1. PUBBLICA AMMISSIONE DI UNA COLONA ISRAELIANA
"Sono io la causa dei guai di tutto il mondo"
di Sherri Mandel*
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Sherri Mandel |
Eccomi, sono io il problema. Il leader del mondo libero ha fatto riferimento a me personalmente, e alla mia famiglia, come la causa dei guai di tutto il mondo. Con la scopa in una mano, mentre cerco eroicamente di spazzare i pop-corn lasciati in giro dal festino televisivo di mio figlio, eccomi qua: io sono il motivo per cui non c'è la pace nel mondo. Obama ha messo nelle mie mani il destino del mondo. Mi ha detto: "Se la smetti di costruire, se la smetti di crescere, tutto si aggiusterà in Medio Oriente. Lascia stare l'Iran e il Darfour e gli 'omicidi d'onore' delle donne nella vostra regione. La causa dei conflitti sono i lavori di ristrutturazione in casa tua".
Ebbene sì, sono una colona. Se mi spostassi otto chilometri verso Gerusalemme, allora cesserei di essere una colona. Suppongo. Ma sarei ancora una israeliana, e anche quello è un bel problema.
Gli architetti della pace ci assicurano che, se solo lasciassimo le nostre case, scoppierebbe la pace. E non solo la pace in Israele e nei territori palestinesi. La pace in tutto il mondo arabo. La pace nel mondo intero. "Quel bullo di Ahmadinejad, non preoccuparti di lui. Tu, Sherri la colona, abbandona la tua casetta dalle finestre azzurre e il vento della pace spirerà su tutta la terra".
Poco importa se ben prima che vi fosse un solo insediamento, già c'era l'Olp. Poco importa se i palestinesi hanno rifiutato tutte le più generose offerte di compromesso da parte dello stato d'Israele compresa quella del 97% della Cisgiordania, come riportato dal Washington Post lo scorso 29 maggio. Poco importa se c'è spazio per arabi ed ebrei in Cisgiordania e se uno stato palestinese che non può permettere ad ebrei di abitare entro i suoi confini sarebbe chiaramente un regime fascista. Poco importa se Israele stesso ha più di un milione di cittadini arabi che vivono al suo interno. Poco importa.
Non c'è praticamente nessuno al mondo, oggi, più vituperato di un colono israeliano. Siamo considerati dei razzisti col mitra in spalla, estremisti del tutto omologhi agli estremisti dell'altra parte. Poco importa se è straordinariamente raro che un ebreo sia un terrorista. Poco importa se gli estremisti dell'altra parte assassinano spesso e volentieri con le loro mani dei bambini ebrei, come il mio Koby, per il solo fatto che sono ebrei. Poco importa se gli estremisti dell'altra parte mandano i loro stessi figli a commettere attentati suicidi come "martiri". Poco importa se gli estremisti dell'altra parte spediscono la loro stessa gente davanti al plotone d'esecuzione per il solo sospetto che "collabori" con Israele. Poco importa se gli estremisti dell'altra parte tiranneggiano le loro donne. Poco importa se gli estremisti dell'altra parte non tollerano omosessuali nelle loro comunità. In ogni caso il problema sono i coloni.
Sono stata a un talk-show televisivo dove una signora di Tel Aviv ha parlato di me come del "cancro del popolo ebraico". Non c'è nessuno cattivo e malvagio quanto un colono. Noi siamo il capro espiatorio di tutto il mondo. Si potrebbe persino dire che siamo l'ebreo degli ebrei. Siamo il più comodo oggetto da odiare.
* Il figlio di Sherri Mandel, Kobi Mandel (nella foto), venne ucciso a 13 anni, insieme al compagno di classe Yosef Ishran, l'8 maggio 2001 da terroristi palestinesi in una grotta nei pressi di Tekoa, il villaggio israeliano in Cisgiordania dove Kobi e Yosef vivevano.
