che, purtroppo, negli ultimi vent'anni si è persa.

    Ha mai ricevuto minacce?
    Diverse, ma non ho paura di nessuno anzi, ho paura solo di una persona, di Arie Avneri. Vuole sapere il perché? Perché ancora non ho capito fino a che punto potrò essere capace di spingermi.

(l'Opinione, 18 giugno 2009)





6. PERCHE' NON SI VUOLE RICONOSCERE LO STATO EBRAICO?




Lo Stato di Yahvè è la condizione per la pace

di Daniel Pipes

La questione dello Stato ebraico era già stata coraggiosamente affrontata dal premier israeliano Olmert nel corso dei colloqui di pace di Annapolis. L'11 novembre del 2007, il politico aveva dichiarato: «Non intendo in alcun modo trovare un compromesso sulla questione dello Stato ebraico. Ciò costituirà una condizione per il nostro riconoscimento di uno Stato palestinese.» Va però ricordato che 56 Paesi e l'Anp fanno parte dell'Organizzazione della Conferenza islamica; e la maggior parte di questi membri, inclusa l'Anp considera la shari'a (la legge islamica) come la loro principale, se non unica, fonte di legislazione. L'Arabia Saudita esige perfino che ogni suddito sia musulmano. Inoltre, il nesso religioso-nazionale si estende ben oltre i paesi musulmani. Jeff Jacoby del Boston Globe fa notare che la legislazione argentina «autorizza l'appoggio governativo alla fede cattolico-romana. La Regina Elisabetta II è il governatore supremo della Chiesa Anglicana. Nel regno himalayano del Bhutan, la Costituzione proclama il Buddismo "patrimonio spirituale" della nazione (…) La religione predominante in Grecia, dichiara il paragrafo II della Costituzione ellenica, "è quella della Chiesa Ortodossa Orientale di Cristo"».
    E allora, perché il rifiuto camuffato da principio di riconoscere Israele come Stato ebraico? Probabilmente perché l'Anp - e l'Olp prima di questa - vuole ancora eliminare Israele come Stato ebraico. Si noti l'utilizzo del verbo "eliminare", non distruggere. Sì, è vero, l'antisionismo ha prevalentemente assunto fino ad ora una forma militare, dal proclama di Gamal Abdel Nasser di «gettare gli ebrei in mare» a quello di Mahmoud Ahmadinejad che «Israele deve essere cancellato dalle carte geografiche». Ma la potenza delle Israeli Defence Forces - le Forze speciali di combattimento israeliane, il complesso che unisce servizi segreti e militari in servizio - ha spinto l'antisionismo verso un più sottile approccio volto ad accettare uno Stato israeliano, ma smantellando il suo carattere ebraico. Gli antisionisti prendono in considerazione diversi modi per conseguire questo risultato:

Demografia. I palestinesi potrebbero sopraffare demograficamente la popolazione ebraica di Israele, un obiettivo evidenziato dalla loro pretesa di esercitare un "diritto al ritorno" e dalla loro cosiddetta guerra dell'utero.
Politica. I cittadini arabi di Israele ricusano sempre più la natura ebraica del paese ed esigono che esso diventi uno stato binazionale.
Terrorismo. Il centinaio di attacchi sferrati settimanalmente dai palestinesi dal settembre 2000 al settembre 2005 cercarono di provocare il declino economico, l'emigrazione e l'appeasement.
Isolamento. Tutte quelle risoluzioni delle Nazioni Unite, le condanne editoriali e le aggressioni nei campus intendono intaccare e distruggere lo spirito sionista.

Il riconoscimento da parte araba della natura ebraica di Israele deve avere la massima priorità diplomatica. Finché i palestinesi non accetteranno ufficialmente il sionismo, seguitando poi a porre fine a tutte le loro varie strategie per eliminare Israele, i negoziati dovrebbero essere interrotti e non riavviati. Fino ad allora, non c'è nulla di cui discutere.

(Liberal, 24 giugno 2009 - archivio Daniel Pipes)





MUSICA E IMMAGINI




Klezmer dances




INDIRIZZI INTERNET




L’Isola della Rugiada Divina

Bridges for peace




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