(Jerusalem Post, 6 luglio 2009 - da israele.net)
2. SABATINO FINZI RACCONTA
Io, il bambino numero 1000 nell' inferno di Buchenwald
di Marco Ansaldo
«Sono quattro notti che sogno mia madre. Da quando ho saputo di questi documenti». La voce si incrina, un velo di lacrime copre gli occhi. Si commuove, quest'uomo di 82 anni. L'unico della famiglia a essere tornato dai Lager. Sono passati 64 anni. E per un attimo bisogna cambiare argomento perché non si accasci nel dolore del ricordo. Tra i mille bambini ebrei stipati in un pugno di baracche - fra cui il futuro premio Nobel, Elie Wiesel - e trovati vivi dagli americani quando entrarono a Buchenwald, c' era anche un ragazzino italiano. Uno solo. Finito però nel blocco riservato agli adulti.
Le carte del suo internamento emergono dal nuovo archivio nazista di Bad Arolsen, in Germania. A reperirle è il professor Kenneth Waltzer, direttore del Dipartimento di studi ebraici alla Michigan State University, autore di un prossimo libro sui bambini detenuti a Buchewald. Repubblica ha cercato se quel piccolo prigioniero fosse ancora in vita, e lo ha infine trovato a Roma.
Si chiama Sabatino Finzi. E' uno dei 17 ebrei romani, dei 1022 rastrellati, tornati dalla deportazione al Ghetto dell' ottobre 1943. Aveva 16 anni. Nessun altro dei 207 minorenni presi quel giorno tornò più. Con l'aiuto delle carte Waltzer ricostruisce il percorso. Sabatino arrivò a Birkenau-Auschwitz, dove perse subito la madre Zaira e la sorella Amelia, 12 anni, inviate nelle camere a gas. Lui e il padre vennero spediti a Jawisowice, dove lavorarono nelle cave di lavagna.
«Quando Auschwitz e i campi satellite dovettero essere evacuati - spiega il professore - i due Finzi furono trasferiti insieme a Buchenwald. Era il 22 gennaio 1945. Ma li separarono subito, e Giuseppe fu mandato a Ohrdruf». Su quella lista di trasporto, assieme a una cinquantina di ragazzini, erano stati messi anche 5 piccoli italiani. Quattro però vennero mandati altrove, due a Ohrdruf, due a Schwalbe/Berga. Solo uno fu tenuto a Buchenwald. «Il suo nome - continua Waltzer - come risulta dalla dozzina di documenti recuperati, è Sabatino Finzi, prigioniero numero 117662. Ma non venne mandato al blocco 8, quello cosiddetto dei bambini. Fu piazzato prima alla baracca 2 e poi spostato alla 28». Perché?
Oggi il signor Sabatino cammina a fatica. Nemmeno a figli e nipoti, che lo circondano con affetto, ha mai raccontato nei particolari quel periodo tristissimo. «Mio padre in sessant'anni anni ha parlato sempre molto poco», dice il figlio Giorgio. Sabatino si esprime a tratti. Frasi corte, interrotte da lunghi silenzi. Le scene del Lager arrivano come lampi improvvisi nella memoria. «Pugni e schiaffi. Così si andava avanti laggiù». Prende una penna, sopra un foglio disegna una stella. «Questa ce la facevano mettere qui, al petto». La scritta gialla: giudeo. Osserva con curiosità le schede che lo riguardano, confronta il suo numero di detenuto con quello sul braccio. E' il 158556. «Papà aveva il 158557», dice. Poi nota la propria firma, in calce a un documento consegnato agli Alleati al momento della liberazione. Riscrive la sua firma: è identica, il medesimo sbaffo in fondo. «Lavoravo nella cave. Un kapò polacco mi diede una botta in testa, perché non l'avevo capito in tempo. Ricordo ancora il nome, e il numero. Mi venne un ematoma. Fui operato da un altro detenuto, chirurgo all'Università di Pisa, che intervenne con un cucchiaio affilato per terra e reso incandescente con un accendino». Il nipote Andrea, 12 anni, gli stampa un bacio sulla guancia.
Il 5 giugno scorso il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha celebrato il 60o anniversario del suo matrimonio con la moglie, Esterina Pavoncello. «Sono nato nel 1927. Ma sulle carte i nazisti avevano scritto ' 28: ho insistito. Ecco, qui si vede che la data è stata infine cambiata con un tratto di penna. Dovevo sembrare più grande. Perché avevo visto chei bambini li ammazzavano tutti. Non lavoravano, e alle SS non servivano. Li portavano fuori dai blocchi, e ta-ta-ta. Li mitragliavano. Io ero già un giovanetto. Allora ho detto di avere più anni, perché in quel modo potevo rendermi utile. Così sono sopravvissuto. Ho sempre avuto un sesto senso». Il ragazzino Finzi si salvò da solo. Fu tolto dalle liste dei piccoli e assegnato alle baracche degli adulti.
Gli ultimi giorni, prima dell' arrivo degli americani, i blocchi dei bambini furono oggetto di una tragica evacuazione forzata. «Papà non l'ho più veduto. Quando trovai del cibo, stavo per morire mangiando delle scatolette di fegato d'oca. Nelle baracche c'era un odore terribile. Qualcuno dava di stomaco, e uno affamato dietro di lui mangiava il suo vomito. Pesavo 29 chili. All'Ospedale Sant'Orsola di Bologna rimasi 7 mesi». Sembra tutto. Ma c' è un ultimo squarcio di memoria: «Sono andato a Gerusalemme, al Muro del pianto. E anch'io, come tutti, ho infilato un bigliettino. Ci ho scritto sopra: "Hitler, non ce l' hai fatta a farmi fuori. Sabatino Finzi è ancora qui, come mio figlio Giorgio e come mio nipote"». Sabatino anche lui.
(Repubblica, 13 Luglio 2009)
3. NEMICI INTERNI DI ISRAELE
Israele e gli ultraortodossi: un rapporto complesso che mostra tutte le sue contraddizioni
di Christian Elia
''Centinaia di poliziotti, sostenuti anche da guardie di frontiera, presidieranno le strade di Gerusalemme. Nessun tipo di violenza sarà tollerata''. Il portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, ha annunciato alla stampa la tolleranza zero verso gli ebrei ultraortodossi che hanno messo a ferro e fuoco nelle ultime 48 ore due quartieri di Gerusalemme.
- Il pretesto.
Tutto è nato, martedì scorso, dall'arresto di un una donna ultraortodossa accusata dai servizi sociali israeliani di negligenza. Il suo bimbo di tre anni, ultimo di cinque figli, era stato trovato in condizioni di denutrizione dalle autorità di Tel Aviv che accusano la madre di aver privato sistematicamente dell'alimentazione necessaria il piccolo. La donna nega, sostenuta da tutta la comunità, che è scesa in piazza per dimostrare. Bilancio della battaglia: 18 poliziotti feriti e 34 ultraortodossi arrestati. Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, aveva reagito ai disordini ordinando la sospensione di qualsiasi servizio comunale nei quartieri di Geula e Mea Shearim, teatro degli scontri. Barkat, a sentir lui, ha preso la decisione per proteggere gli impiegati comunali, in quanto tutte le istituzioni erano diventate un bersaglio delle proteste degli ultraortodossi. In molti, però, hanno parlato di un'ingiusta punizione collettiva. Dopo la mediazione del presidente israeliano Peres, sono arrivati gli arresti domiciliari per la donna. Questo potrebbe stemperare la tensione, ma l'episodio ha riportato alla luce una tensione di fondo che attraversa la società israeliana: il rapporto con gli ultraortodossi.
- Un salto nel tempo.
Fare una passeggiata per Mea Shearim, che in ebraico significa 'delle cento porte', è come fare un viaggio nel tempo. Costruito a partire dal 1875, il quartiere è il secondo agglomerato formatosi fuori dalla città vecchia, dai seguaci del rabbino Auerbach. Loro si sono rinchiusi in un ghetto volontario, per vivere nella più totale osservanza degli scritti religiosi e si vestono come i loro antenati dell'Europa centro-orientale del Settecento. I cappelli a falda larga, le lunghe barbe e i riccioli che escono dai copricapi sono i segni distintivi di una comunità che non riconosce lo Stato d'Israele, perché la tradizione vuole che lo fonderà il Messia al suo ritorno e non possono farlo degli uomini comuni. Non parlano la lingua ebraica, ritenuta sacra e da utilizzare solo per la preghiera, e si esprimono in yiddish, l'idioma degli ebrei originari dell'Europa dell'est. Per una passeggiata tra le migliaia di sinagoghe e di yeshivot (le scuole talmudiche) è consigliabile un atteggiamento composto e un abbigliamento castigato. Inoltre durante il sacro sabbath (dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato) è proibito fumare e fotografare per le strade del quartiere. Un altro mondo, fatto anche di privilegi, però. Nel 1947, dopo un accordo tra Ben Gurion, uno dei padri d'Israele, e i leader ultraortodossi, si stabilì che questi ultimi potevano rimandare il servizio militare, le loro scuole ricevono fino a 170 milioni di dollari di sussidi e non lavorano.
Ben Gurion ne ottenne l'appoggio politico, ma il resto della società israeliana ha sempre mal tollerato i loro privilegi che, secondo una stima, costano alla comunità un miliardo di dollari l'anno in termini di forza lavoro sottratta all'economia israeliana.
- Rabbini contro Israele.
Da sempre posti agli estremi della società israeliana, nella galassia ultraortodossa non mancano neanche quelli che non accettano denaro e non fanno patti con lo Stato. Come il gruppo di Neturei Karta, per esempio. Il movimento è stato fondato a Gerusalemme, nel 1938, schierandosi da subito su posizioni anti sioniste. Partendo da presupposti, però, differenti da quelli degli anti sionisti politici. I seguaci del movimento, infatti, partono da una base teologica e sostengono d'interpretare alla lettera la Torah, il libro sacro dell'ebraismo. Secondo loro, le sacre scritture proibiscono la creazione di uno stato ebraico prima della venuta
del Messia. Quindi, secondo questa lettura, lo stato d'Israele è un'impostura e la sovranità sulla Terra santa è dei palestinesi. Uno di loro divenne consigliere di Yasser Arafat per le questioni ebraiche.
Il movimento è stato oggetto, nel tempo, di polemiche e di attentati da parte di ebrei che li vedono come il fumo negli occhi. A settembre dello scorso anno, a Teheran, il governo di Mahmoud Ahmadinejad organizzò un convengo contro il sionismo che, tra gli ospiti, contava tanti negazionisti dello stesso Olocausto. Facile immaginare la reazione in Israele alle immagini provenienti dall'Iran, dove alcuni esponenti di Neturei Karta pregavano con Ahmadinejad. Ieri, mentre gli ultraortodossi di Gerusalemme davano battaglia, quattro di loro sono andati a trovare Ismail Hanyieh, leader di Hamas, a Gaza.
''Noi sentiamo la vostra sofferenza, noi piangiamo le stesse vostre lacrime'', ha detto ad Haniyeh il rabbino Yisroel Weiss, uno dei leader di Naturei Karta. Una dichiarazione decisamente poco ortodossa.
(PeaceReporter, 18 luglio 2009)
4. LA SPACCATURA TRA EBREI LAICI E RELIGIOSI IN ISRAELE
Il 60 percento della popolazione laica di Israele è convinta che i media israeliani non siano corretti nei confronti degli ebrei ortodossi. «I media israeliani approfondiscono la spaccatura esistente nella popolazione ebraica tra laici e ortodossi» ha dichiarato il prof. Yoel della Università Ariel, che in giugno ha pubblicato uno studio sull'argomento.
E' stato constatato che il 74% degli ebrei laici ha una conoscenza molto scarsa dell'ebraismo ortodosso, e l'88% ammette che i media israeliani sono per loro l'unica fonte di conoscenza della società ortodossa in Israele.
Dall'altra parte, nella stessa inchiesta il 40% degli ebrei
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ortodossi ha dichiarato che i media israeliani sono l'unica fonte di
informazioni sulla società secolare israeliana, e soltanto il 17% degli ebrei ortodossi cerca di sapere qualcosa di più sull'ebraismo laico da fonti ortodosse.
Non c'è alcun dubbio che l'ebraismo ortodosso e l'ebraismo laico, a causa dei differenti punti di vista su politica, religione, tradizione, società e storia, stiano allontanandosi sempre di più. Nel parlamento israeliano 16 deputati rappresentano la popolazione ortodossa e altri 7 deputati nazional-religiosi rappresentano gli ebrei degli insediamenti. Complessivamente, 20% dei 120 membri del parlamento israelianorappresentano la popolazione ebraica ortodossa o religiosa di Israele.
(israel heute, luglio 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
5. IN LITUANIA I RESTI DI UN EBRAISMO SRADICATO
Yiddishland. Alla ricerca dello shtetl perduto
di Alain Guillemoles
Cercando la Vilnius ebraica di un tempo, oggi si trova soprattutto un grande vuoto: restano una sinagoga dalla facciata di stucco, due piccoli musei chiusi e molte targhe sui muri, in ebraico e lituano. Ma è difficile raffigurarsi il pullulare della capitale della Lituania prima della guerra, quando la metà della popolazione era ebraica, tanto che la città veniva chiamata la «Gerusalemme del Nord». Ci si aggrappa a minuscoli indizi. Quella che oggi è l'ambasciata d'Austria era una casa di preghiere. Più oltre, un cortile ospita una scuola materna di recente costruzione. Un cartello segnala che qui si trovava la grande sinagoga, costruita nel 1573: pare fosse così ricca da avere candelieri d'oro. Fu distrutta dai tedeschi. Il luogo dove si trovavano le porte del ghetto, creato dai nazisti, è segnalato da alcuni mattoni messi a nudo sulla facciata di una casa. Difficile accorgersene, tanto il segno è discreto, senza essere accompagnati da una guida locale.
Numerosi lituani si sono improvvisati guide della Vilnius ebraica da quando sono cominciati ad arrivare i turisti stranieri, discendenti degli ebrei lituani, sulle tracce del passato. Davanti a quello che fu il teatro ebreo, una coppia dall'aria agiata si fa spiegare in ebraico la storia dell'edificio. Durante la guerra il teatro si trovava nel ghetto. Le recite non si fermarono. Il repertorio dipendeva «dagli attori che c'erano», ossia che non erano stati ancora assassinati. La guida mostra programmi dell'epoca, che tiene allineati con cura in un raccoglitore. Il suo ebraico è incerto. La coppia ascolta, silenziosa e afflitta, poi si rimette lentamente in cammino.
Prima della guerra la comunità ebraica in Lituania arrivò a contare oltre duecentocinquantamila persone, di cui centomila nella sola Vilnius. La città brillava nel mondo ebraico per le sue yeshiva (scuole religiose) e per le biblioteche. Vi si pubblicavano sei quotidiani in yiddish. Alla fine del XIX secolo Vilnius conobbe anche la nascita del Bund, il partito socialista ebraico. Oggi in Lituania gli ebrei non superano i cinquemila, di cui un migliaio a Vilnius. La sede della comunità è un immenso edificio che un tempo era un liceo ebraico. I corridoi sono deserti. Tutto ciò che è nuovo porta la targa di dono di una fondazione americana o israeliana.
Il presidente della comunità, Simonas Alperavicius, è un ex giurista di ottant'anni. Sprofondato nella sua poltrona, dietro una scrivania ingombra di libri, esita prima di rispondere alla domanda se in Lituania ci sia un futuro per gli ebrei: «Difficile dirlo. Voglio credere di sì». Tutto l'ex Yiddishland è popolato di fantasmi. Andarci è come visitare l'Atlantide, continente scomparso. Si cercano i resti della presenza ebraica con l'impressione di grattare il suolo con le unghie. Dopo molti tentativi, si finisce per trovare cimiteri abbandonati, sinagoghe trasformate in cinema o ex yeshiva diventate pensionati per studenti.
Ebrea di Lituania, Dalia Epstein racconta una vita da sopravvissuta. Qui c'è stata prima la volontà di annientare dei nazisti, poi la deliberata indifferenza dei sovietici. Bambina al tempo della guerra, Dalia sopravvisse perché sfollata in Russia. In seguito ha vissuto gli anni sovietici in una sorta di esilio interiore: «Il potere sovietico fingeva che gli ebrei non esistessero. Le persone tornate dai campi di concentramento nascondevano il proprio passato. Chi aveva un numero tatuato lo raschiava con le forbici per farlo sparire. In Lituania essere ebreo era una vergogna. A partire dal 1946 le scuole ebraiche vennero chiuse. Un mio zio, insegnante di matematica, trovò lavoro in una fabbrica di cioccolatini. I figli ebrei nati dopo la guerra hanno vissuto nell'ignoranza. Molti hanno contratto matrimoni misti e si dichiarano russi». Lei stessa ha sposato un lettone del quale non sempre sa «pronunciare il cognome», dice scherzando. A lungo sono stati incerti se trasferirsi in Israele, da quando è diventato possibile. Ma hanno rinunciato per non allontanarsi dai figli ormai grandi. Dalia Epstein si dice «pessimista sul futuro» della cultura ebraica in Lituania. «Si studierà l'yiddish come la lingua dell'antico Egitto».
Svuotata dei suoi ebrei, la Lituania conosce ancora rigurgiti di antisemitismo. Nei mesi scorsi duecento giovani skinhead sono sfilati nel centro di Vilnius brandendo svastiche e scandendo «Fuori gli ebrei». La polizia non ha disperso la manifestazione, limitandosi a scortarla e chiedere ai manifestanti di restare sul marciapiede. A Vilnius esiste anche un progetto di ricostruzione della Grande Sinagoga e di alcune strade dell'antico quartiere ebraico. Sembra però motivato soprattutto dal desiderio commerciale di andare incontro alla curiosità dei turisti. Una parte della comunità ebraica è contraria e le autorità amministrative non si pronunciano. «È impossibile ricostruire in maniera identica al passato. Non sappiamo neanche che aspetto avesse. Si finirebbe per fare una grande Hollywood», è convinto Algimantas Degutis, direttore del patrimonio al Ministero lituano della cultura.
Eppure, a Vilnius, appena si tocca una casa affiorano antiche pitture: sono le insegne dei negozi ebraici. Vengono lasciate a
vista, cancellate a metà, come testimonianze del passato. Ma il Paese continua ad aspettare un grande museo che racconti i cinquecento anni di presenza ebraica in Lituania.
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A Vilnius prima della guerra cerano cento sinagoghe. Sono state distrutte tutte tranne questa, la Choral Synagogue, perché i nazisti la
usarono come deposito.
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Oggi Vilnius resta il luogo dove ebrei di tutto il mondo arrivano d'estate a studiare l'yiddish. «L'anno scorso sono venuti quaranta partecipanti di tredici Paesi - racconta il professor Alperavicius -. Era commovente sentire di nuovo quella lingua risuonare nell'auditorium dell'università dove prima della guerra c'era il dipartimento di Lingua e letteratura yiddish». A forza di muoversi nelle stradine del centro, si impara a interrogarsi sui giardini pubblici: è lì che, durante la guerra, furono distrutte le case degli ebrei e non si è più ricostruito. Oggi è un centro pedonale che trabocca di ristoranti giapponesi, alberghi di lusso e locali notturni. Si può provare una sorta di rabbia nel constatare che, malgrado tutte le distruzioni, la vita continua. Ma si può anche, in qualche modo, trovarlo confortante.
(per gentile concessione del quotidiano La Croix - Traduzione di Anna Maria Brogi).
(Avvenire.it, 20 luglio 2009)
6. PANORAMA MESSIANICO DA GERUSALEMME
Identità e confessioni di fede dei discepoli ebrei di Yeshua in Israele (1)
"Ma quando sarà venuto il Consolatore che io vi manderò da parte del Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli testimonierà di me" (Giovanni 15:26).
di Gershon Nerel
L'istituto Israel College of the Bible (ICB) in Gerusalemme è una scuola biblica messianica. Il suo scopo è fornire agli studenti una comprensione delle radici ebraiche del Nuovo Testamento e familiarizzarli con l'ambiente israeliano della fede in Yeshua. Dal 24 al 25 maggio 2009 questo istituto ha organizzato un forum teologico ebreo-messianico e israeliano con un dibattito sul tema: «Identità ebreo-messianica e israeliana». Da diversi campi come psicologia e sociologia, teologia e storia sono state tratte conclusioni applicate poi alla pratica di fede. Alla conferenza, tenuta nell'Hotel «Galilea» in Netanya, una città costiera a nord di Tel Aviv, hanno preso parte circa cinquanta persone, tra cui pastori, anziani di comunità, diaconi e studenti provenienti da una dozzina di comunità locali, e direttori di organizzazioni ebreo-messianiche.
Nella mia relazione ho parlato sull'identità dei discepoli di Yeshua nello Stato d'Israele a partire dalle rispettive confessioni di fede. Le diverse confessioni hanno messo in luce l'identità dei credenti ebrei non solo in relazione ai fondamenti teologici, ma anche sotto l'aspetto nazionale e universale. Ho esaminato in tutto venti confessioni di fede israeliane. La maggior parte proviene da singole comunità locali, alcune provengono invece da organizzazioni che vedono come punto centrale del loro lavoro la testimonianza sulla fede in Yeshua. Questi testi sono presenti anche su internet e intendono rappresentare comunità, assemble e organizzazioni che operano nello Stato d'Israele. Queste confessioni di fede sono presentate con diversi nomi come «Dichiarazioni sulla fede», «Fondamenti della fede» o semplicemente «Visione». La maggior parte degli articoli sono scritti in ebraico, e soltanto pochi sono tradotti in inglese. Queste «confessioni informatiche» offrono degli orientamenti sia spirituali-ideologici, sia pratici.
Oltre alle confessioni di fede presenti su internet, ho preso in considerazione anche altri testi pubblicati prima dell'«era ciber-spaziale». Un esempio è la rivista messianica Hapid (ebr. «La fiaccola»), pubblicata dal 1960 al 1962 dagli autori Ze'ev Kosfman e Mosche Immanuel Ben-Meir, entrambi già morti. Coraggiosamente i due hanno scritto sulla loro speranza di «una rinascita della prima comunità messianica nella sua forma originaria». Vorrei riassumere brevemente le osservazioni che ho fatto nei miei studi.
Per la maggior parte le confessioni di fede sono espressione di un'identità composta o di una sintesi, perché collegano temi come la divinità, il singolo uomo, la comunità, la nazione, il mondo, il passato, il presente e il futuro. Certamente contribuiscono alla formazione di un'identità perché permettono al singolo credente di identificarsi con tutta la Bibiba (Antico e Nuovo Testamento) e di sviluppare, attraverso questa relazione, un sentimento di appartenenza comune sia con il popolo ebraico, sia con la comunità universale dei credenti in Yeshua. Nei testi viene inoltre detto chiaramente che sono partecipi della biblica chiamata a rendere testimonianza del Messia Yeshua e contemporaneamente a restare fedeli alle loro radici e alla loro eredità ebraiche.
Perfino i nomi e le denominazioni delle comunità messianiche manifestano la loro autocomprensione. Con nomi come La Via, Lo Spirito della Vita, Il Pastore d'Israele, Voce nel deserto, Tenda della misericordia, La fonte e L'olio della gioia, le comunità esprimono un'ampia, comune identità, perché esprimono l'ideale della verità assoluta e l'autocoscienza di essere strumenti per la diffusione di questa verità. Queste denominazioni fanno rimarcare tuttavia anche i punti caratteristici del servizio delle rispettive comunità locali, come per esempio «i doni dello Spirito Santo» o l'obiettivo di offrire aiuti umanitari ai bisognosi nella società, come anche gli Atti degli Apostoli riferiscono riguardo ai primi credenti.
Un punto importante nelle diverse confessioni di fede è l'aspetto sociale-nazionale, soprattutto lo sviluppo di una tipica identità israeliana (ingl. israelisness). Spesso la «israelianità» compare al posto dell'ebraismo normativo. Con la loro solidarietà israeliana i credenti in Israele esprimono sia la loro naturale appartenenza al popolo e la loro lealtà verso lo Stato d'Israele, sia un certo sionismo biblico. Questa lealtà viene messa in evidenza dal loro servizio militare, svolto spesso in corpi speciali dell'esercito israeliano, così come dall'adempimento di altri doveri civili.
Il tema dell'identità israeliana (israeliness) è stato già affrontato nel 1967 da Avraham Even-Shoshan nel suo dizionario ebraico. Questa voce è contenuta anche nella nuova edizione del 2003: «Gli ebrei messianici sono ebrei che per la loro nazionalità e lealtà verso lo Stato d'Israele si dicono ebrei e per la loro religione si dicono cristiani.» In realtà, molte confessioni di fede contengono espressioni uguali o simili: «Noi siamo una comunità di israeliani». L'attuale identità israeliana viene perfino messa in relazione con la presentazione di Yeshua come «Messia d'Israele in accordo con le profezie dell'Antico Testamento» o con la dichiarazione che «il Messia è un israeliano».
Anche se le confessioni di fede fanno risaltare l'identità nazionale israeliana ed ebraica, i credenti sono anche assolutamente convinti della loro identità parallela, perché con i loro fratelli delle nazioni hanno in comune la redenzione e il perdono dei peccati attraverso Yeshua. All'interno di queste due «identità elementari» regna tuttavia un sano equilibrio tra la dimensione nazionale e l'aspetto universale.
Nella mia relazione ho messo in evidenza anche un altro punto. Le confessioni di fede israeliane ancorano l'identità dei credenti soltanto ad un libro: l'opera canonica di Antico e Nuovo Testamento. E, come «popolo del libro», gli ebrei messianici non vogliono aggiungere altri libri al canone biblico. Purtroppo gli avversari dei credenti ebrei in Yeshua usano queste confessioni di fede come pretesto per escluderli dal normativo «Klal Israel», il mondo dell'ebraismo [perché accettano il Nuovo Testamento come parola di Dio]. Tuttavia, in pratica nessuno può escludere i discepoli ebrei di Yeshua dalla comunità del popolo ebraico, perché la realtà è più forte di qualunque pregiudizio.
(Nachrichten aus Israel, luglio 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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INDIRIZZI INTERNET
Festival della Cultura Ebraica in Puglia
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